1 BENESSERE E SOFFERENZA: VERSO UN`ETICA DELLA CURA
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1 BENESSERE E SOFFERENZA: VERSO UN`ETICA DELLA CURA
BENESSERE E SOFFERENZA: VERSO UN’ETICA DELLA CURA Andrea Canevaro Sembra impossibile immaginare una vita senza dei momenti di sofferenza. Sono state fatte ampie riflessioni su una crescita che venga esageratamente favorita e non incontri mai punti di resistenza, piccoli traumi, delusioni. Una crescita di questo tipo oltre ad essere molto, molto difficile per chi se ne assume la responsabilità non ha come risultato il benessere e la gioia. Piuttosto l’impreparazione alla inevitabile sofferenza, perché la sofferenza è inevitabile e una gran parte degli studi ha messo in relazione la capacità di sopportare e resistere alla sofferenza attraverso il linguaggio. La nostra riflessione parte da questo assunto, che non è totale ma riguarda un aspetto particolarmente interessante e cioè la possibilità di elaborare la sofferenza attraverso il linguaggio, attraverso quindi una argomentazione che permetta di collocare il proprio dolore in un contesto storico – di storia personale e anche di storia sociale – e permetta di trasformare quella che potrebbe essere semplicemente, ed è fondamentalmente, una prova di limite fisico e psichico in una struttura simbolica. Il benessere della persona non è legato alla sua potenza quanto a quello che qualcuno oggi chiama ‘capitale sociale’, ovvero a quella capacità di organizzarsi e di adattarsi grazie ad elementi di mediazione con le strutture che lo circondano, con i contesti. Uno studioso – Marco Ingrosso – denuncia come un elemento di grande sofferenza l’assenza oggi di un benessere sociale. La diffusione di una forma di individualismo di massa – come qualcuno lo ha chiamato – porta a non fare riferimento alla reciprocità ma ad essere il più delle volte molto autoreferenziali. E lo vediamo nei comportamenti, anche quelli minimali: tutti hanno sotto gli occhi le scene di quotidianità legate, per esempio, all’uso dell’automobile che ha necessariamente bisogno di fare i conti con le altre automobili ma, tutte le volte che può, cerca di essere autoreferenziale secondo le proprie necessità e non secondo le necessità sociali; e quindi la scena più banale è quella di chi posteggia in seconda fila – se va bene con i quattro lampeggianti accesi – per fermarsi al bar, quindi non per delle ragioni così impellenti e importanti quanto per prendere il caffè e passare qualche minuto con gli amici. Situazioni di questo genere sono descrivibili a migliaia e fanno pensare ad un individualismo molto diffuso – difatti lo chiamiamo di massa – che è anche il sintomo, il segnale di una incapacità a pensare socialmente. Ed è questo che fa parlare – e Marco Ingrosso lo analizza molto bene – di perdita di un benessere sociale. Ma si può immaginare il benessere senza la dimensione sociale? Ovvero, si può immaginare la capacità individuale come l’unica che permetta di elaborare la 1 sofferenza e di resistere? Noi riteniamo che questa sia una domanda che abbia solo una risposta ed è impossibile elaborare la sofferenza senza collegarla ad altri. Più volte abbiamo constatato come sia veramente difficile trasferire, e quindi comprendere davvero, il dolore fisico che un soggetto ha; per quanto si possa esprimere solidarietà il dolore fisico di un soggetto non viene comunicato in quanto tale ma viene trasmesso come elaborazione nel linguaggio. E questa è la ragione per cui anche chi ha un dolore fisico ha bisogno di poterlo mettere in un’altra forma, cioè trasfigurare in un linguaggio. Il linguaggio non è una comunicazione senza regole; è quindi motivo di sofferenza maggiore il non riuscire ad esprimere secondo delle argomentazioni codificate. Questa è la grande sofferenza di chi, ad esempio, è colpito da un ictus ed ha impossibilità di utilizzare la lingua che ha usato fino a poco tempo prima personalmente, però la può utilizzare con la lingua degli altri, ed è questo l’interesse che noi possiamo verificare: il vedere quanta gioia possa esserci nel volto di chi, non riuscendo più ad esprimere le proprie parole, si riflette e attinge senso nelle parole di chi gli parla. Ma naturalmente bisogna pensare che chi gli parla non usa il parametro infantile che la sua età non permetterebbe. Il suo stato suggerirebbe di usare terminologie, modalità di comunicazione molto infantile, ed è quello che accade molte volte quando vi sono persone assolutamente in buona fede fanno assistenza senza conoscere e quindi tagliano la vita di una persona unicamente sul momento della sua incapacità, mentre coloro che già conoscono possono riprendere argomenti che sanno essere interessati per il soggetto che ha subito un ictus. E allora nasce una possibilità, che è verificabile, di attingere nelle parole di chi sta parlando il proprio linguaggio unicamente – è proprio un limite, certamente – attraverso le espressioni di compartecipazione degli occhi, dello sguardo, della mimica facciale. Questo è l’elemento interessante che abbiamo più volte osservato: E questo è un elemento che si può trasferire in tutte le situazioni, anche in situazioni di chi sta crescendo e non ha unicamente il patrimonio che ha già conquistato ma anche la voglia di acquisire nuovo patrimonio. Ed è su questo che si fonda la possibilità che anche un soggetto giovane che abbia una grande sofferenza viva la sofferenza anche – non esclusivamente ma anche – come scoperta cognitiva. Su questo c’è da ragionare per non credere che questa espressione – scoperta cognitiva – sia riducibile a una trasmissione di informazioni. E’ un percorso cognitivo e che significa che va collegato alla percezione del soggetto e agli adattamenti che il percorso cognitivo esige da parte del soggetto stesso. Facciamo degli esempi di variabili: vi può essere un soggetto nei confronti del quale è sufficiente, è ampia, l’informazione di tipo tecnico, per cui dire a un bambino o a una bambina che soffre di una leucemia può essere anche sufficiente per informare e fare in modo che quella informazione entri nella sua condizione cognitiva. Però questo ci sembra molto raro; molto 2 più plausibile è l’immaginare che la situazione ‘leucemia’ possa essere trasmessa attraverso una metafora. L’esperienza diretta ha fatto più volte fare riferimento a una immaginaria isola ‘leucemia’ in cui il soggetto è sbarcato e di cui bisogna conoscere un po’ meglio la conformazione e sapere se il soggetto si trova appena sbarcato, è sbarcato da tempo e sta vivendo al centro dell’isola oppure è sulla spiaggia e sta ripartendo. La metafora aiuta a sistemare anche in una struttura simbolica informazioni tecniche che altrimenti potrebbero essere troppo spoglie e non collocarsi nel percorso cognitivo di un soggetto. Ma vi è anche la possibilità che non vi sia una immediata somministrazione della notizia ‘leucemia’ ma che si permetta a questa notizia di collocarsi su uno sfondo, un’impalcatura che è la conoscenza della struttura sanitaria: dove siamo, come stiamo vivendo queste giornate, come è organizzata una struttura sanitaria, chi ci lavora, che compiti ha, e questo espresso in termini tali che permetta a quel soggetto – bambino o bambina – di collocarsi, di situarsi nella situazione in cui sta vivendo delle giornate, e forse dovrà vivere molte giornate della sua vita. La situazione, quindi, è esattamente opposta a chi fa vivere questa situazione nella totale assenza di informazione dell’organizzazione stessa. In questo senso ci permettiamo di essere non polemici perché non è questa la ragione ma di valutare come relativamente importante una certa tendenza che è quella di pensare che bambini e bambine che siano in ospedale devono non vivere l’ospedale ma vivere il più possibile in una situazione ludica trasformando l’ospedale in una sala giochi, in una situazione in cui vi sono travestimenti. Non stiamo criticando le ottime realizzazioni dei clown in ospedale, stiamo dicendo che questo può essere un elemento che non va confuso con la necessità di far capire che in ospedale quel bambino, quella bambina, c’è, e che deve anche conoscere la situazione in cui è perché quella conoscenza può permettere di sviluppare quel percorso cognitivo che riteniamo sia importante per dare degli elementi di benessere sociale, ovvero per alimentare una capacità di resistenza e di alleanza terapeutica. Molte volte anche medici che sono scettici nei confronti di quello che stiamo adesso percorrendo come ragionamento si accorgono – e quindi poi riconoscono – che una maggiore conoscenza della propria situazione permette ad un soggetto di essere molto più efficacemente di aiuto alla cura stessa. E allora capiamo anche che il termine ‘cura’ acquista un significato più ampio che non è unicamente la cura farmacologia, medica, ma è anche un prendersi cura, è la nota espressione che spesso dobbiamo dire - con termini non della nostra lingua – per far capire che non vi è una riduzione ad una componente puramente tecnico-professionale ma vi è anche un’implicazione molto forte negli aspetti cognitivi che sono anche emotivi, questo dovrebbe essere abbastanza chiaro. E in questo il linguaggio ha una grande rilevanza, il linguaggio dunque, come per riassumere, come dialogo a cui si attinge non potendo foneticamente esercitarlo. E’ il caso 3 appunto dell’ictus che rende afoni o che rende difficile la favella ma è anche il caso di bambini e bambine che, crescendo, non hanno già acquisito quel patrimonio linguistico ma lo esplorano come succede a chiunque sta crescendo che ha desiderio di imparare, di appassionarsi ad un percorso non ancora fatto, sconosciuto, e di farlo avendo come punti di riferimento delle guide e non avventurandosi in una situazione spaventosa perché assolutamente priva di punti di riferimento. Se questa è la situazione per chi ha una sofferenza da malattia, da trauma, pensiamo invece a chi non ha questo tipo di sofferenza e forse non ha neanche una sofferenza ma ha dei limiti, limiti che possono causare sofferenze. E’ il caso della disabilità: una persona disabile ha bisogno di vivere una situazione di benessere propriamente sociale perché conosce già, o lo conosce in maniera diretta, quindi non forse come conoscenza intellettuale ma come conoscenza esperienziale, che ha dei limiti ed ha bisogno di superare questi limiti non con le sue sole forze ma con le forze degli altri. Anche chi ha una disabilità può vivere rispecchiandosi nelle parole degli altri. Se vi sono disabilità che impediscono un’espressione della favella libera e completa chi vive l’impedimento potrebbe esprimere le emozioni in rapporto a quello che l’altro può esprimere nelle parole. Lo studio delle emozioni ha una grande capacità di sviluppo – oggi dimostrata dagli studi di Damasio ma a suo tempo, nell’altro secolo, con l’importantissima riflessione fatta da William James e in parte anche da Darwin – è diventato un elemento importante delle neuroscienze. Le emozioni precedono la parola; normalmente noi, però, abbiamo l’attesa che dalle emozioni nasca la parola. Ora, con chi è disabile – quindi ha un impedimento permanente – vi può essere un atteggiamento da parte degli altri che confina all’espressione delle emozioni. E’ quello che a volte sentiamo dire equiparando la comunicazione al linguaggio. Ora, la comunicazione delle emozioni non è linguaggio e può essere importante in quanto può rispecchiare e permettere in qualche modo la sottoscrizione del linguaggio dell’altro attraverso l’espressione delle emozioni, ma non ci si può fermare lì. Vorremmo parlare di etica della conoscenza, e vi è la necessità di sviluppare questa che chiamiamo etica della conoscenza, attraverso una linea di tendenza che non può essere applicata solo ai casi di cui possiamo prevedere l’evoluzione, dovremmo applicarla a tutti, dovremmo viverla con tutti coloro che hanno una disabilità, anche ritenuta grave, e la linea della conoscenza è una linea evolutiva come tutte le conoscenze, ha una dinamica e permette di immaginare una sequenza che non può essere certamente applicata per tutti nello stesso modo, ma è lo schema di riferimento. Crediamo che sia necessario avere uno schema di riferimento per quello che riguarda il nostro comportamento professionale, e non solo, anche il comportamento sociale, ed è basato sul fatto che chi vive una disabilità ha bisogno di conoscere la propria disabilità. Ma questa conoscenza che abbiamo già individuato come conoscenza esperienziale – nel senso che il soggetto vive la propria 4 vita – deve diventare anche conoscenza intellettuale, cioè capace di essere rappresentata, simbolizzata e quindi di avere delle elaborazioni culturali. Questa conoscenza che chiamiamo – per distinguerla dalla precedente – intellettuale ha bisogno certamente di basarsi sul linguaggio dell’altro confermato, o negato, o disconfermato, ovvero ritenuto poco significativo, attraverso l’espressione delle emozioni ma questa espressione di emozioni non è sufficiente; bisogna arrivare anche a un codice. E queste sono le novità che le tecnologie ci hanno permesso di conoscere meglio ma non sono solo le tecnologie sofisticate, si collegano anche a quelle tecnologie povere che non devono essere cancellate dalle conquiste tecnologiche; la più semplice delle tecnologie può essere quella che permette di codificare i gesti. Ha avuto una elaborazione molto interessante nella lingua italiana dei segni che viene espressa come LIS e ha la possibilità di creare delle strutture linguistiche e simboliche in soggetti che dovrebbero diversamente basarsi unicamente sulla possibilità di imitazione di una parte del codice del parlante, ovvero il movimento delle labbra. In questo modo invece completano e hanno una possibilità di padronanza maggiore. Ma noi abbiamo molti altri codici che sono vere e proprie lingue con una difficoltà, però, di non avere una comunità linguistica alle spalle, essendo isolati in una comunità linguistica diversa da loro, quindi noi li chiamiamo – per usare una espressione facilmente intuibile – codici vicarianti, vale a dire che fanno le veci, sono vicarie, del codice dei parlati, della comunità che circonda il soggetto. Allora abbiamo diverse possibilità di uso di codici che sono pittografici, che sono invece gestuali, e che hanno la possibilità di avere delle rappresentazioni simboliche molto ampie. Un tempo una persona che avesse una lesione cerebrale e per questo fosse impedita dall’esprimere un linguaggio era ritenuta già per questo senza capacità di pensiero, quindi incapace di avere un’intelligenza a livello normale. Molti casi ritenuti eccezionali hanno dimostrato che questo era un assunto temerario e sbagliato; l’impedimento dell’espressione linguistica non aveva impedito, in soggetti che avevano una elaborazione di pensiero, di avere il ricordo, di elaborarlo, di saperlo esprimere, il giorno in cui avessero incontrato una tecnica o una possibilità di espressione. Questi casi cominciarono a diventare più diffusi nella prima metà del secolo ma sempre all’insegna della eccezionalità. Noi riteniamo che oggi siano più la regola che non l’eccezionalità e che ci sia un’attesa di arrivare alla possibilità di fornire a ciascuno una via d’uscita dalla solitudine linguistica. Ed è questa l’etica della conoscenza, dentro la quale vi è la conoscenza della propria situazione di disabile. Ma anche nei confronti della più classica delle insufficienze mentali che è la sindrome di Down o Trisomia 21 vi è la necessità di mettersi in questa direzione per capire che se il soggetto ha una conoscenza della propria situazione anche di tipo scientifico, ma non solo scientifico (potrebbe non diventare una scienza padroneggiata ma appiccicata), vi è una maggiore 5 consapevolezza non solo dei propri limiti ma anche della capacità di superarli e di avere un’organizzazione con il contesto o con i contesti. Sappiamo che vi è una bella differenza tra una organizzazione che dipende da un solo contesto e una capacità che diventa competenza, cioè che si rielabora secondo i diversi contesti. Noi riteniamo che questa sia la strada in cui si può procedere in una prospettiva di integrazione che è nella storia, ormai, delle nostre ragioni d’essere. Su questa strada incontriamo diversi punti critici e ne vogliamo individuare in particolare due: il primo riguarda la collaborazione con i familiari. Ora, può essere – ed è umanamente molto comprensibile – che i familiari di un soggetto disabile abbiano impegnato tutte le loro energie perché venga trattato come gli altri ma vivano questa necessità di giustizia con la convinzione che per farla trionfare bisogna quasi dimenticare la disabilità, bisogna non parlarne, bisogna non fargliela conoscere. Lo diciamo in questo modo per far capire che è una situazione paradossale e a volte patetica, perché la conoscenza esperienziale c’è e non cresce in una conoscenza linguistica, intellettuale e rappresentativa. Rimane, quindi, qualcosa che può essere interpretato come una vergogna: è come se un soggetto dovesse continuamente pensare: “Io sono come sono ma non devo dirlo, non devo accorgermene, devo far finta di non essere come sono perché ciò che sono è brutto, è vergognoso”. Nessuno dei familiari ritiene che questo sia davvero vergognoso, però l’atteggiamento potrebbe portare a questa conclusione. Ora, noi dobbiamo capire che questa è una situazione umanamente molto comprensibile, molto condivisibile, ma la condivisione non vuol dire affermare che lì si è giunti e lì sta ma anzi, bisogna dire che lì si è giunti da lì si procede. E bisogna argomentare sapendo che ogni argomentazione è quel percorso della conoscenza su cui già abbiamo fatto qualche riflessione, ovvero deve entrare e situarsi in un contesto culturale, mentale, che deve fare i conti con molte situazioni allarmanti nella nostra epoca, vale a dire deve sapere che le rappresentazioni sociali hanno una potenza moltiplicata dalle televisioni e dalle immagini in una società culturalmente sempre più forte sul piano delle immagini; l’immagine gioca un ruolo straordinariamente potente e può mobilitare. E allora il rischio è quello che vi sia anche l’idea dell’immagine di straordinarietà della propria situazione, per cui si passi bruscamente da una concezione dell’ignoranza voluta della disabilità a una concezione della disabilità esibita come punto di accoglienza che conquista e diventa la forza dell’immagine televisiva: il personaggio diventa il caso su cui si concentra l’attenzione di una grande quantità di altri personaggi o aspiranti tali. Si entra tra i personaggi, ed è quell’espressione che viene usata – e forse banalizzata – che le persone cominciano a immaginare che vivono veramente solo il giorno in cui possono apparire. Ora questo è un po’ il rischio su cui bisogna fare i conti, e bisogna costruire dei percorsi di comprensione delle ragioni dell’etica della 6 conoscenza che non siano subordinate all’andare in scena. Questo è un punto delicato su cui la riflessione etica ha bisogno non solo della forza della volontà individuale ma anche di qualche contributo collettivo. Un’altra buona ragione su cui si può imbattersi – punto di difficoltà – è la concezione della riabilitazione. Molte volte noi sentiamo usare espressioni che non sono corrette; quella che sentiamo o leggiamo – giornali, televisioni, personaggi che aprono convegni, autorità amministrative e politiche – usano l’espressione che ci disturba profondamente che è ‘portatore di handicap’. Il soggetto non porta un handicap, l’espressione è profondamente sbagliata e dovrebbe non essere usata da chi ha dei compiti ufficiali ma entra anche invece nei documenti ufficiali, pur avendo l’Italia sottoscritto un documento scientifico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che va sotto la sigla ICF, ovvero Classificazione Internazionale del Funzionamento della disabilità e della salute. La sottoscrizione di questo documento avrebbe dovuto far riflettere sulla necessità di non utilizzare espressioni sbagliate. Ma perché lo richiamiamo in questo punto? Perché la riabilitazione significa aver chiara la differenza che esiste fra un deficit, che è un dato irreversibile, e gli handicap, che sono i punti su cui si può esercitare la riabilitazione per circoscriverne il danno oppure per annullarli. La riabilitazione riguarda gli handicap, non può riguardare il deficit, non può fare il miracolo di cancellare i deficit. E allora bisogna anche distinguere e fare una grande attenzione nell’uso delle parole tra i deficit e la malattia. Quando noi sentiamo parlare della Trisomia 21 – o Sindrome di Down – come di una malattia abbiamo un piccolo brivido che ci fa capire quanto danno possa fare l’espressione sbagliata perché può indurre a pensare, senza volerlo, che vi sia un percorso di guarigione. Non è invece guaribile perché non è una malattia. E’ una situazione genetica permanente, al momento;certamente noi viviamo sempre con l’orizzonte storico e non sappiamo oltre quello che è il nostro orizzonte storico cosa ci possa essere, se ci sarà qualche elemento di novità oltre l’orizzonte che stiamo vivendo lo sapranno altri ma noi oggi sappiamo o crediamo di sapere questo, sempre una consapevolezza dei propri limiti ci deve essere. Crediamo di sapere che vi siano dei limiti alla riabilitazione. Molte volte abbiamo l’impressione che la diffusione di notizie - attraverso, ad esempio, internet - faccia credere che al mondo esista qualche cosa, bisogna solo scoprirlo, che faccia anche cancellare il deficit. E allora, in questo caso, si insinua l’idea che la riabilitazione sia onnipotenza. Noi non siamo onnipotenti; l’etica della conoscenza è anche etica del limite: la nostra conoscenza arriva dove può e poi ha bisogno di continuare la ricerca, quindi non può dire: “abbiamo finito di fare ricerca” ma deve fare 7 una certa distinzione tra ciò che è già conosciuto e ciò che va ricercato, e non ricercato tra le informazioni ma ricercato attraverso le strutture di ricerca. Non si deve, quindi, immaginare che vi sia il guaritore della Sindrome di Down – ad esempio – chissà dove in qualche parte del mondo che forse ha un sito internet…., questo è il modo con cui si vive un’angoscia, forse si riesce in qualche modo a sopportarla ma non è il modo migliore per potere affrontare un’etica della conoscenza in cui il benessere e la sofferenza siano non più due elementi antinomici ma due parole che si incontrano e hanno in quel “e” – titolo del nostro intervento – non un elemento disgiuntivo ma un elemento di alleanza. L’etica della conoscenza è anche possibilità di creare un’alleanza tra benessere e sofferenza perché nel benessere vi è anche il riscatto della sofferenza attraverso la conoscenza. Questo modo di esprimere le cose può sembrare retorico ed è questo un ultimo rischio che segnaliamo, il sottomettere le nostre elaborazioni intellettuali ad una formulazione che può offendere perché può sembrare retorica in chi vive in questo momento la sofferenza senza ricavarne alcun benessere, e a questi dobbiamo un grande rispetto e dovremmo anche pensare che se oggi abbiamo una civiltà dell’immagine abbiamo anche una civiltà della chiacchiera e a volte – di fronte a certe sofferenze – è bene rimboccarsi le maniche in silenzio. BIBLIOGRAFIA ¾ M. INGROSSO, Senza benessere sociale. Nuovi rischi e attese di qualità della vita nell’era planetaria, F. Angeli, Milano, 2003. ¾ O.M.S. ICF Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute, Erickson, Gardolo di Trento, 2002; ediz. originale 2001. 8