Enrico Nicolamarino
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Enrico Nicolamarino
CONTRIBUTI ESCLUSIONE DEL DEBITORE NON IMPRENDITORE DALL’AMBITO DI FALLIBILITÀ: RAGIONI STORICHE DI ENRICO NICOLAMARINO 1. L’ambito di non fallibilità nell’ordinamento italiano Le procedure concorsuali sono gli strumenti di cui ogni ordinamento dispone per rinsaldare la corrispondenza tra rischio d’impresa e potere di gestione, laddove gli interessi dell’imprenditore e quelli dei creditori non riescano più a essere contemperabili, a causa dello stato di insolvenza del primo1. Se, infatti, fintanto che costui possa adempiere regolarmente le proprie obbligazioni, tutti gli interessi coinvolti dall’esercizio dell’impresa riescono a essere soddisfatti dalla prosecuzione dell’attività, nel momento in cui questa situazione non sussiste più si verifica uno “scollamento” tra gli incentivi dell’imprenditore, che potrebbe intraprendere progetti rischiosi senza subirne le eventuali conseguenze negative e quello dei creditori, i quali invece assistono al mutamento della qualità del loro apporto da capitale di debito a capitale sostanzialmente di rischio2. Le procedure 1 2 STANGHELLINI, Le crisi d’impresa tra diritto ed economia: le procedure di insolvenza, Bologna, 2007, 49. H ART e MOORE, Default and renegotiation: a dynamic model of debt, 1998, rinvenibile sul sito: http://www.mitpressjournals.org/doi/ abs/10.1162/003355398555496 , secondo cui l’insolvenza rende i creditori residual claimants; ROE, Bankruptcy and debt: a new model for corporate reorganizations, in 83 Colum. L. Rev. (1983), 527ss.; WALTERS, Personal insolvency law after the 7 7 concorsuali, pertanto, sono strumenti per la ricomposizione del binomio rischio-gestione, in caso l’impresa distrugga più ricchezza di quanta ne produca3. Sono però strumenti costosi e calibrati sulle imprese di maggiori dimensioni: conseguentemente, ogni ordinamento prevede un regime di esenzione dalla loro operatività. In Italia, l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina del fallimento e del concordato preventivo è individuato dall’art. 1 della legge fallimentare4, il quale al primo comma statuisce che queste procedure si devono applicare agli imprenditori che esercitano attività commerciale, eccezion fatta per gli enti pubblici. L’articolo prevede inoltre delle soglie dimensionali, al fine di escludere quegli imprenditori che, pur integrando i requisiti qualitativi, non presentino una rilevanza quantitativa tale da giustificarne la sottoposizione a tali procedure5. 3 4 5 Enterprise Act: an appraisal, 2005, 6, rinvenibile sul sito: http://papers.ssrn. com/sol3/papers.cfm?abstract_id=664470 , secondo cui il fallimento è un accordo che coinvolge i creditori, il debitore e la società: i primi vedono con questo strumento sostituirsi al disordinato assalto ai beni del debitore una procedura organizzata e paritaria, il secondo ottiene la liberazione dai debiti e il blocco delle azioni individuali dei creditori in cambio della cessione dei propri beni, la società infine beneficia dell’incentivo alla produttività dato dall’assunzione del rischio. FRASCAROLI SANTI, L’esdebitazione del fallito: la prima bocciatura della Corte Costituzionale, in Nuove leggi civ. comm., 2008, 6, 1238. R.d. 16 Marzo 1942, n. 267, come modificato da ultimo dall’art. 1 D. Lgs. 12 Settembre 2007, n.169, con effetto a decorrere dal 1 Gennaio 2008. L’art. 1 l.f. originario riproduceva nella disciplina delle procedure concorsuali l’art. 2221 c.c., ma le riforme successive ne hanno modificato l’ambito applicativo. « Non sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori di cui al primo comma, i quali dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) aver avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di fallimento (…) un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a euro trecentomila; b) aver realizzato (…) ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore a euro duecentomila; c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore a euro cinquecentomila», art. 1 comma 2 l.f.. 8 8 La nuova dizione della norma affida dunque la determinazione dell’ambito di esclusione a una serie di parametri dimensionali, venendo meno – nel caso dell’imprenditore commerciale – l’individuazione dei soggetti esclusi attraverso requisiti misti (qualitativi e quantitativi), introdotti con la riforma del 20066. La disposizione di cui al secondo comma dell’art. 1 l.f. vigente fino al 2006, infatti, faceva salvi dall’applicazione del fallimento e del concordato preventivo anche il c.d. piccolo imprenditore, con ciò intendendosi l’imprenditore commerciale dalle dimensioni non significative, individuate dalla stessa norma7. L’introduzione delle soglie si era resa necessaria alla luce dell’intervento della Corte Costituzionale del 22 Dicembre 1989, n. 570, la quale, nel dichiarare incostituzionali i criteri per l’esclusione del piccolo imprenditore previsti dalla legge fallimentare del 19428, aveva precisato che i requisiti dimensionali «devono essere stabiliti in relazione all’attività svolta, all’organizzazione dei mezzi impiegati, all’entità dell’impresa e alle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale». 6 7 8 D. Lgs. 9 Gennaio 2006, n. 5. «Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a) hanno effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a euro trecentomila; b) hanno realizzato (…) ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni (…) per un ammontare complessivo annuo superiore a euro duecentomila»; non era previsto il requisito dell’indebitamento minimo, introdotto solo nel 2007, assieme all’inversione dell’onere della prova delle dimensioni dell’impresa. Permane tuttavia traccia della passata impostazione nell’art. 2221 c.c., il quale, nell’individuare i soggetti fallibili, esonera esplicitamente il piccolo imprenditore. La prima versione della legge definiva il piccolo imprenditore – e conseguentemente lo esonerava dal fallimento – attraverso l’applicazione alternativa di due requisiti: la titolarità di un reddito inferiore al minimo imponibile ai fini dell’applicazione dell’imposta di ricchezza mobile (venuta successivamente meno con l’introduzione dell’IRPEF) e l’investimento di un capitale non superiore a lire novecentomila (ritenuto inadeguato dalla Corte Costituzionale). 9 9 Venuti meno i criteri originariamente previsti per l’individuazione del piccolo imprenditore, era sorta quindi la necessità di richiamare il criterio generale di cui all’art. 2083 c.c., in particolare per quanto atteneva la prevalenza del lavoro dell’imprenditore e dei componenti della sua famiglia sugli altri fattori di produzione: appariva lampante però come questa previsione non fosse idonea a garantire la certezza richiesta dalla stessa Corte nell’individuare l’ambito di fallibilità9. L’introduzione delle suddette soglie affranca così il sistema fallimentare dai criteri qualitativi stabiliti dall’art. 2083 c.c., sottolineando la specialità del sistema fallimentare rispetto a quello civilistico dal punto di vista dell’ambito soggettivo di applicabilità. Il risultato del continuo rimodellamento dell’ambito applicativo del fallimento e del concordato preventivo dimostra come nell’ordinamento italiano questi strumenti non rappresentino un modello generale di regolamentazione dell’insolvenza, permanendo a tutt’oggi un’area di soggetti che ne sono sottratti10. Continuano a esserne esclusi gli enti pubblici, coloro i quali, pur essendo imprenditori, non esercitano attività commerciale, e quei soggetti che, pur svolgendo attività d’impresa qualificabile come commerciale, non raggiungono le soglie dimensionali suesposte o, per il tipo di impresa, sono sottoposti a procedure differenti11; ne sono a fortiori esclusi coloro i quali non svolgono alcuna attività imprenditoriale, ovvero gli insolventi comuni o c.d. debitori civili. Le esclusioni riposano su ragioni differenti, a seconda delle menzionate categorie di soggetti: per gli enti pubblici, il legislatore ha escluso il fallimento in base a considerazioni di politica legislativa (preferendovi, nel caso di enti pubblici economici, la liquidazione coatta amministrativa); per gli imprenditori non commerciali e per quelli commerciali che svolgano determinate attività è – in genere – la particolare attività svolta 9 10 11 GUGLIELMUCCI, Diritto fallimentare. La nuova procedura delle discipline concorsuali giudiziali2 , Torino, 2007, 28. NOTARI, in AA. VV., Diritto fallimentare. Manuale breve, Milano, 2008, 95. E’ il caso dei soggetti sottoposti alla procedura di liquidazione coatta amministrativa e di quelli per i quali si applica l’amministrazione straordinaria delle grandi e grandissime imprese in crisi. 10 10 a sconsigliarne l’applicazione12; per le imprese di rilevanti dimensioni è la complessità degli interessi sottostanti a suggerire l’assoggettamento a procedure particolari; per quanto concerne infine gli insolventi civili e gli imprenditori commerciali, ma piccoli, l’inapplicabilità della normativa fallimentare discende dalla scarsa rilevanza dell’impatto di tali insolvenze sull’economia e sulla conseguente non convenienza di uno strumento complesso e costoso come il fallimento13. Parimenti differente è l’effetto che l’esclusione sortisce in base ai soggetti: per alcuni di essi, le procedure del fallimento e del concordato preventivo non si applicano, ma sono utilizzabili strumenti concorsuali specifici, come nel caso della liquidazione coatta amministrativa; per altri, invece, la mancata applicazione implica la soggezione alla normativa generale dell’adempimento delle obbligazioni, attuando così la propria responsabilità patrimoniale secondo le forme delle procedure esecutive individuali, come avviene per il debitore civile. Per quanto concerne specificamente il debitore non imprenditore, ossia civile, occorre sottolineare come l’esclusione dall’applicazione delle procedure concorsuali abbia risalenti ragioni storiche: questo istituto, nato per risolvere le situazioni di insolvenza dei mercanti medievali, si caratterizzava inoltre per il forte stigma sociale nei confronti del fallito14. Tracce dell’impostazione sfavorevole nei confronti di costui sono state a 12 13 14 Rientrano in questa categoria gli imprenditori agricoli, per i quali l’ordinamento storicamente non ha mai concesso la sottoposizione alle procedure concorsuali, motivando tale scelta con la scarsa rilevanza che l’insolvenza di tali soggetti, appuntandosi l’attività svolta principalmente sullo sfruttamento del fondo agricolo, sortisce sul tessuto economico. Quest’ordine di motivazioni non pare più convincente, alla luce della nuova disciplina introdotta dal D. Lgs. 18 Maggio 2001, n. 228, che ha riscritto l’art. 2135 c.c., superando la limitazione delle attività connesse a quelle di alienazione e trasformazione dei prodotti del fondo nell’esercizio normale dell’agricoltura, per ricomprendervi anche le attività dirette alla fornitura di beni o servizi. STANGHELLINI, (nt. 1), 337 ss.. L’evoluzione storica del fallimento come istituto riservato ai mercanti sarà analizzata nel prossimo paragrafo; in questa sede, pertanto, ci limiteremo a brevi cenni. 11 11 lungo presenti nella legge fallimentare italiana: il fallito era iscritto in un pubblico registro, era tenuto ad alcuni obblighi stringenti (come quello di residenza) ed era colpito da alcune incapacità, dalle quali era possibile liberarsi solo a mezzo di un procedimento di riabilitazione15. Ebbene, l’esclusione dalle procedure concorsuali del debitore civile è stata a lungo considerata come un privilegio, in quanto permetteva di sottrarsi dagli effetti negativi del fallimento, costituiti, oltre che dallo stigma, dal pignoramento generale del patrimonio. Questa ragione, però, oggi non sembra più essere valida: a seguito della riforma del 200616, infatti, l’ignominia sociale risulta grandemente attenuata dalla soppressione del registro dei falliti, dalla riduzione degli obblighi e dalla eliminazione del procedimento di riabilitazione, sostituito da quello di esdebitazione. Proprio quest’ultimo istituto, regolato dagli artt. 142 ss. l.f., costituisce oggi uno degli incentivi maggiori del ricorso al fallimento, al termine del quale, l’imprenditore persona fisica potrà accedere alla liberazione dei debiti residui17. Va inoltre considerata la circostanza che il debitore civile non può accedere alle soluzioni concordatarie che la legge fallimentare consente, ampliate nel modus di soddisfazione dalla riforma del 200518, restando al debitore l’unica strada dell’integrale pagamento dei creditori: egli sarà pertanto soggetto alle azioni individuali di costoro, finché non provvede all’esatto adempimento. Com’è agevole comprendere, oggi non è più possibile affermare con sicurezza che l’esclusione del debitore civile dall’area soggettiva di fallibilità costituisca un vantaggio. Analizzando l’evoluzione del nostro ordinamento, non si può poi non notare un’aporia causata dall’esclusione dall’applicazione delle 15 16 17 18 Artt. 49, 59, 142 l.f., nella dizione del 1942. Art. 128 d.lgs. 9 Gennaio 2006, n.5, come integrato dall’art. 19 d.lgs. 12 Settembre 2007, n.169. V. infra, Cap. IV, § 2. L’ampio novero di strumenti utilizzabili nelle soluzioni concordatarie è stato introdotto in Italia con la l. 18 Febbraio 2004, n. 39 (c.d. legge Parmalat), la quale recepiva l’impostazione del Chapter 11 statunitense. In seguito, il d.l. 14 Marzo 2005, n. 35, convertito con modifiche in l. 14 Maggio 2005, n. 80 ha esteso le medesime misure al concordato preventivo e il d.lgs. 9 Gennaio 2006, n. 5 a quello fallimentare: cfr. STANGHELLINI, (nt. 1), 214. 12 12 procedure concorsuali di particolari categorie di soggetti. Come evidenziato, sotto la vigenza del testo originario della legge fallimentare, la vocazione dell’istituto del fallimento era liquidatoria e punitiva19; di conseguenza, l’esserne esentati costituiva – oltre che un privilegio – una necessità dell’ordinamento, per quelle insolvenze da cui non si sarebbe potuto ricavare granché da distribuire ai creditori. Nel tempo, questa impostazione aveva mostrato di essere disallineata rispetto alle più moderne indicazioni comparatistiche, le quali consideravano il fallimento anche come mezzo per tutelare gli interessi dei debitori e in questo solco erano stati redatti alcuni progetti, che presentavano un’area di non fallibilità particolarmente ridotta20. L’opera di restringimento potenziale della c.d. non-failure zone (ossia ambito di non fallibilità) è stata ex abrupto interrotta dalla legge 14 Maggio 2005, n. 80, che, nel delegare al Governo l’attuazione della riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali, includeva tra i principii direttivi quello della semplificazione del sistema «attraverso l’estensione dei soggetti esonerati dall’applicabilità» dell’istituto del fallimento21. Di conseguenza, erano 19 20 21 Cfr. Relazione al Re del r.d. 16 Marzo 1942, n. 267, artt. 1-3: « Il fallimento, nella sua stessa origine storica, non è che una esecuzione forzata, più complessa di quella individuale, ma sempre esecuzione, che tende alla liquidazione dell’impresa»; «consapevole del danno che l’impresa reca all’economia generale, la nuova legge è giustamente severa nelle sue sanzioni, dove vi sono responsabilità personali da colpire». La Relazione è rinvenibile sul sito: http://www.italgiure.giustizia.it/nir/1942/lexs_25864.html. La c.d. Commissione Trevisanato ha presentato due progetti differenti, uno in forma di delega e l’altro in forma di articolato completo, rispettivamente nel 2003 e nel 2004; nello stesso 2004, il Gruppo DS ha proposto un altro progetto di riforma delle procedure concorsuali. L. 14 Maggio 2005, n. 80, art. 1, commi 5 e 6. Questa legge è in parte intervenuta direttamente sulla disciplina, convertendo con modifiche il D.l. 14 Marzo 2005, n. 35 e in parte ha delegato al Governo la previsione di una riforma più ampia, introdotta poi col D.lgs. 9 Gennaio 2006, n. 5. Non può non condividersi la censura sull’incongruità del criterio rispetto alla finalità perseguita: «l’affrettato legislatore delegante ha confuso le esigenze deflattive dei carichi giudiziari con quelle di semplificazione delle procedure, le ragioni connesse al bilanciamento dei costi con i benefici 13 13 state mantenute le esenzioni già previste dalla legge ed era stata allargata – attraverso la fissazione di soglie dimensionali più stringenti – l’area di non fallibilità dell’imprenditore commerciale, al fine di escludere le insolvenze di minore entità dall’applicazione di procedure costose come quelle concorsuali. L’impostazione restrittiva introdotta dalla delega è stata però superata dalla nuova policy di fondo del diritto fallimentare, riformato dal D.lgs. 9 Gennaio 2006, n. 5, che ha recepito la tendenza dei Paesi europei, volta a considerare «le procedure concorsuali non più in termini meramente liquidatori-sanzionatori, ma piuttosto come destinate ad un risultato di conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurando la sopravvivenza, ove possibile, di questa e, negli altri casi, procurando alla collettività, ed in primo luogo agli stessi creditori, una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento e il trasferimento a terzi delle strutture aziendali»22. Essendo venuta meno la centralità della ratio liquidatoria nell’utilizzo delle procedure concorsuali, che giustificava l’applicazione di questi strumenti solo ai casi economicamente più rilevanti, a fronte della nuova visione mirante alla conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa (che dunque si appunta anche sugli interessi del debitore e non più esclusivamente su quello dei creditori), appare incoerente non prevedere un’applicazione ampia delle procedure concorsuali. La nuova ratio non sembra infatti valere nel solo caso dell’imprenditore commerciale, anzi parendo applicabile a un novero più ampio di soggetti: come alcuni Autori ritengono, al mutamento di visione avrebbe dovuto accompagnarsi un’estensione dell’ambito soggettivo quantomeno all’im- 22 che si possono ritrarre da una generalizzata procedura concorsuale con lo snellimento dei riti», FORTUNATO, sub art. 1, in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da JORIO e coordinato da FABIANI, I, Bologna, 2006, 41; nello stesso senso PLENTEDA, La legge delega per la riforma delle procedure concorsuali: principi e criteri direttivi, in Fall., 2005, 969. Relazione illustrativa allo Schema di decreto legislativo recante riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al r.d. 16 Marzo 1942, n. 267, Senato della Repubblica, XIV Legislatura, n. 540, rinvenibile sul sito: http://www.civile.it/fallimento/relazione%20riforma%20 procedure%20concorsuali.asp. 14 14 prenditore agricolo e all’imprenditore di piccole dimensioni, purché caratterizzati da una struttura aziendale di una qualche rilevanza23. Così facendo, il sistema fallimentare italiano mostra incoerenza tra la propria policy di fondo e gli strumenti messi a disposizione dei debitori, non recependo inoltre le indicazioni internazionali, che presentano invece una correlazione diretta tra la visione conservativa del valore dell’impresa e l’ampliamento dell’area di applicazione delle procedure concorsuali. Questa constatazione ripropone la vexata quaestio dell’estensione dell’area di fallibilità ai debitori civili: se la ratio delle procedure concorsuali è oggi quella del recupero delle forze produttive del debitore, non si intuisce la ragione per la quale l’ordinamento mantenga un’esenzione invece giustificata in base a ragioni di economia della giustizia – secondo le quali, in un contesto di scarsità di risorse, dette procedure debbano essere riservate alle insolvenze di maggiore entità, introducendo così una vistosa deroga ai propri principii. L’esclusione del debitore civile dalle procedure concorsuali trova la sua più immediata spiegazione nell’evoluzione storica del nostro ordinamento, da sempre incline a considerare il fallimento come un istituto riservato agli imprenditori. La dottrina ha in alcuni casi approvato questo approccio, motivando la propria posizione in base alla considerazione, ormai tralatizia, che la tradizione giuridica italiana è da tempo incline a non sottoporre al fallimento il debitore civile. 2. L’evoluzione storica del fallimento e la limitazione ai soli imprenditori L’istituto del fallimento nacque in Italia, nel basso medioevo, come strumento per affrontare le insolvenze dei commercianti, che proprio in quel periodo storico cominciarono a prosperare a causa del c.d. rinascimento medievale. Il passaggio dall’età feudale a quella dei Comuni segna infatti l’abbandono di un’economia di autosufficienza, a favore dell’affermarsi del mercato: in questo contesto si sviluppa la figura del mercante, soggetto 23 SANDULLI (a cura di), Le procedure concorsuali: dalla piccola impresa al consumatore, Milano, 2007, 16. 15 15 che permette l’incontro della domanda e dell’offerta di merci in una società dagli accresciuti bisogni24. L’attività imprenditoriale di costui era tuttavia possibile solo grazie alla disponibilità del credito, ottenuto a fiducia da finanziatori professionali 25. Il fallimento si presenta in questo contesto come la risposta giuridica al vulnus di fiducia nella dinamica mercantile data dall’insolvenza di un mercante26. Anzitutto, l’organizzazione corporativa in cui la società era segmentata faceva in modo che il pregiudizio nei confronti di un operatore si propagasse agli altri della medesima categoria, potendosi ciò tradurre in una depressione degli scambi. Ancor più importante è però il rilievo che il mercante intratteneva una molteplicità di rapporti commerciali, influendo la sua decozione sulla solvibilità dei soggetti con cui entrava in contatto nell’esercizio della sua professione. L’insolvenza era pertanto una minaccia per l’intera corporazione e il fallimento stemperava le turbative all’ordinato sviluppo dei traffici. Conseguentemente, il trattamento di colui che dichiarava bancarotta (dal latino bancus ruptus, a indicare la conseguenza visibile dell’insolvenza, ossia la rottura del banco ove il fallito teneva i suoi commerci) era caratterizzato da particolare rigore: questi doveva subire delle capitis deminutiones particolarmente penetranti, come la privazione del diritto di cittadinanza, del diritto di richiedere giustizia o di quello alla difesa nei processi, oltre alla condanna al bando dal Comune e l’arresto per debiti27. Inoltre, in molti Statuti era previsto che il fallito dovesse sottoporsi a sanzioni personali che appaiono oggi quantomeno curiose: costui veniva condotto seminudo, tra gli insulti degli astanti, nella piazza pubblica, indossando un berretto colorato che ne indicasse la decozione e lì doveva percuotere il fondo schiena su una pietra (detta “del vituperio”) mentre pronunciava per tre volte la formula “cedo bonis” (ossia, cedo i beni)28. Per 24 25 26 27 28 CIPOLLA, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Bologna, 1997, 163. SANTARELLI, Mercanti e società tra i mercanti, Torino, 1989, 29. SANTARELLI, (nt. 25), 61, secondo cui il fallimento contravveniva agli stessi canoni di etica sociale fondanti nella società mercantile dell’epoca. GHISALBERTI, La condanna al bando nel diritto comune, in Arch. giur., CLVIII, 1960, 70 ss. PORTALE, Dalla pietra del vituperio alle nuove concezioni del fallimento e delle altre 16 16 permettere l’identificazione dei falliti, nella città di Firenze fu prevista la c.d. pittura infamante, particolare forma di pubblicità consistente nella rappresentazione in luogo pubblico dell’immagine del decotto, affinché chiunque potesse riconoscerne la fama di cattivo pagatore29. La pena del bannum perpetuum rifletteva – per una sorta di contrappasso – la fuga, comportamento comune del mercante insolvente, assunto a fatto costitutivo del reato-fallimento; l’approssimazione della fuga al fallimento era affidata dunque a un accertamento presuntivo: dal fatto noto, assunto a sintomo tipico, si risaliva presuntivamente al fatto ignorato della decozione, difficilmente accertabile30. Nel tempo, lo stretto collegamento tra il fatto materiale e la sua conseguenza giuridica venne arricchito dalla necessità di indagare sulla situazione patrimoniale del mercante, non potendosi inferire lo stato di insolvenza unicamente dalla mera circostanza della fuga. Diversi Statuti introdussero così una valutazione sulla solvibilità del debitore o sulla possibilità di prestare idonea garanzia per i debiti contratti, innescando un meccanismo di sostituzione del presupposto oggettivo dell’insolvenza31: la fuga, da essere requisito fondamentale per 29 30 31 procedure concorsuali, in corso di pubblicazione negli Scritti in memoria di Franco Di Sabato, 2009, 6 (del dattiloscritto), da cui emerge come tali pratiche fossero diffuse in varie città, tra cui Modena e Firenze. M ASI, La pittura infamante nella legislazione e nella vita del Comune fiorentino. Secoli XIII-XVI, Roma, 1931, 34; si trattava in sostanza di un pubblico registro dei falliti (illustrato) ante litteram. Per comprendere il collegamento tra fuga e fallimento, si considerino ad esempio gli Statuti di Siena del 1262 («se qualche cittadino (…) fuggirà con l’avere di uno o più altri cittadini»), di Firenze del 1322 («tutti quei mercanti e altri soggetti che, in conseguenza della loro professione pubblicamente esercitata, ricevono solitamente denaro o merci tenendone contabilità e che fuggono o si assentano con denaro o cose altrui») o di Como del 1336 («qualunque mercante o banchiere che d’ora in poi fuggirà per non voler rispondere ai suoi creditori») e come gli Statuti dell’epoca definivano il fallimento “fuga” e i falliti “fuggitivi”: cfr. SANTARELLI, Fallimento (storia del), in Digesto comm., Torino, V, 1990, 367; Ad esempio, gli Statuti fiorentini del 1295, quelli veronesi del 1319, quelli milanesi del 1330, quelli senesi del 1342 e quelli padovani del 1420 concordano nell’individuare un doppio requisito oggettivo per la 17 17 l’accertamento della decozione, fu relegata sullo sfondo del fallimento, anche se ne è rimasta a lungo traccia nel nostro ordinamento32. La carcerazione per debiti, la tortura e la pena capitale furono utilizzate altrettanto frequentemente per sanzionare penalmente il comportamento del fallito. L’applicazione di misure tanto severe discendeva dall’equiparazione tra furto e fallimento, senza che fosse richiesta – quantomeno in epoca comunale – alcuna indagine circa l’elemento soggettivo del dolo in capo al mercante: in maniera eloquente, si usava dire che il debitore fosse decoctor, ergo fraudator, ossia insolvente, perciò truffatore33; d’altro canto, l’etimologia conferma il binomio fallimento-reato: il verbo “fallire” deriva infatti dal latino fallere, ossia “ingannare”34. La crudezza delle pene corporali inflitte al debitore insolvente non deve sorprendere: gli Statuti medievali sembrano mutuare l’approccio niente affatto mite risalente ai tempi dell’antica Roma, ove vigeva il principio qui non habet in aere, luat in corpore (chi non ha denaro, paghi con il corpo). Il rapporto patrimoniale tra debitore e creditore era infatti garan- 32 33 34 dichiarazione di fallimento: la fuga, accompagnata dall’insolvenza; cfr SANTARELLI, (nt. 25), 65. L’art. 7 del R.d. 16 marzo 1942, n. 267, rubricato “stato d’insolvenza risultante in sede penale”, statuiva infatti che «quando l’insolvenza risult(i) dalla fuga o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore, il Procuratore della Repubblica che procede contro l’imprenditore deve richiedere il tribunale competente per la dichiarazione di fallimento» (articolo rimasto in vigore sino alla riforma introdotta con D. Lgs. 9 Gennaio 2006, n. 5) confermando anzitutto la correlazione tra fuga e fallimento e, in secondo luogo, la qualificazione penale della condotta. A tal proposito, il commentatore Baldo degli Ubaldi, equiparando il fallito al truffatore, scriveva «Falliti sunt infami et infamissimi et more antiquissimae legis tradi creditoris laniandi (…) Nec excusantur ob adversam fortunam est decoctor, ergo fraudator»: cfr. CONTI, voce Fallimento (reati in materia di), in Noviss. dig. it., Torino, 1960, V, 1322. «Or, elle (la procedura fallimentare in epoca medievale, n.d.r.) est encore fondée sur une conception particulière de l’insolvabilité dans laquelle la défaillance est étroitement associée à l’idée de fraude»: cfr. HILAIRE, Introduction historique au droit commercial, Parigi, 1986, 311. 18 18 tito in ultima istanza non dai beni, ma dalla persona stessa del debitore; in caso di inadempienza, costui era costretto al “pagamento” con le sevizie, la schiavitù o la morte, a scelta del creditore insoddisfatto35. Il radicamento della concezione afflittiva nei confronti dei falliti è d’altro canto confermato dalla persistenza della pena capitale per insolvenza ben al di là dell’epoca comunale: una bolla di Papa Pio V del 1570 in Italia e un editto di Enrico IV del 1609 in Francia equiparavano la bancarotta al furto e punivano in maniera esemplare il debitore fallito36. A mutare nel tempo è invece la concezione del fallimento come reato, tipica dell’istituto fi n dalla sua nascita: essa andò infatti affievolendosi con la fi ne dell’epoca mercantile, a beneficio di un approccio in cui si distinguessero le condotte illecite, da sanzionare penalmente, da quelle per le quali il carcere, la tortura e la pena capitale apparissero palesemente inadeguati. Questa svolta segna l’evoluzione dal fallimentoreato al reato fallimentare: da un sistema cioè in cui non vi era un’analisi sull’elemento soggettivo e nel quale l’insolvenza era considerata un fatto costitutivo del reato, si passò alla considerazione della decozione come presupposto di punibilità37. In tale contesto, il giurista Benvenuto Stracca elaborò la più netta classificazione tra le categorie di falliti: quelli che fortunae vitio decoquunt, quelli che falliscono suo vitio e quelli che cadono nel dissesto in parte per suo vitio e in parte fortunae vitio: si delinea così la differenziazione di trattamento punitivo tra falliti colpevoli e falliti 35 36 37 Le leggi delle XII Tavole (emanate nel 453 - 452 a.C.) attribuirono il debitore nella piena proprietà del creditore, che acquistava il diritto di tradurlo, con una catena al collo, nella propria casa, di percuoterlo con un nerbo di bue e di porlo in ceppi. Trascorso il termine di trenta giorni, se il debitore non pagava, o se in seguito alle pubblicazioni che dovevano farsi per tre mercati consecutivi, nessuno si presentava a pagare per lui, egli era posto in schiavitù del creditore, che poteva eseguirne la vendita agli stranieri al di là del Tevere (trans Tiberim), oppure ucciderlo, spartendone le membra con gli altri creditori ( partis secanto). Con la lex Poetelia Papiria furono vietate l’uccisione e la vendita del debitore come schiavo, così limitando definitivamente l’oggetto dell’esecuzione ai beni di costui (attraverso la bonorum venditio): cfr. F. FERRARA, Il fallimento, Milano, 1974, 51ss. PORTALE, (nt. 28), 4. SANTARELLI, (nt. 25), 73. 19 19 incolpevoli. Per i primi, difettando l’elemento soggettivo nel verificarsi dell’insolvenza, doveva applicarsi unicamente la cessione di tutti i beni, senza che potessero essere sottoposti a tortura, né che fossero considerati infami38. Le sanzioni penali erano, dal punto di vista della ratio, le punizioni per il fallito che, attraverso l’insolvenza e la successiva fuga dal luogo di esercizio della mercatura, aveva tenuto un comportamento contrario ai principii della società, i cui valori fondanti erano informati a quelli della classe dominante: i mercanti, appunto. L’egemonia economica e sociale conquistata da questo ceto non poteva essere lesa maggiormente, che dalla constatazione che non fosse prudente aver fiducia di chi esercitasse la mercatura, fargli credito o affidargli i propri capitali perché li investisse e li facesse fruttare: conseguentemente, il fallimento fu modellato come uno strumento di difesa dell’ordine di valori presente al tempo, con una marcata funzione general-preventiva39. In tale ottica, appare arduo ricostruire la ragione per la quale – come pure avvenne in epoca tardo comunale – l’applicazione dell’istituto del fallimento fosse stata estesa ai non mercanti: risulta pacifico, 38 39 Il giureconsulto del XVI secolo chiarì quali comportamenti del commerciante dovessero essere ritenuti indici di una frode, soffermandosi in particolare sulla sottrazione e dissimulazione delle mercanzie, sul compimento di atti di disposizione in un periodo precedente alla manifestazione dell’insolvenza e sugli artifizi dilatori di un fallimento imminente: cfr. PECORELLA e GUALAZZINI, Fallimento (premessa storica), in Enciclopedia del diritto, Milano, 1967, XVI, 221 ss; PORTALE, (nt. 28), 6; L’impostazione di Stracca fu successivamente fatta propria dall’Illuminismo, in particolare da Amidei («Bisogna punire il fallito, o il debitore doloso, ma prima di punirlo bisogna, che costi del dolo, ed il dolo non si presume, ma conviene provarlo. Allora non si punisce il debitore come debitore, ma come delinquente; poichè essendo il dolo un resultato di un detto, o di un fatto non rispondente al vero, perchè diretto ad ingannare; colui, che se ne prevale è un uomo pericoloso alla società, ed è simile a chi ruba»: cfr. A MIDEI, Discorso filosofico-politico sopra la carcere de’ debitori, Harlem-Parigi, 1771, rinvenibile sul sito: http://it.wikisource.org/ wiki/Discorso_fi losofico-politico_sopra_la_carcere_de%27_debitori). SANTARELLI, (nt. 25), 60. 20 20 d’altro canto, come questa non fosse una soluzione unitaria per tutti i Comuni. Se, infatti, molteplici Statuti la limitarono agli iscritti alle corporazioni (Milano, Brescia, Bergamo, Firenze, Lucca, Piacenza, Cremona e Bologna)40 e, con minor rigore, altri dichiararono soggetto al fallimento chi, indipendentemente dalla veste formale di mercante, esercitasse di fatto la mercatura, o colui la cui decozione derivasse dall’inadempimento di obbligazioni sorte ex causa negotiationis vel cambii (Modena, Reggio Emilia)41, solo in alcuni Comuni fu prevista l’estensione ai soggetti dissestati per cause diverse da quelle mercantili (Genova, Padova, Venezia)42 . Secondo alcuni Autori, proprio la non generalizzazione dell’applicazione ai debitori civili e il fatto che si trattasse di un’estensione di norme previste specificamente per i mercanti conferma come il fallimento fosse sempre stato un istituto limitato alla mercatura43. Ciò è probabile, anche se non può negarsi la circostanza che, specialmente con il defi nitivo tramonto dell’età di mezzo, l’estensione ai non mercanti fu considerata da un maggior numero di Statuti, facendo così sbiadire lo stretto binomio mercante-fallimento44. Le ragioni dell’applicazione della procedura concorsuale al debitore civile sembrano allora risiedere altrove, precisamente nella volontà dei legislatori dell’epoca di sottoporre a controllo l’esecuzione privata (di origine romana, sopravvissuta nel periodo barbarico e che in epoca comunale ancora si accompagnava al fallimento), fi nché questa non venne proibita del tutto, affidando – no40 41 42 43 44 L ATTES, Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle città italiane, Milano, 1882, 310 ss.. SANTARELLI, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1964, 80 ss.. SPAGNUOLO, L’insolvenza del consumatore, in La nuova legge fallimentare “rivista e corretta”. Atti del Convegno, Lanciano, 13 ottobre 2007, a cura di BONFATTI e FALCONE, Giur. comm., 2007, 442. SANTARELLI, (nt. 41), 88. NAVARRINI, Trattato di diritto commerciale secondo la nuova legislazione, Bologna, I, 1934, 29, che ricorda come nel 1599 anche lo Statuto di Bologna previde l’estensione ai debitori non mercanti e nel 1498 quello di Genova espressamente considerò la sottoposizione al fallimento di qualunque debitore, dopo averlo a lungo tollerato. 21 21 vità rilevante rispetto alla tradizione giuridica del tempo – il monopolio dell’esecuzione allo Stato45. Sta di fatto che, a causa dei frequenti scambi commerciali dei mercanti italiani con gli Stati europei, l’istituto del fallimento si diffuse ben presto in Olanda, Germania e Francia. Proprio oltralpe fu accolto nella nota Ordonnance de Commerce del 1673, che finì di fatto per applicarsi unicamente a mercanti, pur non prevedendo alcuna limitazione soggettiva46; la scelta restrittiva fu ratificata dall’emanazione del Codice di Commercio del 180747. Sulle ragioni della scelta del Code napoleonico la dottrina non è unanime. Vi è chi sostiene che il fallimento diventò uno ius proprium dei commercianti francesi a partire dalla regia dichiarazione del 1715, anno in cui la competenza a conoscere in materia fallimentare fu attribuita ai tribunali consolari, aventi giurisdizione esclusiva sui soli mercanti48; a questa visione si oppone un’altra ricostruzione, secondo cui la limitazione ai soggetti che esercitavano un’attività commerciale sarebbe un mero riflesso dell’influenza esercitata da alcune soltanto delle legislazioni medievali. Le soluzioni normative statutarie in tema di decozione furono rielaborate poi nel codice francese del 1807, «che fondò su questa fallace distinzione tra debitore commerciante e non commerciante il sistema dell’istituto» 49. Attraverso l’estensione del Code de Commerce agli Stati sottoposti alla dominazione francese, la specialità dell’istituto del fallimento si consolidò e rimase vigente anche dopo che l’era napoleonica fosse definitivamente conclusa50: ad esempio, il Code rimase applicabile a Genova, 45 46 47 48 49 50 F. FERRARA, (nt. 35), 56. Ricorda il Rénouard come le ordinanze secentesche fossero applicabili «à tous merchands et autres, à tous les banqueroutiers»: cfr. R ÉNOUARD, Traitè des faillites3, Parigi, 1857, 38 ss.. Il droit coutumier francese in realtà prevedeva già uno strumento concorsuale per il non commerciante (la c.d. déconfiture), ma questo cadde in disuso a seguito della pratica, sviluppatasi sotto la vigenza dell’Ordonnance di Colbert del 1673, di sottoporre i soli commercianti alle procedure concorsuali: cfr. HILAIRE, (nt. 34), 320 ss.. FRASCAROLI SANTI, Insolvenza e crisi dell’impresa, Padova, 1999, 43ss.. PROVINCIALI, Trattato di diritto fallimentare 4, I, Milano, 1974, 15 ss.. Napoleone Bonaparte, dopo aver favorito per alcuni anni le iniziative 22 22 a Parma e in Toscana, fi no alla successiva codificazione Albertina del 184251. In Italia, dunque, il recepimento delle soluzioni francesi in materia di fallimento nei Codici di Commercio del 1865 e del 188252 , poi trasfuse nel R.d. 16 Marzo 1942, n. 262 (codice civile) e nel R.d. 16 Marzo 1942, n. 267 (c.d. legge fallimentare) spiega dal punto di vista storico la limitazione della legittimazione passiva delle procedure concorsuali al solo debitore imprenditore53. 51 52 53 italiane di codificazione, le bloccò improvvisamente, estendendo all’Italia i codici francesi, che rimasero in vigore anche dopo la Restaurazione: cfr. PADOA SCHIOPPA, Saggi di storia del diritto commerciale, Milano, 1992, 113. GHIA, L’esdebitazione. Evoluzione storica, profili sostanziali, procedurali e comparatistici, Milano, 2008, 45. L’ispirazione è tuttavia differente. Il Codice del 1865 si rifà alla codificazione francese del 1807, mentre quello del 1882 – attraverso l’opera del Mancini – è accostabile alla codificazione d’oltralpe del 1838 e a quella belga del 1851: cfr. PADOA SCHIOPPA, (nt. 50), 170. Parallelamente, gli altri ordinamenti europei hanno sviluppato un sistema fallimentare che si caratterizza per il carattere universale e collettivo della procedura, non distinguendo nell’enforcement delle obbligazioni tra debitori imprenditori e debitori civili. Le norme che regolano lo svolgimento della procedura esecutiva concorsuale non restano confinate alla categoria dei commercianti, ma anzi si elevano al rango di diritto comune per tutti i debitori insolventi e al termine “fallimento” è preferito quello di “concorso”, che si appunta sulla categoria dei creditori, anziché sul debitore. Storicamente, la deviazione più vistosa dal modello di derivazione francese è però la presenza dell’istituto del discharge, ossia la liberazione dai debiti residui, introdotto in Inghilterra all’inizio del XVIII secolo e poi diffusosi nei Paesi del Commonwealth: cfr. M ARCUCCI, Insolvenza del debitore civile e “fresh start”, in L’insolvenza del debitore civile: dalla prigione alla liberazione, a cura di PRESTI, STANGHELLINI e VELLA, Analisi giur. economia, 2004, 223. 23 23