PDF Babel 002 - Parliamo Di Videogiochi

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PDF Babel 002 - Parliamo Di Videogiochi
Grosso e brutto, il capitolo finale di Halo detta comunque legge. a pag. 012
BABEL
http://bab3l.splinder.com
contents
2 gennaio 2008
n.
COPERTINA
jade raymond e i ragazzi di ubisoft
GRAFICA E IMPAGINAZIONE
federico res
EDITING DEI TESTI
federico res
SITO WEB
http://bab3l.splinder.it
FILE OSPITATI DA
www.paolofranchini.com
MASS EFFECT 004
galassie imperfette, ma galassie
REDAZIONE
tommaso “gatsu” de benetti
federico res
vincenzo “vitoiuvara” aversa
giovanni “giocattolamer” donda
cristiano “amano76” ghigi
alvise “kintor” salice
michele “macca” iurlaro
francesco “xibal” sili
michele “guren no kishi” zanetti
COPYRIGHT
2007/2008 Babel Edizioni
Babel va assunto per via oculare in dosi
più o meno massicce, in rapporto al
peso specifico della vostra passione. La
stampa è caldamente consigliata, tenendo presenti questi semplici accorgimenti: stampare prima le pagine
dispari, voltare i fogli e reinserirli nella
stampante, stampare le pagine pari.
Una rilegatura in pelle di camoscio tibetano è l’ideale, ma vanno bene anche un
paio di punti metallici.
BABEL
002
Ignition
Il Valore del Videogioco 003
underRated
The Mark of Kri 014
OST - Music in the gaming
Blue Dragon 007
Review
Call of Duty 4 008
Assassin’s Creed 009
Mass Effect 010
Halo 3 012
FFXII Revenant Wings 011
ESCO DI RADO:
se il sole muore 010
Dal Vangelo Secondo Tommaso
Elogio Videogioco Asincrono 004
Odio di Gomito
Comparse Videoludiche 005
Esco di Rado (ma gioco pure troppo)
Sol Morente 006
Giochi Di Merda
Billy Hatcher & Shadow 016
La TV che Videogioca
Dungeons and Wagons 015
NOSTRADAMUS
resident evil 5 004
Nostradamus!
Resident Evil 5 017
jade’s empire cover story
Jade Raymond posa insieme ai ragazzi di Ubisoft Montreal, sviluppatori di Assassin’s Creed. La donna più bella del mondo dei videogiochi, dopo aver scaldato cuori e fantasie erotiche dei giocatori ad
ogni fiera e/o dimostrazione in cui faceva capolino per presentare il
suo pupillo, ha dimostrato che pure il gentil sesso può sentirsi a
suo agio con un joypad in mano. Lo dimostra il verdetto positivo
raccolto da Assassin’s Creed nella recensione che trovate a pagina
009: pur con i suoi difetti, la creazione di Jade e dei suoi ragazzi
sembra destinata ad aprire una nuova via al videogioco, e sinceramente da Ubisoft non ce lo aspettavamo. Che si tratti del tocco
femminile?
I ragazzi di Super Console, gloriosa rivista scomparsa nel gennaio 2003, hanno recentemente regalato ai vecchi fan l’ultimo numero della loro creatura, il 100, per 5 anni rimasto inedito. Potete scaricarlo seguendo il link (offerto da un generoso Natalino) che trovate
sul TFP Forum all’indirizzo http://www.tfpforum.it/viewtopic.php?t=214&postdays=0&postorder=asc&start=165, a pag. 12.
002
I G N I T I O N
Il valore del videogioco
Q
ualche giorno fa, sbocconcellando Super
Console 100, un paio di righe dello speciale sui cento numeri mi hanno particolarmente colpito. Niente di che, si rilevava
l’ardore dei lettori innanzi al voto assegnato a
Final Fantasy VIII, un tiepido – per l’epoca –
82%. Il voto in realtà era frutto di un refuso
editoriale, ma prima che l’equivoco fosse chiarito la redazione deve aver ricevuto numerose
lettere di protesta. Facile notare l’analogia dell’episodio con quanto successo di recente su
Game Pro, dove le votazioni errate apparse in
calce alle recensioni di Mass Effect e Call of
Duty 4 hanno ancora una volta innescato polemiche su votazioni e giudizi: chi banalmente
contesta la validità o giustezza di questo o quel
voto, chi ne approfitta per chiedere l’implementazione dei mezzi voti, chi all’opposto auspica
una loro definitiva sparizione. Niente di nuovo,
insomma.
Niente di nuovo, ed è questo il punto: il fervore e la puntualità con cui gli appassionati
sanno discutere di voti e giudizi è sconcertante,
significativo. A me pare di scorgervi il riflesso
costretto di un sentimento molto più profondo,
più forte. Un sentimento che ha a che fare col
valore, in senso assoluto, di un’esperienza. Per
la precisione, con la gelosa difesa di un’esperienza fondante, impossibile da oggettivare ma
altrettanto impossibile da lasciare alla mercé
della pubblicità, del pensiero comune. Qualunque vero appassionato di videogiochi sa quanto
essi abbiano influito sulla sua vita, sulle sue
scelte, lungo tutto il corso della sua esistenza.
Al pari di qualunque altra passione, del resto:
solo in modo differente, perché a quella passione si deve anche la diversità che ci ha cucito
addosso, per tanto tempo, e che ancora oggi fatica a svanire. Insomma, quel valore è doppiamente caro a qualunque amante del videogioco,
la sua difesa doppiamente urgente. Non passa
giorno in cui non ci sia un videogiocatore, in
chissà quale 3D su chissà quale forum, che
sbraita e s’arrabatta nel tentativo di difendere il
suo gioco preferito dalle accuse di chi, per un
motivo o per l’altro, da quel prodotto non è rimasto conquistato. Difendiamo un valore,
spesso, difficile da condividere. Ma lo difendiamo, sempre e comunque, imperterriti.
Allora mi domando, spero senza retorica: il
videogioco ha un suo valore oggettivo? Dando
per scontato che la risposta sia affermativa,
segue a ruota: in che modo è possibile cogliere,
se esiste, questo valore assoluto e tangibile?
Sinceramente dubito che l’odierna diffusione
del medium possa costituire una valida risposta.
Il VG è sdoganato ed emancipato quanto volete,
ma resta sempre un gioco, un divertimento
come un altro, agli occhi della maggior parte
della gente. Non ha granché valore neanche
come feticcio tecnologico, laddove 400 euro per
una console appaiono un’assurdità per il 90%
dei non giocatori, mentre la stessa cifra per un
cellulare alla moda resta comunque un investimento. Allora, dove sta la risposta?
Mi viene in mente la musica, in primo luogo.
Mi vengono in mente le sonorità oscure ed affascinanti, talvolta lancinanti, dei dischi di un
genio come Akira Yamaoka. Brani nati e cresciuti non autonomamente, ma in simbiosi con
il tessuto ludico e narrativo di un pugno di videogiochi. Brani che ritraggono in musica sentimenti e significati che appartengono ad
un’esperienza videoludica, ad un videogioco.
Brani che chiunque goda di un minimo di sensibilità artistica non può non apprezzare, sappia
egli o meno da dove provengono. O anche, in
egual modo, penso a The Best is Yet to Come.
Penso alla sua potenza e bellezza, a come nasca
sul terreno di malinconia e ineluttabilità e forza
e serenità che distinguono il finale di Metal Gear
Solid. Quante persone si stupirebbero, dopo
aver ascoltato un brano simile, sapendo che è
parte di un videogioco?
Recentemente, mi ha colpito una scena particolare del bellissimo I’m a Cyborg but that’s Ok,
di Park Chan-wook: la protagonista Younggoon, in pieno delirio, sogna di avere dei mitragliatori al posto delle mani e uccide chiunque le
capiti a tiro nella casa di cura in cui è ricoverata. È significativa una precisa sequenza, ambientata nel giardino della clinica: un piano
sequenza a camera fissa, con inquadratura a
volo d’uccello e Young-goon che deambula
come l’omino di uno shooter vecchio stampo,
abbattendo i bersagli che le si parano davanti. E
tutto intorno quei colori pastello e quel mondo
irreale da platform game Nintendo: non un
semplice omaggio al videogioco, ma qualcosa
che ha a che fare con la più pura espressione di
stile.
Forse ho trovato la mia risposta. In quelle
pieghe della cultura, intesa in senso antropologico, dove usi e costumi confinano con la sensibilità umana, il VG sa manifestarsi – anche se
indirettamente – e valere di per sé in modo legittimo. Forse accade più spesso di quanto non
crediamo: nella musica (penso a tutti quei
gruppi che basano il loro stile sulle sonorità
spartane dei vecchi videogiochi); negli audiovisivi, forse persino nella letteratura. Dove la sensibilità umana reagisce al videogioco, più o
meno disincarnato, il videogioco manifesta il
suo incontestabile valore.
E così abbiamo dimostrato quanto dato per
scontato all’inizio: il videogioco ha valore oggettivo. E, aggiungerei, vale la pena lottare per
esso.
Federico Res
003
Tommaso De Benetti
L’unico videogiocatore anche bello?
Tommaso De Benetti è stato membro
fondatore e colonna portante di Ring,
la rivista più amata dai videogiocatori
meno rincoglioniti. Qualche tempo fa,
esasperato dall’ignavia invincibile
degli ormai depressi ringhici, ha lanciato da solo il progetto RingCast
(reperibile su iTunes), primo podcast
italiano a tema videoludico, a cui comunque la vecchia guardia partecipa
a corrente alternata. Gatsu, secondo
il nick con cui è solito firmarsi su Internet, attualmente vive e tromba ad
Helsinki, tra frotte di bionde ninfomani
e sferzate di gelo più o meno devastanti.
Dal Vangelo secondo Tommaso
C
Facebook è il social network lanciato da Mark Zuckenberg ad
Harvard, nel 2004. Pensato inizialmente per connettere persone all'interno dello stesso
network accademico, Facebook
ha iniziato a diffondersi come
strumento per rimanere in contatto con i propri amici. A causa
delle particolari modalità di iscrizione, è particolarmente diffuso in ambito universitario,
potendo contare su una base
d'utenza di livello culturale
medio-alto. Gli iscritti possono
compilare il proprio profilo, segnalare eventi di particolare interesse, aggiungere immagini o
video e vedere cosa stanno
facendo gli amici in un determinato momento. Recentemente
Facebook ha aperto lo sviluppo
di applicazioni alle terze parti,
consentendo agli utenti di aggiungerle liberamente alle proprie pagine. Molte di queste
applicazioni esterne sono pensate per funzionare come sub
community o piccoli minigiochi.
Alcuni esperti vedono in Facebook il primo embrionale esponente di "sistema operativo
online".
004
i sono 3 cose che so su Facebook: a) sta uccidendo gli SMS
e le email, b) è il nemico numero uno del vostro capo e degli
studenti che preparano esami ma
fammi-vedere-se-qualcuno-hascritto-sul-wall c) rincoglionisce
grandi e piccini con applicazioni a
metà strada fra il causal gaming e il
nulla assoluto. Quando ero alle superiori, nei laboratori di informatica
impazzava Puzzle Bubble o, se il
professore si assentava per più di
dieci minuti, scattava la LAN a
Quake 3. Adesso i teenagers si ammazzano a colpi di Booze Mail su
Facebook, e anche il perdere tempo
a scuola non è più quello di una
volta. Ma questa puntata del Vangelo non è dedicata al fatto che Nintendo c'ha visto giusto e la gente
preferisce i non-giochi, quanto piuttosto ad elogiare l'asincronicità ludica. Mi spiego. Ho iniziato ad usare
Facebook in estate, tanto per, al lavoro mi annoiavo. Dall'esterno non
si capisce nemmeno bene a cosa
serva, poi all'inizio dell'anno accademico ho iniziato a comprenderne l'utilità organizzativa e ultimamente lo
controllo più frequentemente della
mia casella email. Negli ultimi tre
mesi, nell'area geografica dove vivo,
il numero di utenti del social network bianco-blu è triplicato, tanto
che ci sono stati diversi giorni di
semi-collasso strutturale. Al di là del
successo - meritato o meno - dell'idea, è interessante quello che si
inizia a percepire: l'incrementata necessità di comunicazione asincrona
fra gli utenti. Cosa voglio dire? Non
comunichiamo asincronicamente la
maggior parte del tempo? Sì, ma
abbiate un attimo di pazienza.
Prendiamo come esempio un'altra
applicazione web molto diffusa,
MSN. Ora, loggatevi su MSN e contate quanti dei vostri contatti hanno
come status "non disponibile",
"away" o sono invisibili (anche
quando sapete benissimo che in realtà sono al PC). La verità, ad osservare trend consolidati dopo anni che
alcune applicazioni sono sul mercato
ed hanno modificato le nostre abitudini, si può riassumere in due punti
principali: 1) la gente vuole stare in
contatto principalmente con un
gruppo limitato di conoscenti 2) la
gente non vuole rotture di coglioni
Elogio del Videogioco Asincrono
ad ogni momento. L'incremento
esponenziale delle possibilità di interazione ha portato, forse un po'
inaspettatamente, ad una sorta di
"ritiro nella sfera privata", a cui solo
gli individui più fidati possono accedere. Per lo stesso motivo per cui
non è bello discutere in un forum
dove non si conosce nessuno, o
chattare con uno sconosciuto, la
maggior parte dei giocatori non
gioca con o contro perfetti
sconosciuti, non parla con loro, né
via chat, né tramite headset. Nei
videogiochi multiplayer spesso uccidiamo in perfetto silenzio, castiamo incantesimi parlando a noi
stessi, perdiamo una gara bestemmiando fra i denti. O con in sottofondo un CD di Vasco, al massimo.
Le cose cambiano fra amici, ove
parte della sfida risiede anche nell'offendere nel modo più blasfemo
possibile il proprio avversario, che
nella vita magari è anche uno dei
vostri migliori amici. Direste dell'avatar di uno che non conoscete che
è "brutto come lo sputo di un mulo
sulla ghiaia"? E invece, osereste con
un amico? La risposta la sapete.
Ma sto divagando. Per tornare in
carreggiata, vengo al punto della
mia riflessione: il successo di Facebook, e delle sue applicazioni quasiludiche, sta tutto nell'asincornicità
dell'interazione. Ciccio torna a casa
del lavoro, stanco come se avesse
trainato un carrarmato con i denti
per dieci ore di fila, e cliccando il
link alla pagina dei feed si accorge
che Tizio gli ha offerto un White
Russian con Booze Mail, Caio gli ha
tirato una cuscinata con Pillow Fight,
Sempronio l'ha sfidato ad un combattimento con Pirates VS Ninjas. E
la cosa bella - o terribile, a seconda
dei punti di vista - è che Ciccio si
sente in dovere di rispondere, dopo
una doccia corroborante e un piatto
di tagliatelle o il giorno successivo
dall'ufficio, mentre il capo è impegnato in qualche riunione aziendale.
Il momento preciso della risposta
non è più una discriminante, gli
amici di Ciccio non devono essere
online nello stesso momento in cui
Ciccio decide di dichiarare guerra,
ma nondimeno riceveranno il guanto
di sfida e risponderanno in una spirale ludica che si potrebbe riassumere nel termine generale Poke
War.
Ora, siamo tutti d'accordo che
Facebook non rappresenta la frontiera finale del videogioco. Dio - o
chi per lui - ce ne scampi. Ma
sebbene il gioco asincrono esista da
un pezzo (i giocatori di ruolo probabilmente conosceranno le famose
tecniche play by mail o play by
forum, che cercano di unire disponibilità geografiche e di tempo diverse
alle risorse che internet ci offre), le
potenzialità di questa modalità sono
quasi del tutto inesplorate, e le stupide applicazioni del social network
dalla crescita più vertiginosa che la
storia ricordi hanno appena scalfito
la punta dell'iceberg. Ho per le mani
il numero 183 di EDGE. Il personaggio delle vignette che chiudono il
numero (Crashlander) ad un certo
punto dice: "Next I need to play
Halo 3 online before it's too late.
Got to catch that freakin' magic window". Nella sua stupidità, è una
battuta illuminante. Pensateci: il
problema del multiplayer online è
che devi essere lì, in un momento
preciso e ad un'ora precisa. Inoltre,
se vuoi giocare con qualcuno che
conosci, devi pure organizzare un
meeting sperando che tutti i tuoi
amici siano liberi nelle stesse ore in
cui lo sei tu. È un casino, ammettiamolo, e non funziona granché
bene. Ed è anche uno dei motivi per
cui un certo gioco, dopo qualche
mese dall'uscita, perde metà della
sua attrattiva se la community è migrata da qualche altra parte, perché,
si sa, they have to catch that
freakin' magic window. Forse gli
sviluppatori di videogiochi dovrebbero iniziare ad utilizzare Facebook
(son tutti lì in ogni caso, lo dice
Christofer Sundberg di Avalanche
Studios nello speciale di EDGE The
Nordic Game Industry) non solo per
molestare virtualmente le amiche incontrate la sera prima in discoteca,
ma anche per comprendere meglio
le dinamiche ludiche di cui un pubblico con sempre meno tempo a disposizione ha bisogno.
Questo articolo non è un invito ad
addarmi come vostro amico su Facebook. Non sono vostro amico, fino a
prova contraria. E soprattutto non
aspettatevi che vi prenda a cuscinate.
Giovanni Donda
Un uomo per due stagioni
Giovanni Donda, in arte Giocattolamer,
è italiano di nascita e inglese d’adozione.
“Scozzese, prego” aggiungerebbe lui. È
entrato a far parte dell'industria dei videogiochi dalla porta di servizio, e lì è rimasto. Oggi è a capo di una piccola
azienda indipendente di Quality Assurance e localizzazione, il cui nome e/o
prodotti qui non verranno mai menzionati.
Questo ci ha costretti a scriverlo lui. Va
da sé che le sue opinioni siano appunto
tali. Pure questo. La moglie, invece,
gradirebbe che simili premure le riservasse a lei, e alla figlia, non a quella ditta
del... Ma lo ama tanto. Fortuna che non
capisce l'italiano e crede ancora che
“Odio di Gomito” sia solo il romanzo che
gli pagherà il mutuo.
Odio di Gomito
Delle comparse videoludiche e delle due piramidi che
sembravano una sola
A
ncor prima che un QA manager, sono un sadico bastardo. Ma capitemi, con tutti
i nuovi candidati che mi tocca intervistare, qualche soddisfazione
uno se la deve pure togliere, no?
No, ovviamente no, sarebbe poco
professionale. Non a caso al corso
ti sconsigliano categoricamente di
mettere a disagio il colloquiante
almeno per i primi dieci minuti. Io
al secondo minuto ho già chiuso il
manuale del perfetto manager e
gli sparo a bruciapelo un “Qual è
la differenza fra un extra e un
tester?”. Al che, fossimo in Italia,
riceverei solo sguardi di circostanza perché il candidato si
starebbe ancora chiedendo cosa
intenda io per 'extra'. Lo scozzese
di questa mattina, invece, ha
chiesto solo conferma, giusto per
vedere se c'ero o ci facevo.
Esatto, le comparse cinematografiche, gli 'extras' appunto. E tutto
questo con buona pace di quelli
che pensavano fosse impossibile
resuscitare il tormentone cinema
uguale videogioco.
Nessuna, per rispondere alla
domanda. A prima vista, se non
altro, rappresentano entrambi la
casta più bassa di due industrie
che non si capisce cosa aspettino
ancora a convolare definitivamente a nozze, tanto gli piace
convivere assieme. Da una parte
la giovane comparsa crede di aver
sfondato nel mondo del grande
schermo, portare caffè dopo caffè
all'ultima bambina prodigio di Hollywood è solo un'occupazione
temporanea. Dall'altra il giovane
tester crede che correre per delle
ore contro un muro, e poi quello
accanto, sia un po' l'equivalente
del metti-togli la cera per diventare l'indomani un perfetto
game designer. Perché è a questo
che aspirava il candidato questa
mattina, inutile che si fosse
preparato le cinque ragioni per cui
io dovrei dargli una busta paga da
tester a fine mese. Adori i videogiochi, non sei un artista, non sai
scrivere due righe di codice, che
vorresti mai fare? Il game de-
signer, ovviamente, ed eccoti qui
a far finta di voler testare giochi,
con un piede già fuori dalla porta.
Ho detto che sono un sadico bastardo, non ho detto che sono
scemo.
Se sfondare nell'industria dei
videogiochi è tutto quello che
brami, ma nel frattempo è da due
ore che stai cercando di riprodurre un memory leak trovato da
un qualche tuo collega analfabeta,
o troppo scansafatiche per scrivere due righe due di descrizione... beh, lasciatelo dire,
hai fatto una bella cazzata. Sveglia, per te il controllo della qualità
non è neanche una porta di
servizio, è un vicolo cieco. Se vuoi
proprio fallire, almeno fallo con
stile. Tanto vale, allora, che ti iscrivi a un qualche corso universitario ad hoc – per il massimo
effetto provare in Italia – che
spendi quattrini anziché guadagnarne, ma almeno torni a casa
dalla mamma ogni giorno per
pranzo e puoi dire che stai studiando per diventare game designer. Ora che non avete più la
leva obbligatoria da voi in Italia,
davvero ben poche cose suonano
così poco stilose come 'fare il
tester'. Ce ne sarebbe una, fare il
beta tester, ma questa è un'altra
storia.
Si stava meglio quando si stava
peggio, direbbe un giornalista a
corto di idee. Avrebbe ragione,
però, perché un tempo il controllo
della qualità era davvero messo
meglio. Non esisteva. Il testing
era svolto internamente dalle
stesse software house che producevano il gioco, dove però il
termine ‘software house’ è qui
usato in mancanza di un termine
migliore. Erano, invero, quattro
gatti che creavano un gioco e invitavano altri quattro gatti per
vedere in quanti modi lo riuscissero a rompere. Perché avevano a
cuore la customer satisfaction?
No, volevano solo che funzionasse. Essere tester allora significava essere in stretto,
strettissimo contatto con il team
Avvicinati e guarda attentamente. Quante piramidi vedi?
di sviluppo, significava testare con
mano – scusate il gioco di parole
– cosa volesse dire creare un
videogioco. Da lì a fare parte del
team stesso, il passo non era né
breve, né scontato, ma era un
passo, non un curriculum con
salto carpiato oltreoceano. Grazie,
outsourcing.
Oggi molte cose sono cambiate,
al sottoscritto gliene serve solo
una, però, per concludere. Perché
la gente guarda all'industria del
videogioco e al controllo della
qualità, e tutto quello che vede è
una sola, unica piramide da
scalare. Se solo guardassero più
da vicino, vedrebbero che di piramidi ce ne sono ben due. Solo,
sono così vicine che si sono confuse per tutti questi anni, e senza
dubbio sarà così per altri anni a
venire. Voi però smettetela di cercare nuovi ponti, o cunicoli che le
colleghino, non ce ne saranno più
e quelli che ancora resistono
saranno presto insabbiati. Piuttosto, apprezzate questa seconda
e così poco stilosa piramide per
quello che è, una realistica alternativa al portare caffè dopo caffè
all'ultima bambina prodigio di Hollywood.
005
Vincenzo Aversa
Professore Nerd
Ritenendosi da sempre uno dei cinque
migliori giocatori al mondo di Tetris, il Dr.
Vitoiuvara ha deciso di condividere con il
mondo le sue conoscenze e abilità portando avanti su youtube quel “Corso per
Videogiocatori Professionisti” che oltre a
renderlo famoso, lo ha definitivamente
consacrato al ruolo di pagliaccio. Vive
solo e abbandonato in compagnia del suo
fidato quaranta pollici ma, come ama
ripetere, risparmia un sacco sui preservativi. Nonostante attualmente passi tutto
il suo tempo libero a videogiocare, è fermamente convinto che, nell’arco di massimo cinque anni, sarà fuori da questo
ambiente di sfigati.
Esco di Rado (ma gioco pure troppo)
D
Da una parte i bachi, le patch correttive e una rincorsa al fotorealismo che spesso mette da parte lo
stile.
Dall’altra meccaniche di gioco
anacronistiche, giochi dalla durata
improponibile, un sistema di salvataggi che non tiene conto delle
esigenze dei “nuovi” videogiocatori.
Occidente e Oriente hanno i loro
problemi, ma se l’attaccamento al
passato di quest’ultimo è ormai patologico, la spinta all’evoluzione del
videogioco occidentale sempre più
encomiabile.
006
ue scuole di pensiero, due
modi di fare videogiochi distinti che da sempre vivono
l’uno di fianco all’altro, in eterna
contrapposizione, dividendo gli appassionati. Il Giappone, con le sue
musiche deliranti o commoventi, i
mankaga che curano il character
design e Dragon Quest sempre in
vetta alle classifiche. L’occidente,
tra Europa e Usa, con le hit del
momento, qualche schiavo cinese
alla modellazione e una bomba
atomica da strappare dalle mani
dei terroristi. Due vie tra le quali
scegliere, due vie quasi mai sovrapposte l’una all’altra. Fino a
qualche anno fa…
I tempi cambiano, la Canalis ha
preso il posto della Fenech tra le
fantasie erotiche degli italiani e le
due scuole hanno preso a muoversi
con ritmi diversi, diversificandosi
ancor più di prima. E’ indubbio, per
esempio, che in terra d’oriente si
stia assistendo ad una agguerrita
resistenza al progresso, con la riproposizione continua di meccaniche di gioco fin troppo ancorate al
passato. Sono cambiati i bambini e
sono cambiate le destinazioni, ma
in 10/15 anni la più grande novità
che ha fatto capolino in qualche
JRPG è la sparizione dei combattimenti casuali. In Tales of Symphonia, per esempio, che pure
presenta i combattimenti in tempo
reale tipici della serie, i nemici
sono visibili sulla mappa come
enormi gelatine nere, quasi sempre evitabili. Ma tutto il resto è un
fossile dedicato agli appassionati,
con pochissime possibilità di attrarre nuovo pubblico.
A dispetto di bilance, Wii e DS, i
riusciti esperimenti di Nintendo per
attirare un pubblico diverso fatto di
non giocatori, è proprio nel target
di riferimento dei suoi prodotti che
il Giappone sembra un passo indietro all’occidente. Cento e più ore di
gioco per completare una singola
avventura faranno felice qualche
nerd appollaiato sulla sua scrivania, ma sono del tutto improponibili per un mercato che cerca di
aprire le sue porte al pubblico di
massa: casalinghe, padri di famiglia e bambini compresi. Il vecchio
Sol Morente
e il nuovo continente hanno puntato decisamente su giochi più
corti e intensi, anche se con risultati a volte imbarazzanti (Heavenly
Sword e Ghost Recon AW2 sono invero ridicolmente corti).
Anche Oblivion e Mass Effect, l’equivalente della nostra parte di
oceano di Final Fantasy e compagnia, possono essere finiti in una
manciata di ore (15/20) se si decide di trascurare il surplus di missioni secondarie e l’esplorazione
fine a se stessa. La scelta sulla
condotta di gioco da tenere sta al
giocatore, sempre e comunque,
laddove i giapponesi si sforzano
ancora di dettare le regole.
Ed ecco allora che dalle nostre
parti i checkpoint sono diventati
una realtà acquisita, inevitabile e a
volte persino invasiva, mentre giochi di ottimo spessore e grande richiamo come il recente Metroid
Prime Corruption – gioco americano ma ferocemente ancorato al
suo passato dagli occhi a mandorla
– non riescono ad andare oltre
qualche timido, e apparentemente
casuale, checkpoint sparso per
tutta l’esperienza di gioco. Non si
tratta solo di pigrizia o voglia di
giochi facili. Se si da per scontato
che l’età media dei videogiocatori
si sia alzata, si dovrebbe pure rispettare le limitate disponibilità di
tempo dei trentenni in carriera con
la passione per i videogiochi. Tra
mogli, fidanzate/i, figli, lavoro e
qualche serata di Champion’s, non
tutti hanno due ore filate da dedicare al proprio hobby ogni giorno,
ed è indubbio che un pugno di
save point lontanissimi tra loro non
facciano che allontanare del tutto i
giocatori con meno tempo a disposizione.
Per carità, l’Occidente ha le sue
magagne. Lo strepitoso design di
Okami e Killer 7 o i tratti distintivi
e unici di videogiochi come Shadow of The Colossus, dimostrano
come noi occidentali si sia ben lontani da un certo tipo di raffinata
sensibilità artistica, presi come
siamo nella ricerca del realismo visivo. E, d’altronde, anche nella
cura dei dettagli abbiamo ancora
molta strada da fare. Del tutto im-
pensabile che prodotti di grande richiamo come Mass Effect o Assassin’s Creed (in versione PS3)
vengano presentati al pubblico
giapponese con motori di gioco
tanto traballanti. Assolutamente
fuori questione, che le secchiate di
bug made in Ubisoft possano essere accolte dall’esigente pubblico
nipponico con la nostra stessa indifferenza. Se è vero che l’Oriente
è troppo innamorato del suo passato, insomma, è pure vero che
non ha dimenticato cos’è un beta
testing e non ha cominciato ad affidarsi completamente a patch frettolose ed incomplete.
Discorso diverso va fatto in parte
per i portatili. Laddove gli orientali
mostrano di comprendere al meglio la differenza netta tra console
casalinghe e da saccoccia, con prodotti portatili esclusivi, immediati,
semplici e rapidi, case di sviluppo
americane ed europee continuano
a districarsi tra conversioni più o
meno improbabili, spesso con poca
fantasia e, ancora più spesso, con
poca attenzione alla qualità del
prodotto. Continuano a vedere PSP
e DS come alternative a PS3 e
360, non come sistemi di intrattenimento da affiancare, per scopi
diversi, alle console da salotto.
Venti milioni di DS Lite venduti in
Giappone dovrebbero quantomeno
far ricredere le software house nostrane, nel breve periodo.
Probabilmente è solo questione
di gusti e possibilità, ma meglio
Mass Effect con i suoi scatti, Oblivion con i suoi bug o il perfetto
Zelda Twilight Princess che sembra
la citazione di se stesso, per come
ricalca fedelmente le avventure
passate? Ai posteri l’inquinamento
e la quarta guerra mondiale, io
scelgo il videogioco moderno, buggato forse, ma che mi lascia la
possibilità di giocare più cose,
come e quando voglio. Un videogioco che sta cominciando a proporre cose nuove come la cattura
di immagini e filmati, come la possibilità di guardare live le partite
degli altri, come mondi pulsanti e
storie complesse che valgono la
pena di essere raccontate, anche
senza un pad.
originalsoundtrack
I
m u s i c
i n
n che modo è possibile introdurre un autore tanto celebre
come Nobuo Uematsu? Lo storico compositore di Square e della
saga di Final Fantasy è forse il più
amato tra i musicisti che lavorano
nel campo dei videogiochi, i suoi
lavori campeggiano senza dubbio
tra le preferenze musicali di ogni
appassionato di JRPG, anche al di
là della celebre saga cui deve la
sua fortuna. Con il suo recente abbandono da Square, che lo ho condotto insieme a Hironobu
Sakaguchi tra le fila di Mistwalker,
Uematsu ha lasciato Final Fantasy
per dedicarsi ai nuovi progetti di
Microsoft e Sakaguchi, al secolo
Blue Dragon e Lost Odyssey. Ma il
cambio di guardia non sembra
aver nuociuto in alcun modo alla
sua verve creativa, e l’OST di Blue
Dragon è qui per dimostrarlo
anche ai più scettici: due CD, un
totale di cinquantasette brani e
due ore di musica, in un’opera
completa e poliedrica, dove trova
spazio una certa attitudine alla novità e alla sperimentazione, seppur
iscritta in una forma orchestrale
decisamente canonica.
Sono tanti gli stili e le influenze
musicali che caratterizzano questo
nuovo lavoro: dai classici brani al
pianoforte – Waterside, Desolate
Town, Zola’s Theme – a quelli più
d’atmosfera (Mysterious Village,
Everyday Tranquillity); dall’energia
dei pezzi più rock, quali Earth
Shark is Coming o High Speed Flight, alla leggerezza di quelli più
pop, rappresentati dalle godibili
Bad But Bat e My Tears and the
Sky. Ognuno di questi brani sa ritagliarsi il suo posto d’onore accanto agli altri, in forza di una
felicità compositiva certamente figlia della tradizione e non troppo
fuori dagli schemi, ma in ogni caso
di alto valore.
Ma parlavamo di sperimentazione e nuove influenze musicali,
ed è proprio su questo fronte che
l’OST dà il suo meglio, aggiungendo nuove sfaccettature allo
stile consolidato del grande compositore. Particolarmente riuscito è
Omen, dal primo disco: sulla scia
di un pianoforte che gronda drammaticità ma che presto s’inalbera
in un concitato tecnicismo, si accendono gli archi e le percussioni
elettroniche di un ambient che
pare dover qualcosa addirittura ad
t h e
g a m i n g
Akira Yamaoka. La naturalezza con
cui Uematsu coniuga il proprio
verbo a simili nuove tendenze garantisce la buona riuscita del
brano, tra i migliori fra quelli più
atipici.
La vena malinconica prosegue in
altri brani, nell’essenzialità di Hanger and Sorrow e in Cave, fino a
cedere il passo al più raffinato sax
di Frozen Village. Ma visti i temi
del gioco di cui si vuole sottolineare i momenti, c’è poco spazio
per sentimenti cupi: e allora via
verso attimi più leggeri e festosi,
verso i ritmi trascinanti di Bad But
Bat, City Lights, Trip! e la godibilissima ballata pop My Tears and
the Sky, come Bad But Bat cantata
in giapponese da voci bianche.
Cambio di CD, nuovo cambio di
fronte: qui Uematsu omaggia in un
modo che rasenta il plagio gli Iron
Maiden di Bruce Dickinson, arrangiando Eternity con chitarre elettriche esplosive, una voce maschile
non altrettanto bella ma comunque
adeguatissima al caso e aggiungendo perfino un testo in inglese.
Ma è solo un istante, una breve
fermata prima di ripartire verso lidi
ancora diversi. E presso uno di
questi troviamo brani che si nutrono (quasi) di sola elettronica,
come In Search of the Ruins, Ruins
e Giant Mecha. Quest’ultimo, in
particolare, colpisce: trattasi di un
brano di ambient elettronica velocissimo, che nella potenza dell’attacco mostra diverse analogie con
lo stile di Shoji Meguro (vedi
Babel001) ma sa presto conquistare un’identità propria, fregiandosi di un finale epico dove ancora
una volta il classico si fonde al
nuovo in maniera perfetta.
Blue Dragon OST è un disco affascinante, ricco, stimolante per la
novità e appagante per la tradizione. Nessun colpo di genio, nessun brano eccessivamente fuori
dagli schemi, nulla che faccia pensare ad un’evoluzione radicale
dello stile Uematsu. Eppure tantissima bella musica, tantissimo stile
ormai assimilato ma che disegna
nuovi arazzi sicuramente ispirati.
Ora nel nuovo, con i brani appena
analizzati, ora nella tradizione, con
il piano e i flauti delicati di Peaceful
Waterside, Blue Dragon OST fa
ben sperare per il futuro di un autore che non smette mai di collezionare consensi.
Blue Dragon
Producer: Microsoft
Developer: Mystwalkers
Uscita: 2007 Jap-Usa-Eu
Consigliato: Se vi piace l’RPG dupalle
a cura di Federico Res
Disco Uno
01 - Waterside
02 - A Lamenting Bell Toll
03 - The Land Shark is Coming!
04 - Crisis
05 - Mysterious Village
06 - Dragon Fight!
07 - Thumbs Up!
08 - Everyday Tranquility
09 - Mystery of the Ancient Machine
10 - Challenge
11 - Omen
12 - In Search of the Ruins
13 - Ruins
14 - High Speed Flight
15 - Anger and Sorrow
16 - My Tears and the Sky
17 - Cave
18 - City Lights
19 - Desolate Town
20 - Advancing Ground
21 - BAD BUT BAT
22 - Trip!
23 - A Smiling Face
24 - Knock It Down
25 - Army of the Holy Sword
Tempo Totale:
54'57"
Disco Due
01 - Gibral Castle
02 - Zola's Theme
03 - A Little Fight
04 - Frozen Village
05 - Nene's Paradise
06 - Giant Mechat
07 - Advance! Drill Machine
08 - The Dance-Loving Devi Tribe
09 - The Ancients
10 - An Ancient Fortress
11 - Machine Temple
12 - The Road to Gibral
13 - Mecha-Robo Army Charge!
14 - The Land of Happiness
15 - A Village of Murals
16 - Peaceful Waterside
17 - An Uneasy Night
18 - Eternity
19 - Mechat Takes Off!
20 - Take Back the Shadow!
21 - State of Emergency
22 - CAVERN
23 - Revival of the Ancients
24 - The Seal is Broken
25 - Happy Birthday
26 - Blue Dragon Main Theme
27 - Waterside - Piano and Orchestra
Tempo Totale:
70'59"
Blue Dragon Original Soundtrack
Nobuo Uematsu
Gli altri lavori di Nobuo Uematsu
Nobuo Uematsu ha composto le colonne sonore dell’intera saga di Final Fantasy, ad eccezione del dodicesimo
episodio – opera del meno incisivo Hitoshi Sakimoto, a
causa della sua dipartita da Square. Oltre Final Fantasy, ha curato le musiche di un altro capolavoro come
Chrono Trigger, con Yasunori Mitsuda e Noriko Matsueda, oltre che di titoli come Kingdom Hearts, Chocobo’s Dungeons e, recentemente, Tales of Symphonia e
Lost Odyssey. Tra le altre cose, ha anche composto il
main theme dell’inedito Super Smash Bros. Brawl di
Nintendo. Tra i suoi lavori, consigliamo l’ascolto dei
Piano Collection di Final Fantasy VII,VIII e IX.
007
REVIEW
UNA GUERRA TROPPO FREDDA
A
call of duty 4
genere-fps softco-infinity ward
publisher-actvision piattaforma-360/ps3/pcversione-pal multiplayer-1-4
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
nche le cose migliori prima o poi vengono
a noia: le camice hawaiane, i buondì, la
scoppiettante musica di Amedeo Minghi e
persino la guerra. Sfamati per un mezzo decennio con abbuffate di trincee e crucchi bastardi, le simulazioni belliche, tra seguiti di
seguiti e variazioni sul tema, hanno cominciato
a stancare, a somigliarsi troppo, a fracassare i
coglioni. Un pantano fatto di prodotti senza
dubbio buoni, ma con meccaniche tanto collaudate da apparire obsolete. Un pantano dal
quale si poteva uscire in un solo modo: dando
la colpa ai nazisti.
Call of Duty 4 compie un balzo avanti nel
tempo di una cinquantina di anni e licenzia i
tedeschi, ma lascia pressoché inalterato tutto
quello che di buono e cattivo aveva seminato
in passato. Imbottito di poligoni ed effetti, l’ultimo prodotto di Infinity Ward spacca qualche
mascella, tra le polverose città orientali e
un’incredibile e desolante Chernobyl; digrigna i
denti sparando a video le fantastiche avventure scriptate di qualcun altro, bullandosi con
gli amici di essere tecnicamente ineccepibile.
Poi c’è ritmo, c’è tanta azione, ci sono attacchi
aerei e assalti disperati. Nel minestrone di Call
of Duty 4 ci sono tutte le verdure per farne un
capolavoro, ma a seguire la ricetta spesso non
si va in paradiso e, seppure inattaccabile, al
piatto della guerra moderna manca il tocco in
più del grande chef.
Era la seconda chiamata alle armi. Sdraiato
sulla neve russa, con un tizio ad esortare la
resa dagli altoparlanti e con il fuoco nemico ad
impedirmi persino di alzare la testa, aspettavo
il momento giusto per guadagnare un centimetro. Al mio fianco gli amici morivano, al mio
fianco continuavano a morirne degli altri ma io
aspettavo. La guerra, pensavo, non si vince di
fretta.
Oggi al mio fianco ci sono compagni invincibili, immortali, gente che vedo colpita e che
nemmeno ci prova a cadere a terra morta.
Oggi falcio un nemico dopo l’altro, ma ne arrivano sempre di nuovi. A fiumi si frappongono
davanti a me e io aspetto, con calma provo a
liberarmi di loro. La guerra, penso, non si vince
di fretta ma neppure annoiandosi a morte:
dopo venti minuti e zero risultati capisco che è
il tempo di correre, come Forrest Gump, correre avanti fino ad un punto sicuro e coperto,
qualche metro più avanti, dove io e i miei
amici non-morti sapremo guadagnarci il più
deprimente dei checkpoint.
Call of Duty sembra divenuto un circo, senza
atmosfera, senza tensione, senza sentimento.
E le parole che prima rammentavano gli orrori
della guerra, ora sembrano piatte e vuote perché stavolta si sta solo giocando, nulla di più. E
se è vero che il tempo passa per tutti, dopo tre
seguiti non si ha più voglia di armi luminose e
008
di icone giganti su schermo. Non puoi fare la
guerra vera al banco delle tre palle, questa è la
morale, perché quello che dovrebbe essere
credibile rimane al massimo solo somigliante.
E questo a prescindere da quanti frammenti di
vetro ti cadono in testa durante una sparatoria
o da quanti cani cerchino di morderti la faccia
mentre sei accovacciato.
Era ancora Call of Duty 2 e, con i proiettili a
fischiarmi nelle orecchie, guardavo il mondo
intorno a me e mi sentivo un numero. La
guerra, pensavo, non è fatta per gli eroi.
Oggi uno schiavo mi apre le porte, mi taglia
le reti e si diverte a rubarmi la scena. La
guerra, penso, la vogliono fare senza di me. Ci
si sente inutili, a non piazzare nemmeno la più
banale delle cariche C4. Eppure dovremmo essere qui per quello, per giocare, non per accollarci sulle spalle il peso di un’avventura già
scritta nella quale si entra da leggenda e si finisce comparsa.
A Call of Duty 4 manca il cuore, quello dei
protagonisti insignificanti del passato, arrivati
in guerra con l’unico scopo di tornarsene a
casa il prima possibile. I soldati sono stati rimpiazzati dalle corazze resistenti di eroi perfetti
per un Ghost Recon o un Rainbow Six, dove i
buoni e i cattivi sono schierati in fazioni diverse, senza sfumature, laddove la guerra dovrebbe essere fatta di uomini, non figurine. Più
storia e meno campo di battaglia, insomma,
con un nemico che adesso ha un volto preciso
e una vicenda alle spalle che non riesce ad
emozionare.
All’infuori del livello veterano funziona tutto
meglio, grazie a una sfida più abbordabile che
in qualche modo mitiga i difetti rilevati. Sparare è ancora divertente, l’online funziona a
meraviglia (tranne quando non funziona per
niente) e non è certo di un brutto gioco che
stiamo parlando. Ma fuori dalla finestra c’è una
fisica migliore, c’è un IA dei nemici che non respawna all’infinito e che non spara da dietro ai
muri, ci sono avventure che non ci vengono
soltanto raccontate. Quando si cade a terra, là
fuori, c’è un dolore più grande di un game
over.
7
Tra gli artisti della colonna sonora di COD4
spicca il nome di Harry Gregson-Williams,
già autore delle OST degli episodi di Metal
Gear Solid su Playstation 2.
PERK PER TUTTI
Il sistema di avanzamento online studiato
per questo Call of Duty 4 è decisamente
divertente e vario. Giocando e salendo di
livello e grado, infatti, i giocatori possono
sbloccare tutta una serie di “perk”, abilità
speciali da utilizzare in battaglia. Alcuni
perk sono inoltre sbloccabili solo utilizzando particolari armi, quindi il giocatore
è sempre invogliato a sperimentare tutto
il suo armamentario senza fossilizzarsi
con il primo fucile che gli capita sottomano.
Peccato per qualche problema di troppo
nella ricerca delle partite.
REVIEW
BELLISSIMA MERDA
A
assassin’s creed
genere-azione softco-ubisoft montreal
publisher-ubisoft piattaforma-360/ps3
versione-pal multiplayer-no
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
ssassin’s Creed è figlio di mille promesse,
alte aspettative e sbalorditive presentazioni. Un assassino saltellante e una geniale ambientazione storica sanno come
stuzzicare la folla, ma è un dato di fatto che, in
questo ambiente saturo di minorenni e gente
che scopa poco, si sia parlato più del sedere di
Jade Raymond che non del gioco vero e proprio. Male, perché Assassin’s di promesse ne
mantiene parecchie, ed è solo per ingenuità e
pigrizia se non verrà ricordato negli annali.
Accolti dal miglior tutorial tra quelli che non
sono in grado di spiegarti nulla, il giocatore e/o
assassino prende confidenza con un sistema di
controllo solo a prima vista ostico, ma capace
di regalare nel tempo grandi soddisfazioni.
Poche ciance e in un battibaleno si è buttati
nella mischia, senza saper saltare, senza capire
esattamente dove andare, con troppi tasti da
padroneggiare e una sensazione di totale smarrimento nel cuore. Parrebbe una Caporetto, se
non fosse preciso volere di Ubisoft quello di
farvi sentire abbandonati a voi stessi.
Spaesati, sballottati e confusi, ci si trascina
alle porte della prima grande città ed è lì che, in
un attimo, tutto appare chiaro. Tutto il gioco è
svelato durante il primo omicidio. Di lì in poi
non ci saranno novità, se non marginali, a condurre il giocatore verso il compimento prevedibile delle sue azioni.
Assassin’s Creed gioca a carte scoperte, mostrando il fianco alla ripetitività, con un gioco
che appare spesso il deja vu di se stesso. Che
sia Acri, Damasco o Gerusalemme, ci sarà una
sola via comoda per entrare. Che sia Acri, Damasco o Gerusalemme, avremo sempre il medesimo rifugio in cui poter riposare. Con
missioni tutte uguali e combattimenti sempre
identici, Assassin’s Creed non è certo un capolavoro facile da raccontare. Ma se è vero che
tutto si ripete, è pure innegabile che la noia
non viaggia sullo stesso cavallo del protagonista.
Pulsa la città, cantava Irene Grandi prima di
darle fuoco, ed è nel sapore dolce della vitalità
che il titolo Ubisoft colpisce ai reni, stordisce ed
entusiasma. È con l’incredibile ricchezza di particolari che una stradina di Gerusalemme ti toglie il fiato. È con la credibilità di una
chiacchiera al mercato che Damasco ti ammalia, ed è nel porto di Acri che vorresti un giorno
poter morire. Dopo tante ore e tanti omicidi si
ha ancora la forza di rimanere di stucco, di
fronte alla piccola decorazione scovata a sessanta metri d’altezza sul più insignificante dei
cornicioni.
Tre città troppo grandi per essere conquistate. Troppo grandi, tanto che a partita conclusa si ha la netta sensazione di non averle
spremute al massimo, perché ingabbiate da un
impianto di gioco poco fantasioso. Quanti vicoli,
piazze e nascondigli inesplorati, sprecati,
spesso a malincuore.
Ma è pure grazie a tanta sconfinata esagerazione che il salto automatico di Assassin’s
Creed assume valore e spessore. Con centinaia
di tetti l’uno diverso dall’altro e con milioni di
appigli sparpagliati ovunque, non si tratta più di
saltare nel posto giusto al momento giusto ma
di scegliere in fretta, inseguiti e braccati, il percorso migliore per raggiungere la propria destinazione. L’occhio che vince sulla mano, il level
design che vince sui controlli, l’astuzia che sbaraglia la forza bruta. Con un orizzonte tanto
lontano da rendere l’impresa un’azione sempre
gratificante, svolazzare in aria diventa un’arte,
farlo velocemente una necessità. Tutto con un
solo tasto, tutto in automatico come fosse la
cosa più facile del mondo, ma lo spettacolo
vuole la sua parte e c’è sempre differenza tra
una goffa fuga e il volare sicuro di un fantasma.
E per chi crede che a scappare siano solo i
conigli, arriva l‘arma bianca a ricordare gli eccessi di virilità di un protagonista vestito da
suora. Dimenticato il tedioso sistema di combattimento di Prince of Persia, Ubisoft Montreal
mette in scena qualcosa che si può apprezzare
solo dopo averlo capito. Sempre con pochi
tasti, sempre tutto molto semplice, combattere
tra mosse e contromosse è divertente e spettacolare, tra scene cruente e sangue a fiumi. Il
principiante cercherà di affondare i suoi colpi
col nemico alle corde, l’esperto coglierà l’attimo
dopo un attacco avventato del nemico e in
pochi istanti porrà fine alla tenzone. E se le
cose dovessero mettersi male, via di corsa
verso un nascondiglio sicuro, purché scappare è
da conigli e morire è da cadaveri.
Perché non c’è mai un solo modo di agire. Ce
n’è uno migliore, certo, silenzioso e rispettoso
del credo degli assassini, ma non è mai l’unico.
Se non si vuole programmare nei dettagli un
omicidio, se non si ha voglia di agire nell’ombra, non si viene condannati a morte ma solo
consegnati alle lame del nemico. Lame pronte a
farvi la pelle, pur di difendere la vostra preda.
La via di Rambo è sempre la più semplice,
certo, ma la via dell’assassino regala le vere
soddisfazioni al giocatore che ha saputo scorgere un punto debole nelle difese nemiche.
Assassin’s Creed è una grossa avventura arcade, con regole semplici ed elementari a ricordare che si tratta pur sempre di un videogioco,
anche se in un contesto tanto verosimile da
permettere di dimenticarlo spesso. Per una
volta, ed è strano dirlo di una Ubisoft abituata a
spegnere bombe a tre secondi dalla detonazione, la trama c’è, e si sa far apprezzare. Pur
con un finale insignificante e l’irrinunciabile rimando ad un seguito già annunciato, la storia
di Altair è gradevole, interessante, a tratti prevedibile ma con qualche buon colpo di scena.
Soffia aria fresca, finalmente, adesso entrino
pure i seguiti e le scopiazzature.
8
In rete si comincia già a parlare della possibile ambientazione del secondo capitolo di
Assassin’s Creed: Giappone medievale o Venezia?
GLI SCATTI DI SONY!
Se la versione 360 di Assassin’s Creed
non ha da raccontare chissà quali problemi tecnici, lo stesso non si può dire
della versione Playstation 3. Subito
dopo il lancio, numerosi utenti hanno
lamentato scatti abbastanza fastidiosi,
ma soprattutto un clamoroso bug che
freezava la console con frequenza sospetta. Ubisoft e Sony sono subito
corse ai ripari ed un primo aggiornamento del firmware PS3 (rapidissimo)
ha messo le cose a posto. Scatta la domanda di rito, però, ma provarlo prima
no?
009
REVIEW
GUERRE STELLARI CRESCONO
Q
mass effect
genere-rpg softco-bioware
publisher-microsoft piattaforma-360
versione-pal multiplayer-no
a cura di Vincenzo “Vitoiuvara” Aversa
uasi sicuramente, tra qualche anno, ripensando a Mass Effect e al suo mondo
fantascientifico la prima cosa che mi
verrà in mente saranno i quattro testicoli dei
Krogan. Gente burbera, i Krogan. Gente perennemente incazzata, raramente simpatica ma
sempre efficientissima, in battaglia. E, caspita,
quattro testicoli!
Oppure ricorderò quella moretta con la quale
non mi è riuscito di fare del sesso ma che il
mio amico ha conquistato, perché io e lui abbiamo fatto scelte diverse e le mie, come nella
realtà, sono spesso ignifighe. Chissà se invece
mi tornerà alla mente quel vigliacco di un ambasciatore, o il panorama della Cittadella. Sono
certo, però, non potrò mai scordare una storia
che, per una volta, era complice e non vittima
dell’azione ludica. “Innamorato”, come direbbe
un gigante azzurro con problemi ad emozionarsi.
Vomitati di getto in una galassia straordinariamente grande, senza uno straccio di tutorial, si sbatte presto il muso contro un sistema
di avanzamento del personaggio – e della
squadra in generale – in apparenza troppo
macchinoso e complesso. Incapaci di effettuare
le giuste contromosse, sul campo di battaglia
si finisce subito a gambe all’aria, bastonati
anche dal più innocuo e insignificante dei nemici. Ma niente paura: dopo “appena” quindici
ore di gioco tutto appare finalmente chiaro, tra
gelatine e poteri speciali, ma resta l’amarezza
per qualche ora sprecata nella confusione di
una curva di apprendimento mal calibrata. A
peggiorare il tutto, una squadra di compagni
inizialmente dediti al suicidio di massa, incapaci di fare pace con i pochi e semplici ordini
impartiti dal giocatore e troppo spesso vittime
delle sue stesse azioni. Passerà, migliorerà, ma
poteva andare meglio.
Ma è mentre si scende a patti con il sistema
di controllo e con l’”arguzia” dei propri compagni, che la valanga di Mass Effect ci travolge e
costringe a dimenticare le perplessità. Ancora
a passo incerto, si giunge nella Cittadella, dove
una storia comincia a delinearsi, dove i protagonisti cominciano ad avere un nome e dove le
parole cominciano ad avere un’importanza.
Impreziosito dal miglior doppiaggio italiano di
sempre, l’ultimo tesoro di Bioware mette in
scena una carrellata maestosa di razze aliene e
intrugli umani; dona loro un credibile bagaglio
di storie passate e li presenta al giocatore lasciandogli la possibilità di scoprirli quanto più a
fondo preferisca.
Ma la valanga di sopra è soprattutto una
trama emozionante, epica e appagante. Stavolta si fanno scelte importanti, incredibilmente importanti, ed è mentre si decreta la
vita o la morte di qualche amico che si comprende quanto si sia rimasti coinvolti a fondo
010
nelle vicende di Shepard. Stavolta non c’è
Sephirot a pugnalare la dolce Aeris davanti ai
vostri occhi, ma il peso delle responsabilità a
costringerci a prendere decisioni difficili.
Una storia divisa in modo netto tra quest
principali e secondarie, dove le prime non
smettono mai di brillare ma le seconde appaiono già dopo poche ore di gioco l’una la
copia dell’altra. Solo qualche minerale da trovare, una montagnola da scalare in Lambretta
o una base nemica da ripulire a suon di fuoco e
poteri biotici. Sembrerebbe nulla, e probabilmente rimane poco, ma ci si può perdere a
guardare la Terra dalla Luna, o a riscaldarsi
con l’alba di chissà quale sole in chissà quale
galassia. Senza poesia, restano solo un gruppo
di nemici da accartocciare e qualche miliardo di
oggetti da collezionare. Centocinquanta souvenir da conservare con fare sbarazzino nelle tasche dei propri jeans.
La colonna portante dell’esperienza, però, è
la gestione intelligente del proprio gruppo, capace di trasformare la monotonia di scontri
troppo simili tra loro in divertenti palestre d’allenamento. Ognuno dei sei personaggi del proprio team, Sheppard escluso, gode di
caratteristiche peculiari legate alla sua razza, e
ne acquista di diverse in base al modo con il
quale si sceglie di far progredire le sue abilità.
Naturale, quindi, che si vengano a creare una
infinità di possibilità tra le quali scegliere con
accuratezza per sfruttare al massimo le capacità di ognuno.
Mass Effect è più difetti che qualità, quando
lo vuoi raccontare, ecco la verità. Un universo
fatto di scatti, missioni troppo simili tra loro,
dialoghi a volte guidati e compagni da prendere a pizze in faccia. Ma è un universo, vero,
con tante vite e tante storie ad intrecciarsi
l’una sull’altra. Ecco la verità, Mass Effect pugnala alle spalle il videogioco così come Silent
Hill lo terrorizzava. Si è parte del gioco, non
giocatori, si è asso di coppe e non il vecchietto
con la birra. Sono un romantico, questo è vero,
ma tra la galassia perfetta, quella da undici, e
quella troppo scattosa e imperfetta di Mass Effect, preferisco sempre la seconda, perché mi
riempie, perché dai videogiochi so di poter
avere di meglio di quanto possa darmi un pallone di cuoio o il dolce forno: emozioni, non
giocattoli.
9
I salvataggi automatici del gioco vanno
dall’inutile al delirante. Salvate spesso. Io
ve l’ho detto.
UN FUTURO DA PUTTANA?
Mass Effect è solo il primo episodio di una
trilogia (chi ha detto ammazza che palle?)
che doveva, almeno inizialmente, vedere
la luce esclusivamente su Xbox 360. Il recente accordo tra Electronic Arts e
Bioware, però, getta più di qualche ombra
sul futuro da esclusiva della serie, anche
se gli sviluppatori giurano (e giurello) che
il loro rapporto con Microsoft non subirà
alcun cambiamento.
Una cosa è certa: un futuro multipiattaforma non potrà che fare del male ad
un motore di gioco già traballante di suo.
REVIEW
IL PROFUMO DEI SOLDI
T
final fantasy xii revenant wings
genere-rts softco-think and feel
publisher-square enix piattaforma-DS
versione-usa multiplayer-no
a cura di Michele “Guren no Kishi” Zanetti
ipica espressione della consueta pratica di
“mungitura franchise” adottata da una
quantità di publisher, che spesso produce
giochi mediocri non all’altezza dell’illustre capostipite di cui sono seguiti o spin-off, FFXII Revenant Wings giunge “finalmente” in versione
americana sul piccolo parallelepipedo Nintendo.
In luogo del monolitico JRPG misto MMORPG
apprezzato su PS2, ci ritroviamo per le mani un
RTS comandato quasi totalmente via touch
screen. A causa di ciò lo schermo superiore è
sempre occupato dalla mappa del luogo dove ci
troviamo, mentre quello inferiore ospita l’azione
di gioco. In qualsiasi momento, tuttavia, le immagini sui due schermi possono essere scambiate tramite pressione dei dorsali: un’opzione
molto utile per esplorare velocemente la mappa
con l’uso del pennino, decisamente più reattivo
rispetto ai tasti direzionali, e per farsi un’idea
riguardo una quantità di altri fattori. La posizione delle unità avversarie, il layout generale,
eventuali casse del tesoro, agglomerati di minerali estraibili o la presenza di Gate sono tutti
elementi facilmente individuabili pennino alla
mano.
I Gate, soprattutto, risultano essenziali poiché da essi – dopo averli conquistati - è possibile richiamare orde di Esper da affiancare alle
truppe già presenti in campo. Gli Esper più potenti possono infatti essere convocati soltanto
tramite i Gate, al contrario di quelli più scarsi
che appaiono subito nelle vicinanze di ciascuno
dei leader di ogni squadra (dopo averglieli assegnati in una apposita schermata prima dell’inizio della battaglia).
Gli Esper sono composti da mostri ben conosciuti, come Chocobo, Atomos, Ifrit, Shiva,
Bahamut e moltissimi altri. Ogni mostro è stato
fatto rientrare in una categoria particolare, che
determina attacchi da corpo a corpo, volanti o
dalla lunga distanza. Queste tre categorie funzionano con lo stesso rapporto che intercorre
nel classico gioco sasso-carta-forbici, e aggiungono un pizzico di strategia a battaglie fin
troppo semplici, la cui difficoltà dipende unicamente dai livelli di esperienza degli avversari
superiori ai vostri (o dall’IA suicida di alcuni PG
che è necessario proteggere, nonché da una
velocità di evocazione da parte delle truppe gestite dalla CPU fin troppo elevata).
Ogni singolo Esper dispone di una sola abilità
speciale, mentre i leader ne vantano numerose;
purtroppo è possibile assegnarne solo una per
volta nel diagramma dei Gambit, un limite che
costringe spesso a cambi di programma repentini.
Nel caos dell’azione e nel marasma di rallentamenti su schermo, scegliere l’unità specifica a
cui dare ordini si rivela un’impresa, come anche
spesso selezionare un gruppo di unità racchiudendole all’interno di un “quadrato” tramite
pennino. Davvero poco pratico, rispetto a
quanto si sarebbe potuto fare cambiando la
forma della selezione in un semplice e veloce
“cerchio”.
Per il resto il gioco scorre via piuttosto velocemente, attraverso una serie di missioni poco
fantasiose e affossato da una storia dai toni totalmente diversi rispetto agli eventi passati, rivolta palesemente ad un pubblico di
giovanissimi: piena di buoni sentimenti, priva di
mordente e incapace di suscitare emozioni più
forti di un possente sbadiglio.
A ciò si aggiunge una realizzazione tecnica
che vanta una palette di colori molto buona, ma
esibisce personaggi e Esper bidimensionali e
dalle fattezze microscopiche. Da un lato, un
piccolo plauso va ai grafici per aver reso facilmente riconoscibili sprite di pochi pixel, dall’altro è innegabile come il design di alcuni Esper
risulti davvero antiestetico (anche se funzionale). La regia, inoltre, pur non essendo molto
sofisticata è comunque in grado di combinare
disastri: al minimo zoom gli sprite spixellano
paurosamente, scalette compaiono quasi ovunque e la grafica si “impasta”. Per problemi di
spazio, poi, i vari Full Motion Video hanno una
compressione solo discreta, mentre la rappresentazione animata dei colpi speciali (Quickenings) esibisce dei quadrettoni di una bruttezza
imbarazzante. Ancora, nei filmati i personaggi
sembrano fatti di pongo e dimostrano tutti una
decina di anni in meno (Bash in particolare) e
non va certo meglio con gli artwork, ben poco
ispirati, che accompagnano i dialoghi.
Gli effetti speciali variano parecchio, passando da esplosioni realizzate con uno stile che
più vecchio non si può a lampi di luce, fiamme
e altro per fortuna di ottima fattura. Effetti sonori su cui chiudere entrambe le orecchie e una
colonna sonora totalmente riciclata e riarrangiata in peggio dalla versione PS2 chiudono il
cerchio.
Il gioco è discretamente lungo, presentando
una notevole quantità di missioni extra - alcune
eseguibili solo in determinati momenti - alle
quali si affianca la possibilità di rivisitare quasi
tutti gli scenari per affrontare nuove e speciali
battaglie (utili per racimolare materiali usati e
forgiare armi sempre più forti, accumulare
qualche soldino e migliorare le caratteristiche
del proprio party).
Vi è anche un finale segreto a cui si può accedere completando tutte le missioni, ma non
dovreste impiegare più di una cinquantina di
ore per vedere tutto. Sempre che, visto il suo
status di seguito non proprio necessario e inevitabilmente irrispettoso del capostipite, Revenant Wings non vi costringa ad abbandonarlo in
anticipo per noia. Ed è pure probabile che i fan,
prima o poi, si troveranno ad ingoiare almeno
un altro “dodicesimo” boccone…
7
Le singole unità attaccano automaticamente i nemici nelle vicinanze. Alle volte se ne vanno a zonzo
da sole e finiscono per cadere in qualche imboscata, ma la cosa peggiore è che si intralciano le
une con le altre, capendo solo dopo vari ed inutili
tentativi che se che quel figlio di un Chocobo non ti
lascia passare forse è il caso aggirarlo. Kupo!
NAVI E COMPARSE
In RW la nave pirata serve a spostarsi tra i vari
continenti volanti, sui quali sbarcare per poi dirigersi a piedi verso la prossima destinazione.
Non vi sono città da esplorare, ma l’interno
della nave è dotato di negozi utili per acquistare
e vendere materiali, armi e armature.
La nave ospita, inoltre, la forgia del Master
Artificer Cu Sith, probabilmente il personaggio
originale più interessante di Revenant Wings,
anche più della new entry Llyud che combatte
al vostro fianco. Sorprende che Filo e Kytes
siano stati promossi da semplici comparse a
comprimari di tutto rispetto, davvero utili nelle
varie azzuffate (ma meno graditi come macchiette comiche); delude il ridimensionamento
immeritato di personaggi come Ashe e Bash,
con un Larsa buttato nel calderone tanto per
fare.
011
REVIEW
L’ANELLO MANCANTE
C
halo 3
genere-fps softco-bungie publisher-microsoft
piattaforma-360 versione-pal multiplayer-si
a cura di Alvise “Kintor” Salice
orto. Banale. Tecnicamente mediocre.
Ludicamente riciclato. Eppure, grandioso.
E’ il capolavoro con cui Bungie conquista
il mondo dei fragger, ancora una volta. E’ la
più seria ipoteca che Microsoft getta sulla
torta dell’online gaming. Halo 3 cala il sipario sulla saga di oramai maggior successo
nella storia degli sparatutto, regalando al
suo vasto ed eterogeneo pubblico forse non
proprio tutto ciò che aveva sempre desiderato… ma andandoci paurosamente vicino.
Il delirio di onnipotenza provocato dal frusciante “fuck” elettromagnetico che pronuncia la energy sword mentre affonda nelle
carni aliene; la ferocia kamikaze del dual
wielding che ti manda in berserk coniugando plasma e proiettili; la scossa adrenalinica del colpo di sniper rifle, dito divino
con cui fingersi un Altair fornito di orgasmiche possibilità balistiche; le care, vecchie,
bastarde granate al plasma; l’incommensurabile arroganza del cingolato Scorpio, e la
sua disinvoltura nell’annientare interi plotoni da siderali distanze. Tutti gli strumenti
che avevano permesso ai precedenti Halo di
forgiare battaglie virtuali di rarissima intensità, tornano qui in una veste riveduta, corretta, e soprattutto amplificata a
meraviglia. La scala d’azione s’ingigantisce
a dismisura, le situazioni si diversificano apprezzabilmente, l’ambientazione cede stavolta poco spazio agli antichi vuoti
d’ispirazione (pur ancora presenti), e sfiora
invece, qua e là, picchi accademici di level
design. Un ritmo di gioco a tratti pazzesco
non v’impedirà quasi mai d’interpretare
Halo 3 secondo svariate filosofie offensive:
da quella più tattica del silente chirurgo, a
quella più rambesca del quaker consumato,
ambedue foriere di copiose soddisfazioni, al
pari dei tanti altri approcci più o meno ibridi
che saprete cogliere nel mezzo. In ogni
caso, capiteranno di rado momenti in cui
avrete un’unica soluzione per fare piazza
pulita dell’aliename ostile, e spesso sarà
soltanto perché qualche solerte tiratore
scelto vi avrà già selezionato come bersaglio, senza darvi il tempo di respirare e
pensare. Talvolta, invece, sarà lo stupore a
bloccarvi qualche secondo, difronte ad autentiche orde armate fino ai denti, o ai ciclopici Scarab (o perché no, ambedue in
contemporanea). E ai livelli di difficoltà più
elevati, non c’è nulla di meglio della saliente
gratificazione che accompagna il progredire
del vostro successo, mentre tessete circo-
012
spetti un’inesorabile scacco matto, o danzate con coraggio donchisciottesco sotto il
ventre del mostro meccanico.
Dall’excursus sociopolitico in cui si avventurava il secondo capitolo, e da ambizioni
narrative che avrebbero richiesto i benefici
di un talento registico e sceneggiaturiale
evidentemente fuori dalla portata dei suoi
autori, Halo 3 retrocede di un passo, verso
un taglio sci-fi più tradizionale, che racconta
in modo piatto, ma globalmente efficace, la
nostra terza sortita contro i Covenant, accarezzando al contempo le classicheggianti
forme di una love-story (con alterne fortune). Protagonista di una space opera dal
respiro tanto ampio quanto semplicistico, è
naturalmente ancora Master Chief, cavaliere
senza macchia e senza paura del 26° secolo. Il suo volto, si sa, resta sempre nascosto. La sua voce, disgraziatamente, è
invece udibile: fornendogli il meno azzeccato dei doppiatori possibili, la localizzazione italiana affossa in modo irreparabile
un avatar che, altrove, incardina il suo notevole successo in un mix di arrogante banalità e carismatica fierezza; cocktail a
nostro gusto vincente nell’odierno panorama videoludico, ormai saturo di quei pretenziosi antieroi tanto affascinanti ed
originali negli anni ’90.
Se il senso di nausea prodotto dal pessimo commento vocale nostrano è accompagnato dal rimpianto per l’assenza del
parlato originale (caldamente suggerito a
chiunque mastichi l’inglese e possa procurarsi la versione UK), tutto il resto del comparto sonoro funziona, viceversa, da
poderoso generatore di coinvolgimento ed
esaltazione: basta saggiare un campionario
dei brani o degli effetti, nonché testare la
misura in cui questi ultimi incrementano le
possibilità ludiche mentre escono dai diffusori, per capacitarsi dello spessore di un lavoro che, nella fattispecie, teme davvero
ben pochi confronti.
Difficile entusiasmarsi, invece, per le doti
grafiche di Halo 3. Se la cosmesi del capostipite, oltre a spegnere le altrui velleità
tecnologiche nella scorsa console war, fu rivoluzionaria perché mostrò le incredibili potenzialità delle inedite GPU shader based, i
due sequel non sono riusciti a ribadirne
l’impatto. Ma laddove ciò era comprensibile
con Halo 2, che faceva scricchiolare gli ingranaggi di una macchina non lontana dal
tramonto, risulta invece un po’ deludente
constatare come il nuovo episodio sfrutti
Impeccabile l’interfaccia di controllo, che
modifica lievemente la mappatura conosciuta nei capitoli per Xbox, riplasmandola
in modo esemplare attorno al pad del 360.
BEST SOUNDTRACK EVER?
Una grande esperienza videoludica può
forse prescindere da una realizzazione
tecnica all’avanguardia, ma non da
un’epica colonna sonora. Tutta l’arte di
Martin O’Donnell, già autore delle OST
della saga di Myth, di Oni e dei precedenti Halo, ritorna viva e scalciante
nell’ultimo lavoro Bungie. A tratti, il celebre main theme vi apparirà legittimamente un po’ abusato: ma nelle
memorabili sensazioni che proverete ad
ogni sua nota durante l’incedere della
lotta, troverete la ragione del suo ripetuto sfruttamento.
Nella seconda
metà della
campagna,
potrete scovare bizzarri
terminali da
cui ricavare
frammenti di
storia dell’universo di Halo
REVIEW
in modo solo altalenante un hardware su
cui girano molti fra i più spettacolari titoli
attuali. E a causa dell’avanguardia visiva
esibita da questi, diventa arduo chiudere gli
occhi davanti ai pesanti compromessi (rozzo
anti aliasing, inadeguato LOD, limitata modellazione poligonale, risoluzione non HD)
cui Bungie è scesa pur di presentare enormi
battaglie e magniloquenti ambientazioni,
uno smisurato HDR ed un texture mapping
talora mozzafiato.
D’altro canto, è essenziale sottolineare la
disinvoltura con cui la saga conserva il primato tecnico che più l’aveva resa celebre:
l’Intelligenza Artificiale. Algoritmi raffinatissimi governano il comportamento di ogni
singolo personaggio, donando soprattutto ai
nemici un realismo ed un dinamismo di livello semplicemente magistrale. Vuoi per
l’impressionante bontà di ciascuna IA presente su schermo, vuoi per la generosa
quantità delle stesse, qualunque smaliziato
giocatore troverà in Halo 3 molte fra le situazioni di combattimento più vive e rigogliose a memoria di FPS. Tantopiù se avrà
l’accortezza di sostituire i commilitoni virtuali con compagni umani: nel generoso
nettare ludico profuso dall’opera Bungie, il
cooperative mode (fruibile addirittura in 4)
costituisce la suprema primizia, che, grazie
anche ad un folto carnet di variabili con cui
personalizzare l’esperienza, è capace di trascendere sia l’intrinseco tetto di competizione del gioco in singolo, sia le altrettanto
ovvie limitazioni di profondità del versus.
Quest’ultimo, considerabile sulla lunga distanza come la vera portata principale del
banchetto, nonché la sorgente della ragguardevole longevità di Halo 3, si articola
secondo un nutrito set di modalità, congegnato in maniera egregia: è disarmante la
rapidità con cui si riesce a creare o trovare
il match desiderato, scegliendone i dettagli
organici (come il tipo di partita, dal “massacro tutti contro tutti” al “cattura la bandiera
a squadre”) ed ordinandone le priorità
strutturali (ad esempio, privilegiando la
qualità dell’host o ricercando il livellamento
dell’abilità dei partecipanti). Il funzionamento ad orologeria dei server non fatica a
garantire la messa al bando dei lag, clandestini assai rari perfino nei match più popolati. La qualità del contenitore consente
dunque alla sua sostanza di esprimere tutta
la propria virtù: e come per ogni gioco multiplayer degno di rispetto, l’ingresso nel
regno dell’online presenta un Halo 3 ancor
più adrenalinico e gratificante della sua con-
troparte single player. Fra l’impressionante
bilanciamento di armi e veicoli, la certosina
progettazione di mappe dalle planimetrie
più disparate, e la discreta varietà di opzioni con cui assecondare lo stile personale,
è impresa ardua non trovarvi una propria
dimensione ideale.
Eppure, è possibile che per qualcuno non
sia ancora abbastanza. La risposta di Bungie, per voi incontentabili, si chiama Forge.
Novità per eccellenza, la Fucina è una convocazione per la vostra inventiva. Un editor
di mappe dalle possibilità interattive non
straordinarie, ma comunque decisamente
importanti in considerazione della sua assoluta inedicità nel campo console, e ancor
più della sua fruibilità multiplayer: potrete
essere 8 aspiranti ingegneri e provetti prestigiatori, che gestendo un apposito budget
virtuale cooperano alla rinnovazione di una
delle arene prefabbricate (modificando la
disposizione di più elementi, introducendone di nuovi ed eliminandone altri), per
poi utilizzarla in partite multiplayer dall’alto
grado di customizzazione; ma è bello anche
battagliare nel cantiere, dislocando trappole
o dispensando bazooka e carriarmati, secondo quanto vi suggeriranno la fantasia e
l’istinto casinista.
Tutte, ma proprio tutte, le esperienze che
vivrete in Halo 3, non dovranno necessariamente venire abbandonate nel limbo fitto
dei ricordi. Mentre voi starete affrontando
un qualsivoglia genere di partita, un angelo
custode rannicchiato fra i transistor di Xbox
360 ne registrerà anche i più piccoli particolari. E cliccando sulla voce Cinema, potrete
accedere al relativo filmato, così da rivederlo, editarlo, catturarne fotogrammi, salvarne una copia, condividerlo con qualcuno.
Perché quella dannata volta che vi sarà finalmente riuscito di centrare due Moongoose carichi di strafottenti yankee con un
sol colpo di Spartan Laser, diverrà bisogno
primario mostrarne al mondo i culoni detonanti…
Halo 3 è grosso, è cool, è potente.
Assedia il giocatore nella sua area di rigore, lo attacca senza respiro, ora per vie
centrali, ora dalle fasce, finché non ne trova
inevitabilmente il punto debole. E allora
sfonda ogni difesa, travolgendolo senza
sosta con un concerto di modalità e situazioni ludiche, che per varietà e qualità complessiva si ritaglia di prepotenza un posto al
sole sull’Olimpo delle produzioni next-gen.
9
Col pulsante blu non ricarico più
Nei mesi precedenti l’uscita della Beta
Multiplayer pubblica, si è rumoreggiato
parecchio sulla nuova, fantomatica funzione assegnata al tasto X. Chi supponeva uno sprint, chi ipotizzava un
jet-pack, chi sperava in una svestizione
istantanea con conseguente fuga di tutti i
cattivi alla vista del Capo senza mutande.
Invero si tratta dell’equipment, un aggeggio di vario genere (sollevatore gravitazionale, rigeneratore, scudo a bolla…)
ritrovabile perlopiù nei pressi dei cadaveri
nemici. Di rado risulta significativamente
utile, ma la sola idea di potersene servire
è abbastanza suggestiva da incoraggiare
a portarsene sempre uno appresso.
Flood e Covenant. Flood contro Covenant. Parassiti immondi da una parte,
civiltà più evolute della nostra dall’altra. E’ stupendo appartarsi in qualche
anfratto, ammirando le rispettive IA
confrontarsi in combattimento.
013
UNDERRATED review
SI PRONUNCIA CRI, IMBECILLE!
A
the mark of kri
anno-2002 softco-san diego studios
publisher-scea piattaforma-ps2
genere-stealth/browler
a cura di Giovanni “Giocattolamer” Donda
differenza di quelle del Signore, le vie di
un barbaro non sono infinite. Tutt'altro.
Egli una sola ne conosce, quella delle cattive. E Rau, barbaro tutto di un pezzo ancor
prima che protagonista indiscusso di The Mark
of Kri, non fa eccezione. Ci aggiunge anzi del
suo: con le cattive e silenziosamente. Esatto,
MoK è uno stealth game, e come un ammasso
di muscoli simile possa passare inosservato è
solo il primo dei due paradossi in cui ci imbatteremo. Questo ha il particolare scopo di attirare
l'attenzione verso il nostro voluminoso simulacro, e il suo uccello. Il nero rapace Kozu, annunciatore ben presto di sfortuna altrui, veste i
panni del narratore e ci invita innanzitutto a
metterci comodi. La solita storia di simboli inventati e lande in difficoltà verrà da lui narrata
con delle godibili, seppur poche, illustrazioni da
tipico animatore allontanato dagli studi della Disney. Ma il perché di The Mark of Kri risiede ben
lontano dal suo stile grafico, qui mero specchio
per le allodole nella sua seppur encomiabile ricerca di una specifica caratterizzazione del prodotto. Invece, il pargolo dei San Diego Studios
la sua originalità finisce per trovarla in ben altri
risvolti, e al giocatore non rimarrà che rendersene conto quando, fatto muovere i primi passi
felpati a Rau, indulgerà con le cattive e silenziosamente. Per poi, invece, morire una morte disastrosa.
Per quanto l'esigente Baumuso vi possa aver
istruito alle vie della spada, al sicuro di un hub
camuffato da tranquillo villaggio cimmerio, là
fuori è tutto un altro paio di maniche. The Mark
of Kri è difficile, forse difficile e giusto; ma
anche fosse, un tutorial che si dimentica di accennare all'esistenza di altre combo oltre a
quella base è il primo segno di quanto poco abbiano tirato a lucido un prodotto che del resto
perde bug da tutto il codice. Così il primo livello
scorre via senza che si riesca a capire come mai
una macchina da guerra come Rau abbia bisogno di un loquace pennuto, che sembra buono
solo a premere levette comodamente poste al di
là di invisibili collisioni di scenario. Ma nel frattempo lo spadone fende l'aria, due colpi a destra, tre a manca, e ancora non si ferma, in
un'unica fluida animazione che atterra tre avversari abilmente presi di mira, letteralmente,
durante un epico studio delle pose avversarie.
Presto la frustrazione di non aver capito nulla
delle meccaniche stealth viene rimpiazzata dalla
semplice gioia di essere al comando di un Conan
di ancora meno parole. Ah, questo è bene. Spavaldo, Rau è ora pronto per mettere in pratica
un'altra delle sue abilità. Riposa così lo spadone
e libera le mani per rispedire al mittente il colpo,
nonché tutta l'arma, del prossimo stolto sul suo
cammino di guerra. Per poi, invece, morire una
morte ridicola.
Capire il sistema di combattimento implementato in The Mark of Kri è semplice quanto ruo-
014
tare la levetta analogica destra. Sfruttarlo a dovere, però, è difficile quanto attingere ad un’abilità rimasta sopita dal vostro ultimo
combattimento in Bushido Blade 2. La calma, il
saper abbandonare un'incredibilmente generosa
guardia al momento giusto. Perennemente circondato, tentare un prematuro contrattacco significa mostrare il fianco di Rau a una valanga
di attacchi da ogni lato. Era il 2002, dopotutto,
le frecce direzionali muovevano ancora i personaggi e Assassin's Creed non era neanche uno
spermatozoo nel testicolo destro di Patrice Désilets. Qui nessuno chiede il permesso prima di
aprirti in due sotto i vigili occhi di Kozu. E se si
fosse dato retta al pennuto, nonché imbracciato
l'arco al posto della spada, di fronte a noi si sarebbero finalmente aperte le limitate, ma efficaci possibilità offerte dalle meccaniche stealth
di The Mark of Kri. Mandare in avanscoperta il
nostro famiglio diventa una scorciatoia ludica
aperta a chi vuole dare un’ulteriore possibilità
alla feature più abusata della vecchia generazione di console. Per tutti gli altri c'è sempre la
via del metallo, e poi, probabilmente, morire
una morte combattuta fino all'ultimo.
Ci vogliono sei livelli, tanti quanti ne offre, per
capire cosa The Mark of Kri abbia di meglio da
dare, e di peggio. L’ascia, l’ultimo strumento di
distruzione a essere consegnato a Rau eppure
quello in base al quale il sistema di combattimento è stato creato, viene introdotta soltanto
nell’ultimo livello, dove tutto quello che ci è richiesto di fare è smembrare orde su orde di nemici. Un tedio che vi farà sembrare la modalità
arena - sbloccabile durante il main quest, vedi
box “Qual è il meglio della vita?” - il più ispirato
fra gli espedienti videoludici di allungo minestra.
Una sequela di stanze prive di alcun elemento
strategico, dove Rau sarà prima o poi costretto
a macchiarsi del peccato primordiale, la fuga.
Neanche l'introduzione delle armi da fuoco in
Manhunt aveva saputo mancare di rispetto alle
proprie meccaniche di gioco in ugual misura.
Ma con lo stare al gioco arriverà anche il riscatto finale, una volta al cospetto dell'ultima
insidia (che una sola non è). Spalle al muro e
con un'ultima mandria di nemici tra lui e gli
unici avversari alla sua altezza, Rau dovrà finalmente fare a meno di fuggire e sfogare la propria delusione sfoderando per un'ultima volta
l'amata ascia. Ci fossero più poligoni, un sorriso
riaccenderebbe il volto di Rau, il buon Baumuso
sarebbe orgoglioso di lui quando ci viene annunciato che abbiamo reciso il sessantesimo torso.
Ma dinanzi all'ultimo dei baluardi del male, barcollanti ma sempre in piedi, saremo noi a sorridere, perché sappiamo cosa lo renderebbe
davvero felice, quel vecchio bastardo. Spavaldi,
metteremo via l'arma e lo attenderemo a braccia aperte. Per poi, ovviamente, morire una
morte da vero barbaro.
6
Dimostrazione pratica del secondo paradosso
offerto da The Mark of Kri. Con un poco di zucchero disneyiano la violenza va giù che è una
bellezza. Ma al primo volteggio di spadone
smetterete anche voi di pensare a Rau come a
uno scarto della sceneggiatura di Mulan.
QUAL’E’ IL MEGLIO DELLA VITA?
Schiacciare i nemici è cosa buona e giusta, ma non basterà a soddisfare Baumuso, il maestro d'armi del taciturno
Rau. Bisogna farlo nel modo giusto.
Ogni livello avrà delle sfide alternative,
degli obiettivi prefissati dal vecchio ciccione per vedere come se la cava il proprio diletto sul campo di battaglia.
Soddisfare i suoi vizi ci farà sbloccare
qualche extra che nulla farà per mitigare
il rimorso di aver appena fatto l'impossibile alle proprie vittime. Poter usare il livello appena completato nella modalità
arena è fra questi. Peccato che detta
modalità faccia a malapena rima con
survival mode.
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illy Hatcher and the Giant Egg è la
prova che c’è stato un tempo, dopo i
primi disastrosi risultati della SEGA
senza più i numeri per produrre hardware,
in cui Sonic Team ha provato a fare qualcosa che non fosse direttamente riconducibile all’abusato universo del riccio blue.
Per carità, lo stile di character ed enemy
design e alcuni tratti di game design –
quali i livelli “a tubo” e i tratti a percorrenza veloce – distinguono anche questo
gioco, come tutti quelli dei Sonic 3D e
anche il vecchio e caro Nights. Meccaniche
di gioco semplicistiche e una certa
schizofrenia del sistema di controllo costituiscono anche qui un marchio di fabbrica,
così come i colori pastello e l’orgia di creature pelose e più o meno improbabili che
fanno da contorno al protagonista vestito
da pollo. Eppure Billy Hatcher non vuole
abbandonarsi all’inconcludenza tipica del
game play di gran parte della produzione
3D di Sonic Team. Vuole invece, con azzardo ma senza arroganza, tentare l’amplesso con una filosofia molto diversa,
quella di Nintendo e del suo Mario. E non
v’è dubbio che vi riesca, sotto vari fattori.
1) Per quel che riguarda la struttura di
gioco: una manciata di livelli, divisi in missioni, aventi come fine la raccolta di particolari emblemi (funzionalmente analoghi
alle stelle di un Mario 3D), che aumentando di numero aprono la via a i livelli
successivi. 2) Per la varietà di gioco, qui
s
di Federico Re
rappresentata da missioni spesso – non
sempre – diverse tra loro, che tentano nel
loro piccolo di sfruttare il semplice design
dei livelli per offrire un divertimento
costante. 3) Per la varietà del game design, fondato sulla manipolazione di uova
giganti grazie alle quali Billy è in grado di
prodursi in una varietà di azioni speciali –
come salti e spanciate, attacchi “a
boomerang” e quant’altro – e usufruire dei
poteri di alcuni preziosi animaletti, che
vomitano fuoco ghiaccio e scintille divenendo essenziali per la risoluzione di alcuni
passaggi.
Billy Hatcher è una specie di Mario in
miniatura, dove le piccole dimensioni però
non riguardano solo i livelli o la manciata di
ore necessaria a completarli tutti, ma
anche la caratura dell’esperienza tout
court. Del resto, Sonic Team non ha mai
dimostrato particolari doti nel creare i suoi
giochi, e quel che funzionava nei vari titoli
dedicati a Sonic si è dimostrato praticamente fine a se stesso. E comunque, non
era nemmeno nelle loro intenzioni rivaleggiare con Mario (a meno che non fossero
usciti di testa), e nel loro piccolo, per citare
Videogiochi, hanno sfornato una bella pizza
con qualche simpatica verdurina qua e là.
Una pizza che avrete trovato sugli scaffali
dei vari Game Stop a pochi euro, ma che
per l’alone da GdM avete sempre evitato:
dateci un morso la prossima volta. Una
manciata di euro li vale eccome.
BILLY HATCHER AND THE GIANT EGG
2003 SEGA SEGA
next month!
SHADOW THE HEDGEHOG
2005 SEGA SEGA
S
016
hadow the Hedgehog è la prova che
c’è stato un tempo, che in parte perdura tutt’ora, in cui a SEGA fregava
meno di niente di rendere godibili i propri
giochi e si dava invece da fare per cogliere
i peggiori trend del momento e ad essi affidarsi come sul filo di un rasoio. Non altrimenti si spiega l’orrore videoludico che
Sonic Team partorì con questo Shadow the
Hedgehog, che dietro un protagonista e un
brand (semi)nuovi avrebbe dovuto rilanciare l’universo del porcospino blu, non più
in auge da tempo (ma, fino a Sonic Heroes,
ancora divertente).
Non si spiega altrimenti perché, all’impianto di gioco buggato e criticato di
Sonic Heroes, non solo non furono apportate migliorie di alcun genere, ma al contrario si ebbe lo sfrontatezza di presentare
un prodotto ancora peggio carrozzato, con
un sistema di controllo più viscido e insidioso che mai e un circuito di telecamere
sempre più sbilenco. Per non parlare poi
dei drammatici cali di frame rate che affliggevano soprattutto la versione PS2, una
delle tante novità negative del prodotto, o
dell’abbozzata story line che tentava nel
modo peggiore di aggiungere valore ad
un’esperienza irritante.
Ma la cosa peggiore, quello che dimostrò
il marciume della SEGA dell’epoca in modo
lampante, fu la scelta di dotare il protagonista di tutta una serie di armi da fuoco,
che avrebbero dovuto variegare in qualche
modo un gameplay di suo vecchio e fallato.
In ciò c’era la strizzata d’occhio al successo
delle meccaniche action dei fortunati
Ratchet&Clank, da una parte, e quella più
malefica alla fama planetaria delle volgarità
di Grand Theft Auto, dall’altra. Fu ovviamente sulla facciata di quest’ultimo
prodotto, che si concentrarono gli sforzi
della SEGA assatanata dell’epoca. La campagna pubblicitaria insisté nel mostrare
l’istrice rossonero in sella ad una motocicletta dal design realistico, con in mano fucili e pistole dall’apparenza estremamente
realistica.
Shadow era il lato oscuro, del resto: un
design più cupo e deprimente (in tutti i
sensi) caratterizzò ogni aspetto del gioco,
dall’estetica alla struttura dei livelli. Le
meccaniche subirono la sudditanza del nutrito armamentario a disposizione del riccio, fondandosi spesso su scontri a fuoco di
una banalità e piattezza disgustose. I problemi tecnici fecero il resto. Non solo un
gioco mediocre, ma proprio un gioco di
merda.
Sebbene pure il successivo tentativo di
dar nuova vita all’universo di Sonic (Sonic
the Hedgehog per PS3 e 360) sia da dimenticare, è probabilmente Shadow il
fondo del barile in cui Sonic Team ha grattato per un bel pezzo. Totale mancanza di
idee, attenzione nulla per la qualità del
prodotto, priorità ad una campagna promozionale stomachevole. Vi sarà capitato,
sugli scaffali di un qualche Game Stop, di
trovare qualche copia di Shadow the
Hedgehog a pochi euro. Non ci pensate
neanche. Compratevi un trancio di pizza
alle verdure e fate finta che Shadow the
Hedgehog non sia mai esistito.
NOSTRADAMUS! - previsioni videoludiche di Michele “Macca” Iurlaro
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iamine se non era atteso. Con i
pochi video e le sporadiche immagini parsimoniosamente diffuse da
Capcom nei mesi scorsi, Resident Evil 5
sbarca finalmente su Playstation 3 portandosi dietro un nutrito bagaglio di polemiche. Durante lo sviluppo del gioco, infatti,
la storica saga della casa di Osaka ha dovuto subire attacchi e accuse da chi, sicuramente in buona fede, vedeva nel futuro
best seller contenuti fortemente razzisti,
tanto da indurre i programmatori ad operare precise ma pesanti modifiche alla
trama. Come vedremo, però, alcune scelte
hanno avuto ripercussioni notevoli anche
sul gameplay.
Quello che maggiormente stupisce di Resident Evil 5 è, manco a dirlo, il comparto
grafico. Pur non raggiungendo le vette toccate da Gears of War 3, vero paradigma
del genere su console, la casa giapponese
ha messo a punto un engine sicuramente
di forte impatto, con un numero di poligoni
impressionante, animazioni sempre convincenti e texture definite. Se ciò non bastasse, c’è da rilevare come la prestanza
tecnica del motore di gioco abbia saputo
prestarsi ad un lavoro artistico e coreografico di primo livello, con le tante e varie location realizzate in maniera coerente e
appagante.
La giocabilità del titolo si mantiene su livelli alti, ripercorrendo le orme di Resindt
Evil 4, con telecamera posizionata alle
spalle del protagonista e un sistema di
puntamento tanto infantile quanto stupido.
Assolutamente soddisfacente, quindi, l’arsenale a disposizione: si passa dai classici
fucili a pompa ai revolver, passando per
arcaici strumenti di difesa quali vibratori
anali, supposte Tachipirina, Libero di Vittorio Feltri ed elettrodomestici di vario genere.
Le perplessità sull’effettivo valore dell’offerta Capcom, purtroppo, derivano dalla
complessa struttura di gioco, evidentemente figlia delle proteste giunte dalle associazioni di qualsiasi tipo arrivate da ogni
parte del mondo. Infatti, se al momento
dell’annuncio l’ambientazione africana, con
zombie di colore e alberi di banane assassine, pareva essere l’unico panorama possibile, nel corso dei mesi si è voluto
ampliare il bagaglio di creature e zone per
ricacciare con forza al mittente qualsiasi
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tipo di sospetto sul presunto razzismo
degli sviluppatori nipponici. Ecco quindi,
un po’ a sorpresa, spuntare nuovi tipi di
nemici, tutti da affrontare nel proprio habitat naturale. Il protagonista Chris, quindi,
sarà costretto ad un vero e proprio giro del
mondo per dare la caccia ai terribili Cinesi
Assassini (ghiotti di carne di pollo vivo
precedentemente fritto), i temibili Arabi Licantropi (armati di tappeti rigorosamente
provvisti di garanzia), i Vampiri Francesi
(sempre in possesso di lunghe baguette
con formaggio) e i Napoletani Odorosi
(pronti a scaraventarvi addosso rifiuti di
ogni genere). Per quanto la varietà visiva
portata in dote dalle nuove creature sia innegabile, c’è da dire che il doppiaggio delle
voci, appesantito dalla pronuncia fortemente africana, rende tutto poco credibile.
La trama, invece, è in linea con i precedenti episodi e svela numerosi punti oscuri
sulle vicende dei personaggi cardine lasciati irrisolti nei precedenti capitoli. Chris
Redfield, in viaggio di piacere a Zanzibar in
compagnia della bella Alessia Mertz, viene
contattato al suo arrivo in aeroporto da un
misterioso uomo, col tesserino Alitalia in
bella mostra sul petto, che rivelerà all’ex
agente Alpha il coinvolgimento della compagnia aerea italiana nei loschi traffici
dell’Umbrella sul territorio Africano. In più,
il suo bagaglio è stato smarrito durante lo
scalo a Linate. Incazzato con una belva,
Redfield si getterà alla caccia dei vertici di
entrambe le compagnie, facendosi largo
tra i mostruosi abitanti di un piccolo villaggio della zona, Barletta, alla ricerca della
verità e del suo trolley.
La durata della campagna è sicuramente
buona. La trama principale richiede almeno 10 ore di gioco che vanno a raddoppiare nel caso si decida di collezionare
tutte le stelle. Delude l’assenza di una
qualsivoglia modalità multiplayer, allo
scopo di evitare guerriglie razziali tra giocatori di nazioni diverse che avrebbero
dato adito a nuovi girotondi in piazza.
Violento nelle immagini ma arguto nella
sua sottile e personale critica sociale, a
conti fatti Resident Evil 5 si rivela un
gioco divertente e dinamico, in possesso di
tutte le qualità proprie dei prequel e, più in
generale, uno dei migliori titoli di questo
2012.
9
La vera storia degli zombie
Legato alla religione Voodoo ma reso famoso
da George Romero con i suoi film, lo zombie
è, per definizione, “un uomo morto, risvegliatosi all’improvviso, e quindi nervoso e incazzato”. È noto, poi, che gli zombie vadano
ghiotti per il cervello umano, cosa che li rende
completamente diversi dai vampiri (amanti
delle belle donne). Lo zombie è stupido. Incontrandolo per strada, difficilmente saluterà
e, ancor meno probabile, sarà in grado di rispettare una fila alla posta. Gelosi e possessivi per natura ma barcollanti per vocazione,
gli zombie sono alle volte in grado di farsi
strada nella società. Tra gli zombie più famosi
vogliamo ricordare Gianni Agnelli, Bush senior, Susanna Agnelli, Marlon Brando e Lapo
Elkan.
017
BABEL

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