Relazione Prof. Luigi Alici Persona e libertà tra natura

Transcript

Relazione Prof. Luigi Alici Persona e libertà tra natura
Persona e libertà: tra natura e cultura
LUIGI ALICI
1. La libertà nella differenza infinita
Il punto di partenza di una riflessione intorno al rapporto tra persona e libertà, avendo
sullo sfondo un riferimento al corpo e alla tradizione, è racchiuso in un paradosso
fondamentale che abita la persona umana: la sua identità più alta è costituita da una
condizione di cui la persona stessa non possiede la radice! In una disputa con Fortunato,
Agostino contesta la ricerca – tipica della gnosi manichea – di una radice del male come
ulteriore ed esterna al soggetto, con le seguenti parole: «Radicem radicis quaerere non
possum»1. Ripercorrendo a ritroso il cammino che conduce, nella dinamica della vita
morale umana, dall’atto concreto di scelta alla sua radice personale, Ricoeur si esprime
in modo sorprendentemente simile ad Agostino, quando definisce la libertà «una strana
causa, poiché mette fine alla ricerca della causa»2.
Kierkegaard ci indica in modo chiaro il senso di questo paradosso: la libertà è inizio,
inaudita capacità di cominciare da se stessa. Solo un essere infinitamente trascendente è
capace di donare questa capacità senza che il dono leghi colui che lo riceve al donatore,
trasformandosi in un vincolo soffocante: «soltanto l’onnipotenza può riprendere se stessa
mentre si dona, e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve»3.
Il paradosso della libertà raggiunge qui una delle sue forme più radicali: la qualità più
profonda dell’umano, grazie alla quale la persona può scegliere tra le proprie possibilità,
ponendosi a distanza da esse senza esserne schiava, è nello stesso tempo sottratta a
qualsiasi possibilità di scelta. Possiamo, certo, rinunciare alla libertà, ma sempre con un
atto volontario, che solo in malafede potremmo cercare di occultare, come ha onestamente
ammesso anche Sartre.
Nella libertà è racchiusa quindi una differenza irriducibile, attraverso la quale
traspare la vocazione infinita dell’essere umano: la differenza fra il fatto compiuto e la
scelta da cui dipende, fra quanto la persona, come essere soggetto al mondo, riceve dal
1
Agostino, C. Fort. 21.
P. Ricoeur, La semantica dell'azione. Discorso e azione, a cura di A. Pieretti, Jaca Book,
Milano 1986, p. 83.
3
S. Kierkegaard, Diario, a cura di C. Fabro, I, Morcelliana, Brescia 1962, n. 1017, p. 513.
2
1
mondo e quanto, come essere soggetto nel mondo, può restituire. Questa restituzione non
è mai la somma dei dati che definiscono le coordinate della mia appartenenza al mondo,
ma presuppone sempre uno scarto irriducibile, un’eccedenza infinita. Nel bene e nel male:
oltre la finitezza – a volte mortificante e indegna dell’umano – il soggetto personale può
scegliere l'infinito del bene, al quale il credente riconosce un volto personale; nello stesso
tempo, oltre la gratuità immeritata dei doni ricevuti, possiamo anche restituire un eccesso
abissale di male; male gratuito, spesso sproporzionato rispetto a qualsiasi pretesto o
giustificazione possiamo accampare4.
Solo nell’ordine del bene, tuttavia, la libertà può raggiungere il suo vero compimento,
in quanto capace di una restituzione in eccesso, non in difetto, che per questo ha anche il
carattere di una vera e propria reduplicazione: l’atto libero cor-risponde al bene
dell’essere con l’aggiunta della novità dell’azione, che incrementa l’ordine ontologico
con un ordine morale, imprevedibile proprio perché libero. In questo senso si comprende
l’asimmetria della libertà, che non può essere indifferente alla differenza tra bene e male:
nei confronti del bene essa può e deve, mentre nei confronti del male può ma non deve.
La “restituzione in eccesso” postula altresì un orizzonte infinitamente aperto: oltre la
scala graduata dei beni finiti, senza la quale non riusciremmo ad affrontare correttamente
i dilemmi delle scelte quotidiane, la libertà non è convocata solo dal bene prossimo e più
immediato, secondo una sequenza lineare inaggirabile. Questa è precisamente la dinamica
propria di ogni pulsione istintiva, che abbiamo in comune con il mondo animale: il lupo
famelico che azzanna la pecora non introduce tra il bisogno e la sua immediata
soddisfazione alcuna mediazione argomentativa; non rinuncia alla sua preda per
concederla a un altro, non la preserva per il futuro nella previsione di tempi peggiori.
L’atto libero, invece, è garantito precisamente da questa “distanza” rispetto al
bisogno materiale: la libertà autentica è in grado di sottrarsi all’abbraccio mortale del bene
più vicino e a portata di mano, non confonde la grandezza con l’immediatezza; soprattutto
è in grado di operare una sorta di apertura infinita sulla totalità dei beni finiti: può
riconoscere questi ultimi e valutarli nella loro interezza, e in questo modo sporgersi su un
orizzonte di ulteriorità. C’è dunque una libertà radicale, che s’interroga intorno alla
radice ultima del bene e che per questo deve assumersi un compito di vigilanza costante
Su quest’aspetto rimando al primo capitolo del mio Filosofia morale La Scuola, Brescia
2011.
4
2
su ogni atto finito: oltre a scegliere, di volta in volta, il bene maggiore in una situazione
data, compete alla libertà il compito di tenere infinitamente aperto l’orizzonte della scelta.
Scegliere la libertà è, in questo senso, il compito più alto della stessa libertà.
La ricaduta educativa dev’essere all’altezza di questo compito: anziché “giocare in
difesa” nei confronti dello stereotipo libertario che pone la libertà più grande sempre “al
di là del bene e del male” (F. Nietzsche), occorre recuperare l’idea di una vita morale con
“il piede sull’acceleratore”, anziché sul freno. La morale è per il morale, nel senso che
aiuta a star su di morale e si sviluppa nel segno del sì: “Tu puoi fare di più, puoi essere di
più…”. Poter essere più buono, più libero, più felice sono, in ultima analisi,
fondamentalmente sinonimi. L’apertura infinita della libertà su un orizzonte di
trascendenza non avviene a scapito del finito, mentre non vale il contrario: il finito che
implica una negazione dell’infinito si trasforma immancabilmente in bene ultimo,
esponendo la libertà alla dittatura degli assoluti terrestri, che possono essere non solo
esterni ma anche interni: le pulsioni istintuali, i bisogni immediati, le voglie che si
travestono da desideri… Essere schiavi di se stessi, a volte, è il pericolo più grande.
2. Autonomia e responsabilità
In ogni scelta libera si deve dunque distinguere l’autonomia dell’atto e la
responsabilità dei contenuti; in un certo senso, autonomia e responsabilità sono due facce
di un’unica medaglia, che impediscono alla libertà di autocostituirsi come autonoma
creazione del bene. L’ordine dell’essere come bene (bene ontologico) diventa eticamente
vincolante solo per un agente morale: se il bene ontologico può essere esterno e, in senso
ultimo, trascendente, il bene morale deve essere interno, in quanto esprime un atto di
partecipazione al bene ontologico, perseguito da un soggetto che si riconosce responsabile
e non semplice spettatore dinanzi ad esso.
Solo in questa prospettiva è possibile sfuggire agli opposti estremismi del
determinismo (che assolutizza il bene ontologico, azzerando il bene morale) e del
soggettivismo (che invece assolutizza il bene morale, azzerando il bene ontologico). A
queste condizioni si può superare il dilemma fra autonomia ed eteronomia, respingendo
ogni sospetto estrinsecista nei confronti di un bene assoluto e trascendente, ritenuto un
peso antropologicamente insostenibile. In realtà è esattamente il contrario: la distanza
infinita – nell’ordine dell’essere, non in quello dell’amore – del creatore rispetto alla
3
creatura non limita o schiaccia la nostra libertà ma, al contrario, la libera dal pericolo di
soffocare nel circuito mortificante delle piccole cose, umane troppo umane.
In questa prospettiva si può recuperare la distinzione – ribadita con forza, tra gli altri,
da I. Berlin – tra libertà negativa, che intende l’autonomia come assenza di vincoli o
costrizioni esterne (libertà-da), e libertà positiva, che si costituisce in rapporto a una serie
di opzioni che di fatto si possono responsabilmente esercitare (libertà-di). Oltre questa
prima distinzione, si deve però riaffermare l’accezione più profonda di libertà, che
l’intende come riappropriazione radicale del fondamento stesso della vita morale (libertàper), rispetto al quale le singole scelte ontiche possono essere commisurate e valutate.
L’atto più alto di libertà consiste nello scegliere di vivere sempre all’altezza di questa
vocazione: nella scelta di essere libero, autonomia e responsabilità trovano il loro
compimento.
Il doppio riferimento al corpo e alla tradizione, qui riproposto nella polarità di natura
e cultura5, è in qualche modo già inscritto nell’intero percorso appena suggerito e non
dev’essere introdotto in modo estrinseco e forzato. In linea di principio, alla luce delle
puntualizzazioni precedenti, la libertà umana è irriducibile a una dimensione puramente
naturale dominata da una concatenazione deterministica di causa / effetto; si potrebbe
forse dire che la “natura” della libertà umana è di essere irriducibile a un mero dato
naturale. L’atto libero, infatti, non è propriamente conseguenza di altro, anche se le
condizioni abilitanti del suo esercizio dipendono da altro (e da altri).
Tuttavia, ciò non autorizza minimamente l’idea di una libertà svincolata e affidata
unicamente a se stessa. Kant ha messo in guardia contro questo equivoco con un esempio
efficace: «La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la
resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto
d’aria»6. In realtà, come il volo non è possibile nonostante ma grazie alla resistenza
dell’aria, allo stesso modo l’atto libero trova nel nostro corpo, con la sua fragile finitezza,
non un ostacolo ma le condizioni concrete del suo esercizio. Condizioni che, proprio per
questo, debbono poter essere rispettate.
Per una rassegna delle principali questioni connesse a questo rapporto cfr., tra l’altro,
A. Aguti e L. Alici (a cura di), L’umano tra natura e cultura, Ave, Roma 2015.
6
I. Kant, Critica della ragion pura (1781,1787), tr. it., I, Laterza, Bari 1969, p. 45.
5
4
Nello stesso tempo, la sporgenza della libertà si configura storicamente anche come
una coltivazione spirituale della natura: è questa la “seconda natura” della persona
umana. Da questo punto di vista, la vita naturale non rappresenta né un semplice punto di
partenza, cioè una sorta di trampolino “esterno” dal quale possono scaturire le più diverse
“avventure del desiderio”, né al contrario un carcere – anch’esso esterno – dal quale
sarebbe impossibile evadere.
Il libero orientamento dell’esistere non può prescindere dallo strato naturale del
vivere che rende possibile l’esistenza personale; in tal senso, il bene naturale della vita
concorre al bene morale e spirituale della persona. All’essere umano è dato di coltivare
il bene della vita come parte integrante di una sua piena fioritura, spirituale e relazionale.
Il nucleo originario dei diritti fondamentali della persona umana, nella sua radice ultima,
nasce da qui: essi sono come un’estensione del diritto primario alla vita, articolata in
forme normative, a seconda della civiltà giuridica corrispondente. Tale estensione
dipende dalla possibilità di appellarsi a qualcosa di più della semplice constatazione di un
processo in atto, andando oltre la logica evolutiva, incentrata sulla competizione e sulla
lotta per la sopravvivenza.
3. Equivoci postmoderni
Per questi motivi, la libertà non è compiutamente riducibile né a prodotto naturale
dell’evoluzione biologica né a una risultante storico-culturale di comportamenti
socialmente acquisiti. Se il corpo non è una prigione che mortifica l’autonomia, la
tradizione non può essere un’invenzione che delegittima la responsabilità. Le
conseguenze di questo doppio dislivello aiutano a leggere criticamente il nostro tempo,
caratterizzato da un’oscillazione quasi schizofrenica tra biocentrismo, nichilismo e
postumano.
Il biocentrismo, nelle sue diverse varianti (Shallow Echology, Deep Echology,
Movimento di liberazione animale o per i Diritti degli animali) guarda con sospetto a ogni
“artificio” culturale come responsabile di un potenziamento antropocentrico che avrebbe
agito come un’arma micidiale nei confronti della biosfera. Rispetto a una natura ritenuta
intrinsecamente normativa, l’umano deve essere riportato all’indietro, verso l’infraumano
come la sua vera patria. Cultura, storia e tradizione sono una forma di prevaricazione
specista da cui liberarsi.
5
L’assolutizzazione della dimensione culturale è invece l’esito estremo del nichilismo
postmoderno, che riduce, insieme a Nietzsche, tutti i fatti a interpretazioni, accettando
una versione dello storicismo moderno radicalmente indebolita e priva di qualsiasi utopia
secolaristica di emancipazione collettiva. Ormai smarrito il titanismo nietzscheano della
volontà di potenza, il nichilismo veste oggi panni minimalisti, autorizzando un
“individualismo delle preferenze” apparentemente inoffensivo ma non meno letale, che
pretende d’innalzare la bandiera dei diritti sulle ceneri di un ordine naturale interamente
annullato. Nella sua forma estrema nichilismo significa questo: prima della libertà non
c’è – letteralmente – nulla. Ex nihilo: proprio come Dio.
La prospettiva del postumano si colloca in una posizione in un certo senso
intermedia, che combina insieme natura e artificio. Attribuendo alla materia intelligenza
e capacità di auto-organizzazione, si prospetta la possibilità di un potenziamento
indefinito dell’umano, frutto di una ibridazione tra bios e techne, per cui natura e cultura
non si possono più distinguere, risolvendosi l’una nell’altra. Il senso dell’umano in questo
caso è nell’ultraumano; non è l’incompiutezza che ci contraddistingue ma la ridondanza,
fonte inesauribile di sempre nuove identità plurali.
In questi tre orientamenti, suggeriti in forma schematica e puramente esemplificativa,
riemerge costantemente un nodo non risolto, riconducibile al rapporto tra natura e cultura:
il biocentrismo assolutizza la dimensione naturale; il nichilismo assolutizza la volontà di
potenza storica, negandole però nello stesso tempo qualsiasi valenza salvifica; il
postumano propone una nuova sintesi tra natura e cultura, in cui i due termini si unificano
riducendosi l’uno all’altro.
Tornando alle tre polarità di libertà, corpo e tradizione, si potrebbe dire: nel primo
caso conta solo la natura (corpo senza tradizione); nel secondo anche la natura non è altro
che cultura, prodotto e non condizione di una libertà al di sopra del corpo e della
tradizione; nel terzo si annuncia una discontinuità nel modo tradizionale di concepire il
rapporto tra natura e cultura, da cui s’attendono nuove sintesi (un nuovo corpo e una
nuova tradizione), incommensurabili rispetto alle precedenti. Ne risulta in ogni caso,
anche se per vie diverse, una decostruzione del senso originario dell’umano da cui
dipende anche un sostanziale abbandono di qualsiasi forma di umanesimo
Le ambiguità implicite in questi nodi non risolti si riflettono puntualmente in una
profonda differenza d’impianto etico tra ecologia e bioetica: in ecologia prevalgono
6
modelli di etica pubblica rigorosamente normativa, che nascono dall’attribuzione alla vita
naturale di un valore intrinseco, dal quale scaturisce un imperativo che oltrepassa i
desideri individuali, la dimensione della politica e persino del diritto internazionale; in
bioetica, invece, prevalgono modelli di etica privata prevalentemente convenzionali e
soggettivistici, in larga misura impegnati a rendere compatibile il principio di autonomia
sul terreno della convivenza.
L’oscillazione tra il rifiuto di “consacrare” l’ordine naturale, che sarebbe una forma
inaccettabile e alienante di tarpare le ali alla libertà, e, al contrario, l’attribuzione di
un’incontaminata purezza normativa al mondo della natura, che andrebbe preservato da
ogni strumentalizzazione antropocentrica, disegna i termini di un’oscillazione oggi quasi
schizofrenica nella cultura e nel costume. Ad esempio, la difesa della omosessualità è
quasi sempre fondata sulla assolutizzazione di una tendenza naturale, mentre varie forme
di transessualismo tendono, al contrario, ad essere legittimate in nome di un
preferenzialismo culturalmente insindacabile.
Lo stesso dibattito sul gender è, in un certo senso, la cartina di Tornasole di un
groviglio di equivoci sui quali abbiamo la responsabilità di esercitare una vigilanza
critica, documentata e dialogica: come un’enfasi eccessiva sulla riappropriazione
soggettiva dell’identità di genere rischia di ridurre la natura a una forma mascherata e
ideologica di cultura, allo stesso modo risolvere “senza resti” tale riappropriazione entro
una forma rigida di natura rischia di avallare il pericolo opposto, quello di un biologismo
deterministico che mortificherebbe la vocazione alla libertà, implicando peraltro, di
conseguenza, un modello di insuperabile “darwninismo sociale” nella lotta per la
sopravvivenza. Come sempre accade in questi casi, le unilateralità di segno opposto
finiscono per diventare complici di un’involontaria alleanza, che fanno perdere di vista la
tensione tra i due fuochi di un’unica ellisse.
4. Rispetto della vita e promozione della persona
Come ha mostrato in modo radicale e profetico papa Francesco nella sua enciclica
Laudato si’. Sulla cura della casa comune, è possibile – e doveroso! – accreditare un
primato della persona sulla natura che non ha nulla a che fare con forme di
antropocentrismo più o meno dominativo, certamente inaccettabile; un primato non si
configura in termini di potere, ma di responsabilità e persino – come un cristiano dovrebbe
7
aggiungere – di amore e di cura. La via individuata dal personalismo cristiano e maturata
in dialogo con il pensiero classico resta oggi più che mai attuale: nella correlazione tra
natura e cultura s’intravede qualcosa del mistero della persona umana, che ha la capacità
straordinaria non solo di adattarsi all’ambiente e di adattare a sé l’ambiente, ma di
generare – in forme cooperative e condivise – addirittura una “seconda natura”, coerente
con la prima e capace di riflettere, in forme fragili e perfettibili, l’altezza della
trascendenza di cui è chiamata ad essere testimone.
Scaturisce da qui almeno un doppio compito, di ordine culturale ed educativo, che
responsabilmente siamo chiamati ad assumerci, nella prospettiva di una doppia cura del
corpo e della tradizione: esso si estende dall’orizzonte minimale del rispetto della vita,
come dovere primario, all’orizzonte massimale della promozione della persona, come
valore ultimo7. Il primo imperativo nasce come risposta doverosa al bene della vita; un
bene naturale e originario che s’inscrive in un orizzonte anteriore alla nostra libertà e che
siamo tenuti a rispettare: in senso relativo, in tutte le forme in cui la vita si manifesta,
secondo una graduazione assiologica corrispondente ai diversi livelli di complessità
dell’ordine naturale e del mondo della vita; in senso assoluto, in ogni essere umano, che
è sempre un fine in sé e mai un semplice mezzo, proprio grazie a una competenza libera
– autonoma e responsabile –, infinitamente aperta sull’orizzonte dei fini.
Accanto a tale compito, che assume il carattere di un divieto incondizionato di
strumentalizzazione o sfruttamento della persona umana, a cominciare dalla sfera della
corporeità e della salute, a un livello diverso si delinea quindi un compito ulteriore,
ispirato alla logica massimale della promozione, dove l’impegno – eminentemente
testimoniale, culturale ed educativo – è rivolto al miglioramento qualitativo delle
condizioni di esercizio della libertà e alla edificazione del bene comune da cui dipende
l’innalzamento dell’ethos. Qui il lessico imperativo del dovere, come risposta immediata
alla minaccia del male, lascia spazio a modalità diverse di elaborazione morale, che
prediligono soprattutto le forme ottative dell’elogio del bene, incarnandosi
nell’eccellenza esemplare di pratiche virtuose generate da gratuità oblativa. In fondo,
7
Ho cercato di sviluppare questi temi nel libro Il fragile e il prezioso. Bioetica in punta
di piedi, Morcelliana, Brescia (in corso di stampa).
8
come scrive Roberts, «si può costringere un uomo a non essere cattivo, ma non a essere
buono»8.
Questo doppio compito, in una certa misura, ripropone su un piano diverso la
circolarità di natura e cultura, postulando una correlazione corrispondente tra etica
pubblica ed etica privata: la convivenza dev’essere protetta dagli eccessi del male, mentre
politicamente ci si deve limitare a garantire l’esercizio personale di una libertà positiva,
che trova gli incentivi più efficaci e generativi nel contagio benefico della testimonianza
personale, nella saggezza dell’accompagnamento educativo, nella lungimiranza della
creatività culturale. Senza dimenticare che i due piani – il rispetto della vita e la
promozione della persona – possono essere distinti ma non debbono essere separati. Lo
si potrebbe dire con le parole di Sennett: «Il male che si tollera dipende dal bene che si
desidera»9.
8
G.D. Roberts, Shantaram, tr. it., Neri Pozza, Vicenza 2006, p. 232.
R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita
personale, tr. it., Feltrinelli, Milano 2009, p. 54.
9
9