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KOOSHYAR KARIMI
IL SEGRETO
DI LEILA
Un medico coraggioso
sfida i tabù nell’Iran
del fondamentalismo
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09.05.2016
08:41
Titolo originale: Leila’s Secret
First published by Penguin Group (Australia), 2015
Text © Kooshyar Karimi 2015
Traduzione di Laura Melosi
Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI)
www.giunti.it
© 2016 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: giugno 2016
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A mia moglie, Misha Karimi,
che ha la primavera della
Tasmania negli occhi,
l’innocenza di Leila nel cuore,
e il calore di casa nella voce.
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Nota dell’autore
Questa è la storia vera di alcune delle tante donne, e di una
in particolare, che sotto la legge iraniana sono andate incontro
all’esecuzione capitale per essere rimaste incinte o per aver perso
la verginità fuori dal matrimonio. Gli eventi narrati in questo
libro sono accaduti alla fine degli anni Novanta del Novecento,
ma niente è cambiato riguardo a queste leggi, e le donne iraniane
continuano a subire soprusi per mano degli estremisti.
Secondo l’opinione di molti storici, quella iraniana è la più antica civiltà al mondo rimasta immutata. l’impero persiano, come
si chiamava prima l’Iran, ha combattuto guerre contro i greci e
l’impero romano, ha avuto la più lunga dinastia reale ininterrotta e
nel 550 a.C. è stato il primo regno a promulgare una dichiarazione
dei diritti umani. Ma nel 1979 questa antica culla della civiltà ha
subito una rivoluzione islamica fondamentalista che ha ripristinato
nella sua costituzione le norme islamiche del VII secolo, trasformando il paese in un covo di fanatismo e intolleranza. oggi l’Iran
è uno dei paesi che rinchiude nelle sue carceri il maggior numero
di giornalisti di ogni parte del mondo e che continua a condannare
a morte minorenni, a lapidare le donne per adulterio e a impiccare
gli uomini per omosessualità.
Purtroppo, la storia di leila riecheggia quella di milioni di
ragazze in asia e africa. ogni anno, nel mondo islamico, più di
ventimila donne vengono uccise per i cosiddetti delitti d’onore.
Ho scritto questo libro nella speranza che un giorno cominceremo a esercitare la tolleranza e smetteremo di vessare gli altri,
nella convinzione che se impariamo a perdonare, ne scaturirà
la libertà.
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Pur essendo una storia vera, è stato necessario cambiare i nomi
di alcune persone e di alcuni luoghi per proteggere l’identità dei
protagonisti. Mi sono inoltre preso la libertà di approfondire i
dettagli che riguardano i pensieri, la vita interiore e l’ambiente di
una persona, senza però mai alterarne gli eventi cruciali.
Kooshyar Karimi, gennaio 2015
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Il pesante silenzio della stanza è interrotto di tanto in tanto
dai rumori di un cartone animato in televisione che fuoriescono
da sotto la porta chiusa a chiave. Voci buffe, effetti sonori comici,
musica allegra non sono adatti all’occasione, ma non c’è altro modo
per tenere la mia bambina all’oscuro di quello che fra poco avverrà
in fondo al corridoio.
In un giorno di luglio del 1997 leila, incinta, siede compassata nella stanza degli ospiti, trasformata per l’occasione in una sala
operatoria. Ha le mani strette a pugno, il corpo percorso da spasmi
per la tensione. È giovane, bella e nubile, e la vergogna per quanto
le è accaduto è così profonda da essere quasi una presenza fisica. Ha
commesso un delitto capitale nella repubblica islamica dell’Iran: si
è innamorata. l’amore non è ammesso in questa parte del mondo,
perciò qualcuno deve morire. o lei o il suo bambino.
leila sembra molto più giovane dei suoi ventidue anni, con la
sua vulnerabilità malamente nascosta da un sottile strato di tenacia.
Ma in un certo senso è fortunata. Quando interrompo una gravidanza devo farlo come medico che opera nella clandestinità; solo
alcune donne sono abbastanza fortunate da incontrare qualcuno
che mi conosca e quindi da venire da me. Infrango il giuramento
di Ippocrate ogni volta che pongo fine a una gravidanza, e lo faccio
perché un giorno mia madre mi ha detto: «Kooshyar, a volte nella
vita, per un bene maggiore, devi compiere un po’ di male».
Ma quello che non posso fare per queste donne è restituire
loro l’orgoglio.
leila ha un’espressione che conosco bene. In realtà, ho perso
il conto delle volte in cui ho visto quella strana miscela di paura,
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disperazione e fermezza sul volto di una giovane donna. Ma questo
è un caso diverso. leila non è solo l’ennesima ragazza disperata,
ancora sconvolta e intimidita dalla recente scoperta della gravidanza. leila è già nel settimo mese inoltrato.
Quando, alla mia richiesta di visitarla, si è tolta con esitazione il
chador e si è sbottonata il trench, ho sgranato gli occhi incredulo.
Stava facendo sul serio? aveva un pancione rotondo pienamente
sviluppato: come fosse riuscita a nasconderlo, non ne avevo la
minima idea. era pallida e stanca, le ciocche di capelli appiccicate per il sudore le sbucavano da sotto il velo. Sembrava stesse
per collassare, e non c’era da meravigliarsene. Nessuno nel suo
stato avrebbe dovuto attraversare la città con quel caldo cocente.
Non capivo cosa ci facesse lì. Non avrà mica pensato che potessi
anche solo prendere in considerazione l’idea di interrompere una
gravidanza così avanzata?
«lei è troppo vicina al parto» le dico. «È davvero troppo tardi
per un aborto. Mi dispiace, non posso farlo.»
Mentre sto per uscire dalla stanza mi ritrovo leila attaccata
a una manica, le lacrime che le rigano le guance: mi implora di
aiutarla, e io cedo. Ma l’aiuto che sto per darle non è quello che
mi sarei aspettato.
Più tardi quella sera, leila, distesa sul lettino con una flebo in
vena, mi raccontò una storia che mi porterò nel cuore per il resto
dei miei giorni. lasciò molte domande in sospeso durante le lunghe ore del suo calvario, ma in seguito sono venuto a conoscenza
di tutti i dettagli. Sarò perdonato, spero, se racconto la sua storia a
puntate. È una vicenda così profondamente intrecciata con la mia
che non riesco più a pensare alla sua e alla mia vita come distinte
e separate, perché anch’io sono stato un figlio non voluto.
Nel 1945 dei fanatici musulmani uccisero un ebreo che intendeva aprire un negozio di liquori a esfahan. dopo qualche
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mese, la vedova di quest’uomo diede alla luce la sua quarta figlia.
la chiamarono turan. Quattro anni dopo, turan fu affidata alle
cure di uno zio perché sua madre era fuggita con il nuovo marito.
turan fu costretta a lavorare dall’età di sei anni per procurarsi
cibo, vestiti e istruzione. a sedici anni incontrò un bell’autista di
autobus musulmano che le promise di salvarla dallo zio crudele.
a diciassette anni scappò con lui, per poi venire a sapere solo
due settimane dopo che l’uomo aveva altre due mogli. Quando si
ritrovò incinta per la seconda volta, con il primogenito che aveva
appena sedici mesi, il marito andava a malapena a trovarla nello
squallido seminterrato dove la donna abitava. turan tentò molte
volte di abortire il secondo figlio, ma il piccolo venne al mondo
nonostante tutto. Nacque dopo mezzanotte sul sedile posteriore
di un’auto della polizia, nel mondo ostile e malato dei bassifondi
di teheran. Quel bambino ero io.
a diciotto mesi scampai per un pelo a un incendio appiccato
in casa dalla seconda moglie di mio padre che voleva sbarazzarsi
di me. a sei anni quasi morii di febbre tifoide. Sono sopravvissuto
contro ogni avversità con un’unica speranza, un’unica ragione e
un’unica fede: il perdono.
dopo aver ascoltato la storia di leila, mi è sembrato quasi che
io e lei avessimo contratto un matrimonio di angoscia e tristezza,
un legame rituale che ha lasciato un po’ del suo sangue nelle mie
vene, e un po’ del mio nelle sue.
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leIla
Stringendo il chador con le mani, mi faccio largo fra la folla
sul marciapiede. Il vento fa svolazzare la stoffa nera come una
bandiera. Mi dà fastidio, questo indumento. ogni volta che lo
metto o lo tolgo, mi domando se il mondo finirebbe davvero se
uscissi di casa senza. Ma io so già la risposta, e la sa anche lei,
dottor Karimi, dato che capisce perfettamente quello che devono
subire le donne nel nostro paese. Il mondo finirebbe, almeno per
me. Se uscissi di casa senza il mio chador, mio padre e i miei fratelli piomberebbero su di me come avvoltoi e mi dilanierebbero
un arto dopo l’altro. Su simili banalità la gente in Iran costruisce
idee mostruose che possono finire, come in realtà finiscono, con
un omicidio sancito dallo stato.
Sono nascosta dietro questa stoffa scura da quando avevo sette
anni, eppure ci sono ancora momenti in cui voglio strapparmela
dalla testa, dal corpo, per respirare liberamente. Ma non oso dire
ad alta voce questi pensieri. la paura delle conseguenze resta più
forte del mio desiderio di sbarazzarmi del chador. di notte rimango sveglia nel letto, terrorizzata, domandandomi se arriverà il
momento in cui non riuscirò più a controllare questa mia profonda
esigenza. Mi dico: «leila, abbi buon senso».
Zia Sediqa alimenta queste fiamme, senza accorgersene. ogni
volta che viene a trovarci, faccio tesoro del tempo che dedica solo
a me. Noi due parliamo senza timore di cose che non esprimerei
mai liberamente a nessun altro. e mi ha salvato, molto spesso, poter
trascorrere questi momenti con lei; per quanto siano rari e distanti,
almeno so che non sono sola in questo desiderio di libertà, nello
sfiorare pensieri pericolosi. Ma mentre zia Sediqa è un faro nella
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mia vita, a volte i miei pensieri mi fanno sentire un mostro o, se
non un mostro, una di quelle persone che al circo attirano l’attenzione del pubblico inorridito perché sono così diverse da tutti
gli altri. Ho sentito dire che in questi spettacoli (non ci sono mai
stata perché passano solo da teheran) una donna magari esibisce
una lunga barba sul viso, un uomo incrocia le gambe dietro la testa,
mentre un altro rivela di avere sei dita per mano. «Fenomeno da
baraccone», ecco l’espressione che sto cercando. Io sono un fenomeno da baraccone. C’è qualcosa nella mia mente che ambisce a
pensare in un modo che mi distingua dagli altri.
eccone un esempio: penso che le donne dovrebbero poter fare
il pilota di aerei. e ancora: penso che alle donne dovrebbe essere
permesso camminare liberamente per strada a qualsiasi ora del
giorno e della notte. e andare in biblioteca a scegliere il libro che
vogliono per poi leggerlo sotto un albero al parco. Ci sono molti
altri esempi. rimarrei inorridita scoprendo che la mia fantasia
alberga certi desideri. e sono inorridita, a volte. Capisce, è questo il
problema. Ho troppa fantasia per non farmi male, ho un desiderio
troppo forte di imparare ed essere libera. Sono la donna barbuta.
Ci sono momenti in cui vorrei cambiare il mio cervello con un
altro che mi provochi meno ansia.
ed è stata zia Sediqa a contagiarmi con la passione per i libri.
Mi descrive i meravigliosi volumi di letteratura che ha a casa sua,
«accatastati fino al soffitto», come dice lei (un’esagerazione). Quando ero più piccola, mi passava di nascosto un romanzo o un libro
di storia, e io ne divoravo avidamente ogni singola parola di ogni
singola pagina. adesso, da quando sono diventata adulta, a mia
sorella Samira e a me viene concessa un’ora fuori, lontano dalle
faccende di casa, per andare nella biblioteca del quartiere. Ma lei
capisce come funziona? Io non ho fatto domanda per avere la
testa che ho, né zia Sediqa ha chiesto la sua. e tutte e due dobbiamo occuparci dei pensieri che ci investono.
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leila
Continuo a farmi spazio tra la fitta folla di persone, rimettendomi il chador sulla testa quando scivola. Cerco di far finta di non
trovarmi nella cittadina di Quchan con le sue strade piene di crepe,
ma di camminare piuttosto per le vie di una città iraniana moderna
in mezzo a edifici alti e scintillanti. Mi immagino vestita come le
donne alla moda, con uno splendido soprabito lungo beige con i
bottoni d’oro, i capelli raccolti sotto un velo colorato che mi incornicia il volto. Sogno i bei guanti di pelle rosa che ho visto in una
pubblicità e immagino come starebbero sulle mie mani. Mi vedo
con un paio di stivali bianchi e una borsa elegante mentre porto
orgogliosamente occhiali da sole che mi danno un’aria misteriosa.
riesco quasi a sentire il profumo immaginario, fiore notturno e
brezza oceanica, che aleggia nell’aria attorno a me. e questa fantasia svanisce con la stessa rapidità con cui è arrivata, mentre un
estraneo mi dà una spinta lungo la strada gremita di gente.
Se questa fantasticheria avesse anche la più piccola possibilità
di trasformarsi in realtà, forse la agognerei con un anelito ancora
maggiore. Ma a che cosa servono desideri come questi? Probabilmente nella mia vita non lascerò mai questa città decadente,
non conoscerò mai la libertà di un soprabito e del velo colorati,
né vedrò mai gli splendenti edifici della città che baciano il cielo.
Non posso anelare a ciò che non potrà mai essere.
Sento Samira che grida il mio nome da lontano. ero così assorta
nei miei sogni a occhi aperti che mi sono allontanata da lei finendo
sull’altro lato della strada. Mia sorella attraversa rapidamente, evitando le macchine e le biciclette che sfrecciano sollevando bufere
di polvere.
«Hai sempre la testa fra le nuvole o solo quando sei con la tua
noiosa sorella?» mi provoca. «Ci manca poco che ti mettono sotto.
Ma non li hai sentiti i clacson che strombazzavano?»
Chino la testa per scusarmi. troppo spesso mi comporto in
questo modo con mia sorella maggiore: sono così presa dalla mia
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realtà immaginaria che la metà delle volte non sento quello che
mi dice.
Samira alza gli occhi al cielo e sospira frustrata, stringendomi
un braccio in segno di perdono. «andiamo a casa» continua, facendo un cenno con la testa verso il cielo che si sta rabbuiando.
«la mamma starà in pensiero per noi.»
arriviamo a casa cinque minuti dopo il solito e, com’era prevedibile, mia madre fa capolino da dietro la porta della cucina, lancia
un’occhiata all’orologio e borbotta qualche parola di rimprovero.
Samira e io ci facciamo beffe del suo messaggio non troppo velato.
essere trattate come scolarette è una cosa che detestiamo entrambe.
Io ho già ventun anni, Samira ventinove. Molte delle nostre
compagne di scuola sono già sposate e hanno figli, mentre io e
Samira viviamo ancora con i nostri genitori e tre fratelli in una
vecchia casa nei quartieri orientali di Quchan. la nostra vita non è
come l’avevamo immaginata, ma non ci lamentiamo. C’è una scala
di potere in casa nostra, come in ogni famiglia, e noi occupiamo
con umile rassegnazione il gradino più basso. In cima c’è mio
padre, abdollah, cinquantanove anni, che dirige la famiglia con
indiscussa autorità. la nostra entrata principale proviene da una
piccola fattoria che papà gestisce a pochi chilometri dalla città e
nella quale trascorre molte ore. anche i miei fratelli contribuiscono
con una parte delle loro entrate irrisorie, ma devono risparmiare
per le loro future famiglie.
al secondo posto c’è mia madre, che gestisce la casa a livello
pratico. Prende tutte le decisioni su come spendere i soldi, dal
dentifricio alle patate, dal sale alle spezie o alle mele: tutto, inclusi i vestiti per ogni membro della famiglia. uno dei miei fratelli
magari dice: «Mamma, mi serve una camicia nuova» e lei subito
dà inizio a una lunga campagna per trovare il miglior affare di
tutta Quchan. a volte la osservo con timore riverenziale mentre
passa in rassegna le bancarelle del bazar, conclude un grande af16
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leila
fare sottolineando la scarsa qualità della cucitura sul colletto, grida contro l’ambulante, lo accusa di essere il peggior furfante della
storia persiana del XX secolo e pretende quasi che sia lui a pagare lei per portare la camicia a casa per suo figlio. Penso fra me e
me: «Io potrei mai fare una cosa del genere?». e mi rispondo di
no. accetterei il prezzo proposto dall’ambulante, il che sarebbe
considerato non solo una follia, ma quasi un peccato.
Quindi la mamma è comandante in seconda, ma in un modo
particolare. I miei fratelli, in quanto maschi, pensano per questo
di poter essere prepotenti con lei, e lei accetterà le loro prepotenze,
fino a un certo punto. Ma esistono confini invisibili nel rapporto
tra una madre e i figli maschi adulti, e se i miei fratelli ignorano uno
di questi confini, mia madre si volterà per combattere, e vincerà.
Come nel caso della camicia.
Il terzo al comando è mio fratello ali, di ventotto anni, che lavora insieme a mio padre nell’allevamento di ovini e bovini. I miei
due fratelli minori occupano il quarto e il quinto posto: Hosein,
di vent’anni, e Majid, che ne ha appena compiuti diciotto. Hanno
cominciato a lavorare come meccanici in città.
Samira e io aiutiamo nostra madre a pulire, cucinare e soddisfare le esigenze dei maschi di casa, come da tradizione in Iran.
Pur essendo più grande di due dei miei fratelli, non c’è mai stato
il dubbio su chi detenga l’autorità fra di noi. Per tutta la vita mi
sono dovuta occupare dei miei fratelli come se in qualche modo
fossi debitrice nei loro confronti solo per essere nata donna. Io
ho ambizioni che non ha nessun maschio della mia famiglia, ma i
miei sogni servono a poco. Samira e io volevamo andare entrambe
all’università, ma mio padre non ne volle sapere. Mia madre tentò
anche di convincerlo.
«È tutta la vita che leila vuole insegnare ai bambini» disse.
e mio padre rispose: «ti serve aiuto qui. Non sei più molto
giovane e non puoi occuparti di quattro uomini da sola».
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«Samira sa quanto leila ci tenga a ricevere un’istruzione universitaria» insisté mia madre «e ha perfino proposto di stare a casa
lei se leila andrà.»
Ma mio padre disse ancora di no, e così in un attimo la prospettiva di una laurea svanì. tutto il mio futuro fu deciso nel
giro di due minuti. tutto quello che la mia mente agognava fu
archiviato.
So di essere intelligente. Posso dirlo senza sembrare presuntuosa? Perché non sono presuntuosa. È semplicemente una cosa
che ho notato di me stessa, come potrei averlo notato di un’altra
persona. Provo piacere a essere intelligente, tranne quando divento
la donna barbuta. Non mi rende orgogliosa nel modo sbagliato.
Ci sono state molte persone brillanti – uomini e donne – che non
avevano niente nella testa e nel cuore tranne l’ingegno. Come le
ho già detto, per certi versi avere dei numeri mi complica la vita.
Spesso faccio fatica a tenere la bocca chiusa. a volte mi dico:
«leila, sarebbe meglio se tu fossi una cretina, perché è quello
che ci si aspetta da te». Come sarebbe più semplice se mi venisse
spontaneo! la mia mente vuole essere impegnata.
Caro allah, mi è appena passato per la testa che ho qualcosa in
comune con quei ragazzi e quegli uomini che anelano al martirio,
che cantano le lodi di allah e del Profeta mentre camminano in un
campo minato. Hanno imparato quello in cui credono dai mullah,
come io ho imparato il mio pericoloso credo da zia Sediqa. l’amore
per la loro fede è così intenso che andrebbero dritti verso il nemico
tenendo le braccia lungo i fianchi: è questo quello che è accaduto
nella guerra con l’Iraq. Sono così anch’io? l’anelito al martirio
ribolle dentro di me? Non voglio morire per quello in cui credo.
Ma forse quando dentro di te succedono cose del genere, prendi
una decisione a un livello troppo profondo per accorgertene. la
mia mente brama nutrimento. e temo che questo anelito possa
uccidermi un giorno, che mi ritroverò a camminare in un campo
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minato, cantando canzoni in lode dei grandi scrittori e poeti, e
poi, tutto a un tratto, l’esplosione.
Sono destinata a marcire in questa casa, a meno che non trovi
un marito. Ma finché non si sposa Samira, dovrò rimanere nubile.
È una regola tacita. Samira sembrerebbe una donna indesiderabile
se la sua sorella più piccola si sposasse prima di lei. eppure, ogni
giorno che passa, è sempre meno probabile trovare un marito adatto a mia sorella. Per quanto Samira sia dolce e buona, la maggior
parte degli uomini non la considera merce da matrimonio. l’unico
pretendente che ha avuto era un rivenditore di auto di quarantadue
anni, famoso per essere disonesto e collerico, che aveva divorziato
dalla moglie, lasciandola con tre figli piccoli. È straziante sapere
che il motivo per cui le vengono negati il matrimonio, la felicità
e la realizzazione a cui aspira ogni ragazza è una lunga cicatrice a
forma di spicchio di luna sulla guancia sinistra. una sola cicatrice,
una maledizione per tutta la vita.
a mia madre potrebbe anche passare per la testa che Samira
avrà ancora meno probabilità di trovare un pretendente se trascorre
la vita imprigionata in casa. Ma nella sua devozione alle usanze
la mamma è ottusa quasi quanto mio padre. Secondo lei le ragazze devono stare chiuse in casa quasi sempre, perché altrimenti
non apparirebbero virtuose. I commercianti e la gente per strada
spettegolerebbero su di noi, accusandoci di fare le civettuole, e
sarebbe fatale essere etichettata come una civetta. e una femmina
non deve fare niente di immorale in Iran per essere marchiata
come sgualdrina. Mia madre ha visto più di una brava ragazza
perdere l’occasione di sposarsi perché sorrideva troppo o salutava
un uomo quando era fuori a fare la spesa o a visitare le amiche.
la strategia più sicura, sostiene mia madre, è tenerci segregate,
lontane dal mondo. È convinta di dover stare attenta non solo
a un possibile errore di giudizio da parte mia o di Samira – lo
sguardo involontariamente attratto dal viso di un bell’uomo su
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cui si concede di indugiare mezzo secondo di troppo – ma anche
alla falsità dei parenti rivali. Quell’occhiata che si attarda, troppo
fugace per essere notata in altre società, diviene un’informazione
da mettere da parte e usare all’occorrenza. la madre di un’altra
ragazza potrebbe accennare alla cosa, quasi come se ci avesse visto
uscire da una clinica per malattie veneree. Il benché minimo gesto
sconveniente può diventare la prima manciata di neve che crea una
valanga di pettegolezzi incriminanti.
eppure, se rimaniamo sempre chiuse in casa, siamo invisibili.
dobbiamo almeno essere intraviste per annunciare la nostra esistenza. Per cui, una volta la settimana, a patto di avere obbedientemente sbrigato le faccende domestiche e di non essere necessarie
in casa, la mamma ci permette di andare in biblioteca o a comprare
qualcosa nei negozi vicini per un lasso di tempo molto breve, di
solito meno di un’ora.
Quel giorno di giugno del 1996, mia sorella e io siamo particolarmente elettrizzate perché Samira sta portando diverse sue
bambole fatte a mano al signor taqavi, il proprietario di un negozio
che vende ninnoli e cianfrusaglie. le bambole sono create da
Samira con maestria e senso artistico usando vecchi ritagli di stoffa.
Il signor taqavi le vende a un prezzo molto più alto di quanto le
paga a Samira, ma lei è comunque contenta di guadagnare un po’
di soldi in più per le sue piccole spese.
Quando ne abbiamo l’occasione, Samira e io ci separiamo per
sfruttare al massimo il nostro prezioso tempo fuori. Ci siamo messe
d’accordo che io andrò da sola in biblioteca, e che ci incontreremo
di nuovo davanti a casa. Nessuna di noi due vuole arrivare in ritardo, perché quasi sicuramente significherebbe che nostra madre
non ci permetterà di uscire la settimana dopo.
tenendo stretti i nostri chador malgrado il caldo soffocante,
attraversiamo i vicoli angusti che portano al bazar, la zona per gli
acquisti più grande della città. Qui la gente affolla le strade, a caccia
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di affari, mercanteggiando sul prezzo. Il profumo delle spezie e
degli oli e l’aroma di agnello e manzo che sfrigolano sulle fiamme
libere riempiono l’aria. le macchine combattono per farsi spazio,
bloccandosi all’improvviso quando polli e capre si mettono in mezzo. ovunque voltiamo lo sguardo, vediamo piccoli melodrammi
fra clienti e negozianti, madri e bambini, uomini che concludono
affari fra di loro e fiumi di persone che cercano il posto giusto per
mangiare. attraverso con Samira la strada per andare nel negozio
del signor taqavi.
«Nel giro di poco tempo sarai così impegnata a creare le tue
bambole che dovrò diventare tua socia, e poi apriremo negozi in
tutto il mondo» le dico scherzando.
Samira continua la mia fantasia. «Sì, e troveremo un appartamento per conto nostro in centro, e tu potrai andare all’università.»
appoggiamo la testa l’una sull’altra, sussurrando a voce sommessa perché nessuno pensi che siamo troppo felici e si domandi
cosa stiamo combinando.
«avremo una stanza speciale per te» continua Samira, «una
biblioteca tutta tua, con una libreria che parte da terra e arriva
fino al soffitto. ti ci vorrà una scala per raggiungere tutti i tuoi
bei libri. e riceveremo grandi scrittori ed eruditi.»
adesso però Samira ritorna alla vita reale, mettendo da parte
ogni fantasia. «tieni la testa fuori dalle nuvole e non fare tardi» mi
ammonisce. È costretta a farlo perché è probabile che, circondata
dai libri, io perda la cognizione del tempo.
la piccola biblioteca pubblica di Quchan è il luogo che preferisco sulla faccia della terra. È modesto, questo mio paradiso. Il
governo non spende soldi per i libri e la selezione è limitata. Ma
io qui sono libera dal minaccioso disprezzo che mio padre e i miei
fratelli nutrono per i libri. a casa, la lettura è accompagnata dal
senso di colpa. Potrei essere scoperta in un angolino che credevo
segreto a leggere un libro che mi sono comprata con le monete e
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le banconote messe da parte a furia di regali di compleanno, lavoretti fatti per i vicini di casa, lavori di cucito e pulizie. ed eccolo,
il disprezzo dei miei fratelli e di mio padre! Ma qui no. Non qui.
la signora Salimi è la bibliotecaria, una delle persone a cui
voglio più bene al mondo. Mi saluta rapida con la mano mentre
passo davanti alla sua scrivania. Noto l’orologio alle sue spalle e
mi accorgo con sgomento che ho perso più di metà del tempo che
avrei voluto trascorrere sui libri per accompagnare Samira al bazar.
la giustificazione logica del governo per finanziare anche un
minimo le biblioteche è che funzionano come centri di distribuzione per le opere di propaganda. un leader religioso o qualcun
altro scrive sulla gloria e lo splendore della rivoluzione, e il libro
viene stampato con una tiratura da centinaia di migliaia di copie e
spedito nelle biblioteche del paese, da Mashhad a tabriz a Bandar
abbas. le tirannie hanno sempre creduto che la letteratura debba
avere uno scopo socialmente edificante, e quale fine potrebbe essere
più edificante che celebrare la saggezza, la virtù e la gentilezza dei
governanti della nazione? Ma ovunque la gente, non solo in Iran
immagino, sa riconoscere la propaganda che le viene propinata.
In rari casi forse ne accetta alcune parti, forse è perfino d’accordo
su certi punti, ma sa riconoscere una strombazzata sui fantastici
miglioramenti realizzati dal governo per il bene del paese – più
pane, più automobili – quando ne vede una.
e adesso si trovano qui, queste opere, in mostra all’ingresso
della biblioteca, un volume dietro l’altro di giudizi entusiastici
sul governo. Non vi presto mai la minima attenzione, a meno che
non ne sia costretta. Quello che cerco è qualcosa che sollevi il mio
spirito in un modo molto diverso, qualcosa che mi tocchi l’anima.
Scelgo due volumi quel giorno, dottor Karimi, due libri che
sono destinati a innalzarmi fino al cielo, esultante come un angelo; due capolavori che mi porterò dietro quando precipiterò nel
mio inferno privato. uno è Il profeta di Kahlil Gibran, un libro
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leila
sull’amore e le lezioni dell’amore, le lezioni della vita. Non l’ho
mai visto in biblioteca prima. È nuovo, è appena stato tradotto in
persiano. anche l’altro è un racconto sull’amore, Il piccolo principe,
di un francese, antoine de Saint-exupéry, che mi ha consigliato
la signora Salimi. oh, dottore, se l’avessi saputo, se l’avessi saputo!
Ma in quella visita alla biblioteca, al mio paradiso, sono inconsapevole. Né so con quanta rapidità comincerà il viaggio che sto
per intraprendere; né quanto trascorreranno veloci i giorni prima
che lei, dottore, diventi testimone della mia vergogna. Io vedrò
l’angoscia nei suoi occhi; l’angoscia e, vorrei dire, l’amore.
So che mia madre si starà domandando dove sono finita ormai,
ma una volta fuori rallento per apprezzare i colori lungo la strada.
ovunque ci sono fiori in vendita: rose rosse, girasoli gialli, margherite, orchidee, iris, garofani, zinnie. Passo davanti a un bambino
che piange, le braccia tese per farsi prendere in braccio. la madre,
frustrata dalle pretese del piccolo e piegata sotto il peso delle borse
che porta, se lo trascina dietro, ignorandone le urla. le lacrime
formano dei rivoli che scorrono sulla pelle polverosa della faccia del
bambino. avrà più o meno cinque anni. Ha i piedi nudi e sporchi,
e mentre ne solleva uno per pulirlo sopra i suoi logori pantaloni, su
una gamba dei calzoni appare una macchia di sangue. Mi domando
perché sua madre non si prenda più cura di lui. deve essere molto
povera, altrimenti lo vestirebbe meglio. Senz’altro gli comprerebbe
un paio di scarpe. osservo con tristezza il bambino che trascina
stancamente i piedi per terra dietro di lei e per poco non inciampo
contro una bancarella di dolciumi su un lato della strada.
Mi giro verso l’anziano dietro la bancarella. Il sole gli ha bruciato la pelle sotto i fini capelli bianchi, e ha le guance di un
rosso acceso per il caldo. «due lecca lecca» dico frettolosamente.
«all’arancia.»
«duecento toman» mi dice in tono burbero il vecchio, porgendomi i dolcetti.
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Il segreto di Leila
Mi giro velocemente per cercare il bambino, ma è scomparso.
torno subito indietro e lancio un’occhiata in una strada laterale,
nella speranza che sua madre sia andata in quella direzione, ma
non vedo il piccolo da nessuna parte.
Forse non era una buona idea. Sua madre avrebbe potuto offendersi. Infilo i lecca lecca nel chador e riprendo a camminare.
Immagino i miei figli e come li riempirò di regali, di cioccolatini, di amore. Poi mi sento in colpa al pensiero, sapendo che
non tutti i piccoli possono contare su un simile affetto. la povertà
è ovunque in questa città; i bambini avvolti in sudici stracci che
soffrono la fame mi strappano il cuore. rallento a uno stop. Mia
madre dice di non lasciarmi sopraffare dalla miseria che vedo per
strada. dice che le cose stanno semplicemente così; che così vuole
allah. Ma io non credo che lui voglia niente del genere. Credo
che voglia che chi ha divida con chi non ha.
«Mamma?» Sento che qualcuno mi tira il chador da dietro. Mi
giro e vedo il bambino. Ha ancora la mano alzata. «Scusa! Scusa!
Credevo che tu fossi la mia mamma.» trotterellando arretra un
po’, per paura di ricevere un rimbrotto.
Mi inginocchio e gli sussurro: «ehi, è tutto a posto, è tutto a
posto. ti sei perso? Hai perso la tua mamma?». Il bambino trema
un po’, sembra stia per scoppiare di nuovo a piangere. Infilo rapidamente una mano dentro il chador e gli offro i dolcetti. Il viso
gli si illumina per qualche secondo, poi si rannuvola di nuovo, e
mi rendo conto che è sconvolto davanti a una dimostrazione di
gentilezza. Gli metto i lecca lecca nella minuscola mano, chiudendogli le dita attorno. «Prendili, sono tuoi.»
Il bambino solleva lo sguardo e mi fissa con occhi sgranati.
«Grazie» dice timidamente, e corre via.
appena mi giro per riprendere a camminare, vedo un uomo
appoggiato al telaio di una porta di un negozio di abbigliamento
lì vicino. Ha un libro in mano: Il piccolo principe.
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«oh» dico, mettendo una mano in borsa per cercare il mio. Non
c’è. Mi deve essere caduto mentre parlavo al bambino.
«È un bel libro» dice lo sconosciuto. «uno dei miei preferiti.»
Com’è attraente! È un uomo di quasi trent’anni, con i capelli
corti castani, una barba perfettamente curata e occhi scuri, caldi.
«Non è affatto un libro per bambini.» Me lo porge, io lo prendo
rapidamente e lo nascondo sotto il chador.
«ehm... grazie» riesco a balbettare, tenendo gli occhi rivolti
verso terra, il più lontano possibile. So benissimo che le donne
non devono avere un contatto visivo con gli estranei, eppure mi
ritrovo a combattere contro un potente desiderio di fare proprio
quello che non devo.
Qualcuno lo chiama da dentro il negozio. Sollevo gli occhi e
noto un’espressione scocciata che gli balena in faccia. Si scusa con
una certa riluttanza, almeno mi sembra, ed entra nella boutique.
Ma arrivato alla porta si gira e mi dice in un modo che suona
sconveniente: «Spero che passi di nuovo da qui».
Il cuore mi batte veloce come quello di un gatto. Che occhi! oh,
ho già notato altri begli uomini prima di allora e mi sono detta:
«Splendido!». Ma stavolta è diverso. Provo un sentimento nuovo.
una strana sensazione nel profondo del cuore. È solo che sono più
grande adesso? o che segretamente penso di più all’amore? Non so.
Mia madre è lì ad aspettarmi quando arrivo a casa. «dove sei
stata, sciocca? tuo padre tornerà da un minuto all’altro. Vieni ad
aiutarmi a pulire le verdure.»
Faccio come mi viene detto, ovviamente. eppure, perfino mentre lavo le carote e pelo le patate, mentre mia madre sbatacchia
le pentole e le padelle attorno a me nella smania di avere la cena
pronta per il marito e i figli, odo la musica nelle mie orecchie e
vedo quegli occhi, quegli occhi.
È l’inizio.
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