Scarica qui le dispense delle lezioni tenute dal prof. Nevio Genghini
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Nietzsche un breve excursus Prologo: credere o conoscere? In una lettera alla sorella, del giugno del 1865, N. esprime con chiarezza il suo atteggiamento di fondo: “A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga”. Egli vede nello spirito religioso una scelta di debolezza, “una incapacità a plasmare da sé, con decisione, il proprio destino”. Davanti al bivio segnalato da N. si trova un’intera generazione di intellettuali, artisti, filosofi, nonché di gente comune, che ha già fatto in massa la sua scelta. Così, pochi anni dopo, N. può osservare: “Il più grande avvenimento recente – che “Dio è morto”, che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa” (La gaia scienza, § 125). Per quale via si è giunti a questa condizione spirituale senza precedenti, il nichilismo? 1. L’interpretazione della grecità e la decadenza della civiltà europea Il giovane N. eredita da Schopenhauer un radicale pessimismo metafisico: la vita umana è un guizzo effimero nel fluire perenne e insensato del divenire. Tuttavia la realtà che ispira questo sentimento tragico della vita – l’inesausto divenire e perire di ogni cosa - va accettata con virile fermezza: N. rifiuta il tentativo di sottrarsi alle catene del divenire mediante la noluntas. Il sentimento tragico della vita è perfettamente rappresentato nella tragedia attica e, in epoca moderna, nel dramma musicale di Wagner (La nascita della tragedia). La Grecia delle origini compose in sé, in un rapporto equilibrato, due impulsi fondamentali che, quando si separano e si oppongono l’uno all’altro, corrompono la vita: da un lato il dionisiaco, che esprime la forza vitale, l’ebbrezza creatrice e la sana accettazione del divenire (la sua “lingua” è la musica); dall’altro l’apollineo, che celebra l’ordine, la forma, la misura (la sua “lingua” è la scultura). N. è dapprima 1 convinto che Wagner possa, con la sua arte, riscattare dall’oblio lo spirito tragico; finirà però per allontanarsi dal compositore, deluso dalla svolta “cristiana” delle sue ultime opere. Con la tragedia di Euripide, che accoglie l’intellettualismo socratico (“l’uomo è la sua ragione”), quel prodigioso equilibrio va perduto: è l’inizio della decadenza occidentale, ovvero di una storia millenaria nella quale i valori contrari alla vita e ai suoi impulsi sorgivi atrofizzano progressivamente le passioni eroiche degli esseri umani e la loro capacità di rinnovare il paesaggio spirituale del mondo. Il punto di arrivo della decadenza è l’eccesso di coscienza storica tipico dell’uomo moderno, che ormai – imprigionato come “un turista ozioso nel giardino della storia” – è divenuto incapace di progettare e di creare il proprio futuro (Sull’utilità e il danno della storiografia per la vita). 2. La critica della morale e del cristianesimo, la “morte di Dio” e il nichilismo A partire da Umano, troppo umano (1876) inizia una seconda fase del pensiero di N. Ferma restando l’affermazione disincantata della vita, N. abbandona la fede giovanile nel potere catartico dell’arte (ossia nella sua effettiva capacità di resuscitare l’autentico spirito tragico) e assume un’attitudine scettica e relativistica. Guidato da un inedito interesse per le scienze della natura e per il darwinismo, egli prende di mira la morale occidentale, composta da un grappolo di valori (un “mobile esercito di metafore”) inventato ad hoc per occultare, dietro un velo di razionalità, il fondo magmatico ed irrazionale dell’esistenza. La critica è devastante: platonismo, cristianesimo e ideologie democratico-egualitarie vengono ricondotti, attraverso il metodo genealogico, all’inconfessabile sentimento che le ha partorite: il risentimento dei caratteri deboli nei confronti dei temperamenti forti, esuberanti, amanti del rischio. Alle diverse forme della morale da gregge, o da schiavi (che esalta l’amore del prossimo, l’uguaglianza, il senso di colpa ecc.) N. oppone la morale da signori, caratterizzata dal dispregio di tutto ciò che è piccolo e comune: il nocciolo di questa morale è l’assoluta fedeltà alla terra piuttosto che al cielo, la decisa preferenza per Dioniso piuttosto che per il Crocefisso. Questa trasvalutazione di tutti i valori non è indolore: essa passa attraverso l’esperienza della morte di Dio e del nichilismo. Il tema compare ne La gaia scienza e 2 viene ripreso nello Zarathustra. La morte di Dio è la metafora dell’irreversibile tramonto delle illusioni metafisiche e religiose. Questo tramonto lascia però dietro di sé un vuoto spaventoso, un disorientamento generale (il nichilismo), con il quale gli uomini moderni stentano a conciliarsi. Perciò coltivano la fede in “idoli” secolari (la scienza, la storia, la politica). Sono pochissimi quelli capaci di attraversare, senza volgersi indietro, il “deserto che avanza” del nichilismo. L’esperienza di vivere senza un principio, una direzione, un disegno provvidenziale non va semplicemente subita, nell’atteggiamento dolente e nostalgico del nichilismo passivo, come fanno gli spirito deboli, bensì assecondata nell’atteggiamento del nichilismo attivo o eroico, che porta alle estreme conseguenza la distruzione del platonismo (colto e plebeo). 3. La volontà di potenza, il superuomo, l’eterno ritorno Con la pubblicazione dello Zarathustra (1883) comincia la terza fase del pensiero nietzschiano. L’interpretazione di questo periodo è anche la più controversa, a causa del carattere frammentario ed incompiuto dell’opera che avrebbe dovuto coronare la riflessione di una vita: La volontà di potenza. Il problema fondamentale è sempre lo stesso: comprendere la vita nei suoi caratteri originari, senza imporre ad essa un ordine prestabilito e senza catturare il suo perenne fluire in categorie, regole, norme e principi razionalistici. Ora, il principio di ogni vita è la volontà di potenza, ossia l’impulso elementare che spinge ogni essere a crescere, a incrementare la propria potenza. Questo impulso ha un’indole prospettica, nel senso che incontra e tratta le cose secondo un imperativo utilitaristico (dunque non categorico): nel caso degli esseri umani il predicato “buono” significa semplicemente ciò che accresce la loro potenza e asseconda la loro autoaffermazione. L’uomo che accetta la volontà di potenza va oltre se stesso: finalmente può attingere a sorgenti di creatività che la fedeltà alla morale e l’ossequio alla religione gli avevano nascosto. Egli diviene, in questo senso, un “superuomo”, vale a dire colui che agisce in virtù dell’“io voglio”, non più del “tu devi”. Con il superuomo giunge al tramonto il vecchio homo religiosus e inizia l’aurora di un uomo nuovo, che ama la vita e vive al di là delle dicotomie che hanno avvelenato la condizione dei suoi predecessori (vero/falso, bene/male, ecc) . 3 Il superuomo vuole l’eterno ritorno dell’uguale. Questa estrema ed in parte oscura dottrina dell’ultimo N. non va intesa come una mera riabilitazione della visione circolare del tempo cara agli antichi. N. è soprattutto interessato alle implicazioni morali di tale visione: la fede nell’eterno ritorno comporta l’assunzione di un atteggiamento di coerente fedeltà alla terra e di massima fedeltà al nichilismo. Volere l’eterno ritorno, infatti, significa concepire i singoli momenti dell’accadere non più come se avessero il loro fine al di là di se stessi, bensì come se ognuno di essi avesse in sé il proprio senso compiuto. In altre parole: volere l’eterno ritorno significa non imporre alla vita un ritmo, un ordine, una spiegazione che trascendano l’accadere. La vita va amata così come viene, lasciandosi alle spalle la pesante corazza di millenarie dicotomie (vero/falso, bene/male ecc.), accettando l’“innocenza del divenire” e il suo perenne ritornare (amor fati). 4