Il Tempo - Biblioteca Universitaria di Napoli

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Il Tempo
“Se non mi chiedono cosa sia il tempo lo so, ma se me lo chiedono non lo so”. Così Agostino di Ippona in
una celebre frase de Le confessioni. Da allora sono passati tanti secoli ma, nonostante la riflessione sul
tempo si sia enormemente arricchita di tanti contributi provenienti da prospettive di studio molto diverse,
rimane un concetto “aperto”, comunque di non facile dicibilità. Ed è anche curioso e suggestivo notare che
vecchie concezioni del tempo che sembravano del tutto superate perché frutto di un pensiero “ingenuo”,
ritornano sotto forma di nuove speculazioni filosofiche o come risultante delle ultimissime scoperte
scientifiche. Ma andiamo con ordine. Ritorniamo a Sant’Agostino. La sua concezione del tempo come
“distensione dell’animo” , che consente ad un soggetto di vivere il presente con l’attenzione, di avere
coscienza del passato con la memoria e di proiettarsi nel futuro con l’attesa, rompe con l’antica concezione,
prevalente nel mondo pagano, di un tempo circolare ciclico (legato al ripetersi degli eventi naturali) e
introduce la concezione lineare-progressiva. Il tempo è stato creato da Dio con l’universo e avrà termine
con la fine del mondo. In qualche modo Agostino può essere considerato un precursore della moderna
teoria fisica della “freccia del tempo”, ossia di quel fenomeno per il quale il tempo sembra scorrere sempre
nella stessa direzione, dal passato al futuro, in una sorta di senso unico. La base scientifica di questa
concezione risiede nel secondo principio della termodinamica, o legge di entropia, secondo il quale è
possibile, in un sistema chiuso, passare da uno stato di ordine ad uno di disordine ma non il contrario (per
esempio posso rompere un piatto in tanti frammenti ma non posso da quei frammenti riottenere il piatto).
Eppure nel mondo moderno ogni tanto ricompare la vecchia visione di un tempo ciclico. E’ il caso, per
quanto confinata in un ambito storico, dei Corsi e ricorsi storici di Giambattista Vico o, in ambito filosofico,
dell’Eterno ritorno dell’uguale di Friedrich Nietzsche. La teoria del filosofo tedesco che può apparire assurda
perché non si limita a concepire il ripetersi generico degli eventi ma immagina che si ripetino in eterno
sempre nello stesso identico modo, oggi trova un certo sostegno, almeno come possibilità, in alcuni
ambienti scientifici.
Un altro momento di svolta nel modo di intendere il tempo si ha con Isaac Newton, il grande scopritore
della legge di gravitazione universale. Per lo scienziato scozzese il tempo è una realtà assoluta. (1) Scorre
sempre immutabile, uguale a se stesso. E’ “sensorium Dei”, senso di Dio, ed è visto, insieme allo spazio,
come il grande contenitore di tutti gli eventi. Questa concezione di un tempo e di uno spazio assoluti viene
ripresa, in chiave filosofica, da Immanuel Kant, per il quale lo spazio e il tempo sono “le forme a priori della
sensibilità” (2), cioè sono le condizioni universali, perché comuni a tutti gli uomini, che rendono possibile
qualsiasi esperienza del mondo. In altre parole tutte le nostre percezioni della realtà avvengono in quanto
inserite nelle strutture di spazio e tempo, che sono “a priori” perché non derivano da alcuna esperienza
particolare ma sono a noi connaturate.
Questa concezione newtoniana di un tempo assoluto, contenitore, con lo spazio, di tutti gli eventi, va in
crisi con le scoperte di Albert Einstein. Con la relatività ristretta e con la relatività generale Einstein teorizza
che il tempo non scorre sempre immutabile e uguale a se stesso ma varia con il variare della velocità e della
forza di gravità. E più precisamente il tempo rallenta con l’aumentare della velocità e della forza di gravità.
Oggi le teorie di Einstein sul tempo sono facilmente dimostrabili. La tecnologia ci mette a disposizione degli
orologi atomici o al cesio in grado di misurare frazioni infinitesimali del secondo. Ebbene se avessimo a
disposizione due di questi straordinari oggetti che segnano lo stesso tempo al millesimo di secondo, e
lasciassimo fermo il primo su di un tavolo e agitassimo l’altro velocemente noteremmo che quello che
abbiamo agitato è rimasto indietro rispetto a quello fermo. E’ lo stesso fenomeno noto come “il paradosso
dei gemelli”. Se uno dei due rimane sulla terra e l’altro viaggia su di una astronave alla velocità prossima a
quella della luce quando il gemello viaggiatore ritornerà sarà più giovane di quello rimasto sulla terra.
Questo perché con l’aumentare della velocità il tempo rallenta.
Ma il tempo rallenta anche con l’aumentare della forza gravitazionale. Ricorriamo ancora ai due orologi
atomici. Li poniamo uno sopra e l’altro sotto. Quello sotto in quanto risente, anche solo
impercettibilmente, di una maggiore forza di gravità, risulterà andare più lentamente rispetto all’altro.
Questo effetto che a noi sembra del tutto trascurabile, non lo è affatto, per esempio, nei GPS che abbiamo
nelle automobili, che funzionano con degli orologi precisi che stanno sui satelliti. Se non se ne tenesse
conto i GPS non funzionerebbero perché lassù, dove ci sono i satelliti con i loro orologi, il tempo corre più
veloce.
Con le scoperte di Einstein il tempo assoluto di Newton si è frantumato in tanti possibili tempi. In teoria
infiniti tempi perché infinite sono le condizioni fisiche, di velocità e di forza gravitazionale, riscontrabili
nell’universo. E in una di queste condizioni, la più estrema di tutte, quella caratterizzata da una forza
gravitazionale di enorme intensità, da “ingoiare” tutto quello che gli si avvicina, da impedire persino alla
luce di fuoriuscire, il tempo non scorre più, il tempo sparisce. Si tratta del buco nero. Prevista dalla relatività
generale e oramai comunemente accettata come una realtà dalla comunità scientifica, l’esistenza dei buchi
neri e delle loro proprietà ci porta ad una considerazione, riguardante il tempo, che trova oggi un consenso
quasi generale. Di cosa si tratta? Abbiamo detto che all’interno del buco nero il tempo non scorre. Ma
come è possibile una cosa simile? Al nostro senso comune lo scorrere del tempo, veloce o ritardato che sia,
appare come una realtà incontrovertibile, qualcosa che non può non esistere. Possiamo immaginare un
mondo completamente buio e privo di qualsiasi forma materiale, ma anche in una situazione così fatta, un
essere pensante percepirebbe il tempo come il succedersi dei suoi pensieri. Ma le cose non stanno così.
Intorno al buco nero vi è una superficie immaginaria, chiamata orizzonte degli eventi, che segna il confine
oltre il quale niente può sfuggire alla sua forza attrattiva, nemmeno la luce, la cui velocità, come sappiamo,
non può essere superata da nessuna altra cosa nell’universo. In una condizione nella quale nemmeno la
luce può sopravvivere nessun evento è possibile perché niente più può esistere. Ed è assurdo pensare che
una mente dotata di neuroni e di sinapsi, quindi di materia organica possa sopravvivervi e pensare. Soltanto
una mente divina e indipendente da ogni legge fisica potrebbe esistere. Quindi la presenza di un tempo
finisce col coincidere con il verificarsi di un qualche evento e in ultima analisi da un qualche movimento,
perché senza che si muova qualcosa, non fossero altro che elettroni intorno ad un nucleo o particelle subatomiche o stringhe vibranti, non sarebbe possibile alcun cambiamento. Il tempo coincide con gli eventi, il
tempo consiste negli eventi, noi siamo il tempo perché siamo parte integrante di una trama degli eventi che
ha preso inizio circa 15 miliardi di anni luce fa con l’esplosione di un punto estremamente piccolo e dalla
energia infinitamente grande.
Ma il pensiero scientifico, a proposito della concezione del tempo, non si è fermato al tempo relativo di
Einstein. Come è risaputo, l’altra grande scoperta della fisica novecentesca è la fisica quantistica. La fisica
dell’infinitamente piccolo, delle particelle più piccole dell’atomo, i costituenti ultimi della materia. Ora le
leggi che regolano il mondo macroscopico, fatto di strutture complesse che vanno dalla più piccola materia
osservabile agli ammassi di galassie, non valgono per il mondo sub-atomico che pur ne costituisce il
presupposto fondamentale. Per esempio, nel mondo della fisica quantistica non è possibile
contemporaneamente conoscere la velocità e la posizione di una particella. Così come tutti gli eventi che
avvengono in quella dimensione sono sempre, in qualche modo, modificati da chi li osserva o li misura.
Il tentativo di trovare delle leggi che diano conto sia degli eventi del mondo “grande”, in particolare la
relatività einsteiniana, che di quelli del mondo “piccolo”, impegna da diversi decenni la quasi totalità degli
fisici. Gli sforzi più recenti sono orientati nel senso di introdurre la gravità nel mondo sub-atomico. E la
quasi totalità di questi tentativi si avvale di equazioni che non considerano la grandezza tempo. E, da un
punto di vista della logica matematica, sembra che siano in grado di dare conto dei fenomeni che studiano.
Sembra che la grandezza tempo, che lo stesso concetto di tempo, siano del tutto superflui per spiegare
quello che avviene in quel mondo. Il tempo sembra sparire come in un buco nero.
Le stranezze e i paradossi del mondo quantistico a volte solleticano la fantasia di scienziati, filosofi, di
esponenti del mondo new age e li conducono ad ipotesi che non possono essere ne contraddette con
certezza ne provate scientificamente. In un saggio di qualche anno fa lo scienziato inglese Julian Barbour
sostiene la tesi che il tempo, l’impressione dello scorrere di un flusso “temporale”continuo e progressivo
indipendente da ogni altra cosa, sia soltanto frutto del nostro cervello che non può percepire il mondo se
non in questo modo. (3) Ma è un inganno come lo è il percepire e credere che la terra sia ferma. La realtà
per Barbour consiste in tanti istanti statici che definisce “adesso” che rappresentano le possibili infinite
configurazioni che l’universo può assumere.
Alla fine di questo discorso sulla concezione del tempo che emerge dalle scoperte scientifiche e dalle
speculazioni che innescano, possiamo giungere ad una conclusione che può apparire sconcertante e che
può anche far sorridere: se da una parte il tempo viene proposto come intrinseco al cambiamento e
dall’altra come pura apparenza, qualcosa di cui si può fare a meno, sembra che si riproponga, all’interno
della comunità scientifica, sia pur con nuovi argomenti,la vecchia disputa tra il vecchio saggio Eraclito e il
venerabile Parmenide: tra i sostenitori della realtà come continuo cambiamento, del “tutto scorre” e
sostenitori dell’Essere che non muta mai e quindi del tempo e del cambiamento come apparenze.
Abbandoniamo ora il mondo della scienza alla ricerca di una definizione o di una confutazione del tempo
come realtà oggettiva e occupiamoci di come esso appare e viene considerato all’interno della nostra
dimensione di esseri umani, all’interno, cioè, del nostro concreto vissuto. E per fare ciò ci avvarremo
principalmente del contributo della letteratura, in particolare della letteratura del Novecento. Sarà un
breve percorso che non ha alcuna pretesa di esaustività e che, con apparente paradosso, prende le mosse
da un filosofo, Henry Bergson. E non era possibile iniziare diversamente perché il filosofo francese, vissuto a
cavallo tra XIX e XX secolo, dona al mondo dell’arte in generale e della scrittura in particolare, l’impalcatura
teorica dentro la quale esprimere la propria personale sensibilità e visione delle cose. Bergson contesta alla
scienza di aver monopolizzato il concetto di tempo presentandolo unicamente sotto una forma
“spazializzata”, come una serie di istanti che si susseguono, tutti uguali, ordinatamente, come dei punti su
di una linea, dal passato, al presente, al futuro. (4) Per Bergson questa è una schematizzazione astratta che
cozza con il concreto “sentire” il tempo da parte dell’uomo e cioè come tempo della vita, dell’attesa, del
desiderio e del ricordo. Sua caratteristica principale è il fluire, il tempo è il flusso della coscienza, è durata.
Per la scienza gli istanti sono tutti uguali ed estranei l’uno all’altro ma noi ci accorgiamo che non è così. Ci
accorgiamo che gli istanti si presentano in un flusso continuo, che sono qualitativamente diversi, che si
compenetrano a vicenda e non sono separabili. Bergson paragona il fluire dell’esistenza all’arrotolarsi di un
filo su un gomitolo: il nostro passato ci segue, ci costruisce e ci proietta nel futuro. Ogni momento è in
funzione del precedente e propedeutico del successivo. I principali scrittori del Primo Novecento sono
debitori, magari inconsapevoli, al pensiero di Bergson: Svevo e Pirandello in Italia, Joyce e Proust in Europa.
Ma prima di presentare il loro modo di avvertire e considerare il tempo può essere utile una breve
digressione che ci conduce ad uno scrittore latino lontano nel tempo ma, per quanto riguarda la concezione
del tempo, vicino alla sensibilità moderna: Lucio Amneo Seneca. Nel De brevitate vitae, Seneca anticipa la
visione del tempo come di un tempo soggettivo, la cui durata dipende dal modo nel quale l’uomo lo
impiega: “La natura fa scorrere rapidamente il tempo della nostra esistenza, ma la ragione può prolungarla:
è inevitabile che la vita scivoli via veloce a chi non cerca di acchiapparla, di trattenerla, o perlomeno di farla
procedere più lentamente, ma la lascia passare così, lei, la più rapida di tutte le cose, come un bene
superfluo e recuperabile”. La vita del saggio che contempla e che si dedica all’otium è come priva del
tempo, non è limitata; brevissima e triste, invece, è la vita degli eterni affaccendati o dei non impegnati che
dipendono dagli altri.
Ma torniamo al Novecento letterario: nei primi decenni comincia a vacillare la categoria del tempo come
asse su cui si dispongono in modo ordinato i fatti. La narrativa aveva sempre conosciuto la possibilità di
movimentare l’intreccio mediante anticipazioni e flash-back; ma nel romanzo del Novecento si ha un
continuo spostarsi alla rinfusa nel tempo, che così diviene una dimensione puramente legata al soggetto,
proprio come nella filosofia di Bergson. Così si alterano anche i rapporti tra la durata effettiva degli eventi e
la durata della narrazione: un evento piccolissimo, filtrato attraverso tutto ciò che passa nella coscienza
degli individui in ogni istante, è in grado di dar vita a ricordi e assembramenti di idee che possono protrarsi
per pagine e pagine. Come si è già accennato, due sono in Italia gli autori che si rispecchiano maggiormente
in questa nuova concezione: Luigi Pirandello e Italo Svevo.
Pirandello riprende il tema caro alla filosofia di Bergson di flusso vitale, di un universo in continuo divenire,
oggetto di una continua evoluzione creatrice. Anche l’uomo partecipa a questo moto continuo, ma,
sostiene Pirandello, nel momento in cui ne è preso vorrebbe anche capirlo, schematizzarlo e riportarlo ad
una legge. Impresa vana perché troppo limitato nel tempo e nello spazio per riuscirci. Da qui nasce il
dramma: l’uomo tenta inutilmente di costringere il flusso in forme fisse. Ma più si sforza, più la cultura e la
civiltà le rende evolute più l’uomo si aliena perché si allontana dalla natura e dalla realtà. Anche il tempo
oggettivo è una delle tante forme create dall’uomo, per le sue esigenze, è quindi è falsa ed inconsistente.
Vera è invece la nozione di durata o tempo soggettivo, scandito dalla coscienza di ogni singolo individuo.
Ma la durata non conosce la distinzione presente-passato-futuro e non procede neppure linearmente a
senso unico: emette salti, accelerazioni e decelerazioni. Pertanto ogni individuo è un mondo a se stante che
può soltanto sfiorare gli altri, in quanto manca un qualsiasi elemento comune di riferimento.
Forse le opere che più delle altre esprimono la concezione del tempo in Pirandello sono: Novelle per un
anno, il Fu Mattia Pascal e I quaderni di Serafino di Gubbio operatore.
Un altro capolavoro della narrativa italiana dei primi anni del Novecento è La coscienza di Zeno, di italo
Svevo. Nel romanzo la realtà appare come un fenomeno essenzialmente mentale e soggettivo del
protagonista, Zeno Cosini. Egli si muove incerto e mai del tutto presente al momento vissuto perché
portato ad un continuo processo di rimemorazione, cioè allo sforzo di concentrazione per far affiorare alla
memoria un ricordo svanito.
Come si è già detto, nella narrativa europea dei primi del Novecento i due scrittori che più di altri hanno
fatto del tema del tempo, del modo di intenderlo, il loro principale campo di espressione sono James Joyce
e Marcel Proust.
Il più importante elemento dello stile nell’Ulisse, il principale romanzo di Joyce, è il flusso di coscienza, nella
sua forma più tipica del monologo interiore. Il flusso di coscienza è, infatti, da intendere come una
categoria psicologica, ed indica le associazioni casuali di pensieri, impressioni ed emozioni di una persona
che non sta volontariamente pensando ma sta lasciando che la sua mente vaghi liberamente. In questo
modo Joyce liberò il romanzo dall’opprimente presenza del narratore ed inoltre permise al lettore di
osservare come dall’interno la mente del personaggio, consentendogli di coglierne i lati razionali ed
irrazionali.
Ne “Alla ricerca del tempo perduto”, il capolavoro di Marcel Proust, il tempo è quello della memoria, il
tempo psicologico che può dilatare un evento il cui eco interiore è immenso. La ricerca di Proust è anche
una speranza e una promessa di felicità, felicità che può essere raggiunta soltanto ritrovando, con la
memoria, il tempo, la durata e il paradiso perduti. Ritrovare il tempo perduto e rivivere il passato non è
impossibile a patto che il mondo ritrovato sia un mondo letterario, un mondo interiore, mistico. E si
raggiunge lo scopo attraverso la memoria involontaria, il ricordo che emerge improvviso e spontaneo di
una sensazione provata nel passato e riaffiorata a seguito di una sensazione analoga vissuta nel presente.
Questa esperienza che non appartiene ne al passato ne al presente, è come fuori del tempo, è motivo di
grande felicità perché elimina la sensazione di un tempo che ci divora e che cancella ogni cosa. Un ricordo
che affiora dall’infanzia è come riappropriarci della nostra intera vita, è una vittoria sul tempo e sulla morte.
La vita degli uomini consiste dunque in una lotta disperata contro l’inevitabile scorrere del tempo che
passando trasforma e distrugge gli esseri, i sentimenti, le idee.
Compiendo un salto di alcuni decenni concludiamo questo breve percorso sul rapporto tra letteratura e
tempo con uno scrittore italiano vissuto nella seconda metà del Novecento: Italo Calvino.
Calvino, forse più di tutti gli altri , è lo scrittore italiano che ha fatto del tempo uno dei suoi privilegiati temi
di ricerca. E lo ha fatto liberandosi dal topos della letteratura della memoria, genere tanto in auge per
buona parte del Novecento, per affrontarlo in un modo molto originale e vario, sensibile, tra l’altro, ai
dibattiti sul tempo che si svolgevano nell’ ambiente scientifico.
Ti con zero è un racconto completamente dedicato al tema e lo stesso Calvino in una intervista (5) così ne
parla: “Cerco di vedere il tempo con la concretezza con cui si vede lo spazio. Nel racconto, ogni secondo,
ogni frazione di tempo è un universo. Ho abolito tutto il prima e tutto il dopo fissandomi così sull’istante nel
tentativo di scoprirne l’infinita ricchezza. Vivere il tempo come tempo, il secondo per quello che è,
rappresenta un tentativo di sfuggire alla drammaticità del divenire. Quello che riusciamo a vivere nel
secondo è sempre qualcosa di particolarmente intenso, che prescinde dall’aspettativa del futuro e dal
ricordo del passato, finalmente liberato dalla continua presenza della memoria.”. (6) Colpisce l’analogia,
persino semantica, con quanto scrive lo scienziato Julian Barbour nel suo libro “La fine del tempo”,
pubblicato nel 2005 e di cui si è già brevemente accennato. A prescindere dalle conclusioni alle quali giunge
lo scienziato inglese, entrambi parlano di configurazioni per descrivere “lo stato dell’universo” in un dato
istante, “istante-universo” per Calvino, “adesso” per Barbour; entrambi svalutano il divenire, per la sua
drammaticità intrinseca, Calvino, per la sua irrealtà, Barbour.
Il tema di un tempo come cristallizzato negli istanti che lo compongono è espresso in forma diversa ne Le
città invisibili, dove negli oggetti, nelle cose e anche nelle città, è come depositato tutto il tempo che ha
concorso nel mostrarceli così come sono.
Eppure in un altro romanzo, Palomar, l’atteggiamento verso il tempo che scorre, il divenire, il
cambiamento, sembra cambiare registro: “Essere morto per Palomar significa abituarsi alla delusione di
ritrovarsi uguale a se stesso in uno stato definitivo che non può più sperare di cambiare”. Questa
concezione del cambiamento inteso quale forza creatrice dell’universo avvicina Calvino alle tesi espresse
dal famoso scienziato russo-belga Ilya Prigogine, per il quale il cambiamento che si compie nel tempo è ciò
che vi è di fondamentale nell’universo; un cambiamento che segue un’unica direzione, quella della “freccia
del tempo” dal passato al futuro, verso forme di realtà sempre più complesse ed evolutive. (7)
E così siamo tornati alla vexata quaestio: il fondamento della realtà è nell’essere che non muta o
nell’incessante cambiamento. E in questo tormentato dilemma il tempo, la risposta sulla sua natura, riveste
un ruolo centrale. Un ruolo che non gioca soltanto nel campo dell’ontologia ma anche in quello umanissimo
della vita, del senso da dare ad essa.
Note
1)
2)
3)
4)
5)
Isaac, Newton, Principi matematici della filosofia naturale, Utet, 1997
Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, 2005
Julian Barbour, La fine del tempo, Einaudi, 2003
Henry Bergson, Durata e simultaneità, Cortina Raffaello, 2004
Intervista che Italo Calvino concesse nel gennaio 1985 a Michele Neri, in Sono nato in America:
interviste 1951-1985, a cura di Luca Baranelli, Mondadori, 2012
6) Intervista, op. cit.
7) Ilya Prigogine, La fine delle certezze. Il tempo, il caos e le leggi della natura, Bollati Boringhieri, 1997
Bibliografia (Non vengono indicate le opere già presentate nel testo o in nota)
Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Rusconi, 1975
Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Bollati Boringhieri, 2006
Paul Davies, I misteri del tempo, Oscar saggi Mondadori, 1997
Hans Georg Gadamer, L’enigma del tempo, Zanichelli, 1995
Brian Greene, La trama del cosmo, Einaudi, 2004
Margherita Hack, Pippo Battaglia, Rosolino Buccheri, L’idea del tempo, Utet, 2005
Stephen Hawking, Dal Big Bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, Rizzoli, 1988
Carlo Rovelli, Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio?, Di Renzo, 2006