Linguistica applicata - Dipartimento di Scienze Umane per la

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Linguistica applicata - Dipartimento di Scienze Umane per la
Linguistica applicata
Semantica e pragmatica in
prospettiva interculturale
Parte decima – La dimensione
pragmatica nell’acquisizione di
lingue seconde; bilinguismo e
biculturalismo
Premessa: un modello di cultura
Cultura
Lingua
Un modello di cultura
• Lingua e cultura: elementi comuni
• non-natura (né lingua né cultura fanno
parte della nostra eredità biologica)
• conoscenza (entrambe sono il
prodotto dell’apprendimento)
• comunicazione (cultura e lingua come
sistemi di segni)
Cultura “senza” lingua
• espressioni artistiche
• manufatti culturali
• gesti (prossemica)
• sistemi di valori
•…
In antropologia…
Cultura:
• Sistemi di norme e di credenze esplicite, elaborati in
modi più o meno formalizzati.
• Costumi e abitudini acquisite da esseri umani per il
semplice fatto di vivere in determinate comunità,
comprese quindi le azioni ordinarie della vita
quotidiana.
• Artefatti delle attività umane, dalle opere d’arte vere e
proprie agli oggetti di uso quotidiano e tutto quanto fa
riferimento alla cultura materiale, al sapere necessario
per vivere.
In antropologia…
Cultura:
• è appresa e non è riducibile alla dimensione biologica
dell’uomo;
• rappresenta la totalità dell’ambiente sociale e fisico
che è opera dell’uomo;
• è condivisa all’interno di un gruppo o di una società;
• è distribuita in maniera omogenea all’interno di tali
gruppi o società.
Quale nozione di cultura in pragmatica
interculturale?
Speakers sharing a native language and its underlying cultural
assumptions can exploit their language and manipulate the politeness
system to serve their needs or do ‘relational work’. Most non-native
speakers, however, will never achieve the cultural competence allowing
them to use the language as creatively or manipulatively as native
speakers do. In intercultural encounters, where speakers bring
divergent cultural assumptions to the conversation, knowledge of the
broad features characterising the interlocutors’ culture can be
exceedingly valuable. These broad features of language usage and the
way they differ across cultures are the object of study in cross-cultural
pragmatics. Regrettably, most cross-cultural studies do not go beyond
describing the differences in performing a particular speech act in the
contrasted languages, and few attempt to interpret the data in terms of
cultural values. The insights into the respective cultures gained from
cross-cultural pragmatic research are, therefore, largely restricted to
the studied speech acts (Eva Ogiermann 2009)
Il modello di Hofstede
Necessità di modelli comprensivi del concetto di cultura
Un modello di cultura particolarmente adottato in
pragmatica interculturale è quello di Hofstede. Secondo
Hofstede, la cultura non è osservabile direttamente. Quello
che possiamo osservare direttamente sono le sue
manifestazioni nei comportamenti e nelle pratiche di vita.
Al centro della nozione di cultura stanno i valori, ossia le
tendenze generali a preferire uno stato di cose su un altro. I
valori di norma formano dei sistemi di valori, all’interno
dei quali non sempre tutto è armonico. Nemmeno i valori
sono osservabili in quanto tali, ma solo nel momento in cui
vengono messi in atto in pratiche culturali.
Il modello di Hofstede
Le pratiche sono le manifestazioni visibili della cultura:
• Rituali: attività collettive tecnicamente inutili per
raggiungere gli obiettivi desiderati, ma necessarie per legare
l’individuo alla collettività (ad es., matrimonio, cerimonie
religiose, ecc.).
• Eroi: personaggi, reali o immaginari, che posseggono
caratteristiche considerate come desiderabili all’interno di
una cultura.
• Simboli: parole, gesti, figure e oggetti i cui significati
spesso complessi sono riconosciuti com tali solo da chi
condivide la stessa cultura (Coca Cola, slogan politici, volto
di Che Guevara, ecc.).
Il modello di Hofstede
Rituali
Eroi
Simboli
Rituali, eroi e simboli si
dispongono in ordine
decrescente di stabilità (i
più stabili sono i rituali,
i meno stabili i simboli)
e crescente di
“trasferibilità” (i più
facilmente trasferibili
sono i simboli, i meno
facilmente trasferibili i
rituali)
Il modello di Hofstede
Hofstede ha analizzato un database ampio di
interviste fatte a impiegati della IBM tra il 1967 e il
1973, coprendo più di 70 paesi. Il risultato del suo
lavoro è stato il riconoscimento di 5 dimensioni
lungo le quali si dispongono le culture dei paesi
studiati.
Il modello di Hofstede
Il modello di Hofstede
• PDI (Power Distance Index o Indice di distanza dal
potere): indice che misura quanto i membri meno potenti di
un’organizzazione siano disposti a accettare che nella loro
organizzazione il potere sia distribuito in maniera diseguale.
• UAI (Uncertainty Avoidance Index o Indice di evitamento
dell’incertezza): indice che misura “to what extent a culture
programs its members to feel either uncomfortable or
comfortable in unstructured situations …Uncertainty
avoiding cultures try to minimize the possibility of such
situations by strict laws and rules, safety and security
measures, and on the philosophical and religious level by a
belief in absolute Truth; ‘there can only be one Truth and
we have it’”
Il modello di Hofstede
• Mascolinità (o maschilità): questa dimensione
“refers to the distribution of roles between the
genders which is another fundamental issue for any
society to which a range of solutions are found. The
IBM studies revealed that (a) women’s values differ
less among societies than men’s values; (b) men’s
values from one country to another contain a
dimension from very assertive and competitive and
maximally different from women’s values on the one
side, to modest and caring and similar to women’s
values on the other”
Il modello di Hofstede
• Individualismo vs. collettivismo: questa
dimensione indica “the degree to which individuals
are integrated into groups. On the individualist side
we find societies in which the ties between
individuals are loose: everyone is expected to look
after him/herself and his/her immediate family. On
the collectivist side, we find societies in which people
from birth onwards are integrated into strong,
cohesive in-groups, often extended families (with
uncles, aunts and grandparents) which continue
protecting them in exchange for unquestioning
loyalty”
Il modello di Hofstede
• Orientamento temporale a breve o a lungo
termine: questa dimensione tiene conto di quanto
a lungo una cultura “programma” i propri
membri ad accettare il differimento della
gratificazione dei propri bisogni materiali, sociali
ed economici: “Values associated with Long Term
Orientation are thrift and perseverance; values
associated with Short Term Orientation are
respect for tradition, fulfilling social obligations,
and protecting one’s ‘face’”.
Il modello di Hofstede
• I paesi con l’indice più alto di individualismo sono gli
USA (91 punti) e l’Australia, quelli con l’indice più basso
Ecuador e Guatemala (6 punti). L’Italia ottiene 76 punti a
fronte di una media di 53.
Individualismo il confronto è più “normale” della
ricerca di armonia
i matrimoni sono basati sull’amore e
non concordati
l’iniziativa individuale viene
incoraggiata anziché scoraggiata
si sottolinea l’attrazione del
divertimento piuttosto che del dovere
Analisi della cultura: i rischi…
• Pregiudizio etnocentrico: una cultura non ha
criteri assoluti per giudicare un’altra superiore o
inferiore; è importante essere consapevoli dei limiti
connessi alla propria cultura quando si analizzano
culture “altre”.
• Stereotipi: quando si sono individuate delle
caratteristiche di una cultura è necessario evitare di
attribuire indiscriminatamente a tutti gli
appartenenti a quella cultura le medesime
caratteristiche.
Lingua, cultura e identità
Che cos’è l’identità? Su quali tipi di identità la
lingua può fornirci informazioni?
• Identità fisica (tipo fisico a cui apparteniamo)
• Identità psicologica (estroversi o introversi,
ansiosi o calmi, taciturni o loquaci, ecc.)
• Identità geografica (luogo da cui proveniamo)
• Identità etnica (fedeltà al gruppo etnico al quale
apparteniamo; diversa dall’identità geografica in
scenari di migrazione)
Lingua, cultura e identità
• Identità nazionale
• Identità sociale (appartenenza a caste o a gruppi
socio-economici)
• Identità contestuale (indica dove si è al momento
dello scambio linguistico)
• Identità stilistica (quanto di più individuale e
personale c’è nell’uso linguistico di ciascuno di
noi)
Lingua, cultura e identità
L’identità è spesso multipla: tutti abbiamo identità
multiple per il semplice fatto che abbiamo tratti diversi
e che nella vita interpretiamo ruoli diversi
L’identità è una dimensione essenziale anche
nell’acquisizione di una seconda lingua: “what is of
central interest to researchers of second language
identity is that the very articulation of power, identity,
and resistance is expressed in and through language.
Language is thus more than a system of signs; it is
social practice in which experiences are organized and
identities negotiated” (B. Norton)
Bilinguismo e biculturalismo
Si è bilingui quando si usano due o più varietà
linguistiche indipendentemente da:
• il grado di competenza;
• la frequenza d’uso;
• la distanza strutturale.
Bilinguismo e biculturalismo
Situazione italiana: il bilinguismo è
estremamente diffuso per vari motivi:
• vitalità dei dialetti;
• presenza (storica) di minoranze alloglotte;
• insegnamento di lingue straniere a scuola;
• insediamento di comunità immigrate e
formazione di nuove comunità alloglotte.
Dimensioni del bilinguismo
• Circostanze di apprendimento delle due lingue
• Uso delle due lingue
• Competenza nelle due lingue
• Organizzazione cognitiva delle due lingue
• Grado di attivazione delle due lingue
• Identità che le due lingue comportano
Dimensioni del bilinguismo
• Circostanze di apprendimento delle due lingue
Bilinguismo infantile
Bilinguismo adulto
Bilinguismo isolato
Bilinguismo collettivo
Bilinguismo additivo/sottrattivo
Bilinguismo strumentale/integrativo
Dimensioni del bilinguismo
Bilinguismo isolato/collettivo
Si parla di bilinguismo isolato quando un individuo
è andato a vivere in un luogo dove si parla la L2 da
solo o con la famiglia, e continua a utilizzare la L1
solo e strettamente all’interno di questo nucleo
ristretto; si parla di bilinguismo collettivo quando il
bilinguismo coinvolge un’intera comunità come
risultato di una migrazione di massa.
Dimensioni del bilinguismo
Bilinguismo additivo/sottrattivo
Si parla di bilinguismo additivo quando
l’acquisizione di L2 arricchisce il repertorio
linguistico dell’individuo (ad es., corsi di lingua
all’estero); il bilinguismo è sottrattivo quando
l’acquisizione di L2 va a scapito della L1 (tipico
caso: bambini immigrati che “disimparano” la L1
per mancanza di istruzione in L1, per mancanza di
stimoli in casa o nell’ambiente di socializzazione, o
per vergogna).
Dimensioni del bilinguismo
Bilinguismo strumentale/integrativo
Si parla di bilinguismo strumentale quando il
desiderio di imparare è motivato solo da scopi
utilitaristici. Si parla di bilinguismo integrativo
quando la L2 si impara per poter immergersi nella
cultura della L2 ed entrare a far parte del gruppo
dei parlanti della L2.
Dimensioni del bilinguismo
Uso delle due lingue
Quale delle due lingue si usa:
-- con chi
-- parlando di cosa
-- a quale scopo
-- quando
-- dove
-- perché
Dimensioni del bilinguismo
Uso delle due lingue
Le persone bilingui non alternano le proprie lingue
indiscriminatamente ma le riservano per parlare
con persone diverse, oppure con le stesse persone
di argomenti diversi, oppure per parlare con le
stesse persone dello stesso argomento ma per uno
scopo diverso.
Dimensioni del bilinguismo
Organizzazione cognitiva
Distinzione (proposta da Weinreich) tra
bilinguismo coordinato e bilinguismo composito.
Nel primo caso, a due significanti corrispondono
due significati (da intendersi sulla scorta di
Saussure come due “rappresentazioni concettuali”)
diversi. Nel secondo caso, a due significanti
corrisponde la stessa “rappresentazione
concettuale”. Nel primo caso le lingue sono più
indipendenti l’una dall’altra.
Dimensioni del bilinguismo
Attivazione
Si distingue un’attivazione monolingue, quando il
bilingue utilizza una sola delle sue due lingue e
un’attivazione bilingue quando il bilingue alterna
le sue due lingue nella stessa conversazione. Gli
studi di sociolinguistica hanno però mostrato che
anche nel caso di conversazioni perfettamente
bilingui è altamente improbabile che non ci sia una
lingua base.
Dimensioni del bilinguismo
Identità
Il solo fatto di imparare un lingua – ad esempio
passivamente, sui banchi di scuola, senza alcuna occasione
di praticarla al di fuori dell’ambito scolastico – non
comporta automaticamente un cambiamento di identità.
Due estremi:
a) Il bambino italiano che impara l’inglese alle scuole
elementari
b) Il bambino immigrato che impara l’italiano
Dimensioni del bilinguismo
Identità
Il bambino italiano che impara l’inglese (o
qualsiasi altra lingua straniera) alle scuole
elementari avrà sicuramente poche occasioni di
esercitare questa lingua. La sua acquisizione della
L2 comporterà verosimilmente un grado di
competenza linguistica progressivamente crescente
ma uno scarso livello di acquisizione della
competenza comunicativa (e nessun cambiamento
di identità)
Dimensioni del bilinguismo
Identità
Il bambino immigrato che impara l’italiano (o
qualsiasi altra lingua) in una scuola italiana
svilupperà verosimilmente un bilinguismo di tipo
integrativo, che lo spingerà all’assimilazione di una
nuova identità. Se poi il suo bilinguismo è di tipo
sottrattivo, la progressione nelle competenze
comunicative in L2 comporterà una perdita o un
ridimensionamento dell’identità connessa con la
L1.
Un’identità biculturale è possibile?
La domanda essenziale che dobbiamo porci quando
esaminiamo il fenomeno del bilinguismo è se il
bilinguismo implichi (e se sì, in che termini)
un’identità biculturale.
A questo riguardo, l’ipotesi più diffusa è che il
biculturalismo è possibile, ma riguarda gli strati più
esterni del modello di cultura di Hofstede (rituali, eroi
e simboli). Si parlerà dunque di biculturalismo per
indicare la partecipazione alle manifestazioni di due
culture.
Un’identità biculturale è possibile?
In questo senso è anche possibile avere un’identità
biculturale, se la partecipazione alle manifestazioni
di una cultura C2 è frequente e routinizzata.
Se invece si intende biculturalismo come
l’adesione ai valori della cultura C2 senza
abbandonare i valori della cultura C1,
probabilmente si dovrà concludere che l’identità
biculturale è molto difficile o impossibile, o è
possibile solo quando le due culture in questione
sono molto vicine e simili tra loro.
Un’identità biculturale è possibile?
Un esempio:
--- ritualità dei saluti in inglese australiano e in wolof
Inglese australiano: saluti utilizzati per creare
un’impressione di uguaglianza tra i due interlocutori, in
sintonia con l’ideologia dominante di quel paese.
Wolof: i saluti “riflettono” la stratificazione della
società; l’interlocutore socialmente inferiore farà
domande e condurrà il rituale dei saluti, mentre
l’interlocutore socialmente più elevato si limiterà a un
atteggiamento di passività.
Un’identità biculturale è possibile?
Un parlante di inglese australiano potrà anche acquisire
una piena competenza comunicativa dei saluti in
Wolof, ma questa competenza comunicativa potrà mai
significare abbandono della propria C1 e acquisizione
del sistema di valori che forma la C2 (e che è sotteso al
rituale dei saluti in Wolof)?
Di sicuro è possibile, ma si tratta di un fenomeno
estremamente limitato, al quale sarà bene dare il nome
di conversione (con lo stesso significato che questo
termine ha nella sfera religiosa).
Un’identità biculturale è possibile?
Questo non significa affatto che l’esposizione, specie
se prolungata, a una C2 non provochi a lungo andare
cambiamenti, anche forti, nella nostra cultura e nella
nostra identità. Ma quando i valori di due culture sono
in conflitto tra loro, è impossibile essere “biculturali”
rispetto a quei valori e bisogna scegliere. Scegliendo,
non diventiamo biculturali ma creiamo una “terza”
identità culturale, che chiamiamo C3 o terzo spazio, e
che rappresenta una mescolanza, fortemente
idiosincratica, dei valori di C1 e C2, con possibili
affievolimenti di valori intensi e rafforzamenti di valori
deboli dell’una o dell’altra cultura.
Un’identità biculturale è possibile?
In questo senso si può dire che NON tutte le culture sono
uguali, nel senso che chi sceglie i valori di una cultura
valuta una cultura come migliore di un’altra.
Più in generale, il contatto tra due culture C1 e C2, sia
quando implica semplicemente adesione a pratiche
appartenenti ora a C1 ora a C2, sia quando dà luogo alla
creazione di un terzo spazio C3, implica sempre un certo
grado di tensione, che può essere positiva se pratiche
esterne e valori sono in sintonia gli uni con gli altri (con
acculturazione e bilinguismo additivo), negativa se c’è
conflitto tra pratiche e valori (con deculturazione e
bilinguismo sottrattivo).
Un’identità biculturale è possibile?
Allo stesso modo si può dire che una persona
bilingue avrà una personalità doppia solo se
intendiamo personalità non nell’accezione di tratti
psicologici permanenti di un individuo ma come
alternanza di stati psicologici temporanei.
Alternare pratiche culturali può portare a diversi
stati psicologici, per cui ci si può sentire più/meno
estroversi, disinibiti, assertivi, accomodanti, ecc.
quando si aderisce a pratiche di una C2 (e quando
si parla una L2).
Un’identità biculturale è possibile?
Sì, come identità di transizione
“Current research on second language identity
conceives of identity as dynamic, contradictory, and
constantly changing across time and space. Indeed, a
recurring theme throughout much of the research is
that of ‘transition’. Many of the participants in
research projects on second language identity are
undergoing significant changes in their lives, whether
moving from one country to another or from one
institution to the next” (B. Norton)
Un’identità biculturale è possibile?
Un esempio concreto:
Anna Wierzbicka, linguista dell’Australian National
University (Canberra), di madrelingua polacca, sposata
con un australiano
Early in our life together, my husband objected to my
too frequent – in his view – use of the expression of
course. At first, this puzzled me, but eventually it
dawned on me that using of course as broadly as its
Polish counterpart oczywiście is normally used would
imply that the interlocutor has overlooked something
obvious.
Un’identità biculturale è possibile?
In the Polish confrontational style of interaction
such an implication is perfectly acceptable, and it
is fully consistent with the use of such
conversational particles such as, for example,
przecież (‘but obviously – can’t you see?’). In
mainstream Anglo culture, however, there is much
more emphasis on ‘tact’, on avoiding direct
clashes, and there are hardly any confrontational
particles comparable with those mentioned above
…
Un’identità biculturale è possibile?
… I had to learn to ‘calm down’, to become less
sharp and less ‘blunt’, less ‘excitable’, less
‘extreme’ in my judgments, more ‘tactful’ in their
expression. I had to learn the use of Anglo
understatement (instead of more hyperbolic and
more emphatic Polish ways of speaking)… Like
the Polish-American writer Eva Hoffman, I had
to learn the use of English expressions such as
‘on the one hand … on the other hand’, ‘well
yes’, ‘well no’, or ‘that’s true, but on the other
hand…’
Un’identità biculturale è possibile?
I had to start learning new “cultural scripts” to live by,
and in the process I became aware of the old “cultural
scripts” which had governed my life hitherto… For
instance, when I was talking on the phone, from
Australia, to my mother in Poland with my voice loud
and excited, carrying much further than is customary
in an Anglo conversation, my husband would signal to
me: “Don’t shout!”. For a long time, this perplexed
and confused me: to me, this ‘shouting’ and this
‘excitement’ was an inherent part of my personality.
Gradually, I came to realise that this very personality
was in part culturally constituted.
Un’identità biculturale è possibile?
The realization of the close links between one’s
ways of speaking, one’s personality, and one’s
cultural background raised for me the question
that countless other immigrants are constantly
confronted with: to what extent was it desirable,
or necessary, to adapt to one’s new cultural
context (changing oneself in the process)?
Thus, I was learning new ways of speaking,
new patterns of communication, new modes of
social interaction … there were lapses, of
course!
La competenza pragmatica e le
“interlingue”
--- Come mostra la narrazione autobiografica di Anna
Wierzbicka, un terreno privilegiato per affrontare gli
aspetti culture-specific della pragmatica sono le
interazioni in L2. Dal momento che apprendere la
competenza pragmatica in una L2 è più difficile che
acquisire un livello avanzato di competenza
grammaticale, le conversazioni tra nativi e non-nativi
in una data lingua sono ricche di dati sulle differenze
nella gestione di aspetti come la cortesia e la faccia in
culture diverse. Queste differenze possono talvolta
portare a fraintendimenti e “incidenti” conversazionali.
Una disciplina di confine: la pragmatica
dell’interlingua
Pragmatica dell’interlingua (Interlanguage
pragmatics):
“the study of nonnative speakers’ use and
acquisition of linguistic action patterns in a
second language (L2)” (Kasper & BlumKulka 1993)
Una disciplina di confine: la pragmatica
dell’interlingua
Ma non solo…
Yet tying interlanguage pragmatics to nonnative speakers, or language
learners, may narrow its scope too restrictively. Speakers fully competent
in two languages may create an intercultural style of speaking that is
both related to and distinct from the styles prevalent in the two substrata,
a style on which they rely regardless of the language being used. The
intercultural style hypothesis is supported by many studies of crosscultural communication, notably interactional sociolinguistics and
research into the pragmatic behavior of immigrant populations across
generations. Hence, it appears useful to include under ILP the study of
intercultural styles brought about through language contact, the
conditions for their emergence and change, the relationship to their
substrata, and their communicative effectiveness (Kasper & Blum-
Kulka 1993).
La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione
“aneddotica” alla dimensione sistemica
--- Lo studio della pragmatica delle interlingue nasce
dall’osservazione dei casi frequenti di impasse
comunicativi tra nativi e non-nativi e tra parlanti di
madrelingue diverse che interagiscono tra loro in una
lingua straniera per tutti i partecipanti alla conversazione.
--- La dimensione “aneddotica”, cioè l’osservazione, più o
meno episodica, di casi di impasse, o di altre “disfluenze”
nella comunicazione, è utile purché si accompagni a
un’operazione di sistematizzazione e modellizzazione dei
vari “aneddoti” in un quadro esplicativo generale.
La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione
“aneddotica” alla dimensione sistemica
Un punto di vista privilegiato: le osservazioni di un
linguista (Richard Schmidt) che apprende una lingua
straniera
I noted in my diary several times the difficulties I had with telephone
conversations, especially in knowing when and how to end a conversation.
I knew that with friends the closing move would be for both parties to say
ciao, but I could never identify the point at which I could say it, so I would
often stand holding the phone waiting patiently for the other person to say
it first. Finally, during the last week of my stay, a friend came to my
apartment and used my telephone to make several calls. I listened
carefully, and noticed that in two successive calls, shortly before saying
ciao, my friend said the phrase então tá, which means no more than “so,
then.”
La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione
“aneddotica” alla dimensione sistemica
Un punto di vista privilegiato: le osservazioni di un
linguista (Richard Schmidt) che apprende una lingua
straniera
Suspecting that this might be a preclosing formula, I
immediately called another friend and after a few minutes of
talk, said então tá, paused briefly and plunged ahead with
ciao in the same turn. It worked, and after that I had no
trouble at all getting off the phone efficiently. I subsequently
asked several native speakers how to close a telephone
conversation. None could tell me, but when 1 suggested the
use of então tá, they agreed that was right.
La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione
“aneddotica” alla dimensione sistemica
Un punto di vista privilegiato:
On the first day of a 2-week trip to Thailand, I presented a paper
at the end of the day at a national conference. After the lecture,
several Thais with whom I would be working for the following
week approached me and made some brief remarks in English (I
know no Thai) and then slipped away. I found myself standing
by myself much quicker than I expected, and had the unsettling
feeling that my talk must have been very poorly received. I
returned to my hotel feeling quite depressed about this. That
evening, I looked over some materials that I had collected
during the day, including an article by Sukwiwat and Fieg
(1987) on greeting and leave-taking in Thai…
La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione
“aneddotica” alla dimensione sistemica
Un punto di vista privilegiato:
Sukwiwat and Fieg pointed out that conversations are closed quickly
in Thai but tend to be drawn gradually to a close in English, so that
Americans are often taken aback by what appear to be abrupt,
brusque, and sometimes rude departures. Thais, on the other hand,
think that American leave-takings drag on excessively and involve
unnecessary verbiage. I immediately realized that I might have
misinterpreted the significance of what had happened earlier. For the
remainder of my stay, I tried my best to beat the Thais at their own
game by closing conversations faster than they could, for example, by
suddenly announcing, “well, I’m leaving now.” I never succeeded in
getting away faster than they did, but my disquiet at this aspect of Thai
behavior evaporated and I suffered no discomfort from behaving in a
way that would be rude by my own cultural norms.
La pragmatica dell’interlingua: dalla dimensione
“aneddotica” alla dimensione sistemica
Un punto di vista privilegiato:
In several publications (Schmidt, 1983, 1984), I reported on a case
study of a Japanese learner of English whose overall level of
communicative competence was superior to his rather rudimentary
control of English grammar. In looking at the development of
pragmatic ability by my subject, Wes, I found that he often used hints
that native speakers of English, including myself, did not realize were
intended as directives. For example, once in a theater, Wes turned to
me and asked me if I liked my seat. I responded that my seat was fine,
not realizing at all that he was indirectly requesting that we change
places. After many years of interacting with Japanese speakers of
English, I think that I now recognize such hints on most occasions, but
this learning process has been slow.