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Leggere per vivere.
L’editoria accessibile come strumento di apprendimento, inclusione e crescita
sociale. La didattica inclusiva e l’importanza della lettura come diritto di tutti.
Andrea Canevaro
Riteniamo che l’accessibilità alla lettura, e alla scrittura, sia un’esperienza, e non sia
unicamente una questione tecnica. E, come esperienza, permetta di imparare a
vivere. Un apprendimento che dovrebbe durare quanto la vita.
Le letture sono intrecciate alle scritture. È per questo che affrontiamo il tema dei
libri leggibili da chi vive con una disabilità partendo da due esempi – Joey Deacon e
Tatiana Vitali – di chi, avendo una condizione particolare, ha scritto un libro.
Entrambe hanno avuto successo. Siccome fra i due esempi sono trascorsi alcuni
decenni, e siccome i due esempi si collocano in contesti diversi, sarebbe interessante
capire cosa è accaduto nel frattempo. Ma non faremo questa esplorazione. Ci
limiteremo a ipotizzare che l’impiego di libri progettati per chi ha Bisogni Speciali,
sia una buona occasione per rivedere l’integrazione, scolastica e non solo,
sottraendola al limite del sostegno esclusivamente individuale.
Per questo, insistiamo sulla necessità di non pensare a chi ha Bisogni Speciali come
a “qualcosa”, una persona-oggetto di assistenzialismo, e che va dotato di uno
strumento, un optional, perché diventi un umano omologato. È un essere umano, e ha
diritto a vivere nel tempo. Insisteremo su questo punto. Si collega al fatto che un
libro, anche solo da leggere, è un’organizzazione in prospettiva e con il bisogno di
immaginare un futuro.
Per questo, occorre:
- Collocare un libro in un progetto. Un individuo non è una persona-oggetto,
tanto meno una stanza da bagno, o una cucina, da arredare con le più
aggiornate produzioni del mercato. È un essere umano deve abitare in un
progetto, e quindi nel tempo. Passato, presente e futuro.
- Non considerare un libro come un oggetto seriale. È un oggetto che va
completato da chi se ne serve. L’editore non deve produrre un oggetto che sia
pensato come pronto ad “innescarsi” in un soggetto con l’ide che
l’imperfezione del soggetto venga così cancellata. Deve produrre un oggetto
che avrà bisogno di un soggetto che ne organizzi l’utilizzo.
Cercheremo di argomentare questi due punti. E così facendo cercheremo di fornire
spunti per le prospettive. Che includono tutti. Cercheremo di capire se e come,
affrontando l’accessibilità alla lettura per chi, e con chi ha Bisogni Speciali,
rispondiamo a esigenze che vanno ben oltre una presunta categoria,e rispondono
alla domanda di sviluppo di tutte e tutti.
1. Un libro: da scrivere e da leggere.
“Sappiamo che il cervello si modifica in base all’esperienza: è la cosiddetta
neuroplasticità; ebbene, anche imparare a dirigere l’attenzione in modo da favorire
una consapevolezza mindful [consapevolezza dell’esperienza del momento presente,
caratterizzata da intenzione e finalità, e da un atteggiamento non giudicante] può
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cambiare la struttura cerebrale. […] le aree del cervello più coinvolte in questo
processo sono generalmente le regioni integrative che collegano la corteccia
cerebrale, le regioni limbiche, il tronco cerebrale, le altre parti del corpo e gli imput
sociali provenienti dal cervello delle altre persone” (D. J. Siegel, 2014, p. 6-3).
Riteniamo che l’accessibilità alla lettura, e alla scrittura, sia un’esperienza e non sia
unicamente una questione tecnica.
Qualcuno, generosamente, auspica che il progresso tecnologico permetta almeno a
chi non può scrivere per la sua disabilità di poterlo invece fare in questo modo: che il
suo cervello possa pensare e scrivere attraverso una strumentazione elettronica che
renda il pensiero immediatamente scrittura. Per il momento, questa possibilità è fuori
dalla portata di tanti, e forse di tutti. Se fosse possibile, sarebbe sicuramente un bene?
Potrebbe apparire come una domanda poco sensata. E molti potrebbero pensare che
quella conquista tecnologica potrebbe certamente risolvere tanti problemi. Chi è
anziano e ha un’artrite che rende faticosa la scrittura con la penna, potrebbe ritenere
che, per una volta, il progresso tecnologico porti un vantaggio anche ad un anziano
con le mani artritiche.
Ma possiamo anche rispondere con argomentazioni che rendono più dubbia la
risposta. Abbiamo citato Siegel, a proposito della neuroplasticità del nostro cervello,
favorita, la neuro plasticità, dall’esperienza. Possiamo dire che un libro, sia che
venga scritto che se viene letto, è un’esperienza. Non è fatta unicamente dai contenuti
di quel libro. È fatta da un fascio di energie e di informazioni che vanno organizzate
incanalandole, facendo delle scelte, aggiustandole una accanto alle altre. Devono
essere sintonizzate e semantizzate.
L’enciclopedia Treccani ci informa che semantizzare significa, in linguistica,
conferire a un elemento appartenente al piano dell’espressione un rilievo significativo
che prima non aveva. Cioè: il singolo termine assume significato secondo la sua
collocazione rispetto agli altri termini che utilizziamo. Nello scrivere questa parola –
semantizzate – abbiamo avuto qualche esitazione: possiamo utilizzare questo termine,
o facciamo la figura del pavone che fa la ruota? Però semantizzare è proprio quello
che vorremmo dire per indicare un’operazione che va oltre il semplice
posizionamento delle parole una accanto all’altra. E questo termine non nasce dal
nostro cervello, ma dal nostro cervello nutrito anche di letture. Stiamo complicando
troppo le cose? Ma un libro è una tessitura complessa di elementi.
Lingua legata (1978; 1977) è un libro di Joey Deacon, tradotto dall’originale inglese
da cui è stato ricavato un film dalla BBC. Il film ha avuto uno straordinario successo,
come il libro. Il film ha avuto il Premio Italia.
L’autore, che interpreta anche una parte nel film, è del 1920,ed ha avuto una nascita
podalica che gli ha procurato una lesione cerebrale, con conseguenze sulla motricità e
sul linguaggio, ovvero ha una tetraparesi spastica e non parla. Viene istituzionalizzato
a 8 anni, dopo che la madre, che lo capiva, è morta. Per 16 anni nessuno lo ha capito.
Finalmente, un altro ricoverato riesce a comprendere la sua comunicazione e
permette a Joey Deacon di diventare autore di un libro – quello già indicato –
autobiografico. Un libro con un autore ma quattro “costruttori”: Joey che racconta,
Ernie che mette la voce, Michael che scrive, e Tom che batte a macchina. Tre righe al
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giorno e più di un anno di lavoro per arrivare a un libro straordinario. E a un film
altrettanto straordinario.
André Michelet (1988, p. 107) ricorda un piccolo esperimento fatto da Itard – siamo
all’inizio dell’800, a Parigi - con Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron. Potrebbe
essere collegato alla conquista della permanenza dell’oggetto ed a quella della
categorizzazione degli oggetti. Victor ha ricevuto una richiesta scritta: un foglio su
cui è scritta la parole “libro”, che conosce. Ma la riferisce unicamente a un certo
libro, che è in camera sua. Itard ha provveduto a chiudere a chiave la camera. Victor
è in una stanza con molti libri, ma sembra non trovare un libro. Si rallegra quando
trova un libro del tutto simile a quello della camera.
Per usare le parole occorre saperle distinguere e riconoscerne le appartenenze
semantiche, ossia la collocazione di ciascuna di essere in una costellazione
appropriata.
Vi sono state diverse vicende, in tempi vicino a noi, in cui la sorpresa è stata scoprire
che un individuo cerebroleso, come appunto Joey Deacon, avesse un pensiero, una
memoria, organizzata in parole, e fosse in grado di ricordare e di raccontare,
attraverso un suo codice, la sua vita. Una sorpresa che alimentò anche le attenzioni
particolari sulla sua vicenda, trasformata in libro.
Quello che colpisce in questa storia è l’assenza di coevoluzione – cioè di
coinvolgimento in una storia evolutiva - che ha caratterizzato per un lungo periodo la
vita di Joey Deacon. Le persone che lo circondavano e ne avevano cura, non si
educavano alla sua presenza attiva, e lo valutavano come presenza passiva e
ripetitiva. Lo collocavano fuori dal tempo. Senza storia. Ne negavano la dimensione
complessa, storica e transitoria. Vi sono credenze e un’ampia letteratura a sostegno
della convinzione, a volte data per certa, che per un soggetto con bisogni speciali vi
sia una vera necessità di ripetitività, e che la sua qualità della vita consista nell’essere
sottratto all’esperienza dinamica dello scambio, della reciprocità e del cambiamento.
2. Diverse funzioni con un’unica regia.
Proviamo a immaginare che Joey Deacon avesse compiuto questa impresa
avvalendosi anziché di cooperatori umani, servendosi di ausili. In relativamente pochi
anni, questo è diventato non diciamo facile ma certo possibile. L’autore potrebbe
incontrare gli stessi rischi che, nello scrivere il suo libro ha certamente incontrato e
superato. Quali? Concentriamoli in uno: perdere la padronanza del progetto. Per
spiegarci meglio, immaginiamo – è pura fantasia – che Joey abbia capito che i gusti
di Ernie avrebbero portato lo steso Ernie ad apprezzare maggiormente un libro che
svelasse retroscena scabrosi. E che, proprio per far piacere all’amico, Joey avesse
dato al suo libro, falsando i suoi ricordi, questa impronta. Potremmo ancora parlare di
suo libro? Solo parzialmente.
Non pensiamo, con questo, che padronanza del progetto significhi essere totalmente
affrancati da ogni limite proprio della realtà in cui operiamo. La tessitura complessa
che l’autore opera scrivendo il suo libro, certamente ha bisogno di molti elementi
materiali, che la compongono. Ma l’autore deve metterli al servizio del suo progetto.
Non trascuriamo il fattore tempo. Tre righe al giorno e più di un anno di lavoro.
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Tatiana Vitali, autrice di un libro importante (2014) e cerebrolesa ha detto che, per
aumentare la sua autonomia, lei e la sua famiglia hanno sempre cercato di essere
informati sul mondo degli ausili; per scrivere utilizza un PC normale e per scrivere
utilizzo l’indice della mano sinistra. La sua storia è la sfida dell’ossimoro che è titolo
del suo libro: Impossibili possibilità.
Da una decina di anni la tecnologia le ha facilitato la vita con una sintesi vocale che
le legge il testo sullo schermo essendo ipovedente.
Altra conquista importante: l’ utilizzo di un palmare nel quale è inserita una sintesi
vocale che le permette di essere autonoma nella comunicazione telefonica cosa
impossibile da realizzarsi con un cellulare normale.
Per portare a termine i suoi progetti le occorre –ne ha avuto bisogno - tanto tempo :
non rinuncia e prosegue fino al raggiungimento dell'obiettivo, non è detto che
l'obiettivo sia sempre raggiungibile, ma è il viaggio, il cammino la parte più
emozionante che spinge a crederci e a provarci.
Nel percorso di Tatiana Vitali troviamo il mastice da dentista. Perché il mastice da
dentista? Perché suo padre è dentista, ei primi ausili, gli adattamenti di un giocattolo
o di un seggiolino, erano stati fatti con quel materiale. Il bricolage.
E il tempo. Ancora una volta il tempo. Per organizzarsi, facendo un lavoro che
permetta di integrare, nel proprio progetto, diversi oggetti, strumenti, strategie. È un
continuo bricolage. Cioè un utilizzo di ciò che si ha o si trova, o che si cerca e si
trova, in funzioni che forse non erano previste da chi ha prodotto quell’oggetto. Uno
studioso, ricercatore e progettista operativo, Nicola Gencarelli (2012) parla di atti
creativi che sfidano le logiche della prescrizione tecnica standardizzata e
autoreferenziale rispetto al singolo oggetto. È l’arte del fare con ciò che si ha a
disposizione. A volte è anche l’utilizzo di materiale di scarto. Un riciclo.
Il soggetto ha bisogno di crearsi un sistema integrato di elementi che permettano,
insieme, di raggiungere un obiettivo. Per esempio, la scrittura, ma anche la lettura, di
un libro.
3. Superare la sofferenza di non essere nel tempo.
Esistono disabilità nelle quali la sofferenza di non scoprire la propria abilità è forte.
E’ una sofferenza che non può essere annullata per decreto – si potrebbe dire – o per
nominalismo. È soprattutto la sofferenza di non essere nel tempo. Riteniamo che
questa sofferenza derivi da quello che chiamiamo assistenzialismo. Significa
determinare che un soggetto debba essere il più possibile assistito, magari da un
operatore di sostegno. E quest’ultimo vive nel tempo, avendo in mente cosa può
accadere fra un’ora, sapendo regolare le proprie scelte secondo il tempo a
disposizione, eccetera. L’assistito, invece, non vive nel tempo, e non aspetta ma vive
nel continuo presente. Nel contingente della dipendenza da chi lo assiste. Se
cerchiamo di rompere la contingenza dell’assistenzialismo, che obbliga a vivere tutto
in presenza e nel momento presente, capiamo la fondamentale utilità di libri che
parlano da un altrove che allarga lo spazio.
Assistenzialismo significa anche possibilità che ci sia la percezione che il welfare sia
considerato improduttivo perché assistenziale, e quindi passibile di tagli. Nei
momenti di razionalizzazione delle spese e quando si ritiene indispensabile “fare
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cassa”, si guarda alle spese considerate improduttive. Le spese dell’assistenza,
diventate assistenzialismo, sono improduttive.
L’espressione bisogni speciali sembra più adatta ad esprimere una realtà dinamica e
che non può limitarsi a ciò che una diagnosi medica indica. Ma non é un problema né
nominalistico, né di decisione di un piccolo gruppo, ma fa parte di una possibilità che
le parole rispettino una prospettiva. Perché una persona possa accettare il proprio
deficit, in cui è anche la sua vita, ha bisogno di essere nel tempo insieme agli altri,
con le modalità con cui gli esseri umani stanno insieme ma anche utilizzando le
parole. E i libri raccolgono e fanno nascere parole. Anche i libri illustrati. Parole che
ci diciamo, a noi stessi, o che permettono un intreccio, un dialogo, con gli altri. E
quindi libri con e libri per chi cresce con bisogni speciali. Accettiamo le sfide, sono
importanti, e nello stesso tempo conserviamo il senso della realtà, proprio per
accettarne la sfida. Insieme.
Si può imparare a vivere il tempo. Anche il tempo dell’attesa. Si può imparare a
vivere attese possibili. Gli storici sono molto attenti a quella che chiamano
periodizzazione. Sanno che una certa periodizzazione, ovvero un modo di
contrassegnare la memoria storica con un avvenimento (ad esempio: l’unità d’Italia) è
fondamentale per osservare, interrogare e capire. L’enfasi relativa a certe date (l’11
settembre), può farci credere che per tutto il mondo ci sia una storia prima di quella
data, e un’altra storia dopo. E questo anche se una gran parte del mondo non utilizza
quel tipo di calendario, e una parte del mondo che lo utilizza in quella data percepisce
un diverso avvenimento. Una certa periodizzazione, enfatizzata, può chiudere gli
orizzonti.
Sembra impossibile immaginare una vita senza dei momenti di sofferenza. Sono state
fatte ampie riflessioni su una crescita che venga esageratamente favorita – anche o
soprattutto dall’assistenzialismo - e non incontri mai punti di resistenza, piccoli
traumi, delusioni. Una crescita di questo tipo, oltre ad essere difficile e faticosa per
chi se ne assume la responsabilità, non ha come risultato il benessere e la gioia di chi
cresce. Piuttosto l’impreparazione alla sofferenza. Che è inevitabile e una gran parte
degli studi ha messo in relazione la capacità di sopportare e resistere alla sofferenza
attraverso il linguaggio. Non possiamo non comprendere i libri nel linguaggio.
La nostra riflessione parte da questo assunto, che non è totale ma riguarda un aspetto
particolarmente interessante e cioè la possibilità di elaborare la sofferenza attraverso
il linguaggio, attraverso quindi una argomentazione che permetta di collocare il
proprio dolore in un contesto storico – di storia personale e sociale – e di trasformare
quella che potrebbe essere semplicemente, ed è fondamentalmente, una prova di
limite fisico e psichico in una struttura simbolica. Il benessere della persona non è
legato alla sua potenza quanto a quello che qualcuno oggi chiama ‘capitale sociale’,
ovvero a quella capacità di organizzarsi e di adattarsi grazie ad elementi di
mediazione con le strutture che lo circondano, con i contesti.
Uno studioso – Marco Ingrosso (2003) – denuncia come un elemento di grande
sofferenza l’assenza oggi di un benessere sociale. La diffusione di una forma di
individualismo di massa – come qualcuno lo ha chiamato – porta a non fare
riferimento alla reciprocità ma ad essere il più delle volte autoreferenziali.
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Si può immaginare il benessere senza la dimensione sociale? Ovvero, si può
immaginare la capacità individuale come l’unica che permetta di elaborare la
sofferenza e di resistere? Noi riteniamo che questa sia una domanda che abbia solo
una risposta ed è impossibile elaborare la sofferenza senza collegarla ad altri. E
quindi senza conoscenze e senza mediatori – come i libri - per avviare percorsi di
conoscenze. Molte volte, anche con le migliori intenzioni, vengono proposte forme di
aiuto che confermano l’individualismo di massa: stare allegri individualmente e tutti
insieme, ad esempio.
Non riteniamo che la scoperta cognitiva e sociocostruttiva sia riducibile a una
trasmissione di informazioni. E’ un percorso, nel tempo, cognitivo e costruttivo. Va
collegato alla percezione del soggetto e agli adattamenti che il percorso cognitivo
esige da parte del soggetto stesso, per essere parte di una storia cui affluiscono tanti
soggetti.
4. Libri per chi vive con una disabilità? Incontriamo ancora il tema del
tempo.
Andare verso il superamento dell’assistenzialismo e del vittimismo, ovvero di due dei
mali più pervasivi che stiamo alimentando, in una società che si nutre
dell’insinuazione che chi si sente vittima si installi permanentemente in questo ruolo
(vittimismo); si sforzi di diventare una vittima paradossalmente di successo per poter
sempre domandare e mai impegnarsi nel promuovere. L’azione educativa deve saper
chiedere, e non solo proteggere. Ma per poterlo fare deve vivere una credibilità della
conoscenza da conquistare giorno dopo giorno. E allora i libri. Per tutti. Anche per
chi vive con una disabilità.
Siamo partiti da persone che, vivendo con una disabilità, hanno scritto libri. E
abbiamo sottolineato la questione tempo. Riprendiamola per fare un paio di riflessioni
a proposito dei libri per persone con disabilità. È il tema centrale di questo intervento,
e forse qualcuno ha cominciato a dubitare che lo volessimo affrontare, ritenendo che
ci fossimo perduti in argomenti affini ma non mirati. Proviamo a entrare nel merito,
con due riflessioni, che hanno in comune la questione tempo:
- Anche un libro da leggere si colloca in un progetto. Vive nel tempo. Da questo
assunto deriva che la questione tecnica, o tecnologica, è certo importante. Ma
non può risolvere da sola il progetto inclusivo. Se andiamo indietro nel
percorso storico, possiamo incontrare la storia dei ciechi, che potevano essere
motivo di compassione o di spettacolo pietoso. “Si vide in quella fiera, nel
1771, nel caffè di Monsieur Valindin, un concerto di ciechi. L’Orchestra era di
otto persone, vestite di lungi abiti e che portavano grandi cappelli appuntiti. Un
nono cieco era sospeso in aria su un pavone e batteva il tempo (fuori tempo).
Aveva come i suoi compagni una veste rossa, degli zoccoli ai piedi e un
cappellaccio con orecchie d’asino. Cantavano, ogn’uno per proprio conto, degli
stornelli/strofe buffi, accompagnandosi in modo ridicolo col violino e
ripetevano in coro il ritornello delle strofe. Ogni cieco aveva davanti a se un
foglio di Musica e una candela accesa. L’affluenza di gente, che si recava a
vedere questa scena ridicola, era spesso tale che fu necessario mettere dei
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Fucilieri alla porta del caffè facendo scendere ogni tanto i cosiddetti Musicanti
per qualche istante.” [storia di Valentin Hauy, ideatore di un metodo per
l’educazione dei ciechi e fondatore a Parigi di una scuola gratuita per ciechi
nati; trad. di G. Canevaro da: Zina WEYGAND (2003), pp. 109-113]. E
incontriamo Louis Braille. La scrittura Braille nasce da questo figlio di un
sellaio (è probabile che abbia appreso dal mestiere paterno a servirsi del tatto
per verificare piccoli difetti nelle selle, che dovevano essere perfette …) che
nel 1812, all’età di tre anni, diventa cieco. Da allora, quante novità! Il
computer é un utile strumento nei casi di deficit visivi, sia totali che parziali,
ma la scelta del software deve essere necessariamente individualizzata, ed è
sottoposta a un ritmo di continui aggiornamenti, che pongono fuori mercato ciò
con cui una persona si è organizzata. Nel "Nomenclatore Tariffario delle
Protesi" sono descritti alcuni fra gli ausili tecnici per la funzione visiva (ad
esempio il Display Braille, il video-ingranditore od il sintetizzatore vocale).
Ma un individuo non è una stanza da bagno, o una cucina, da arredare con le
più aggiornate produzioni del mercato. Un essere umano deve abitare in un
progetto, e quindi nel tempo. Passato, presente e futuro. E incontrare un sellaio,
un cieco, un codice tattile … un sintetizzatore vocale e chissà cosa ancora.
- Un libro concepito per chi vive con una disabilità, non può essere un oggetto
seriale. Come fare? la tecnologia può essere un arricchimento importante. Chi
non è in grado di stabilire contatti con l’ambiente circostante ed ottenere
stimolazioni, vivendo con particolari disabilità motorie ed intellettive, vi
possono essere sensori ed ausili particolari( joystick, trackball, ecc …). Ma
l’utilizzo di tali strumenti non sostituisce e non cancella. Non sostituisce le
relazioni di aiuto, fatte non solo di funzionalità, ma anche di interazioni in cui
sta il buonumore e il malumore, la voglia di scherzare andando d’accordo e il
conflitto che porta a volersi contrapporre. Eccetera. Non cancella la storia di un
soggetto che a sua volta vive nella storia. Per questo, l’impiego della
tecnologia richiede soluzioni innovative non seriali ma studiate ad hoc,
personalizzando l’interfaccia. L’editoria accessibile deve rendere
personalizzabile il libro. Deve quindi immaginare un prodotto che deve essere
completato da chi se ne serve. Non deve produrre un oggetto che sia pensato
come pronto ad “innescarsi” in un soggetto con l’ide che l’imperfezione del
soggetto venga così cancellata. Deve produrre un oggetto che avrà bisogno di
un soggetto che ne organizzi l’utilizzo.
5.
Ripensare l’integrazione, o la prospettiva inclusiva.
L’integrazione, o la prospettiva inclusiva, devono sbarazzarsi di un grande malinteso:
che la loro funzione sia quella di rendere tutti coloro che coinvolge uguali. Se
parliamo di scuola, tutti devono imparare a leggere, a scrivere e a far di conto. Nello
stesso modo? Nello stesso modo. Per chi non ci sta, c’è “il sostegno”. Che in questa
maniera viene degradato, snaturato, emarginato insieme a chi viene sostenuto. In
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questa prospettiva, l’ausilio è interpretato come strumento compensativo, utile alla
normalizzazione – rendere tutti normali -.
L’integrazione, o la prospettiva inclusiva, devono coinvolgere in un orizzonte
comune, le diversità. Non omologarle o cancellarle. Integrarle. In una rete che attivi
relazioni e dimensioni sinaptiche. Sinapsi è un termine noto ma non abbastanza, e ha
bisogno forse di una qualche spiegazione; la parola, così come riportata sul
vocabolario, significa la fusione di due elementi nervosi che permettono un contatto
costruttivo. Deriva da un termine greco – contatto – e il collegamento ha il senso
nella costruzione di un termine che fonde e mescola ‘con’, ‘insieme’, e ‘attaccare’:
serve ad attaccare insieme elementi che non sono nati - così come molte cose che
sono intorno alla nostra realtà – per stare insieme. E’ quindi un processo umano
particolarmente importante che altre creature del regno animale non hanno nelle loro
possibilità e potenzialità; per questo gli esseri umani, a differenza di altre specie
animali, possono vivere in ambienti che non sono già predisposti per la loro vita:
hanno la possibilità di costruire collegamenti che non erano di per sé previsti.
La sinapsi è legata alla possibilità di vivere l’apprendimento in un gruppo eterogeneo
ricavandone una qualità anche maggiore di quella che il mito del gruppo omogeneo –
che è solo un mito, e di per sé non esiste – promette. Senza escludere la fatica, ma
dandole senso.
E’ è possibile pensare al mondo come un laboratorio appassionante: ha la possibilità
di “riaprire il tempo e lo spazio”.
Senza enfasi, un pezzo di legno che diventa la testa di un burattino o un cucchiaio, è
capace di dare un pezzetto di futuro.
Maria Montessori ha detto e scritto che ogni aiuto inutile è un ostacolo allo sviluppo.
E’ però molto difficile, a volte, distinguere con nettezza l’aiuto utile e quello inutile
prima di averne potuto constatare l’esito.
6.
Libri per conoscere e avere uno spazio mentale per non restare
schiacciati.
Abbiamo potuto constatare che chi sta crescendo vive in una frammentazione che
comporta non pochi rischi. Dato il tema che trattiamo, ci limitiamo a prendere in
considerazione la lettura. Ci soffermiamo su un episodio, che però è uno dei tanti che
potremmo mettere a disposizione. Avendo chiesto a un quindicenne, studente con
discreto successo in scuola secondaria superiore, di leggere uno scritto di circa 30
pagine, per segnalarci i punti di suo maggiore interesse, abbiamo avuto come risposta
che lui, lo studente, non era capace di seguire il filo di una lettura per più di 5 pagine.
Siccome questo episodio è in numerosa compagnia, conviene cercare di capire cosa
rappresenta. Non possiamo essere certi. Ma una certa ipotesi è formulabile.
Ragioniamo sul termine cittadinanza attiva capendo che questo termine significa un
percorso a rete e non un percorso sempre lineare. E un percorso reticolare può
sopportare l’errore e anche lo strappo, che saprà correggere – il primo – e rattoppare
al meglio – il secondo -. Per questo, abbiamo bisogno di tempo in prospettiva, per
servirci di molti mediatori nell’organizzazione complessa che è la nostra società. E’
una società con diverse culture che si incontrano, con molti individui che si spostano
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da un paese all’altro, con difficoltà a stabilire a volte i confini delle azioni
promozionali dell’identità di un popolo, creando invece lacerazioni. Che diventano,
come l’errore, senza rimedio se viviamo nella dimensione della precarietà.
Quel quindicenne vive la frantumazione della precarietà. Che è continua emergenza.
Non tanto riferita a qualcosa che emerge, ovvero che viene dal profondo in
superficie; quanto piuttosto a una situazione che ci coglie sempre improvvisamente,
impedendoci di disporre le nostre risorse in una prospettiva costruttiva. Un
prolungato stato di emergenza, di precarietà, la successione senza sosta di emergenze
e di precarietà … tutto questo rischia di abituarci ad affrontare la realtà senza
prospettive e senza progetti, e a vivere nel presente provvisorio. Non ritroviamo
qualcosa dell’assistenzialismo? Rischia di essere un assistenzialismo senza
assistenza.
Il nostro quindicenne vive la lettura senza andare oltre il frammento.
Notiamo che la struttura frammentata del tempo è presente anche in maniera diffusa
negli studenti universitari: i frammenti si chiamano esami, tirocini, laboratori, tesine,
tesi … e ciascuno di questi frammenti sembra stare per conto suo, non componendo
un progetto disposto nel tempo. De Kerckhove (2008) si è soffermato sul rapporto fra
la memoria dell’essere umano e le diverse soluzioni tecniche e tecnologiche a sua
disposizione. La strutturazione di tempo e spazio viene interiorizzata in correlazione
con le disponibilità in cui siamo immersi. La scommessa del nostro tempo è costituita
dalla capacità o possibilità di utilizzare le diverse soluzioni tecniche e tecnologiche a
disposizione per ricollocare la strutturazione spaziotemporale della nostra memoria in
una dimensione, anche storica, vasta. L’editoria accessibile può dare un contributo.
Evidenziamo alcuni punti in proposito:
Le soluzioni non sono proponibili come complete.
Di conseguenza, le proposte devono essere organizzabili dal soggetto.
Il soggetto è protagonista di un suo progetto.
Il soggetto non è riducibile a fruitore.
Il progetto di un soggetto deve intrecciarsi con i progetti degli altri, in un
orizzonte inclusivo.
L’orizzonte inclusivo va oltre l’orizzonte sensoriale (e questo riguarda tutte e
tutti, chi vive una disabilità come chi se ne ritiene lontano).
7.
Etica della conoscenza.
Vorremmo parlare di etica della conoscenza, che può essere sviluppata attraverso una
linea di tendenza che riguarda tutti. Dovremmo viverla con tutti coloro che hanno una
disabilità, anche ritenuta grave. La linea della conoscenza è una linea evolutiva come
tutte le conoscenze: ha una dinamica e permette di immaginare una sequenza che è
schema di riferimento, e non anticipazione della realtà. Crediamo che sia necessario
avere uno schema di riferimento per quello che riguarda il nostro comportamento
professionale e sociale. E’ basato sul fatto che chi vive una disabilità ha bisogno di
conoscerla. La conoscenza esperienziale deve diventare anche intellettuale, capace di
essere rappresentata, simbolizzata, avendo elaborazioni culturali.
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Ha bisogno di basarsi sul linguaggio dell’altro confermato, o negato, o
disconfermato, ovvero ritenuto poco o per nulla significativo, attraverso l’espressione
delle emozioni. Il linguaggio non è da interpretarsi nel senso restrittivo del “parlante
in azione”: il linguaggio lascia tracce (la scrittura, a volte accompagnata da
immagini); è ascolto e qualche volta risposta sincronica, ma molte altre volte
diacronica e sviluppata attraverso altri media, ovvero: possiamo ricevere un
messaggio verbale e rispondere con un altro mezzo (un mazzo di fiori…).
L’espressione di emozioni non è sufficiente: bisogna arrivare anche a un codice. E
queste sono le novità che le tecnologie ci hanno permesso di conoscere meglio. Non
solo quelle sofisticate, ma anche quelle chiamate povere che non devono essere
cancellate o eclissate dalle conquiste tecnologiche; la più semplice delle tecnologie
può essere quella che permette di codificare i gesti.
Questa ha avuto una elaborazione con la lingua italiana dei segni che viene indicata
come LIS e ha la possibilità di creare delle strutture linguistiche e simboliche in
soggetti che dovrebbero diversamente basarsi unicamente sulla possibilità di
imitazione di una parte del codice del parlante, ovvero il movimento delle labbra. In
questo modo invece completano e hanno una possibilità di padronanza maggiore.
Il rischio è quello che una tecnica sia il linguaggio. Una tecnica dovrebbe intrecciarsi,
e a volte confondersi, con altre tecniche, contaminandosi. La LIS può essere utile, ma
non sostituisce i libri, che sono scritti secondo una strutturazione di frasi che non è
quella della LIS. Possiamo dire che la contaminazione è linguaggio, e viceversa.
Abbiamo codici che si presentano come vere e proprie lingue con una difficoltà: non
hanno una comunità linguistica alle spalle, essendo isolate in una comunità
linguistica diversa da loro. Li chiamiamo – usando una espressione facilmente
intuibile – codici vicarianti: fanno le veci, come vicari, del codice dei parlati, della
comunità che circonda il soggetto. Ma anche un parlante è immerso in un linguaggio
che é contaminazione: inserisce parole di un idioma in un tessuto idiomatico diverso;
utilizza, a volte, codici pittografici, o gestuali, per ampliare la possibilità di avere
delle rappresentazioni simboliche efficaci.
Nessuno può vivere l’autosufficienza di una tecnica comunicativa e ciascuno vive il
linguaggio come contaminazione. E’ l’apertura alla pluralità degli altri.
Ed è questa l’etica della conoscenza, dentro la quale vi è la conoscenza della propria
situazione di disabile.
Sappiamo che vi è una bella differenza tra una organizzazione che dipende da un solo
contesto e una capacità che diventa competenza, cioè che si rielabora secondo i
diversi contesti. Noi riteniamo che questa sia la strada in cui si può procedere in una
prospettiva inclusiva che è nella storia – che è la storia -; è sostanza delle nostre
ragioni d’essere.
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