La delocalizzazione nella provincia di Firenze

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La delocalizzazione nella provincia di Firenze
IRPET
Istituto
Regionale
Programmazione
Economica
Toscana
La delocalizzazione
nella provincia di Firenze
Una breve sintesi
STEFANO CASINI BENVENUTI
Relazione al convegno:
“DELOCALIZZAZIONE PRODUTTIVA da problema a opportunità.
Il caso dell’area fiorentina in una ricerca IRPET”
Firenze, 27 gennaio 2006
RICONOSCIMENTI
La presente nota, redatta da Stefano Casini Benvenuti, rappresenta una sintesi provvisoria del lavoro
condotto in collaborazione tra IRPET e Politecnico di Milano. Hanno partecipato alla ricerca Lorenzo
Bacci, Stefano Casini Benvenuti, Renato Paniccià dell’IRPET; Ilaria Mariotti, Lucia Piscitello del
Politecnico di Milano; Marco Mutinelli dell’Università di Brescia
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QUALCHE PREMESSA
Delocalizzare: un processo da governare
Quando si parla di delocalizzazione emergono curiosamente due atteggiamenti opposti: quello
degli studiosi, che vedono il fenomeno come espressione di capacità imprenditoriale e quindi,
anche, di competitività del sistema; quello di molti operatori locali (amministratori pubblici,
rappresentanze sindacali,…) per i quali delocalizzare significa, in genere, perdere quote di
produzione e di occupazione.
Molte di queste differenze di valutazione dipendono dai punti di vista (quello dell’impresa o
quello del sistema produttivo), dall’orizzonte temporale preso come riferimento (breve o mediolungo), dalle tipologie di delocalizzazione (alla ricerca di un più basso costo del lavoro oppure
alla conquista di nuovi mercati di sbocco), dal fatto di considerare o meno anche la
delocalizzazione in entrata.
Tra tutti questi punti di vista quello temporale è di primaria importanza e spiega in larga
misura il diverso atteggiamento esistente nei confronti dei processi delocalizzativi. In effetti,
sebbene non vi sia dubbio sul fatto che la delocalizzazione sia un ingrediente della continua
trasformazione che accompagna nel tempo ogni sistema economico, nel valutare i suoi effetti
sarebbe necessario confrontare la situazione in atto (nota) con quella che vi sarebbe stata in
assenza del fenomeno in esame (ignota) e non, come spesso viene fatto, semplicemente con
quella precedente la scelta di delocalizzare: in altre parole se un certo numero di imprese decide
di trasferire parti del processo produttivo all’estero ciò che vediamo, rispetto alla situazione
precedente, è la perdita di produzione ed occupazione, ma in realtà ciò che dovremmo stimare è
ciò che accade rispetto alla evoluzione che avrebbe avuto il sistema se le imprese non avessero
delocalizzato.
La delocalizzazione va, dunque, inserita all’interno del secolare processo di divisione
internazionale del lavoro che coinvolge non solo i diversi beni ma, sempre più, anche le diverse
fasi di un processo produttivo, rendendo conveniente realizzarle in luoghi talvolta anche molto
distanti tra di loro. È evidente come, all’interno di tale processo di continua redistribuzione dei
ruoli produttivi, i diversi territori possono guadagnare o perdere sulla base della propria
competitività; ed è altrettanto evidente che quest’ultima non può giocarsi solo sul fatto di
mantenere all’interno del proprio sistema tutto quello che oggi c’è, ma piuttosto sul fatto di
spostarsi via via sulle attività per le quali mostra di avere maggiori vantaggi comparati: il
problema non è dunque la delocalizzazione, quanto il fatto di non essere in grado di sostituire le
fasi nelle quali si perde competitività (e che quindi necessariamente verranno svolte da altri) con
altre rispetto alle quali si dispone di fattori strategici per essere più competitivi.
Le diverse tipologie di delocalizzazione
Delocalizzare significa, in senso lato, decentrare in altri paesi produzioni o fasi del processo
produttivo che prima venivano effettuate all’interno del sistema. Ciò può avvenire governando
direttamente il processo attraverso la realizzazione di investimenti diretti all’estero (d’ora in
avanti IDE) volti a creare imprese nuove o ad acquisire la proprietà o il controllo di imprese
esistenti. Ma si può continuare a parlare di delocalizzazione anche in presenza di processi più
soft, che avvengono, ad esempio, attraverso la stipula di accordi commerciali o semplicemente
acquistando da imprese estere prodotti o semilavorati prima acquistati da imprese nazionali. In
entrambi i casi un pezzo della produzione nazionale viene stabilmente delocalizzata all’estero.
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Le principali motivazioni che spingono le imprese a delocalizzare sono riconducibili a tre
principali tipologie:
• per ridurre i costi di produzione, a seguito della possibilità di disporre di fattori produttivi a
più basso costo (low cost seeking);
• per accedere più facilmente al mercato finale (market seeking);
• per accedere a fattori strategici fondamentali per aumentare le proprie competenze (strategic
asset seeking).
Basso costo e accessibilità sono quindi i fattori strategici che guidano la scelta di
delocalizzare. Nel primo caso il risparmio dal lato del costo del lavoro è una delle principali
motivazioni, ma può essere rilevante anche il costo di alcune materie prime, una minore
tassazione, minori vincoli ambientali,… Nel secondo caso può essere rilevante la vicinanza a
lavoro qualificato (conoscenza contestuale) o a particolari risorse produttive, sino anche alla
domanda finale.
In linea generale se la prima motivazione spinge, certamente, verso paesi a più basso livello
di sviluppo, la seconda ha un riferimento più ampio: possono essere infatti presenti
localizzazioni in paesi ad alto livello di reddito per raggiungere più facilmente la domanda
finale oppure per collocarsi vicino a fattori produttivi strategici (tecnologia, lavoro qualificato,
ecc..), come paesi a basso livello di reddito nel tentativo di rapportarsi ad una domanda che sta
nascendo e sviluppandosi anche in tali aree.
La delocalizzazione in entrata
Un ragionamento analogo può essere condotto sulla delocalizzazione ospitata nel nostro
sistema, la quale opera con le medesime motivazioni. È tuttavia evidente che nel caso italiano -e
fiorentino in particolare- è del tutto improbabile che imprese straniere si localizzino nelle nostre
aree per il più basso costo dei fattori produttivi, ma piuttosto saranno richiamate dalla presenza
di elementi di qualità rintracciabili nel pregio delle lavorazioni, nel rapporto con una
manodopera qualificata, in un rapporto consolidato con la domanda finale.
Dal punto di vista degli effetti sul sistema locale ciò che è rilevante sono i modi in cui
avviene l’intervento, in particolare se l’impresa acquisisce la proprietà di una impresa locale
senza accrescerne la capacità produttiva (a meno di investimenti aggiuntivi) o se invece si tratta
di insediamento di nuove imprese. In particolare si parla di IDE green-field se si tratta di nuove
imprese le quali vanno ovviamente ad aumentare la capacità produttiva nel paese ospite
creando, molto probabilmente, posti di lavoro. Al contrario gli IDE brown-field generano
capacità produttiva nell'impresa acquirente, ma non nel paese di destinazione o nel mondo nel
suo complesso.
Ma oltre agli effetti su fatturato, valore aggiunto, occupazione, occorre tenere conto anche di
altri effetti più indiretti, sulla conoscenza, sulle tecnologie, sugli skill lavorativi, sugli effetti di
spillover sul resto del sistema produttivo, che sono spesso altrettanti elementi che incidono sullo
sviluppo della competitività di un sistema.
Le fonti per analizzare il fenomeno
È possibile procedere ad una stima della dimensione che il fenomeno ha, ad oggi, assunto su
due diversi fronti: da un lato osservando l’evoluzione dell’interscambio con l’estero di beni
(fonte ISTAT), dall’altro osservando l’evoluzione degli IDE (fonte Reprint). Tuttavia, nessuna
delle due fonti in realtà consente di fare piena luce sull’intero fenomeno.
Dal commercio estero di beni si possono, infatti, desumere solo indizi circa la presenza o
meno di fenomeni di delocalizzazione, ma solo limitatamente ad alcune forme di
delocalizzazione (in particolare quelle low cost seeking): quando si delocalizzano all’estero fasi
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del processo produttivo è infatti altamente probabile che si intensifichino i rapporti di scambio
da e verso i paesi ospitanti. Nel caso di delocalizzazione market seeking, invece, l’esito è assai
più controverso: può esservi un aumento di esportazioni se nel paese ospitante viene localizzato
un punto di vendita (si vende tramite il punto di vendita all’estero un bene prodotto in Italia),
ma può anche esservi una riduzione delle esportazioni se si localizza l’impresa produttrice (si
produce direttamente all’estero il bene venduto).
Per contro, i dati sugli investimenti diretti all’estero di fonte Reprint contengono indicazioni
solo su quei processi di delocalizzazione che avvengono tramite azioni di investimento da parte
di imprese; mancano quindi sia le azioni di delocalizzazione che avvengono attraverso maggiori
importazioni, senza però spostare l’impresa, sia quelle che vengono effettuate da privati cittadini
(quando ad esempio un privato trasferisce fondi all’estero con i quali crea una nuova impresa).
Dall’unione delle due fonti si riesce tuttavia a coprire un ampio spaccato del processo in
corso il quale, pur con i limiti suddetti, consente di avere una idea abbastanza precisa della
dimensione del fenomeno, specie se posto al confronto con quanto avviene in altre aree del
paese.
Se quelle sopra citate sono le fonti da cui risalire alla dimensione del fenomeno, la
valutazione dei suoi effetti richiede di assumere un orizzonte temporale di medio-lungo periodo,
perché, come dicevamo sopra la delocalizzazione sta all’interno del processo di sviluppo di
un’area e quindi per essere correttamente valutata occorre basarsi sul confronto tra la situazione
con e la situazione senza delocalizzazione. Si tratta dunque di una analisi controfattuale che
presuppone di definire come si sarebbe modificato il sistema economico osservato se non vi
fosse stato alcun processo di delocalizzazione. Tale analisi è stata effettuata utilizzando il
modello Remi-Irpet.
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DELOCALIZZAZIONE E COMMERCIO ESTERO
La delocalizzazione aumenta l’intercambio tra paesi
Se inquadriamo i processi di delocalizzazione all’interno della secolare tendenza ad una sempre
più spinta divisione internazionale del lavoro è del tutto evidente come una delle sue principali
conseguenze sarà l’intensificazione degli scambi: non è un caso che, dal 1991 ad oggi, mentre il
PIL mondiale è aumentato del 3,9% l’anno, l’interscambio tra paesi è cresciuto del 7,2%. Le
motivazioni di questa evoluzione sono naturalmente anche altre e, inoltre e come abbiamo già
detto, non tutte le forme di delocalizzazione influenzano nello stesso modo l’evoluzione degli
scambi.
In particolare è la delocalizzazione low cost seeking che dovrebbe lasciare le tracce più
evidenti sulla evoluzione del commercio internazionale. In effetti, qualunque sia la formula
adottata, la delocalizzazione verso paesi a più basso costo del lavoro riprodurrà un percorso del
tipo di quello stilizzato nella Tabella 1. Un paese non dotato di materie prime, importerà queste
ultime e manterrà inizialmente al suo interno le fasi iniziali e finali del processo produttivo
(ipotizzando che esse si fondino sulla presenza di una conoscenza contestuale ben radicata),
decentrando all’estero quelle meno qualificate: importazione di materie prime; esportazione e
successiva reimportazione del semilavorato da paesi a più basso costo del lavoro, esportazione
del prodotto finito verso paesi sviluppati, sono, quindi, i riflessi attesi sul commercio
internazionale.
Tabella 1
UN CASO DI DELOCALIZZAZIONE DI FASI INTERMEDIE DEL PROCESSO PRODUTTIVO
Fasi
Progettazione
Lavorazione I
Lavorazione II
Lavorazione III
Vendita
Legenda:
LQ: lavoro qualificato
LNQ: lavoro non qualificato
SML: semilavorato
MP: materia prima
PF: prodotto finito
Fattore strategico
LQ
LNQ
X
X
X
X
X
Luogo di
lavorazione
IN
IN
OUT
IN
IN
Scambi commerciali
Import
Export
MP
SML (I)
SML(II)
PF
È possibile che, nel tempo, vi sia una ulteriore delocalizzazione all’estero delle fasi a monte
ed a valle del processo indicato: nel primo caso, tutte le fasi iniziali del processo produttivo
verranno delegate all’estero e, quindi, verranno importati direttamente i semilavorati dal paese
manifatturiero, il quale provvederà direttamente ad importare le materie prime (a meno che non
ne sia già dotato). L’esito finale sarà dunque: importazioni da paesi a più basso costo del lavoro
ed esportazioni verso paesi sviluppati (Tab. 2); mancherebbe in altre parole la fase iniziale della
esportazione di semilavorati verso i paesi a basso costo del lavoro.
Nel caso di ulteriore approfondimento del processo anche a valle, l’esito finale potrebbe
essere quello di abbandonare via via tutte le fasi produttive con conseguente incremento di
importazioni da paesi a basso costo del lavoro, sino a perdere interamente il prodotto quando
anche le fasi finali verranno abbandonate (potrebbe permanere la vendita di servizi se, ad
esempio, si mantenesse la progettazione, la quale tuttavia non darebbe vita ad interscambio di
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beni); in questo caso dunque si perderebbero gradualmente anche le esportazioni verso i paesi
più sviluppati.
Tabella 2
UN CASO DI DELOCALIZZAZIONE DI FASI INIZIALI DEL PROCESSO PRODUTTIVO
Fasi
Progettazione
Lavorazione I
Lavorazione II
Lavorazione III
Vendita
Fattore strategico
LQ
LNQ
Luogo di
lavorazione
X
X
X
X
X
IN
OUT
OUT
IN
IN
Scambi commerciali
Import
Export
SML(I+II)
PF
Quando, invece, la delocalizzazione è finalizzata ad avere un accesso più agevole al mercato
finale (quindi market seeking) gli effetti saranno meno chiaramente individuabili, dal momento
che a meno di effetti di attivazione di lungo periodo, l’interscambio tra paesi diminuirà, poiché
l’impresa che precedentemente esportava ora opera direttamente nel mercato di sbocco; tutto
questo a meno dei casi -peraltro molto frequenti- in cui si delocalizza all’estero solo la fase
commerciale relativa alla vendita del prodotto finito: in questo caso ciò dovrebbe essere
finalizzato ad una maggiore vendita su quei mercati o al massimo ad un mantenimento dei
livelli raggiunti in passato qualora si temesse di perderli.
Cosa ci dicono i dati sull’interscambio con l’estero dell’economia fiorentina
In effetti l’interscambio con l’estero dell’Italia (Graf. 3) ha subito una brusca impennata
soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni novanta, sia per l’aumento delle esportazioni
che per quello delle importazioni (il quale, peraltro, è stato superiore a quello delle prime).
Grafico 3
PESO % DELL’INTERSCAMBIO COMMERCIALE SUL PIL IN ITALIA
Questo incremento degli scambi ha motivazioni diverse, tra le quali certamente anche la
presenza di fenomeni di delocalizzazione low cost seeking, ma anche il fatto che in un mondo in
cui i prodotti sono molto diversificati, si intensificano, tra paesi, gli scambi di beni che appaiono
analoghi per tipologia di bisogno che vanno a soddisfare (si esportano scooter della Piaggio e si
importano scooter della Honda).
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Andamenti non dissimili hanno avuto le diverse aree del paese e della regione;
l’interscambio con l’estero è, in genere, aumentato più della crescita della domanda. In
particolare:
• le importazioni sono ovunque aumentate più delle esportazioni;
• in ambito toscano, l’area fiorentina (Graf. 4) e più in generale quella Firenze-Prato-Pistoia, è
quella in cui l’incremento dell’interscambio con l’estero è stato più forte;
• la stessa considerazione non vale, però, se il confronto viene effettuato col reso del paese;
• il comparto della moda e quello della meccanica;
• in altri casi (ad es.: mezzi di trasporto) l’intensificazione egli scambi sembrerebbe, invece, più
l’esito dell’interscambio di prodotti finali per soddisfare una domanda finale variegata,
piuttosto che l’espressione di forme di delocalizzazione.
Grafico 4
ESPORTAZIONI ED IMPORTAZIONI NEL PERIODO 1996-2004
Tasso medio annuo di crescita su valori a prezzi correnti
La delocalizzazione nell’area fiorentina: due tipologie di paesi e di prodotti
L’osservazione della evoluzione degli scambi con l’estero della provincia di Firenze
sembrerebbe mettere in evidenza la presenza di due principali aree di riferimento per quel che
riguarda la delocalizzazione in uscita:
1. i paesi dell’est europeo (Romania in particolare);
2. i paesi asiatici (soprattutto India e Cina);
e due principali produzioni:
a. la moda;
b. la meccanica.
Nel caso dei prodotti della moda (articoli di abbigliamento; cuoio, articoli da viaggio, borse,
marocchineria, selleria e calzature) sono chiaramente presenti entrambe le destinazioni suddette;
nel caso, invece, della meccanica i segnali di delocalizzazione sono percepibili solo nei
confronti dei paesi dell’est e solo limitatamente ad alcune produzioni (macchine e apparecchi
per la produzione e l'impiego di energia meccanica), con qualche piccolo segnale nei confronti
di paesi asiatici per qual che riguarda i materiali e le apparecchiature elettriche.
Inoltre mentre nei confronti dei paesi dell’est europeo aumentano simultaneamente
esportazioni ed importazioni (queste ultime erano e restano superiori alle prime); nei confronti
dei paesi asiatici aumentano soprattutto le importazioni. Ciò farebbe pensare che nei confronti
dei paesi più vicini si stia attuando un processo di delocalizzazione di fasi intermedie del
processo produttivo (si esportano i semilavorati i quali vengono poi reimportati ad uno stadio
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più avanzato di lavorazione come nello schema indicato nella Tabella 1), mentre dai paesi
asiatici si tende ad importare direttamente semilavorati o prodotti finiti (come nello schema
indicato nella Tabella 2).
Questi dati naturalmente non ci assicurano che questa intensificazione di rapporti
commerciali con alcuni paesi sia la conseguenza di un processo di trasferimento all’estero di
parti del processo produttivo prima realizzate nel paese, né tanto meno ci dicono che ciò sia
avvenuto attraverso IDE di imprese fiorentine in tali paesi; essi sono, tuttavia, coerenti con tali
ipotesi.
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GLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI (IDE)
La delocalizzazione di imprese all’estero: un fenomeno ancora agli albori
Come già ricordato, i dati sugli IDE consentono di cogliere tutte le forme di delocalizzazione
che avvengono attraverso l’impianto di nuove imprese o l’acquisto di imprese esistenti
all’estero e quindi trascurano le attività di decentramento produttivo che avvengono con la
semplice attivazione di rapporti commerciali con imprese straniere.
In realtà anche guardando agli IDE relativi alla provincia di Firenze si conferma come il
fenomeno non sia ancora particolarmente diffuso (Tab. 5). Se addirittura si tiene conto delle
acquisizioni operate da imprese straniere all’interno dell’area, il saldo tra ingressi ed uscite,
almeno in termini di fatturato, è favorevole all’area: in altre parole il fatturato realizzato dalle
imprese straniere che hanno delocalizzato a Firenze (ed in Toscana) è superiore a quello delle
imprese fiorentine (e toscane) che hanno delocalizzato all’estero; diverse sono le conclusioni in
termini di numero di imprese e di addetti coinvolti.
Tabella 5
LE PARTECIPAZIONI ITALIANE ALL’ESTERO ED ESTERE IN ITALIA AL 1.1.2005 (PROVINCIA DI FIRENZE E TOSCANA)
Imprese estere partecipate (N.)
Dipendenti (N.)
Fatturato (Milioni di euro)
Totale dipendenti dell'area
Imprese a partecipazione estera (N.)
Dipendenti (N.)
Fatturato (Milioni di euro)
Valori
Firenze
Peso su Italia
Valori
TOSCANA
Peso su Italia
426
20.450
4.137
2,5
1,9
1,5
916
34.530
5.840
5,4
3,2
2,1
367.600
2,0
1.169.900
6,5
120
13.389
5.961
1,7
1,5
1,6
308
28.583
10.881
4,3
3,1
2,8
Inoltre, il peso che il fenomeno riveste, rapportato al complesso del paese, è inferiore al peso
dell’area (ad esempio in termini di lavoratori dipendenti) per cui è evidente che, rispetto alle
regioni del Nord, l’economia fiorentina -e ancor più quella toscana- non sembrerebbe ancora
investita in modo massiccio da processi di delocalizzazione.
Il market seeking prevale sul low cost seeking
La scelta di delocalizzare ha interessato molti settori produttivi (Tab. 6): essa coinvolge alcuni
settori industriali tipici dell’economia fiorentina (moda e meccanica), assieme ad altri settori che
destano certamente qualche sorpresa (metallo a prodotti derivati). Sorprende inoltre, ma solo a
primo acchito, la forte preponderanza di attività terziarie (commercio all’ingrosso, logistica e
trasporti, servizi professionali).
È pertanto evidente che le scelte delocalizzative riguardano in taluni casi attività produttive
vere e proprie, ma nella maggior parte dei casi si tratta di scelte determinate da un migliore
collegamento con il mercato finale, tramite attività commerciali o di logistica.
Tutto questo già suggerisce come solo una parte delle attività di delocalizzazione riguardino
scelte low cost e come invece la maggior parte appaia connessa ad una migliore accessibilità ai
mercati o ad altri fattori strategici.
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Tabella 6
LE PARTECIPAZIONI FIORENTINE ALL’ESTERO ED ESTERE A FIRENZE AL 1.1.2005 PER BRANCA DI ATTIVITÀ
Estere a partecipazione fiorentina
Imprese
Addetti Fatturato
Industria estrattiva
Industria manifatturiera
Alimentari, bevande tabacco
Tessili e maglieria
Abbigliamento
Pelli, cuoio, calzature pelletteria
Legno e prodotti in legno
Carta, derivati, stampa editoria
Derivati del petrolio e altri combustibili
Prodotti chimici e farmaceutici
Gomma e materie plastiche
Materiali per l'edilizia, ceramica
Metallo e prodotti derivati
Macchine e apparecchi meccanici
Macchine elettriche e ottiche
Autoveicoli
Altri mezzi di trasporto
Mobili e altre industrie manifatturiere
Energia, gas e acqua
Costruzioni
Commercio all'ingrosso
Logistica e trasporti
Servizi di telecomunicazione e informatica
Altri servizi professionali
TOTALE
3
135
5
6
22
11
3
4
0
20
2
22
15
3
11
0
5
6
0
0
236
33
5
14
426
130
17.227
85
598
2.083
1.091
232
98
0
4.181
229
1.904
5.508
132
557
0
236
293
0
0
2.815
228
14
36
20.450
26
2.981
6
32
101
71
11
7
0
598
8
330
1.692
15
91
0
14
8
0
0
1.008
97
7
17
4.137
A partecipazione estera
Imprese
Addetti
Fatturato
0
37
1
0
2
7
0
1
1
6
0
2
1
4
5
4
3
0
1
2
60
4
1
15
120
0
9.625
120
0
237
834
0
6
100
2.516
0
213
37
3.652
469
1.178
263
0
431
91
2.063
51
7
1.121
13.389
0
4.283
53
0
50
423
0
1
48
1.007
0
29
6
2.090
96
420
59
0
67
12
1.016
41
1
542
5.961
Questo carattere viene ulteriormente rafforzato dalla osservazione dei paesi ospitanti dal
momento che, per la maggior parte, si tratta di paesi dell’Unione Europea e del nord America,
pur non mancando anche alcuni paesi dell’Europa dell’Est e dell’Asia.
Quindi, rispetto all’analisi proposta nelle pagine precedenti, pur non mancando scelte
delocalizzative verso paesi a basso costo del lavoro (Europa dell’est e Asia), si conferma un
certa preferenza verso aree sviluppate ad indicare la presenza di processi di delocalizzazione
con caratteristiche market seeking (Tab 7). Un fenomeno quindi molto distante dalla
rappresentazione più frequente delle scelte delocalizzative, tendente a dipingere l’imprenditore
che delocalizza come un soggetto alla perenne ricerca di luoghi in cui è più facile sfruttare
lavoro a basso costo.
Tabella 7
PARTECIPAZIONI FIORENTINE ALL’ESTERO ED ESTERE PER AREA DI MERCATO
Unione Europea
Europa Centro orientale
Altri paesi europei
Africa settentrionale
Altri paesi africani
America settentrionale
America centrale e meridionale
Asia centrale
Asia orientale
Oceania
TOTALE
Imprese
Addetti
Fatturato
38,7
16,2
4,5
4,5
0,5
13,4
7,3
1,4
12,4
1,2
100,0
56,8
10,5
4,2
13,8
0,1
3,7
4,0
0,1
6,7
0,2
100,0
70,9
5,4
1,9
2,9
0,1
7,0
3,7
0,2
7,6
0,2
100,0
12
Naturalmente, sebbene minoritario, anche questo secondo tipo di scelte è presente: si
spiegano così gli IDE nei paesi dell’est europeo ed anche quelle in Cina, i quali confermano
peraltro i caratteri già descritti dalla osservazione degli scambi con l’estero. Rispetto alle scelte
delocalizzaztive low cost seeking, sembrerebbe che nei paesi più vicini si preferisca andare
direttamente svolgendovi attività manifatturiere prima effettuate all’interno del paese, mentre
nei paesi più lontani si preferisca adottare soluzioni più caute, procedendo all’acquisto de
prodotti intermedi e talvolta anche finali, senza delocalizzarvi le proprie imprese oppure
delocalizzandovi solo attività commerciali, di trasporto e logistica.
Il territorio fiorentino è attrattivo
Ma, come dicevamo sopra, le partecipazioni estere ad imprese fiorentine non sono meno
importanti, anche se la delocalizzazione in entrata resta inferiore a quella osservata in altre
regioni: il peso sull’Italia in termini di lavoratori dipendenti coinvolti è appena dell’1,5%, ben
inferiore al peso che l’occupazione dipendente della provincia ha sull’intero paese (2,0%).
Vengono privilegiate, naturalmente, le attività produttive in cui l’area fiorentina è
maggiormente specializzata, attività cioè in cui l’area mostra ancora un elevato livello di
competitività e quindi di attrazione: di nuovo la moda e la meccanica.
Anche in ingresso è rilevante il peso del commercio all’ingrosso; tuttavia sebbene per addetti
e fatturato coinvolti la dimensione del fenomeno sia in linea rispetto a quella già osservata in
uscita (anche se su livelli più contenuti) ciò non vale anche per il numero delle imprese, che
appare assai più ridotto ad indicare che, in questo caso, si tratti di attività commerciali di
dimensioni più grandi.
Inoltre nella maggior parte dei casi si tratta di acquisizione di imprese preesistenti (quindi
delocalizzazioni brown-field) piuttosto che di localizzazione di nuove imprese. Il peso degli IDE
green field non è tuttavia irrilevante dal momento che copre oltre un terzo degli IDE stranieri
complessivi.
Un fenomeno nella fase iniziale?
I processi di delocalizzazione che interessano l’area fiorentina non sembrerebbero dunque, al
momento, di dimensioni e con caratteristiche tali da essere addotti a causa della flessione
produttiva che il settore industriale sta attraversando anche a Firenze. Vi è una certa presenza di
forme di delocalizzazione verso paesi a più basso costo del lavoro, ma prevalgono quelle verso
paesi ad analogo stadio di sviluppo. Non mancano inoltre delocalizzazioni nell’area fiorentina
da parte di imprese straniere ad indicare la presenza di qualche elemento di attrattività.
Peraltro, osservandone l’evoluzione temporale, emerge con una certa evidenza, negli ultimi
anni, un aumento di intensità dei processi delocalizzativi, soprattutto in entrata (Graf. 8):
l’aumento è infatti di circa un miliardo di euro in 4 anni. Meno netta, invece, la dinamica degli
IDE in uscita dal momento che dopo un calo nel 2001 e 2002, ritornano sui livelli del 2001.
Naturalmente ciò potrebbe segnalare come si tratti di un fenomeno ancora agli albori, che
potrebbe, però, essere destinato a subire una impennata nei prossimi anni, stimolato dalle
evidenti difficoltà che sta attraversando l’industria manifatturiera fiorentina.
Proprio prendendo spunto dalle osservazioni iniziali è difficile comprendere se questa
maggiore estraneità dell’area fiorentina ai processi di delocalizzazione vada interpretata come il
segno di una ancora elevata competitività dell’area (per cui non vi è l’esigenza di trasferire
altrove fasi dei processi produttivi) o invece di una bassa capacità di cogliere i cambiamenti
presenti nello scenario mondiale.
Resta il fatto che, in Italia, le aree più coinvolte dai processo in uscita sono quelle del nord
(favorite però anche da una certa vicinanza con i paesi dell’est europeo, al momento una delle
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principali destinazioni delle scelte delocalizzative del paese) ed in Toscana quelle dell’area
metropolitana centrale, confermando l’ipotesi prevalente nella letteratura sull’argomento che
vede la delocalizzazione come l’espressione di un comportamento imprenditoriale evoluto.
Grafico 8
IL FATTURATO DELLE IMPRESE DELOCALIZZATE. PROVINCIA DI FIRENZE
Milioni di euro al 1 gennaio di ogni anno
La delocalizzazione ha influenzato la crescita dell’area?
In realtà, non è possibile stabilire né logicamente né numericamente un rapporto di causalità tra
processi di delocalizzazione e crescita economica fiorentina, resta tuttavia il fatto che
nell’ultimo decennio l’economia fiorentina è cresciuta più del resto della Toscana, non solo, ma
essa fa parte delle province italiane a più elevata crescita (nessuna provincia del nord del paese
ad eccezione di Bolzano, dal 1995 ad oggi, ha realizzato un tasso di crescita medio annuo
superiore a quello fiorentino).
La crescita è associata ad una dinamica delle esportazioni contenuta e ad una trasformazione
del sistema produttivo nella direzione di una maggiore terziarizzazione. L’industria perde infatti
di peso in termini di occupazione e valore aggiunto, con le uniche eccezioni dei comparti della
meccanica. Anche il numero di imprese è in aumento, ma in virtù di una riduzione di quelle
industriali a favore di quelle terziarie.
Sembrerebbe pertanto che la minore propensione a delocalizzare, tipica di questa area
(rispetto alle regioni del nord), sia l’effetto di una ancora elevata competitività del territorio; non
va tuttavia dimenticato il fatto che il più basso ricorso alla delocalizzazione potrebbe anche
essere l’effetto di una qualche protezione goduta dall’apparato produttivo fiorentino (ricordiamo
l’importanza che il dollaro forte ha avuto per le imprese locali, tradizionalmente molto orientate
verso i mercati nordamericani) che ha ritardato l’esigenza di abbandonare alcune fasi del
processo produttivo o di muoversi alla ricerca di nuovi mercati di sbocco. Se così fosse, questo
ciclo si è evidentemente esaurito -il dollaro si posiziona stabilmente su valori ben diversi da
quelli della seconda metà degli anni novanta- e potrebbe dunque rafforzare l’esigenza di
delocalizzare anche da parte di molte imprese fiorentine.
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I POSSIBILI EFFETTI
Gli effetti delle diverse tipologie di IDE
Ai fini di una valutazione degli effetti ciò che rileva è: (a) in entrata il fatto che gli IDE siano
green-field o brown-field e (b) in uscita che siano low cost seeking o market seeking; ognuna di
queste categorie genererà effetti diversi, per variabili interessate, segno e dimensione
dell’effetto. Occorre inoltre distinguere gli effetti diretti (quelli cioè immediatamente
conseguenti la scelta di delocalizzare) da quelli indiretti, quelli cioè che derivano dalle
conseguenze che la scelta di delocalizzare genererà sulla competitività dell’impresa stessa e
dell’intero sistema produttivo.
Dal primo punto di vista -gli effetti diretti- il ragionamento appare molto semplice almeno
per quel che riguarda due tipologie di IDE: per gli IDE in uscita vi sarà una perdita di
occupazione, fatturato e valore aggiunto quando si tratta di IDE low cost seeking, mentre vi
saranno effetti opposti per gli IDE in entrata di tipo green field.
Più incerti gli effetti delle altre due forme di IDE. Quelli in uscita di tipo market seeking
potrebbero avere effetti addirittura opposti a seconda che ad essere delocalizzata sia l’intera
linea produttiva o invece semplicemente un suo reparto commerciale:
1. quando si sposta l’intera produzione si producono e si vendono direttamente all’estero beni
prima prodotti ed esportati dal sistema economico originario (quindi si riducono le
esportazioni e di conseguenza la produzione e l’occupazione);
2. quando si localizza all’estero un reparto commerciale l’obiettivo dovrebbe essere quello di
presidiare il mercato finale, con conseguenze che dipendono dal mercato (in taluni casi la
delocalizzazione potrebbe servire a mantenere le proprie posizioni, in altri a conquistarne di
nuove).
Infine gli investimenti di tipo brown field dovrebbero avere un effetto sostanzialmente nullo,
a meno che con l’acquisizione dell’impresa fiorentina da parte di un proprietario straniero si
proceda anche a forme di ricapitalizzazione finalizzate a rafforzare la capacità produttiva
dell’impresa.
Riclassificando gli IDE nelle diverse tipologie sopra descritte:
• in uscita, sulla base del paese di destinazione e della attività svolta
• in entrata sulla base del fatto di essere o meno green field
il risultato ottenuto (Tab. 9) mostra:
• lo scarso peso degli IDE low cost;
• il significativo peso degli IDE in ingresso anche di tipo green field.
Tabella 9
GLI EFFETTI DIRETTI DELLE DIVERSE FORME DI DELOCALIZZAZIONE
Valori assoluti e peso % su economia fiorentina
Fatturato
(Milioni di euro)
Low cost seeking
Market seeking commerciali
Market seeking di produzione
Green field
Brown field
VALORE DELLA PRODUZIONE PROVINCIALE
Segno atteso
235
956
2.781
2.091
3.870
57.951
Negativo
Positivo o nullo
Negativo
Positivo
Nullo
15
impatto su fatturato
provinciale (%)
-0,4
1,6
-4,8
3,6
..
0,0
oppure
0,0
oppure
-1,6
Considerando il peso che le diverse forme di IDE hanno del fatturato realizzato nel
complesso dalle imprese fiorentine ed assumendo che gli effetti diretti siano quelli sopra
richiamati (e riportati nella seconda colonna della Tabella 9), molto dipende dalle caratteristiche
cha hanno gli IDE market seeking di tipo commerciale. Nel caso in cui si ipotizzi che questi
ultimi determinino un aumento delle esportazioni dell’impresa madre (ipotesi più probabile) il
risultato del complesso degli IDE che interessano l’area fiorentina sarà sostanzialmente nullo:
gli effetti positivi degli IDE commerciali si sommeranno a quelli ancora più evidenti degli IDE
in entrata di tipo green-field e compenseranno le perdite dovute agli IDE in uscita.
Se invece gli IDE commerciali sono orientati al mantenimento di quote che altrimenti si
temeva di perdere il loro effetto sulle esportazioni sarà nullo, per cui l’effetto del complesso
degli IDE diverrà negativo (-1,6% del fatturato fiorentino); in questo secondo caso, tuttavia,
sarebbe corretto obiettare che probabilmente minori esportazioni vi sarebbero state comunque,
visto che il trasferimento all’estero di punti di vendita commerciale dovrebbe servire proprio ad
evitare o rallentare le temute perdite di quote di mercato.
Gli effetti di medio-lungo periodo
In realtà gli effetti a breve, secondo l’accezione data nel precedente paragrafo, sono una pura
astrazione dal momento che essi andrebbero inseriti all’interno di un processo che prevede
continue azioni e reazioni da parte delle imprese. La delocalizzazione, infatti, può essere
interpretata come una reazione dell’impresa alla presunta perdita di competitività e, come tale,
genera tutta una serie di effetti sull’impresa stessa e sul sistema di imprese circostanti.
Pertanto al fine di quantificare correttamente l’effetto delle delocalizzazioni attualmente
effettuate occorre tentare di simulare lo scenario che avremmo avuto in assenza del fenomeno:
cosa sarebbe accaduto se l’impresa non avesse delocalizzato?
Anche in questo caso gli effetti dipendono dalla tipologia delocalizzativa. Nel caso di
delocalizzazione in uscita low cost seeking gli effetti saranno quelli di ridurre il costo delle fasi
delocalizzate e quindi di ridurre il costo di produzione ed il prezzo di vendita del prodotto finito,
rendendolo più competitivo sui mercati internazionali: le esportazioni dovrebbero pertanto
aumentare in funzione della loro elasticità al prezzo e, a partire da esse, produzione ed
occupazione.
Nel caso di delocalizzazione market seeking si potrebbe anche ipotizzare che non vi siano
ulteriori conseguenze sul piano produttivo (oltre a quelle di breve periodo sopra richiamate),
anche se talvolta si ipotizza che la vicinanza a mercati finali di paesi più avanzati potrebbe
condurre anche ad acquisizione di conoscenze che potrebbero comportare la loro incorporazione
nei processi produttivi del paese di origine.
Nel caso infine di IDE stranieri, oltre agli effetti diretti sopra richiamati (positivi nel caso di
IDE green field e nulli nel caso di brown field), occorrerebbe considerare le conseguenze sulle
imprese locali, conseguenze che possono operare nella duplice direzione, di ridurne la
produzione per la presenza di fenomeni di spiazzamento o, al contrario, di attivarne di nuova
tramite la loro domanda di beni e servizi (al momento abbiamo considerato nullo l’effetto).
Considerando simultaneamente tutte queste possibili conseguenze ed ipotizzando che il
livello degli IDE resti quello attuale anche nei prossimi anni si può stimare (Tab. 10) che il
complesso degli investimenti in entrata ed in uscita dalla provincia avrebbe, nel medio lungo
periodo, un effetto espansivo sul PIL provinciale valutabile attorno allo 0,6% del PIL e allo
0,3% dell’occupazione (Tab. 10): in altre parole, senza i processi di delocalizzazione tramite gli
IDE osservati, il PIL provinciale sarebbe stato più basso, così come il livello di occupazione.
L’effetto congiunto è determinato dal concorso di effetti diversi. Gli IDE in uscita hanno in
effetti un effetto depressivo nel senso che generano una perdita di produzione, tuttavia nel caso
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di IDE low cost vi è un ritorno positivo per il fatto che, abbassandosi il costo dei beni intermedi,
si acquista competitività sui mercati internazionale. Quindi, è vero che si perde un pezzo di
produzione (quella trasferita all’estero), ma si riesce anche ad aumentare le esportazioni a causa
della riduzione dei costi di produzione: nel complesso l’effetto negativo risulta fortemente
mitigato, raggiungendo, secondo le nostre stime, appena lo 0,15% sia in termini di PIL che di
occupazione.
Tabella 10
EFFETTI DIRETTI ED INDIRETTI DEGLI IDE NELLA PROVINCIA DI FIRENZE
Impatto % su PIL ed occupazione provinciale
in entrata
IDE in uscita Low cost seeking
IDE in uscita market seeking
TOTALE
PIL
Occupazione
2,78
-0,15
-2,03
0,60
2,36
-0,16
-1,80
0,30
Più evidente è la perdita che deriva dalle imprese che si trasferiscono direttamente sui
mercati finali allo scopo di produrre direttamente in essi il prodotto finale: in tal caso viene
perduta l’intera produzione con un effetto valutabile attorno al 2% in termini di PIL e all’1,8%
in termini di occupati. Naturalmente in questo caso si sono trascurati tutti i possibili ritorni
positivi in termini di conoscenze acquisite e di profitti realizzati. Entrambi -conoscenze e
profitti- possono rientrare nell’area di origine e produrre effetti positivi sull’intero sistema
economico.
Gli effetti negativi degli IDE in uscita sono completamente coperti da quelli positivi degli
IDE in entrata: anche trascurando i possibili effetti positivi degli IDE brown-field, si può
stimare che gli IDE stranieri nella provincia di Firenze di tipo green field producano un aumento
del PIL stimabile attorno al 2,8% e, in termini di occupati, del 2,4%.
Si conferma quindi, anche considerando gli effetti generati nel medio lungo periodo, un
quadro che, alla luce degli attuali livelli degli IDE, è nel complesso positivo, incidendo in modo
espansivo sull’economia fiorentina e che tenderebbe quindi a smentire alcune percezioni diffuse
del fenomeno. Percezioni peraltro giustificate dal fatto che mentre gli effetti di breve periodo
degli IDE in uscita sono spesso ben visibili e concentrati -e talvolta dolorosi- quelli di lungo
periodo sono meno visibili e più diluiti sull’intero sistema economico.
Resta il fatto che la dimensione ridotta del fenomeno -e quindi dei suoi effetti- potrebbe
anche indicare che il fenomeno è solo agli albori e potrebbe quindi avere un impulso rilevante
nei prossimi anni, anche in presenza delle evidenti difficoltà che sta attraversando l’industria
manifatturiera toscana e fiorentina. Se così fosse il fatto di coglierlo in anticipo potrebbe
costituire un elemento di vantaggio anche dal punto di vista delle politiche da attuare.
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