la fedeltà dottrinale e morale

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la fedeltà dottrinale e morale
TESTO PROVVISORIO
Pontificia Università della Santa Croce - Facoltà di Diritto Canonico - XVII Convegno di studi
Roma, 11-12 aprile 2013
FEDE EVANGELIZZAZIONE E DIRITTO CANONICO
Strumenti giuridici dell’organizzazione ecclesiastica per la garanzia della fedeltà dottrinale e morale
REV. PROF. FERNANDO PUIG
Pontificia Università della Santa Croce
SOMMARIO
1. La rilevanza giuridica nell’ambito dottrinale dell’azione istituzionale della Chiesa. Premessa e oggetto della relazione; 2. Strumenti operativi ex ante per la garanzia della fedeltà dottrinale e morale; 2.1 La formazione quale elemento di idoneità per svolgere funzioni pubbliche; 2.2 Rilevanza giuridica della professio fidei e dello iusiurandum fidelitatis; 2.3 L’autenticità della testimonianza personale nell’organizzazione ecclesiastica; 2.4 Formazione e qualificazione
a livello professionale; 2.5 L’ambito della carità; 3. Strumenti operativi ex post per la garanzia della fedeltà dottrinale
e morale; 4. Conclusione
I. La rilevanza giuridica nell’ambito dottrinale dell’azione istituzionale della
Chiesa. Premessa e oggetto della relazione.
La fedeltà alla verità di Cristo si configura nella Chiesa come uno dei vincoli di base della
comunione, alla quale è tenuto ogni fedele (c. 209). La piena comunione con la Chiesa implica necessariamente, assieme a quella interiore, una realtà esteriore, visibile, nei vincoli della professione
di fede, dei sacramenti e del governo ecclesiastico. E’ fuori dubbio che nelle persone e nelle azioni
di coloro che compongono l’organizzazione ecclesiastica debba risplendere una tale fedeltà.
Vorrei mettere a fuoco, in primo luogo, la portata giuridica della fedeltà dottrinale e morale
per quanto riguarda l’azione istituzionale della Chiesa, per mostrare, in un secondo momento, con
quali mezzi possa essere garantita tale fedeltà nell’esercizio delle funzioni pubbliche nella Chiesa.
Mi sembra importante sottolineare questo punto perché è frequente far risalire la causa di alcuni problemi ecclesiali alla sola moralità o addirittura alla vita spirituale delle persone impegnate
in posti di governo o di rappresentanza ufficiale della Chiesa. Ciò alle volte viene così formulato: “i
problemi dell’azione della Chiesa non dipendono dalle strutture ne dagli strumenti giuridici, bensì
della moralità e della santità delle persone”. Devo dire di pensarla diversamente: precisamente perché è importante la moralità e la santità, è necessario mettere a fuoco la dimensione di giustizia intrinseca alla fedeltà dottrinale e morale dell’azione ecclesiale. Come sappiamo, per il fatto di svolgersi a nome della Chiesa, non viene legittimata moralmente né tanto meno santificata una decisione o azione: ci sono modi giusti e sbagliati – persino ingiusti – di agire in nome della Chiesa. Si
tratta qui di prendere in considerazione alcuni mezzi tesi a fomentare quelle giuste e ad evitare quelle sbagliate
Credo piuttosto che la fedeltà dottrinale e morale dell’azione ecclesiale istituzionale sia una
dimensione specifica della vigenza e vitalità della parola di Dio nella Chiesa1, in sostanza perché è
in gioco una garanzia qualificata del pacifico possesso e della conservazione di questo bene ecclesiale della parola di Dio nella comunità ecclesiale.
I fondamenti giuridici delle condotte fedeli alla dottrina e alla morale nell’azione istituzionale
della Chiesa possono riepilogarsi in due.
1
Tengo a ribadire che non è solo questione di rivendicare l’esemplarità da parte di coloro che svolgono funzioni
pubbliche ecclesiali, né solo di adottare misure pratiche per evitare confusioni e scandali nello svolgimento di azioni a
nome della Chiesa. Tanto meno si tratta di regolamentare un certo spazio di libertà dei fedeli: vogliamo rintracciare gli
elementi di giustizia inerenti all’azione ufficiale della Chiesa sul piano dottrinale e morale.
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Il primo fondamento riguarda lo statuto comune del fedele: ad ogni fedele viene esigita la fedeltà alla Chiesa nel suo comportamento e nel suo agire. Una tale esigenza, pur avendo aspetti morali, possiede anche una dimensione giuridica. Infatti, «il dovere di conservare la comunione nella
fede è correlativo al diritto della Chiesa, degli altri fedeli e perfino di tutti gli uomini, alla conservazione del deposito della fede nella sua integrità, conditio sine qua non di ogni autentica evangelizzazione. Non è quindi solo possibile, ma anche obbligatorio che nella Chiesa si esiga dai fedeli fedeltà a questo deposito così come è custodito e insegnato dalla Chiesa stessa»2. I soggetti titolari di
funzioni pubbliche sono sempre fedeli, legati a questa situazione giuridica.
Il secondo fondamento è specifico alla organizzazione ufficiale della Chiesa avendo come base la titolarità della funzione ecclesiastica e la conseguente responsabilità giuridica per la quale si
agisce in nome della Chiesa. La ragione di questa specificità sta nella natura del rapporto dei fedeli
con l’organizzazione ecclesiastica, cioè con i titolari degli uffici e in genere con tutti coloro che
svolgono funzioni ecclesiastiche. Infatti, il rapporto con l’autorità gerarchica è un elemento interno
ai vincoli della comunione, non solo per quanto riguarda la funzione di governo, la disciplina e il
correlativo dovere di ubbidienza, ma anche nel suo rapporto con gli altri beni ecclesiali. Concretamente per quanto riguarda il tema di questa relazione, il rapporto con l’autorità gerarchica è interno
al bene della parola di Dio: il possesso in comune della parola di Dio implica una dimensione sociale articolata con la gerarchia. La gerarchia dispiega la sua azione di tutela paradigmaticamente
nell’esercitare la funzione di magistero che garantisce l’individuazione dei contenuti di fede e di
conseguenza l’oggettività dei vincoli di comunione, anche di quelli che uniscono i fedeli tra di loro.
Ma la funzione della gerarchia non si esaurisce nell’azione magisteriale (e nella predicazione della
parola di Dio): si svolge anche attraverso specifiche misure di governo. Queste misure possono essere preventive, tese a garantire che l’azione ufficiale della Chiesa sia portata a termine secondo la
dottrina e la morale, oppure possono essere conseguenti alla mancanza di fedeltà alla dottrina.
In altre parole, non esiste un governo ecclesiale neutrale dal punto di vista della parola di Dio,
una sorta di tecnica di governo ecclesiastico guidata dalla sola efficacia pratica. Il governo ecclesiale, o è in comunione e al servizio dei beni della comunione, o non è giusto: l’azione di coloro che
sono titolari delle funzioni ecclesiastiche deve essere primariamente giusta dal punto di vista dei
beni ecclesiali perché possa essere prudente e praticamente efficace.
L’azione istituzionale della Chiesa può sempre essere vagliata dal punto di vista della conformità al bene comune della parola di Dio, il che vuol dire che deve esplicarsi per raggiungere fini
e usando mezzi conformi alla dottrina della Chiesa. Oltre alle conseguenze morali di una tale conformità, l’azione istituzionale possiede un nucleo di giustizia, una materia di oggettiva conformità
giuridica.
Oltre a questa dimensione di giustizia, ci sarà in molti casi uno spazio prudenziale che consente l’esistenza di azioni più o meno opportune o convenienti, più o meno indovinate davanti a una
certa situazione, il che di solito rientrerà nell’ambito della discrezionalità del titolare della funzione.
Questo spazio potrà anche essere vagliato sulla base della sua maggiore o minore efficacia che però
di per sé non intacca la base oggettiva di giustizia, vale a dire di conformità ai beni ecclesiali3.
2
C. J. Errázuriz M., “Diritto e doveri dei fedeli nei confronti della parola di Dio” in La parola di Dio quale bene
giuridico ecclesiale:il munus docendi della Chiesa, EDUSC, Roma 2012, pp. 173-174.
3
Sulla rilevanza giuridica del “buon governo”, vid. J. Miras, “Derecho al buen gobierno en la Iglesia. Una glosa a la
doctrina constitucional de Javier Hervada desde el derecho administrativo”, in Escritos en honor de Javier Hervada
(volume speciale della rivista «Ius Canonicum»), Pamplona 1999, pp. 367-378. Sull’agire dell’autorità ecclesiastica in
conformità con il diritto, vid. anche “Il principio di legalità nel diritto amministrativo canonico” in J. Miras, J. Canosa,
E. Baura, Compendio di diritto amministrativo canonico, EDUSC, Roma 2009, pp. 62-75.
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Incentro il mio discorso su ciò che è proprio dei ministeri, uffici e collegi dell’organizzazione
ecclesiastica, quindi dei titolari e dello svolgimento delle funzioni pubbliche ecclesiali4. Lascio da
parte le questioni riguardanti la garanzia dottrinale e morale delle iniziative scolastiche, universitarie, imprenditoriali, ecc. che si possano intraprendere con una ispirazione cristiana con una garanzia
istituzionale della Chiesa.
Non pretendo di soffermarmi sulle fattispecie penali canoniche che descrivono gravissime
condotte contrarie alle fede o alla morale e che comportano la privazione dell’ufficio ecclesiastico,
come sanzione a sé stante o come conseguenza delle pene della scomunica, dimissione dello stato
clericale, ecc. Queste sanzioni semplicemente escludono la persona dalle posizioni istituzionali di
rappresentatività della Chiesa. Tali provvedimenti, che sono irrinunciabili, solo per il futuro e in
modo necessariamente imperfetto risolvono il problema della protezione del pacifico possesso della
parola di Dio nella Chiesa.
Nella relazione mi soffermo per primo sugli strumenti che possono operare ex ante, come misure preventive o che incentivano l’azione svolta a nome della Chiesa in modo oggettivamente conforme alla parola di Dio, per affrontare in seguito le misure conseguenti ad una azione non conforme alla fedeltà morale e dottrinale.
II. Strumenti operativi ex ante per la garanzia della fedeltà dottrinale e morale
II.1. La formazione quale elemento di idoneità per svolgere funzioni pubbliche
Il principale strumento esistente per garantire la correttezza dottrinale e morale nello espletamento delle funzioni ecclesiastiche è la formazione di coloro che sono chiamati a svolgerle. Può
essere ritenuto una ovvietà; forse non lo è tanto portarlo effettivamente a compimento e trarne le
conseguenze giuridiche sulla base di ciò che abbiamo appena delineato come condizioni oggettive
per svolgere delle funzioni pubbliche.
In primo luogo si dovrebbe far riferimento ai titoli accademici richiesti per ricoprire determinati uffici, come per alcuni casi stabilisce la legge positiva5. Il caso più tipico è quello degli uffici
dell’amministrazione della giustizia nella Chiesa, che richiedono una formazione specifica. Andrebbero però presi in considerazione inoltre taluni uffici il cui svolgimento porta con sé un particolare coinvolgimento di questioni dottrinali, come il caso del penitenziere o del rettore del seminario.
Per questi uffici non si esige nulla di particolare oltre alla formazione normale dei chierici, in particolare dei presbiteri.
Nella procedura per la provvista dell’ufficio o l’attribuzione della funzione o ministero, non
andrebbe esclusa in alcuni casi una valutazione, seppur minima, del titolo e dell'ente accademico
che lo rilascia, al di là della qualifica formale o del fatto che sulla base di tale qualifica si siano ricevute precedenti nomine ad un ufficio o persino un grado dell’ordine6.
È ovvio che oltre ai titoli di studio dovranno essere presi in considerazione altri elementi di
formazione, di esperienza pastorale o persino professionale, assieme a tanti altri di natura personale.
Il fatto è però che i titoli accademici di per sé possono offrire solo una base presuntiva della forma-
4
Per il senso delle funzioni pubbliche ecclesiali come fulcro dell’organizzazione ecclesiastica, cfr. J. I. Arrieta, Diritto dell’organizzazione ecclesiastica, A. Giuffrè, Milano 1997, pp. 9-21; A. Viana, Organización del gobierno en la
Iglesia, EUNSA, Pamplona 2010, pp. 24-34.
5
Cfr. cc. 378; 478; 1420; 1421; 1435; 1483 CIC.
6
È sotto gli occhi di tutti che in alcuni luoghi per certi periodi la formazione abbia lasciato molto a desiderare sul
piano della fedeltà dottrinale. Ci si potrebbe chiedere se una autorità episcopale potrebbe o forse dovrebbe non prendere
in considerazione senza ulteriori garanzie, agli effetti della collazione di certi uffici, il titolo di una certa università o
facoltà dotata addirittura del titolo di cattolica o perfino di pontificia. Per non dire l’eventualità di un titolo emesso da
una entità accademica che sia stata privata di tali titoli.
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zione necessaria per svolgere un ufficio, e non invece un diritto, e nemmeno una aspettativa legittima per ricevere una certa carica7.
II.2 Rilevanza giuridica della professio fidei e dello iusiurandum fidelitatis.
In un senso analogo sarebbe forse opportuno ridare il giusto rilievo all’esigenza giuridica di
effettuare la professio fidei o il iusiurandum fidelitatis come viene esigito dal c. 833 CIC per alcuni
uffici8. È risaputo che in alcuni luoghi la professio fidei o il iusiurandum fidelitatis siano sistematicamente omessi se non ritenuti un elemento devozionale o persino decorativo. Non è superfluo ricordare un brano della formula del giuramento di fedeltà dove si afferma: «nell’esercitare l’ufficio,
che mi è stato affidato a nome della Chiesa, conserverò integro e trasmetterò e illustrerò fedelmente
il deposito della fede, respingendo quindi qualsiasi dottrina ad esso contraria».
Sembra chiaro che la professio sottintenda una dichiarazione di comunione rinforzata che, pur
non implicando una estensione di contenuti, porta con sé un’aggiunta di formalità, di carattere esplicito e di pubblicità. Pubblicità almeno formale per quanto può essere richiesta, e di fatto così
succede in alcuni casi, la sottoscrizione di un documento. Infatti, come è stato giustamente affermato, «questo atto conferisce rilevanza pubblica ad un aspetto dell’idoneità ... quello della comunione
di fede»9.
Inoltre, non può essere totalmente privo di rilevanza il fatto che una certa autorità, responsabile della provvista dell’ufficio, recepisca una professio e un giuramento di questa natura: nei confronti della comunità ecclesiale una tale ricezione – assieme alla nomina – conduce a presumere un
qualche tipo di verifica da parte dell’autorità, in base alla quale è legittimo attendersi la fedeltà a cui
si impegna il titolare.
Nondimeno, qualora l’ufficio portasse con sé l’espletamento di funzioni che implicassero valutazioni specificamente dottrinali, l’assunzione di responsabilità pubblica conseguente alla titolarità dell’ufficio dovrebbe includere qualificati doveri di custodia e promozione dell’autenticità della
fede. Rientrano in questa fattispecie qualificata i soggetti cui fa riferimento il c. 830 CIC: sia
l’Ordinario che concede la licenza per la pubblicazione di un libro che i censori10.
II.3. L’autenticità della testimonianza personale nell’organizzazione ecclesiastica
Bisogna affrontare la questione dell’autenticità della testimonianza cristiana personale di coloro che sono impegnati nelle funzioni pubbliche nella Chiesa. Mi riferisco concretamente ad alcune
azioni o atteggiamenti personali che, pur non intaccando di per sé e necessariamente lo svolgimento
delle funzioni pubbliche ecclesiali, possano indurre i fedeli alla confusione o persino alla sfiducia
7
Benché non priva di inconvenienti, derivanti talvolta dal tradursi in un qualche incentivo al carrierismo, si pensi,
con gli opportuni correttivi, ai vecchi sistemi di concorsi per la promozioni a certi uffici, frequenti fino a non molto
tempo fa in alcuni paesi.
8
«I fedeli chiamati ad esercitare un ufficio in nome della Chiesa sono tenuti ad emettere la ‘Professione di fede’, secondo la formula approvata dalla Sede Apostolica (cf. can. 833). Inoltre, l'obbligo di uno speciale ‘Giuramento di fedeltà’ concernente i particolari doveri inerenti all'ufficio da assumere, in precedenza prescritto solo per i Vescovi, è stato
esteso alle categorie nominate al can. 833, nn. 5-8. Si è reso necessario, pertanto, provvedere a predisporre i testi atti
allo scopo, aggiornandoli con stile e contenuto piu conformi all'insegnamento del Concilio Vaticano II e dei documenti
successivi» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Professio fidei et iusiurandum fidelitatis in suscipiendo officio
nomine ecclesiae exercendo, 9 gennaio 1989, AAS 81 (1989) p. 104). Dal diritto particolare potrebbe esigere un tale
atto formale al di là dei casi previsti dalla legge universale. Cfr. G. Gänswein, Commento al motu proprio “Ad tuendam
fidem”, Ius Ecclesiae 11 (1999), 253-273.
9
D. Cito, “Professione di fede e giuramento di fedeltà”, in Gruppo italiano docenti di diritto canonico (cur.), La funzione di insegnare della Chiesa, Glossa, Milano1994, p. 123. Essendo l’estrinsecazione di un aspetto dell’idoneità per la
carica, sembra chiaro che mancando la sua enunciazione non si dovrebbe procedere alla provvista dell’ufficio. Che
l’ipotesi sia alquanto bizzarra non significa che possa darsi per scontata la richiesta esplicita di fare la professio e il giuramento, e forse non priva di conseguenze per il futuro un atteggiamento restio da parte dell’interessato, ancorché si
concluda con l’effettiva realizzazione.
10
Cfr. C. J. Errázuriz M., sub c. 830 in Á. Marzoa, J. Miras, R. Rodríguez-Ocaña (a cura di), Comentario Exegético
al Codigo de Derecho Canonico, vol. III/1, Eunsa, Pamplona (3 ed.).
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nei confronti della Chiesa. Sono i casi costitutivi di una “contro-testimonianza” e quindi una possibile ferita per la comunione nella fede che potrebbe ripercuotersi nell’azione istituzionale della
Chiesa.
Poiché si ha a che fare con i vincoli della comunione e con ricadute sociali a possibile danno
della Chiesa, è indubbia la dimensione giuridica della fattispecie. Il problema è spesso delicato, perché bisogna valutare l’effettiva incidenza dell’azione o gli atteggiamenti nella compagine ecclesiale
e la protezione della buona fama della persona. In ogni caso, il bene che si vuol promuovere, che è
la trasparenza dell’azione della Chiesa e infine la Chiesa stessa, non si può trattare con leggerezza.
Avendo risvolti giuridici, la questione è allo stesso tempo prudenziale per cui va valutata secondo la
tipologia della carica, il grado di pubblicità dei fatti o gli atteggiamenti personali di cui si tratta, la
loro prossimità temporale, l’eventuale risanamento della situazione, ecc. In ogni caso l’autorità ecclesiastica è tenuta a vagliare con attenzione che l’onorabilità nell’attività e la rettitudine nei comportamenti personali, sociali, familiari, ecc. sia davvero consona al ruolo che si sta per svolgere11. In
ogni caso va affermato che la persona interessata deve essere consapevole che la sua posizione pubblica nella cura dei beni ecclesiali, insieme alla diligenza nello svolgimento delle funzioni, richiede
un alto senso di responsabilità.
Persino senza la concorrenza di una colpa personale, certe situazioni possono consigliare e
giustificare la non assunzione ad un incarico (o l’eventuale invito alla rinunzia o alla rimozione).
Penso per esempio alla possibilità purtroppo non rara di trovarsi coinvolti, appunto senza colpa, in
attività economiche fallite, o in una crisi matrimoniale. A questo proposito è significativa la previsione del c. 1740 che si riferisce ad un ufficio per il quale è prevista in generale una nomina stabile,
come è quella di parroco, nella quale si stabilisce: «quando il ministero pastorale di un parroco per
qualche causa, anche senza sua colpa grave, risulti dannoso o almeno inefficace, quel parroco può
essere rimosso dalla parrocchia da parte del Vescovo diocesano». Va preso in considerazione come
la legge preveda casi in cui oggettivamente lo svolgimento dell’ufficio sia diventato dannoso o almeno inefficace.
In questo contesto, vorrei accennare alla rilevanza che possono avere i legami familiari di un
candidato ad un incarico, con una autorità ecclesiastica dell’ambito dell’ufficio.
Il CIC contiene certe previsioni in merito allo stabilire, per esempio, che «sono esclusi dal
consiglio per gli affari economici i congiunti del Vescovo fino al quarto grado di consanguineità o
di affinità» (c. 492.3 CIC). Il tema ha notevoli implicazioni in contesti culturali nei quali la ricercata
fiducia personale come base per la collaborazione anche professionale si intreccia con il c.d. clientelismo o nepotismo. L’eventuale mancanza di imparzialità o il possibile sospetto su un qualche conflitto di interessi va preso in seria considerazione e le misure preventive andrebbero forse estese ad
altre cariche, munera o uffici, che non implicano in modo immediato il controllo dell’attività economica. In questo senso più generale si muovono le norme relative alla Curia romana12.
È un dovere che pesa sulla autorità ecclesiastica pervenire al dovuto equilibrio tra fiducia personale sulla quale puntare per quanto riguarda i propri collaboratori e l’oggettiva perizia per le mansioni che dovranno svolgersi13.
11
Una semplice ricerca su internet può offrire spunti di un certo interesse a tale proposito, come frequentazioni, preferenze manifestate, ecc. che andrebbero chiarite prima di procedere alla nomina. L’esposizione smisurata su internet,
che è di per sè una opzione personale, non dovrebbe essere indifferente in prospettiva dell’esercizio di funzioni pubbliche nella Chiesa. Questo tema riguarda sia laici che chierici.
12
Infatti, la norma del Regolamento Generale della Curia Romana (art. 17) vieta «l'assunzione nello stesso Dicastero
di consanguinei fino al quarto grado, e di affini in primo e secondo grado, secondo il computo canonico»; applicandosi
lo stesso criterio «anche a Dicasteri distinti, qualora l'assunzione di consanguinei e affini sia ritenuta, a giudizio dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, non conveniente per l'ufficio da svolgere».
13
Senza che si debba necessariamente arrivare ad una pedissequa imitazione delle procedure del mondo professionale privato o di quello relativo all’impiego pubblico nelle amministrazioni statuali, ci si potrebbe chiedere se la valutazione dell’idoneità delle persone destinate ad occupare cariche nell’organizzazione ecclesiasticha non debba includere
sempre stime di questo tipo, tenendo conto che alle volte non sono i legami familiari in senso stretto (consanguineità e
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Un fenomeno di diversa portata però anche rilevante in questo ambito è l’affidamento di certi
uffici, per convenzione formale, per consuetudine o di fatto, alla persona che presenterà o designerà
una entità ecclesiastica: il Codice prende in considerazione il caso dei religiosi. Va stabilito con
chiarezza che l’affidabilità sul piano dottrinale e morale deve essere accertata da entrambe le autorità ecclesiastiche: quella di cui dipende l’ufficio e quella preposta all’entità alla quale appartiene il
candidato. Sarebbe sempre preferibile una concorrenza di attenzione piuttosto che una comune disattenzione da parte delle due autorità14.
II.4 Formazione e qualificazione a livello professionale
A cavallo fra la formazione dottrinale e l’affidabilità personale si presenta la questione della
preparazione professionale delle persone che lavorano all’interno della organizzazione ecclesiastica.
Il tema tocca tutti i livelli dell’organizzazione, da quelli più tecnici a quelli più generali, non escluso
il governo a livello di uffici capitali e vicari. Si pensi anche alla necessaria dimestichezza con
l’accresciuta complessità dei problemi di governo della Chiesa, sempre più intrecciati a implicazioni giuridiche sia canoniche che civili, economico-finanziarie, tecniche, politiche, comunicative, ecc.
Se è vero che coloro che svolgono funzioni di governo non devono essere esperti in tutto ciò che
tecnicamente riguarda il loro operato, devono però saper intercettare le implicazioni dei problemi
negli ambiti appena citati, e saper valutare come e quando rivolgersi a professionisti, integrati
nell’organizzazione ecclesiastica o no15.
Il discorso da fare sarebbe molto vasto, vorrei circoscriverlo al solo tema oggetto della relazione16: all’origine di una azione che interessa beni ecclesiali scorretta dal punto di vista di morale o
dottrinale alle volte si cela la mancanza di preparazione professionale degli operatori, o disfunzioni
dell’assetto organizzativo predisposto per l’adozione delle decisioni.
L’ambito economico è forse quello in cui si percepisce con più chiarezza una tale sollecitazione. Da questo punto di vista vanno valutate le norme dei canoni 492 e 494 CIC riguardanti i
membri del consiglio per gli affari economici e l’economo. Sui primi si esige che siano «veramente
esperti in economia e nel diritto civile ed eminenti per integrità», il secondo deve essere «veramente
esperto in economia e distinto per onestà». La selezione e nomina da parte del vescovo dovrebbe
mirare ad entrambe le dimensioni del profilo tracciato dalla legge: il carattere di esperti e la probità.
affinità) ad entrare in gioco bensì i legami di amicizia precedente o comune origine (regionale, diocesana o parrocchiale, o di appartenenza a qualche realtà associativa ecclesiale).
14
La previsione normativa del CIC per i religiosi stabilisce un sistema che all’apparenza sembra semplice. Infatti,
per la provvista dell’ufficio l’autorità diocesana terrà conto degli eventuali diritti di presentazione o del consenso del
Superiore competente; per la rimozione, invece, si stabilisce una reciprocità fra Vescovo e Superiore: ognuno di loro
può procedere discrezionalmente ad essa, con solo un dovere di informazione all’altra. I motivi che conducono a tale
decisione restano all’interno della sfera decisionale delle rispettive autorità (c. 682 CIC). È interessante sottolineare
invece come un simile profilo formale, utile sotto alcuni punti di vista, possa influenzare la mancanza di attenzione di
entrambe le autorità nei confronti del titolare dell’ufficio, come dimostrazione di ipotetico rispetto per l’autonomia
dell’area di competenze dell’altra. La rettitudine dottrinale e morale, appartiene alla sola sfera individuale della persona,
essendo in questo caso di competenza del Superiore religioso? Lo svolgimento dell’ufficio, con le implicazioni appunto
morali e di fedeltà alla dottrina, mancano di rilevanza agli effetti di una valutazione sull’integro svolgimento della funzione, appartenente all’organizzazione ecclesiastica? Viene da chiedersi se il tradizionale e benemerito servizio che
rendono tanti religiosi all’organizzazione ecclesiastica, debba essere condotto meno dall’affidamento dell’ufficio in
pratica all’istituto, in favore di un rapporto più incentrato sulla persona e le condizioni del soggetto, fermo restando
l’opportuno intervento di entrambe le autorità in modi attenti ai diritti di tutti, iniziando ovviamente da quelli del – potenziale o attuale – titolare dell’ufficio.
15
Il direttorio Apostolorum successores nei nn. 55-62 presenta alcuni “Principi generali sul governo pastorale del
vescovo” e nei seguenti nn. 63-79 taluni indirizzi di lavoro, che implicitamente prendono in considerazione a livello
diocesano alcune linee di azione per far fronte alle complessità del ministero pastorale.
16
Molto interessanti le prospettive aperte in A. Viana, “Elementos canónicos de una pedagogía sobre el gobierno de
la diócesis”, in J. Wrocenski, J. Krajczynski (a cura di), Finis legis Christus  : ksiega pamiatkowa dedykowana ksiedzu
profesorowi Wojciechowi Góralskiemu z orazji siedemdziesiatej rocznicy urodzin, vol. I, Wydawnictwo Uniwersytetu
Kardynala Stefana Wyszynskiego, Warszawa 2009, 831-860.
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Si può affermare che la probità, integrità e onestà vanno misurate proprio sulla base dell’esperienza
già svolta in operazioni giuridiche ed economiche simili a quelle nelle quale dovranno intervenire,
includendo in esse le implicazioni etiche e dottrinali.
Una tale previsione andrebbe estesa ai diversi ambiti di operatività dell’organizzazione ecclesiastica, come concretizzazione del contenuto di giustizia implicito nella norma del c. 149.1 CIC:
«perché uno sia promosso ad un ufficio ecclesiastico, deve (...) possedere l’idoneità, cioè essere dotato delle qualità, richieste per l’ufficio stesso dal diritto universale o particolare oppure dalla legge
di fondazione». Non va dimenticato inoltre che ii nostri giorni è sempre più frequente che la responsabilità a livello ecclesiale si intrecci con la responsabilità civile, che prevede in molti ordinamenti
la colpa “in eligendo”, “in vigilando” o comunque una attribuzione di responsabilità, civile o persino penale, nei confronti del responsabile ultimo delle decisioni recanti danni alle persone17. Purtroppo in alcuni ambiti si si cerca di porre rimedio, una volta successi/verificatisi i danni.
Lasciando da parte i rapporti fra l’autorità ecclesiastica e i mezzi di comunicazione, va fatto
un cenno a certe attività di taglio culturale o persino pastorale dove è prevedibile che si scambino
per dottrina della Chiesa posizioni apertamente contrarie al magistero. Sembra doveroso intervenire
tempestivamente, qualora si possa dare adito ad una confusione di tale genere sia per il luogo dove
si svolge l’attività come i locali parrocchiali o una struttura afferente formalmente alla Chiesa, per
le persone che intervengono e a che titolo lo fanno: se si tratta di un chierico o un religioso, se è
l’autore di un libro che riguarda la fede o i costumi, ecc. Da tener conto prioritariamente è la ricezione di quell’attività fra i fedeli, nel senso che non possano pensare che sia avallata dall’autorità
ecclesiastica o che rispecchi la dottrina della Chiesa. Anche in questo ambito è chiamata in causa la
responsabilità di chi governa.
II.5. L’ambito della carità
In tempi recenti si è progressivamente presa più consapevolezza della stretta connessione fra
la Chiesa come istituzione e l’esercizio della carità. L’enciclica Deus Caritas est di Benedetto XVI
ne è ormai un punto di riferimento ineludibile. Di recentissima data è anche la Lettera Apostolica in
forma di “Motu Proprio” sul servizio della carità, il cui esordio presenta significativamente le parole Intima Ecclesiae naturae18.
Agli effetti della nostra relazione interessano in modo particolare i legami che stabilisce il motu proprio con gli aspetti dottrinali e morali dell’azione ecclesiale19.
Sul piano delle persone che si occupano di queste iniziative, si richiama al dovere di selezionare gli operatori tra persone che condividano, o almeno rispettino, l’identità cattolica di queste o-
17
Per un primo approccio al tema della responsabilità giuridica, cfr. E. Baura, Parte generale del diritto canonico.
Diritto e sistema normativo, EDUSC, Roma 2013, pp. 65-76. A livello di diritto amministrativo canonico, cfr. H. Pree,
La responsabilità giuridica dell’amministrazione ecclesiastica, in E. Baura, J. Canosa (a cura di), La giustizia
nell’attività amministrativa della Chiesa. Il contenzioso amministrativo, A. Giuffrè, Milano 2006, pp. 59-97.
18
Infatti, dopo aver sottolineato che «l'amore del prossimo radicato nell'amore di Dio è anzitutto un compito per
ogni singolo fedele» l’enciclica afferma che esso è, a tutti i livelli – dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino
alla Chiesa universale nella sua globalità – anche un compito per l'intera comunità ecclesiale; di conseguenza, afferma
«l'amore ha bisogno anche di organizzazione quale presupposto per un servizio comunitario ordinato» (Benedetto XVI,
Enc. Deus caritas est, 25 dicembre 2005, n. 20), organizzazione articolata pure mediante espressioni istituzionali (Benedetto XVI, Lettera Apostolica in forma di “Motu Proprio” Intima Ecclesiae natura sul servizio della carità, 11 novembre 2012, Proemio §2).
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Ripercorrendo l’articolato del motu proprio si percepisce in modo chiaro come, anche in questa dimensione della
missione della Chiesa, sia necessaria una vigilanza dell’autorità perché sia condotta secondo la fede e la morale cattolica. Infatti, negli statuti degli enti caritativi devono figurare i principi ispiratori e le finalità dell'iniziativa (art. 2); al vescovo diocesano si attribuisce la verifica che le loro attività mantengano vivo lo spirito evangelico (art. 6). È significativo che anche il vescovo debba curare che le istituzioni sottoposte alla sua vigilanza osservino la legittima legislazione
civile in materia (art. 5).
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pere e al dovere di provvedere alla loro formazione (cfr. art. 7)20. Dal punto di vista economico, sono anche chiare le cautele legate alla fedeltà alla dottrina e la morale delle Chiesa. Le autorità a tale
scopo devono evitare tanto «che gli organismi di carità siano finanziati da istituzioni che perseguono fini in contrasto con la dottrina della Chiesa, come che si accettino contributi per iniziative che,
nella finalità o nei mezzi per raggiungerle, non corrispondano alla dottrina della Chiesa» (art. 10)21.
Queste disposizioni confermano che non c’è spazio per sostenere una ipotetica neutralità dottrinale o morale dell’esercizio della carità. La Chiesa non si ritiene una entità di carità alla pari con
le altre: ha una propria specificità, legata intrinsecamente alla missione evangelizzatrice. Una tale
convinzione ha concretizzazione sul piano giuridico: «spetta alla Chiesa come istituzione il compito
di vigilare e tutelare affinché l’intero operato nell’ambito della diakonia – sia delle stesse istituzioni
della Chiesa che di altri soggetti che agiscono nella Chiesa sulla base della legittima autonomia dei
fedeli – si realizzi secondo giustizia, tanto naturale quanto specificamente ecclesiale (...). L’intera
attività caritativa della Chiesa deve porsi in sintonia con le esigenze comunionali dell’identità cattolica»22.
Infatti, le azioni che si compiono in nome della Chiesa devono essere presiedute dalla necessaria congruenza con la giustizia naturale e con i vincoli della comunione determinanti della giustizia intraecclesiale. Come stiamo vedendo, questi criteri devono essere affermati a proposito di ogni
altra espressione di azione ecclesiale risalente alla Chiesa come istituzione, e quindi alla organizzazione ecclesiastica come tale.
III. Strumenti operativi ex post per la garanzia della fedeltà dottrinale e morale
Quali conseguenze possono derivare da una mancanza di fedeltà dottrinale o morale alla
Chiesa nello svolgimento delle funzioni ecclesiali?
Escluse, come ho indicato all’inizio della mia relazione, le fattispecie penali punite con le
sanzioni della scomunica, interdetto o privazione dell’ufficio ecclesiastico23, vorrei invece abbozzare alcuni provvedimenti dell’autorità ecclesiastica che possono essere efficaci prima che si giunga
alle condotte più gravi, o misure di governo tese ad arginare le conseguenze negative che nella comunità siano derivate da condotte lesive della fedeltà dottrinale o morale.
Veniamo per primo ai provvedimenti preventivi. Nel contesto penale, si può ricordare che la
pena della sospensione, quale è prevista nel Codice, «è una pena divisibile e modulabile nei suoi
effetti e, per tale elasticità, si presta facilmente ad essere applicata in rapporto a diversi gradi di necessità»24. In questo senso, sempre con le opportune garanzie, una sospensione temporale di tutte o
alcune funzione inerenti all’ufficio potrebbe essere predisposta in chiave di induzione ad un cambiamento di atteggiamento.
20
Infatti, l’art. 7 stabilisce che «il Vescovo diocesano curi che quanti operano nella pastorale caritativa della Chiesa,
accanto alla dovuta competenza professionale, diano esempio di vita cristiana e testimonino una formazione del cuore
che documenti una fede all'opera nella carità».
21
La norma dedica un paragrafo anche al dovere in capo al vescovo e al parroco perché si premuniscano contro possibili abusi a livello delle presentazioni di iniziative: «dovranno impedire che attraverso le strutture parrocchiali o diocesane vengano pubblicizzate iniziative che, pur presentandosi con finalità di carità, proponessero scelte o metodi contrari all'insegnamento della Chiesa» (art. 9.3)
22
Carlos José Errázuriz M., “La dimensione giuridica del servizio della carità (diakonia) nella Chiesa”, in J. Miñambres (cur.), Diritto canonico e servizio della carità, A. Giuffrè, Milano 2008, p. 185.
23
La legge prevede un numero consistente di ipotesi penali che hanno come presupposto l’esercizio di funzioni
pubbliche. Anzi, come è noto, il diritto canonico prende di mira soprattutto i delitti commessi dai chierici nello svolgimento delle loro funzioni proprie o abusando della posizione che tali funzioni gli attribuiscono. Peraltro, in connessione
con il nostro tema vanno semplicemente accennati i delitti contro la fede, e i c.d. delicta graviora che sono azioni gravissime contro i sacramenti e contro la morale. Le censure più gravi (la scomunica, l’interdetto) inoltre portano con sé
l’allontanamento del soggetto da ogni funzione che implichi l’esercizio della potestà di ordine o di giurisdizione, rendendo anche invalido l’ottenimento di qualunque incarico nella Chiesa.
24
B. F. Pighin, Diritto penale canonico, Marcianum Press, Venezia 2008, p. 203.
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Ancora all’interno dei limiti dell’ambito penale, si può fare ricorso ai rimedi penali come
l’ammonizione e la riprensione, che possiedono un spiccato senso preventivo.
Infatti, l’ammonizione consiste in un preciso richiamo ad allontanarsi da una condotta disdicevole, effettuato dall’Ordinario personalmente o tramite una altra persona e indirizzato a chi versa
nell’occasione prossima di delinquere oppure a chi, a seguito di una appropriata investigazione, fa
sorgere il sospetto grave di avere già commesso un reato, anche se manca la certezza in proposito.
La sua finalità si prefigge di indurre il fedele alla vigilanza per evitare cadute di indole criminosa,
all’impegno effettivo di non procedere verso la messa in atto del delitto25.
Il rimedio penale costituito dalla riprensione potrebbe essere più adatto alla materia di cui ci
occupiamo perché si potrebbe effettuare anche in casi di non chiarezza della tipologia del reato che
si stia per commettere. La riprensione infatti è rivolta a un fedele che provoca scandalo o grave turbativa nella comunità a causa del proprio comportamento, perché si ravveda e desista prontamente
da una condotta dagli effetti dannosi, benché essa non si configuri come un delitto completo di tutti
i suoi elementi26.
Al di fuori dell’ambito penale, e quindi nel contesto del diritto dell’organizzazione ecclesiastica, si deve riflettere fino a che punto una condotta o un atteggiamento generale di mancanza di
fedeltà dottrinale o morale (non costitutive di reato) possano essere una causa di rimozione o di trasferimento dall’ufficio ecclesiastico27. Non sembra che a priori si possa obiettare ad una tale possibilità, fondamentalmente perché i presupposti di idoneità per essere titolare di un ufficio (c. 146) –
come è evidente– devono persistere per tutto il periodo di svolgimento delle funzioni: anzi, si può
pensare ad una rilevanza causale del vincolo con la Chiesa precisamente in base ad una accertata
fedeltà dottrinale. Di conseguenza, per esempio, non andrebbe esclusa come misura amministrativa
in certi casi la privazione temporanea delle facoltà di predicare o di insegnare28.
Come si è indicato a più riprese, è doveroso riconoscere come in non pochi casi sia difficile
l’accertamento della condotta non fedele dal punto di vista dottrinale o morale, in specie quando ci
si riferisce ad affermazioni fatte oralmente, attraverso discorso ambigui o apparentemente vaghi.
Contare su testimonianze veritiere e responsabili da parte dei fedeli, usare accortezza, ascoltare gli
interessati, ecc. richiederà un importante impegno da parte dell’autorità29. In ogni caso, qualora si
sia convinti che la promozione e la difesa della fede dei fedeli sia una delle principali missioni dei
pastori, sembra evidente che un tale sforzo debba far parte della normale attività di governo30.
A seconda della gravità dei fatti o degli atteggiamenti, delle rispondenti sanzioni o misure di
governo prospettate, dovrà essere seguita una procedura o un’altra. Un conto ovviamente è un processo penale per la irrogazione di una pena canonica, e un altro conto è accertare a livello amministrativo una azione o un insieme di atteggiamenti che possono richiedere una risposta dell’autorità.
Benché debba essere usato con grande prudenza, non dovrebbe essere molto complesso stabilire
nelle diocesi un’istanza di governo, preferibilmente collegiale, che con le garanzie debite possa vagliare le segnalazioni che in merito alla correttezza soprattutto dottrinale ma persino morale (siamo
25
Cfr. ibidem, p. 219.
Cfr. ibidem, p. 220.
27
Non bisogna ricordare quanto sia delicato e quanta prudenza debba essere usata nel mettere in atto una misura di
governo implicata nel trasferimento di una persona da un ufficio ad un altro, esplicitamente evocata dal direttorio Apostolorum Successores: «trasferimento ad altro ufficio in cui non esistano le circostanze che favoriscano quei comportamenti». Mentre è ovvio che sia necessario allontanare una persona da un contesto nel quale possa recare ulteriori danni
ai fedeli, bisogna tener conto che il conferimento di un nuovo ufficio non può non suggerire la conferma della legittimità della presenza di quella persona nell’organizzazione istituzionale della Chiesa.
28
Cfr. c. 764 CIC; Direttorio Apostolorum successores, n. 124.4.
29
Cfr. P. Buselli, “Il diritto di difesa in ambito disciplinare”, in Ius Ecclesiae 23 (2011), pp. 668-686.
30
Come afferma il direttorio Apostolorum successores, «è principale responsabilità del Vescovo vigilare sulla ortodossia e integrità dell’insegnamento della dottrina cristiana, senza esitare a far uso della sua autorità quando il caso lo
richieda» (n. 124 par. 3).
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al di fuori dell’ambito penale) giungessero all’autorità perché possano essere intraprese le misure
correttive necessarie31.
Passiamo a considerare brevissimamente alcune misure di governo che potrebbero in qualche
modo arginare le conseguenze negative derivate da condotte che danneggiano la comunità cristiana,
in specie perché effettuate da posizioni di autorità.
A questo proposito ovviamente possiamo fare riferimento solo a misure strettamente collegate
alla lesione specificamente verificata: sempre e ovunque un impegno in favore della chiarezza dottrinale è auspicato e deve essere favorito. Non sembra un’altra la finalità dell’indizione dell’Anno
della Fede32.
La migliore opzione, purtroppo difficile da raggiungere, è che ravveduta la persona causante
la perturbazione, provveda personalmente alla restituzione dovuta in giustizia, impegnandosi a diffondere la verità nello stesso modo in cui ha diffuso l’errore o ha indotto alla confusione.
In mancanza di una tale disponibilità, evitando ogni tipo di eccesso, talvolta un certo tipo di
pubblicità dei motivi – soprattutto dottrinali – implicati nella sanzione irrogata sarebbe un mezzo
adatto per far chiarezza nella coscienza dei fedeli. Un esempio chiaro è quello di alcune “notificazioni” pubblicate dalla Congregazione della Dottrina della Fede a conclusione delle procedure per
l’esame delle dottrine.
La possibilità di un qualche tipo di conflitto sui mezzi di comunicazione, è una eventualità
con la quale bisogna fare i conti. Non è ignorato da nessuno che non poche condotte che sono una
fonte di confusione per i fedeli si sviluppano nei mezzi di informazione, sia tradizionali (giornali,
televisione) che più moderni (blog, reti sociali). La presenza anche degli organi istituzionali della
Chiesa in questi ambiti è ormai un’esigenza irrinunciabile.
IV. Conclusione
Nella lettera apostolica Porta fidei, Benedetto XVI ha incoraggiato, insieme alla confessione e
alla celebrazione della Fede, il valore della testimonianza credibile: «auspichiamo che la testimonianza di vita dei credenti cresca nella sua credibilità»33. La testimonianza dell’autorità ecclesiastica, nella sua azione e nel suo comportamento personale, è giustamente vagliata dai credenti e dai
non credenti con qualificati criteri e con decisive conseguenze per l’evangelizzazione. È un dato di
fatto.
Il buon governo, guidato da criteri di giustizia nel contesto della fede e della morale, è di conseguenza un irrinunciabile ambito di promozione della stessa fede, della adesione alla persona di
Gesù Cristo, morto e risorto, salvezza per gli uomini. Il diritto della Chiesa offre un alveo ineludibile per una adeguata assunzione e un esercizio giusto della responsabilità nel servizio dell’autorità.
31
A livello di Conferenza episcopale, è stata auspicata a più riprese un coinvolgimento più esplicito delle commissioni dottrinali; benché le norme di diritto universale al riguardo abbiano puntato soprattutto sul suo coinvolgimento
nell’ambito dei libri, dovrebbero essere anche di aiuto in generale su temi dottrinali per i singoli vescovi. Un maggiore
scambio di vedute e di esperienza fra i vescovi in questo ambito potrebbe essere la base per interventi più incisivi per
proteggere l’integrità della fede nelle diverse circoscrizioni, oltre ad una illustrazione più frequente ed accurata sulle
verità più frequentemente oscurate nei singoli paesi o contesti culturali (cfr. Congregazione per la dottrina della fede,
Lettera ai presidenti delle conferenze episcopali circa le commissioni dottrinali, di 23 novembre 1990,
http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_19901125_doctrinalcommissions_it.html)
32
Cfr. Benedetto XVI, Lettera Apostolica in forma di “Motu Proprio” Porta fidei con la quale si indice l’Anno della
fede (11 ottobre 2011); Congregazione per la Dottrina della Fede, Nota con indicazioni pastorali per l’Anno della fede,
6 gennaio 2012.
33
Benedetto XVI, Porta fidei, n. 9.
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