Il discorso su Bergson di P[1]. Valéry.rtf

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PAUL VALÉRY
DISCORSO SU HENRI BERGSON
Allocuzione pronunciata all’Accademia francese
nella seduta del 9 gennaio 1941
Signori,
all’inizio di quest’anno - che vede la Francia al punto più basso della sua storia, sottoposta nella
sua esistenza alle prove più dure e con un avvenire che non si può neppure immaginare - pensavo di
dover esprimere in questa sede i voti che tutti noi, membri del nostro Consesso, assenti e presenti,
formuliamo perché i tempi a cui andiamo incontro siano meno amari, meno sinistri, meno atroci di
quelli che abbiamo vissuto nel 1940 e che ancora viviamo.
Ma ecco che, fin dai primi giorni di questo nuovo anno, l’Accademia è stata in qualche modo
colpita alla testa: Bergson è morto sabato scorso, all’età di 81 anni, soccombendo senza sofferenza, a
quanto pare, a una congestione polmonare. Lunedì il corpo di quest’uomo illustre è stato trasportato
dalla sua abitazione al cimitero di Garches, nelle condizioni necessariamente più semplici e più
commoventi. Nessun funerale, nessun discorso; ma senza dubbio ciò servì ad accrescere, in tutti quelli
che si trovavano lì, il raccoglimento pensoso e il sentimento di una perdita straordinaria. C’erano una
trentina di persone, riunite in una sala attorno al feretro. Io ho espresso alla signora Bergson le
condoglianze dell’Accademia e lei mi ha incaricato di ringraziarvi da parte sua. Subito dopo sono
venuti a prendere il feretro e noi abbiamo salutato per l’ultima volta, dalla soglia, il più grande filosofo
del nostro tempo.
Egli era l’orgoglio della nostra Assemblea. Che la sua metafisica ci abbia sedotti o meno, che noi
l’abbiamo seguito o no nella profonda ricerca alla quale ha consacrato tutta la vita e nell’evoluzione
veramente creatrice del suo pensiero, sempre più ardito e libero, noi vedemmo in lui l’esemplare più
autentico delle virtù intellettuali più elevate. Una sorta di autorità morale nelle cose dello spirito era
legata al suo nome, la cui fama del resto era universale. La Francia seppe fare appello a quel nome e
alla sua autorità in circostanze che, ne sono sicuro, sono a voi ben presenti. Molti discepoli ebbero nei
suoi confronti un fervore e quasi una devozione che, nel mondo delle idee, nessuno dopo di lui può
oggi illudersi di eguagliare.
Io non mi addentrerò nella sua filosofia. Non è questo il momento di procedere a un esame che
richiede di essere approfondito e non può esserlo che in giorni di luminosa chiarezza e nel pieno
esercizio del pensiero. I problemi assai antichi e, di conseguenza, assai difficili, che Bergson ha trattato,
come quelli del tempo, della memoria e soprattutto dello sviluppo della vita, sono stati da lui rinnovati
e la situazione filosofica, come si presentava in Francia mezzo secolo fa, si è curiosamente modificata.
A quell’epoca la potente critica kantiana, armata di un temibile strumento di controllo della conoscenza
e di una terminologia astratta molto abilmente organizzata, dominava nell’insegnamento e s’imponeva
anche alla politica, almeno nella misura in cui la politica può avere qualche contatto con la filosofia.
Bergson non ne subì il fascino, né si lasciò intimidire dal rigore di quella dottrina che decretava
imperativamente i limiti del pensiero, e decise di risollevare la metafisica da quella specie di discredito
e di abbandono in cui egli l’aveva trovata. Voi sapete quale fu il successo delle sue lezioni al Collège
de France e quale risonanza ebbero in tutto il mondo le sue ipotesi e le sue analisi.
Mentre i filosofi, dopo il XVIII secolo, erano stati per lo più sotto l’influenza di concezioni fisicomeccaniche, il nostro illustre socio si era lasciato felicemente sedurre dalle scienze della vita. La
biologia lo ispirava. Bergson considerò la vita, la comprese e la concepì come portatrice dello spirito.
Non temeva di cercare nell’osservazione della sua coscienza qualche luce su problemi che non saranno
mai risolti. Ma egli aveva reso un servizio essenziale: aveva restaurato e riabilitato il gusto di una
meditazione più vicina alla nostra essenza di quanto non possa esserlo uno sviluppo puramente logico
di concetti di cui, del resto, è per lo più impossibile dare definizioni ineccepibili. Il vero valore della
filosofia è ricondurre il pensiero a se stesso; uno sforzo del genere, però, esige da chi vuol descriverlo, e
vuol comunicare ciò che gli appare della sua vita interiore, un’applicazione particolare ed anche
l’invenzione di una maniera di esprimersi conveniente a quel disegno, affinché il linguaggio venga
fuori dalla sua propria sorgente.
In questo Bergson manifestò tutte le risorse del suo genio. Egli osò prendere in prestito dalla
poesia le sue armi affascinanti, combinando la potenza speculativa con la precisione da cui non può
scostarsi uno spirito che si sia formato nello studio delle scienze esatte. Le immagini, le metafore più
felici e nuove obbedirono al suo desiderio di ridar vigore nella coscienza degli altri alle scoperte che
egli faceva nella sua e ai risultati delle sue esperienze interiori. Ne nacque uno stile che per essere
filosofico rifiutò di farsi pedante, e ciò confuse e anche scandalizzò alcuni; molti altri, però, si
rallegrarono di riconoscere in quello stile duttilità, ricchezza, grazia, libertà, gusto delle sfumature.
Queste qualità tutte francesi erano ignote alla generazione precedente, persuasa che una speculazione
seria dovesse tenersi accuratamente lontana da esse. Permettetemi qui di osservare che questa ripresa fu
quasi contemporanea a quella che si produsse nell’universo della musica, quando si manifestò l’opera
estremamente raffinata e libera di Claude-Achille Debussy. Furono quelle due reazioni tipiche dello
spirito francese.
E non è tutto. Henri Bergson, grande filosofo, grande scrittore, fu anche, e doveva esserlo, un
grande amico degli uomini. Forse il suo errore è stato quello di pensare che gli uomini lo meritassero.
Egli ha lavorato con tutta l’anima all’unione degli spiriti e degli ideali, che credeva dovesse precedere
quella degli organismi e delle forze politiche; ma questo non è forse il contrario di ciò che ci tocca
vedere? Forse bisogna anche considerare come propri della nostra specie gli antagonismi molto diversi
che esistono fra gli uomini; e tra questi quello che oppone i partigiani e i servitori dell’unità della
famiglia umana a coloro che non credono affatto in essa e la giudicano una pericolosa chimera.
Bergson pensava indubbiamente che la sorte stessa dello spirito è inseparabile dal sentimento
della sua presenza e del suo valore universale: d’altra parte, facendo leva su quella realtà, egli
recuperava la dimensione più religiosa. A lui pareva, infatti, che il senso della vita, a cominciare dalle
sue manifestazioni più semplici e umili, fosse essenzialmente spirituale. Tutto ciò ci permette di
immaginare quale poté essere lo stato d’animo di un uomo di così vasta e profonda intelligenza dinanzi
ad avvenimenti che hanno mandato in rovina tante belle previsioni, cambiando rapidamente e
violentemente la faccia delle cose. Io non sapevo che Bergson dal mese di settembre fosse a Parigi e,
non avendo potuto fargli visita, ignoro se egli - così crudelmente toccato, nell’intimo, dal disastro totale
di cui subiamo le conseguenze - si sia lasciato cogliere dalla disperazione, o se sia riuscito a mantenere
la fiducia nell’evoluzione della nostra specie verso una condizione progressivamente più alta. Io
comunque ho appreso nello stesso istante la notizia della sua presenza a Parigi e quella della sua morte.
La sua era un’intelligenza assai alta, pura, superiore ed egli è stato forse uno degli ultimi uomini
capaci di un pensiero originale, profondo, elevato. In un mondo come quello d’oggi si tende a pensare e
a riflettere sempre meno, la civiltà a poco a poco pare ridursi al ricordo e alla custodia di quel che
rimane della sua ricchezza multiforme e della sua produzione intellettuale libera e sovrabbondante,
mentre la miseria, le angosce, le costrizioni di ogni genere deprimono e scoraggiano le iniziative dello
spirito. Bergson sembra già appartenere ad un’altra epoca. Il suo è l’ultimo grande nome della storia
dell’intelligenza europea.
MATTEO PERRINI
ANNOTAZIONI AL DISCOURS SUR BERGSON
DI PAUL VALÉRY
Il testamento (8 febbraio 1937), la morte di Bergson (4 gennaio 1941), la testimonianza di Valéry
Nel primo giorno dell’anno 1941, a causa del freddo patito per mesi, Bergson si ammalò di
congestione polmonare. Nella sua casa, a Parigi, malgrado la temperatura glaciale di quell’inverno, le
stufe erano spente per mancanza di carbone. Da un’intervista di Mme Bergson a Le Figaro del 6
gennaio 1945 sappiamo quali furono gli ultimi momenti del marito. La situazione precipitò il terzo
giorno di malattia, ma il filosofo perse conoscenza solo nelle ultime due ore di vita. Prima pronunciò
frasi che si riferivano all’opera sua più ardua, Matière et mémoire, del 1896, e al suo insegnamento al
Collège de France, che era cessato nel 1914. L’ora della separazione della memoria dalla materia per
Bergson giunse sabato 4 gennaio. Aveva 81 anni.
Nel suo testamento, che porta la data dell’8 febbraio 1937, Bergson aveva scritto: “J’espère qu’un
prêtre catholique voudra bien, si le cardinal-archevêque de Paris l’y autorise, venir dire des prières à
mes obsèques. Au cas où cette autorisation ne serait pas accordée, il faudrait s’adresser à un rabbin,
mais sans lui cacher et sans cacher à personne, mon adhésion morale au catholicisme, ainsi que le
désir exprimé par moi d’avoir d’abord les prières d’un prêtre catholique”.
Tra L’Évolution créatrice del 1907 e Les Deux Sources de la Morale et de la Religion del 1932 ci
furono venticinque anni di riflessione durante i quali Bergson si orientò sempre più verso il
cattolicesimo, nel quale vedeva la realizzazione completa del giudaismo. Egli decise, però, di non
mettersi al riparo dalla persecuzione e di restare a fianco di coloro su cui stava per abbattersi la più
formidabile ondata di antisemitismo che la storia conosca. Per conciliare la volontà espressa nel
testamento con le difficoltà del momento, Mme Louise Bergson pregò un sacerdote, che era anche un
vecchio amico, il canonico Lelièvre di Neuilly, di dire presso il letto di morte del marito le preghiere
della liturgia cattolica per i defunti e di tracciare il segno della croce sulla fronte del filosofo.
Lunedì 6 gennaio la salma fu trasportata dall’abitazione in un piccolo cimitero della periferia
parigina, a Garches, dove riposa tuttora. Non vi fu rito religioso per la sepoltura. Tre giorni dopo Paul
Valéry pronunciò il discorso su Bergson all’Académie française nella seduta del 9 gennaio.
L’incipit del discorso di Valéry colloca immediatamente il doloroso evento della morte di
Bergson nell’immane tragedia della Francia occupata dalle armate naziste: “Cette année... trouve la
France au plus bas, sa vie soumise aux épreuves les plus dures, son avenir inimaginable... Mais voici
que dès les premiers jours de cette année nouvelle, l’Académie est en quelque sorte frappée à la tête.
M. Bergson est mort samedi dernier, 4 janvier”. Sull’ultimo saluto, nel cimitero di Garches, dato
all’uomo che nel Novecento più aveva onorato la Francia, la testimonianza del poeta è toccante: “Point
de funérailles; point de paroles; mais sans doute d’autant plus de pensée recuillie et de sentiment
d’une perte extraordinaire chez tous ceux qui se trouvent là. C’était une trentine de personnes...”.
Perché a Garches era convenuto un così piccolo gruppo di persone? Il 6 gennaio si celebrava
l’Epifania, a Parigi nevicava e la presenza ossessiva dell’invasore condizionava pesantemente i
comportamenti di tutti. Le esequie di Bergson, a causa della legislazione che i nazisti avevano imposto,
e di cui essi sorvegliavano la stretta osservanza nella zona occupata, non potevano avere la solennità
che in altri tempi una Francia libera avrebbe dato ad esse. Per l’invasore nazista il filosofo più
conosciuto nel mondo era pur sempre un ebreo ed era colui che aveva coniugato nella sua esistenza
l’amore più profondo per la patria francese, la celebrazione della democrazia e l’appassionata difesa
degli ideali wilsoniani che avrebbero potuto garantire la pace nel mondo. Ora, però, i valori a cui
Bergson aveva consacrato la vita, e ai quali aveva dato nuovo vigore con la sua riflessione filosofica,
erano irrisi dal nazismo trionfante e anche una parte dei francesi, affascinati dalla potenza militare
tedesca e dalla mistica perversa della violenza, li rinnegava apertamente. Bergson, in una parola, era
capace di compromettere chi lo onorava anche da morto e tra gli Immortali alcuni pensarono fosse
preferibile assentarsi il 6 gennaio alle esequie del più illustre membro dell’Académie.
C’è pure da chiedersi perché l’istituzione in cui fu pronunciato l’elogio funebre di Bergson non
provvide neppure nei mesi successivi a stamparne il testo. In una conversazione con l’amico Gaston
Poulain, nel maggio del ’42, a Montpellier, il poeta definì “miserables” le esequie di Bergson e indicò
nella viltà dei membri dell’Académie la causa della mancata pubblicazione del suo discorso.
“L’Institut, comme d’habitude, n’a pas eu de courage”, disse Valéry, non senza aggiungere con una
punta di ironia e compiacimento che, grazie alle numerose copie dattiloscritte messe in circolazione, il
discorso su Bergson “a été beaucoup plus lu que si avait été imprimé”. Questi giudizi di Valéry sono
riportati da Poulain nel suo volume Paul Valéry tel quel, La Licorne, Montpellier 1955, pp. 11-12.
Nel giugno del ’41 l’allocuzione di Valéry fu stampata nella Confederazione Elvetica sulla rivista
Suisse contemporaine e nel volume Henri Bergson-Essais et témoignages inédits, a cura di Albert
Béguin e Pierre Thévenaz (Neuchâtel, À la Baconnière). In Francia apparve nell’agosto del ’41, in
apertura del numero speciale Hommage à Henri Bergson (1859-1941), che la Revue philosophique
dedicò al filosofo scomparso. Di quel numero speciale le Presses Universitaires de France pubblicarono
nel febbraio 1942 una nuova tiratura: Études bergsonniennes. Hommage à Henri Bergson (1859-1941).
Il Discours sur Bergson è nel primo volume delle Oeuvres di Paul Valéry, Bibliothèque de la PléiadeGallimard, Paris 1965, pp. 883-886, édition établie et annotée par Jean Hytier, con una sola variante
rispetto al testo pubblicato nel corso del 1941 e del 1942: si omette la frase relativa alla presenza, a
Garches, dei rappresentanti dello Stato francese, l’ambasciatore De Brinon e Louis Lavelle.
Nella prefazione - che reca la data 11 novembre 1947 - alla nuova edizione del suo Bergson,
sempre presso Plon, Jacques Chevalier, a proposito della sepoltura della salma del filosofo, scrive: “Le
gouvernement, en la personne du secrétaire d’Etat à l’Éducation nationale, qui se trouvait être
l’auteur de ce livre et l’ami personnel de Bergson, donna à ce grand mort tout l’hommage que les
circonstances rendaient possible. À défaut du ministre lui-même, à qui les Allemands refusaient
systématiquement l’accès de la zone occupée, son représentant à Paris [Louis Lavelle] assista
officiellement aux obsèques. Lui-même, dans une déclaration à la presse et dans une allocution
radiodiffusée, fit un éloge de Bergson qui suscita la colère des feuilles parisiennes dociles à
l’occupant. Enfin, le 11 janvier 1941, il publia dans Le Figaro un article où, après avoir évoqué ses
souvenirs personnels, il résume l’oeuvre du philosophe et nous explique, avant même la publication du
testament, comment l’aboutissement de la pensée du maître se laissait pressentir: conclusion à laquelle
tendait déjà tout le présent ouvrage”. Paul Claudel nel suo Journal riporta integralmente la prefazione
di Chevalier (vol. II, 1933-1955, Bibliothèque de la Pléiade-Gallimard, Paris 1969, pp. 655-657).
Le sorti della Francia e dell’Europa nelle mani di Bergson (febbraio-marzo 1917)
Per Valéry sembrano imporsi all’attenzione di tutti due aspetti di Bergson. Il primo è che
l’intuizione profonda che egli aveva della novità permanente della realtà conferiva a tutte le cose una
giovinezza continuamente resuscitata e al suo pensiero il carattere di una “évolution véritablement
créatrice, toujours hardie et plus libre”; il secondo è che il suo nome, divenuto universale, era
inseparabile da “une sorte d’autorité morale dans les choses de l’esprit”. Eppure fu proprio al
pensatore che godeva di un prestigio incomparabile “dans le monde des idées”, che la Francia fece
appello in un’ora di grave pericolo, all’inizio del 1917, “dans des circostances dont je m’assure qu’il
vous souvient” dice Valéry ai colleghi dell’Académie. Nell’inverno 1916-1917 si temette fortemente
che l’esercito tedesco entrasse a Parigi come nel 1870, ma si presentò anche un’opportunità da mettere
tempestivamente a profitto: il 31 gennaio ’17 era stata inviata ai Paesi neutrali la nota tedesca
sull’intensificazione a oltranza della guerra sottomarina e il 3 febbraio gli Stati Uniti ruppero le
relazioni diplomatiche con la Germania, essendo impensabile per loro una rinuncia alla libertà dei mari.
La rottura delle relazioni diplomatiche, però, di per sé non significava affatto che gli Stati Uniti stessero
per dichiarare guerra alla Germania. La simpatia dell’opinione pubblica americana era per le nazioni
europee democratiche, per gli Alleati, e non certo per il militarismo tedesco, ma il grosso della
popolazione non voleva partecipare alla guerra e nel 1916 aveva rieletto presidente Wilson anche
perché aveva tenuto gli Stati Uniti fuori dal conflitto. Questo, del resto, era anche l’orientamento del
Congresso americano. A rafforzare gli americani nel loro isolazionismo contribuiva, infine, un’intensa
campagna di astuta disinformazione: le false notizie sull’imminente sconfitta della Germania e la
conseguente cacciata di Guglielmo II, messe in circolazione dai circoli filotedeschi, dovevano infatti far
apparire del tutto inutile un intervento degli Stati Uniti nel conflitto.
L’11 gennaio ’17, Aristide Briand, presidente del consiglio e ministro degli esteri, scongiurò
Bergson di recarsi senza indugio negli Stati Uniti per una missione segreta assai difficile, ma decisiva
per le sorti del conflitto. La prima reazione fu di rifiutare, ma quando gli fu comunicato che la
traversata dell’Atlantico lo avrebbe esposto certamente a rischi gravissimi, Bergson pensò che ne
andava del suo onore se non avesse accettato: “Ces mots suffisaint. J’étais obligé de partir. Il ne fut
plus question de mes hésitations”.
Il 1° febbraio 1917 Bergson s’imbarcò a Le Havre e, dopo aver sostato a Londra, raggiunse
Liverpool, da dove partì alla volta degli Stati Uniti. Nei giorni intercorsi fra l’11 e il 31 gennaio,
Bergson si era informato accuratamente su tutto ciò che poteva far problema tra la Francia e gli Stati
Uniti e aveva steso di suo pugno numerosi appunti. Nel viaggio egli portò con sé valigie di documenti,
già attentamente vagliati, sulle questioni più importanti di carattere politico e giuridico, ma anche
economico e finanziario. Per la stampa e il mondo accademico Bergson si recava negli Stati Uniti a
tenere un ciclo di conferenze, ma la sua missione consisteva, in ultima analisi, nel convincere il
presidente Thomas Woodrow Wilson a entrare in guerra a fianco degli Alleati prima che fosse troppo
tardi per salvare la democrazia in Europa. “Il était essentiel - scrisse poi Bergson - de faire connaître à
Wilson et à son entourage la vrai nature de la guerre que nous faisat l’Allemagne... Il était essentiel
aussi de rechercher et d’amener à la pleine lumière, pour en combattre l’effet, les deux ou trois causes
profondes de l’indécision de Wilson”.
A Washington il filosofo-diplomatico, sprovvisto di qualsiasi mandato ufficiale, il 14 febbraio fu
ricevuto da uno dei più influenti consiglieri di Wilson, il colonnello Edward Mandell House, molto
stimato da Aristide Briand. Nel suo Diary, tuttora inedito, House annota in quella data: “Dr Henri
Bergson, the great French philosopher... We had a pleasant talk of a half hour. He made a move to
leave after we had been here a few minutes because he thought my time was limited and that he might
be trespassing. I asked him to remain and assured him his visit was giving me one of the few
pleasures...”. E molto proficui furono anche gli incontri confidenziali con il ministro degli interni
Franklin Lane. Wilson, che era quotidianamente informato da House e Lane dei colloqui con Bergson,
decise allora di invitare il filosofo alla Casa Bianca lunedì 18 febbraio alle ore 15. Il colloquio durò
circa un’ora.
Come risulta dalle sue note manoscritte, Bergson - che parlava perfettamente inglese perché
quella era la lingua di sua madre - dice subito a Wilson che, grazie a lui, “on voit pour la première fois
la possibilité de faire de la philosophie l’âme ou l’esprit de la politique”. L’adesione, sincera e del
resto ben nota, del filosofo alla formula wilsoniana “pace senza vittoria” - cioè restituendo il mal tolto,
ma senza conquiste e annessioni - stabilì subito un clima di cordiale intesa tra i due, che erano stati
entrambi docenti universitari. Nella loro conversazione si parlò naturalmente della necessità di dar vita,
all’indomani del conflitto, alla Società delle Nazioni. Di fronte alle paure, alle reticenze e alle
meschinità dei governi europei, quasi sempre incapaci di andare oltre gli egoismi nazionalistici e
gl’impegni reciproci per cui erano entrati in guerra, Wilson trova finalmente nelle parole dell’illustre
filosofo il pieno riconoscimento e insieme la garanzia più alta della validità della sua visione eticopolitica. Nel loro rendez-vous Wilson e Bergson parlarono solo di ciò che nobilmente a loro stava più a
cuore - un futuro del mondo in cui il diritto potesse valere anche nell’ordine internazionale e fosse
capace di sostituirsi alla forza - e il filosofo non affrontò direttamente con il presidente il tema dei
tempi e i modi dell’intervento americano nel conflitto.
Bergson aveva su quegli argomenti una sua precisa strategia argomentativa e, nei quindici giorni
successivi al colloquio con il presidente, tra il 19 febbraio e il 5 marzo, non si stancò di illustrarla a
diversi membri del Congresso e dell’Amministrazione, dal vicepresidente Harriman, ai ministri della
guerra e delle finanze, al segretario di Stato, oltre ai primi e più fidati interlocutori House e Lane
divenuti ormai suoi amici. Bergson sapeva bene che era un arduo problema per l’America l’abbandono
della neutralità, ma era ben più difficile quello dell’effettiva determinazione del tipo di guerra in cui
Wilson avrebbe impegnato il suo Paese. Due, infatti, erano i possibili tipi d’intervento americano: l’uno
puntava sulla mobilitazione di tutto il potenziale bellico e finanziario degli Stati Uniti; l’altro si
limitava ad un appoggio finanziario e marittimo, con l’invio di un contingente simbolico di volontari,
come voleva anche l’avversario di Wilson, l’ex presidente repubblicano Theodore Roosevelt. Il
secondo tipo d’intervento, se fosse prevalso, sarebbe stato una sciagura per l’Europa, perché avrebbe
prolungato la durata della guerra rendendone più incerto l’esito finale. Bisognava, dunque, scongiurare
il pericolo che l’America scegliesse la soluzione sbagliata, anche se in quel momento era la più
condivisa dall’opinione pubblica. Il filosofo-diplomatico, del resto, ha riassunto in poche frasi quello
che era divenuto l’argomento numero uno delle sue conversazioni: solo partecipando al conflitto
direttamente, da protagonisti, gli Stati Uniti avrebbero avuto l’autorità morale ed anche “l’occasion
unique... de restaurer la paix du monde et d’ouvrir une ère nouvelle dans l’histoire de l’humanité”.
Consapevole di aver fatto tutto l’essenziale di ciò che poteva fare a Washington, Bergson si reca
allora a New York a tenere le conferenze programmate. A New York si ferma due mesi, dal 6 marzo al
6 maggio. Il 2 aprile, però, si verifica l’evento tanto atteso: Wilson invia al Congresso un messaggio
sulla necessità di scendere in guerra a fianco delle democrazie europee. Bergson in seguito annoterà
epigraficamente: “La France était sauvée” e la causa della Francia, ai suoi occhi, è quella dell’umanità.
Franklin Lane disse a chiare lettere a Bergson: “Vous avez été pour plus que vous ne pensez dans la
décision du président”. Forse mai nella storia un filosofo ha potuto influenzare il corso degli eventi
come in quella circostanza riuscì a Bergson, ed erano eventi di portata mondiale.
Vi fu una seconda missione in America per Bergson nel 1918. Questa volta gli fu affidata da
Georges Clemenceau, chiamato alla guida dell’esecutivo nell’autunno del ’17. Grande era allora la
preoccupazione sia per l’avanzata tedesca nelle Fiandre e in Piccardia, sia per la resa della Russia alla
Germania. Per impedire che le armate tedesche del fronte orientale si rovesciassero in breve tempo su
quello francese, si proponeva un’azione militare diversiva nell’Europa centro-orientale, in
collegamento con i cecoslovacchi. Il piano, però, non ebbe esecuzione perché frattanto gli Alleati,
grazie anche all’arrivo di truppe americane, vinsero la seconda battaglia della Marna. Nella fase finale
del conflitto due milioni di giovani americani furono inviati in Europa a combattere e il loro apporto
alla vittoria fu decisivo. Bergson, che si era tanto adoperato perché ciò avvenisse, lo ricorda citando con
gratitudine la frase di Wilson: “Les États-Unis ne veulent pas laisser aux autres le privilège du
sacrifice”.
Le note scritte da Bergson su questi avvenimenti diciotto anni dopo, Mes missions 1917-1918,
sono datate 24 agosto 1936. Nel testamento Bergson dichiarava di aver pubblicato tutto ciò che voleva
“livrer au pubblic” - quegli scritti che sono inclusi in Oeuvres (Édition du Centenaire, Presses
Universitaires de France, Paris 1959, 19703) - e vietava di pubblicare qualsiasi inedito (lettere, appunti,
corsi universitari), indicando tuttavia un’unica eccezione: il manoscritto Mes missions 1917-1918.
Quelle note, quindi, erano state scritte per essere pubblicate anche se postume. Esse apparvero, infatti,
per la prima volta nel luglio 1947, sulla rivista Hommes et Mondes, n.12, pp. 359-375, con una
presentazione di Floris Delattre; ora sono riportate in Mélanges, l’altra grande raccolta di testi
bergsoniani pubblicati e annotati da André Robinet (Presses Universitaires de France, Paris 1972, pp.
1554-1570). In quella memoria Bergson esclude tutto ciò che lo riguarda personalmente per soffermarsi
solo sul senso, i mezzi, le difficoltà e i risultati della sua azione. Per l’analisi di un documento così
importante e la puntigliosa ricostruzione degli avvenimenti collegati alle due missioni del filosofo in
America si vedano Bergson éducateur di Marie-Rose Mossé-Bastide, Paris 1959, pp. 90-150, e
soprattutto Bergson politique di Philippe Soulez, Paris 1989. In quest’ultimo volume a pagina 77 si può
leggere il brano del diario di Edward Mandell House da noi prima riportato e, in nota, la sua traduzione
francese. Entrambe le opere sono state pubblicate dalle Presses Universitaires de France.
Paul Valéry, morto nel luglio del 1945, non aveva ovviamente potuto leggere Mes missions 19171918, ma il riserbo di Bergson - anche negli anni successivi alla fine della guerra - non aveva impedito
che il servizio reso dal filosofo alla Francia passasse inosservato. Il filosofo ne fece, sia pure
indirettamente, una sorta di rendiconto a Parigi, all’Académie des sciences morales et politiques, poco
dopo il suo rientro dagli Stati Uniti, nella seduta del 9 giugno 1917. Sulla comunicazione di Bergson,
L’opinion publique aux États-Unis, il giorno seguente apparve su Le Figaro un articolo
dell’editorialista Gabriel Hanotaux, in cui si tracciava anche un rapido profilo dell’oratore: “Au milieu
de ses confrères, attentifs, M. Bergson, mince et droit, la figure aiguë, le verbe clair, la parole incisive,
découvrait les raisons profondes de ces grandes décisions, leur importance immédiate, leur infini
retentissement sur l’avvenir” (Mélanges, pp. 1253-1256).
La presidenza Bergson della “Commission internationale de Cooperation intellectuelle” (1922-1925)
Verso la fine della sua orazione, Valéry esprime ammirazione per Bergson uomo di pensiero che
si era posto al servizio di una grande causa - “il a travaillé de tout son âme à l’union des esprits et des
idéaux” - e, nello stesso tempo, accenna a qualche riserva che sembra limitarne il significato. Egli, ad
esempio, scrive: “Henri Bergson, grand philosophe, grand écrivain, fut aussi, et devait l’être, un grand
ami des hommes. Son erreur a peut-être été de penser que les hommes valaient que l’on fût leur ami”.
L’esperienza umana più alta a cui Bergson si rifà nelle Deux Sources, quella dell’eroismo morale e
della santità, attesta irrefutabilmente qualcosa di diverso: ogni autentico “grand ami des hommes”,
quale che sia il suo specifico campo d’azione, rende ai suoi simili il servizio che può e deve, nella
situazione storica ed esistenziale in cui si trova, e non si pone mai la domanda se forse i destinatari ne
siano o non ne siano degni. Egli lavora, piuttosto, a renderli tali.
Nel dopoguerra, tra il 1919 e il 1925, l’impegno civile e politico di Bergson si esplica più
direttamente anche mediante l’assunzione di alti incarichi istituzionali. Egli spende il suo tempo a
Parigi e a Ginevra, senza pensare ai lavori in corso, ma lo fa in obbedienza a un imperativo della sua
filosofia. Il 4 gennaio 1922 la Società delle Nazioni nomina i dodici membri della Commission
internationale de Cooperation intellectuelle (C.I.C.I.) tra personalità di fama mondiale, tra cui Einstein
per la Germania, Bergson per la Francia e Francesco Ruffini, professore di diritto canonico a Torino,
per l’Italia. Nella prima sessione della C.I.C.I., nell’agosto 1922, Bergson è eletto presidente
all’unanimità. Noi siamo convinti che trascurare questo aspetto della vita e della personalità di Bergson
- come finora di solito si è fatto - significa precludersi la via di una comprensione più profonda anche
della sua prospettiva filosofica.
Le idee a cui si ispira la presidenza Bergson sono molto chiare: collegare tra loro e potenziare gli
organismi di cooperazione intellettuale già esistenti e non crearne artificiosamente altri; preferire
sempre ciò che è effettivamente realizzabile e utile a proposte chimeriche, astratte, altisonanti; andare
oltre il carattere “consultivo” della Commission de Cooperation intellectuelle per fare subito il bene che
è possibile. Le linee operative, malgrado la povertà dei mezzi a disposizione, sono semplici: favorire in
ogni modo lo scambio di studenti e professori tra le università; inviare libri, riviste e strumenti di
laboratori scientifici nei Paesi che si trovano nelle situazioni più difficili; accantonare l’utopia
dell’esperanto e diffondere la conoscenza sistematica delle lingue viventi e delle letterature moderne
per avvicinare i popoli tra loro; avviare la revisione critica dei manuali scolastici di storia, veicolo
abituale di pregiudizi ostili e menzogne nei confronti di altre nazioni; pubblicare periodicamente un
indice bibliografico per mettere a disposizione degli studiosi di tutto il mondo le conoscenze in via di
acquisizione. La generosità straordinaria con cui il filosofo lavorò alla riconciliazione negli ambiti più
diversi della cultura fu tale che un membro del C.I.C.I., Julien Luchaire, ebbe poi a dire che al
presidente Bergson più che a qualsiasi altro doveva essere concesso il Nobel della pace. A partire
dall’inverno 1924-1925 Bergson subì i primi dolorosi attacchi di reumatismo deformante e, a causa
della malattia che presto doveva condannarlo a un’immobilità pressoché completa, fu costretto a
concludere la sua attività alla Società delle Nazioni. Si dimise il 9 settembre 1925. Aveva allora 66
anni.
La sua presenza animatrice in un organismo che anticipa l’Unesco, che l’Onu fonderà nel secondo
dopoguerra, non era affatto un fuor d’opera, ma si radicava profondamente nel suo pensiero, com’è
dimostrato dall’ultima sua grande opera, Les Deux Sources de la Morale et de la Religion, pubblicata
nel 1932. Noi abbiamo sottolineato con forza nell’introduzione e nel commento a quel capolavoro pubblicato in italiano da La Scuola Editrice di Brescia nel 1996 - che Bergson è, insieme a Kant, il
filosofo europeo che ha difeso con più vigore l’idea di un aeropago delle nazioni, di un’organizzazione
mondiale per risolvere pacificamente le controversie tra i popoli e per avviare ogni possibile forma di
conoscenza, scambio e giusta integrazione economica.
Si capisce allora perché su quel tema egli sia tornato nel 1936 nel manoscritto Mes missions
1917-1918. Una delle ragioni per le quali si era deciso a scrivere quelle pagine era, infatti, quella di
reagire all’universale ingratitudine nei confronti di Wilson e del suo Paese, recando la sua
testimonianza in difesa del presidente e degli ideali che lo avevano spinto a entrare in guerra a fianco
degli Alleati. “J’étais la, j’étais journellement en rapport avec certains hommes qui créaient les
événements. Mon devoir est de certifier que la decision de l’Amérique fut prise dans un de ces moments
l’héroisme, d’enthousiasme pour le beau et le bien comme il n’y en a peut-être que deux ou trois dans
l’histoire” (Mélanges, p. 1565). Dei progetti del presidente Wilson non si può, dunque, parlare come se
si trattasse di rêvasseries o, peggio, di pericolose chimere. “La vérité est que ces projets étaient
d’abord parfaitement réalisables, et qu’ils le restèrent, même après que Clemenceau et Lloyd George
en eurent singulièrement modifié l’esprit. La Société des Nations, véritable but de la guerre pour
Wilson, aurait bien eu tout ce qu’il fallait pour faire exécuter ses décisions, puisque les alliés devaient,
dans la pensée de Wilson, rester unis et mettre leur force au service du droit tant que ce serait encore
nécessaire. Malheureusement, tout fut compromis et peut-être perdu, par la défection des Etats-Unis
qui entraîna celle de l’Angleterre. Cette défection tint à un fait purement accidentel, la maladie de
Wilson” (Mélanges, ibid.). Il giudizio di Bergson sullo snaturamento della Società delle Nazioni è
molto netto: “Ainsi fut perdue l’occasion unique qui s’était offerte au monde, depuis la prédication de
l’Evangile, de faire passer l’esprit évangélique dans les rapports entre nations. L’humanité se serait
élevée à des hauteurs inespérées. Elle est tombée plus bas que jamais...” (Mélanges, p. 1566). Tuttavia,
all’indomani della guerra, con grande senso di responsabilità Bergson accettò immediatamente di far
parte della Commission internationale de Coopération intellectuelle istituita dalla Società delle
Nazioni, perché le sue finalità erano nobili e le possibilità di giovare a molti non dovevano andar
perdute.
In sintesi: Bergson amava il silenzio ed era intimamente estraneo ai rumori della popolarità (“elle
finit par me devenir odieuse”, confessa all’inizio di Mes missions, in Mélanges, p. 1555), ma non esitò,
quando gli fu chiesto di farlo, a mettere il suo prestigio e le sue forze a servizio della patria e
dell’umanità. Il suo ultimo intervento pubblico, Message au Congrès Descartes, del giugno 1937,
terminava con queste parole: “La devise que je proposerais au philosophe, et même au commun des
hommes, est la plus simple de toutes... Je dirais qu’il faut agir en homme de pensée et penser en homme
d’action” (Mélanges, p. 1579). Noi crediamo che quella frase finale avesse per Bergson un sapore
squisitamente autobiografico e che agli studiosi essa indichi un criterio ermeneutico da cui non si può
prescindere.
Come Valéry si rapporta a Bergson
Valéry, che era nato una dozzina d’anni dopo di Bergson, aveva lavorato a distinguersi dal
bergsonismo e gli era passato accanto, senza lasciarsene tentare, anche quando trattava temi identici o
assai simili a quelli del filosofo: tali erano le necessità del linguaggio e il pensiero, il lavoro incessante
dello spirito durante il sonno, l’analisi dell’emozione estetica, lo sforzo e il suo valore autoformativo
per chi lo pone in essere, l’io superficiale e l’io profondo. Émilie Noulet nel saggio Bergson et Valéry
(«Lettres Françaises», Buenos Aires, gennaio 1942) ha mostrato in modo perspicuo che i loro metodi
erano specificamente differenti, così come lo sono la creazione poetica e la ricerca filosofica. Valéry
non è un filosofo, ma un poeta che ha il gusto delle idee, e Bergson è un filosofo che pone le sue grandi
qualità di scrittore al servizio esclusivo del rigore scientifico e della chiarezza del ragionamento.
Valéry nelle Lettres à quelques-uns (Gallimard, Paris 1952), inserisce quella inviata il 30
gennaio 1927 al domenicano Père Gillet: essa è particolarmente interessante perché serve a chiarire il
rapporto che il poeta ha con la filosofia in generale e, per lunghi anni, con quella di Bergson. Scrive di
sé Valéry: “Je n’ai pas fait d’études philosophiques, et n’oserais vous confesser à quel point ma culture
dans cet ordre est déficiènte. Cela doit se voir, sans doute!”. La filosofia non può definirsi che
mediante “un ensemble de problèmes qui sont ‘classiques’ et admis comme existants par la plupart”;
ma per il poeta le cose non stanno affatto così. Egli lo dice in modo inequivocabile: “Je prétends en
moi-même que ces problèmes ne se posent pas en général... Je tiens ma doctrine implicite comme chose
toute personnelle, faite par moi, pour moi... Elle vaut ce que je vaux et c’est tout”. Valéry formula in
questi termini il suo punto di vista: “pour l’amateur che je suis”, non solo qualsiasi ricerca è scelta e
condotta “à ma guise”, ma l’unico criterio di giudizio è la corrispondenza o meno di ciò che si va
pensando “à mon exigence propre”. La regola è applicata anche nei confronti di Bergson: “J’ai lu il y a
2 ou 3 ans l’Évolution créatrice, et vous avoue qu’en dépit de la grande valeur de cet ouvrage, il ne
correspond pas du tout à mon exigence propre”. In modo non meno perentorio il poeta dichiara:
“L’influence de mon illustre et excellent confrère sur moi n’a jamais existé. C’est una question de
chronologie et de biographie. Mes idèes se sont faites entre 1892 et 1895. J’entends ma manière ou
méthode de juger. En ce temps-là qui connaissait Bergson?”. Si potrebbe aggiungere che i due si
conobbero di persona solo quando entrambi erano divenuti celebri e che il luogo abituale dei loro
incontri a Parigi fu la Société de Philosophie. Senza mettere in dubbio le affermazioni di Valéry, è
inevitabile però domandarsi: il poeta era rimasto estraneo al pensiero autentico di Bergson, ma fino a
che punto e in che cosa pagò anch’egli un tributo a quel clima, culturale e non solo filosofico, che
proprio Bergson aveva radicalmente cambiato?
Nel 1932, l’8 marzo, Valéry risponde con una lettera colma di “admiration affectueuse” all’invio
da parte di Bergson dell’ultima opera, Les Deux Sources de la Morale et de la Religion, e per la dedica
che l’accompagna: “Elle est ce que j’ai reçu de plus honorable dans ma carrière”. Il poeta assicura che
attende il momento in cui, tra qualche settimana, potrà prendere in mano il libro dell’illustre e caro
maestro e conoscere il suo pensiero sulla morale e sulla religione: “Il n’y a pas de sujets plus actuels et
même plus pressants”. L’accento batte, però, sul fatto che l’opera è per tutti una felice, mirabile
sorpresa: “C’est la victoire extraordinaire que l’esprit qui est en vous a obtenue sur le mal et toutes les
puissances de douleur... Vous ne craignez pas de démontrer l’esprit par la pensée, et de fonder votre
doctrine, dont l’esprit est la fin comme il en est le moyen, sur l’exemple même de l’achèvement de votre
ouvrage, en dépit des peines du corps et des sévères traitements qu’on leur applique” (Mélanges, pp.
1499-1450).
L’apertura di Valéry all’universo bergsoniano, a veder bene, è di poco successiva: nel 1934
Bergson gli invia uno dei suoi libri più intensi, La Pensée et le Mouvant e il poeta ne rimane
affascinato. Tra gli scritti antecedenti al 1914, inclusi nel volume, spicca l’Introduction à la
Métaphysique, del 1903; ma le due importanti introduzioni sul metodo filosofico, che occupano un
terzo del volume, erano inedite e la raccolta include inoltre il celebre saggio Le possible et le réel,
apparso nel 1930 su una rivista svedese. La Pensée et le Mouvant era forse tra le opere di Bergson la
più idonea a suscitare l’interesse di Valéry perché essa, raggruppando i testi relativi al lavoro stesso
della ricerca, costituisce un vero e proprio “discorso sul metodo”. Rimane il fatto che, nella lettera che
il 25 giugno 1934 Valéry indirizza a Bergson, la messa tra parentesi del pensiero bergsoniano e il
distacco da esso cedono il posto a qualcosa d’altro. Al caro e illustre “confrère” ora il poeta scrive
testualmente: “Je me permets d’attacher un prix paticulier à ces morceaux d’une étonnante limpidité,
où vos maîtresses pensées et les lignes directrices de vos réflexions sont organiquement présentes. Je
veux dire que j’y vois moins un exposé de votre philosophie que son acte même, le discours naturel de
celui qui est devenu ce qu’il a découvert. Je crois - depuis 40 ans - que ce devenir est l’idéal des
hommes de l’esprit... On est, à chaque instant, dans votre livre en présence de l’essentiel dans la
simplicité” (Mélanges, p. 1512). È fuori luogo parlare di una “conversione” di Valéry al bergsonismo,
ma ora il modo di rapportarsi del poeta al filosofo è interiormente cambiato. A questo punto, non deve
più meravigliare se pochi anni dopo, in morte di Bergson, Valéry abbia pronunciato la memorabile
allocuzione del 9 gennaio 1941.
Nel cuore del bergsonismo
In quel discorso Valéry mostra di aver colto perfettamente il ruolo di Bergson nella storia del
pensiero quando scrive:“Les problèmes très anciens, et par conséquent très difficiles, que M. Bergson a
traités, comme celui du temps, celui de la mémoire, celui sortout du développement de la vie, ont été
par lui renouvelés, et la situation philosophique, telle qu’elle se présentait en France, il y a une
cinquantaine d’années, curieusement modifiée”. Il mezzo secolo a cui Valéry si riferisce è all’incirca
l’arco di tempo che va dall’opera prima di Bergson, l’Essai sur les Données immédiates de la
coscience, che è del 1889, all’ultima sua pubblicazione, La Pensée et le Mouvant, che appare nel 1934.
Ogni grande concezione della vita e ogni autentica innovazione metodologica introducono nella storia
del pensiero un prima e un dopo: ebbene, vi è un prima e un dopo Bergson, perché il suo insegnamento
e le sue opere hanno cambiato il clima culturale e il modo stesso di filosofare. Questa riflessione è stata
ripresa da Henri Gouhier: “La philosophie - scrive Gouhier- n’aurait pas été ce qu’elle fut et ne serait
pas ce qu’elle est, s’il n’y avait pas eu Les Données immédiates de la conscience, Matière et Mémoire,
L’Évolution créatrice, Les Deux Sources de la Morale et de la Religion. Et quand nous disons
«philosophie», n’oublions pas que celle-ci s’étend bien au-delà des livres de philosophie: psichologie,
sociologie, pensée religieuse, littérature, sciences prises à un certain niveau... C’est dans tous
chapitres de l’histoire des idées que la présence de Bergson s’impose à la fin du XIXe siècle et pendant
le premier tiers du XXe, comme celle de Decartes et celle de Kant en leur temps” (Mélanges,
“Introduction”, pp. VII-VIII).
Ma in che cosa Bergson ha cambiato la prospettiva e il metodo della ricerca filosofica? La
risposta di Valéry è penetrante e decisa: “Tandis que les philosophes, depuis le XVIIIe siécle, avaient
été, pour la plupart, sous l’influence des conceptions physico-mécaniques, notre illustre confrère
s’était laissé heureusement séduire aux sciences de la vie. La biologie l’inspirait. Il considéra la vie, et
la comprit et la conçut comme porteuse de l’esprit”. Questa è in effetti una di quelle idee di fondo che
servono a illuminare, meglio di tante altre, l’essenza del bergsonismo e la novità della sua
epistemologia, che segna la fine dell’era cartesiana in virtù della nuova alleanza tra la filosofia e le
scienze della vita.
Nella seconda delle due introduzioni metodologiche a La Pensée et le Mouvant, in un testo che
risale al febbraio 1922, Bergson aveva scritto: “Toute notre activité philosophique fut une protestation”
(Oeuvres, p. 1330). Protesta, ma contro che cosa? Contro ogni visione riduttiva della realtà, contro ogni
monismo metodologico, contro le soluzioni meramente verbali, i giochi dialettici, il deduttismo
matematico trasposto sistematicamente sul terreno filosofico. Ciò che fa da premessa alla ricostruzione
filosofica intrapresa dal pensatore francese, e l’accompagna, è l’esperienza, sempre presente nella sua
coscienza e incessantemente approfondita, proprio di ciò che era negato, o semplicemente ignorato,
dalle correnti filosofiche e culturali che da molto tempo occupavano quasi per intero la scena. Fin dagli
anni della sua prima opera al filosofo era apparso evento di straordinario significato che, sul finire del
secolo XIX, la biologia, la psicologia e la sociologia si fossero costituite come vere e proprie scienze
sperimentali, che osservano diverse forme di vita e si servono della matematica, ma senza il
presupposto cartesiano secondo il quale l’intelligibilità di ogni livello del reale sia esclusivamente di
tipo matematico. Bergson comprese che sotto i suoi occhi si stava svolgendo la seconda rivoluzione
scientifica - dopo la prima di Galilei, Cartesio e Newton - e che essa apriva scenari radicalmente nuovi
ponendo l’accento sulle idee di probabilità, discontinuità, irriducibilità di ogni tipo di fenomeni vitali a
ciò che pure sembra prepararli. In realtà lo sviluppo delle scienze della vita era lì a provare che, oltre
all’evidenza di tipo matematico, esiste l’evidenza dei fatti esattamente stabiliti.
Bisogna, dunque, fare oggi - osservava Bergson - non quello che Cartesio fece nel suo tempo, ma
ciò che avrebbe fatto nel nostro dinanzi ad una scienza più flessibile, nutrita di un’esperienza più vasta
e disposta ad ammettere nei fenomeni della natura una complessità di organizzazione che non è quella
delle figure geometriche e dei numeri. Di qui l’ardita scelta di Bergson: “Travaillons donc à serrer
l’expérience d’aussi près que nous pourrons. Acceptons la science avec sa complexité actuelle... Il faut
rompre les cadres mathématiques, tenir compte des sciences biologiques, psychologiques,
sociologiques, et sur cette plus large base édifier une métaphysique capable de monter de plus en plus
haut par l’effort continu, progressif, organisé, de tous les philosophes associés dans le même respect
de l’expérience” (Le parallélisme psycho-phisique et la métaphysique positive, Comunicazione letta
alla Société Française de Philosophie il 2 maggio 1901 in Mélanges, p. 488).
La filosofia e la scienza
Nel 1915 Bergson, tracciando per l’Esposizione universale di San Francisco un panorama de La
philosophie française, alla fine si imbatte nel... bergsonismo. Il filosofo presenta il suo itinerario
speculativo e il suo metodo in questi termini: “une entreprise pour porter la métaphysique sur le
terrain de l’expérience et pour constituer, en faisant appel à la science et à la conscience, une
philosophie capable de fournir non plus seulement des théories générales, mais aussi des explications
concrètes de faits particuliers”. Di qui la conseguenza: “La philosophie, ainsi entendue, est suceptible
de la même précision que la science positive. Comme la science, elle pourra progresser sans cesse, en
ajoutant les uns aux autres des résultats une fois acquis. Mais elle visera en outre - et c’est par là
qu’elle se distingue de la science - à élargir de plus les cadres de l’entendement, dût-elle briser tel ou
tel d’entre eux, et à dilater indéfiniment la pensée humanine” (Mélanges, p. 1181). Una ricerca del
genere esige uno spirito duttile, capace di trarre alimento dal contatto permanente con la vita, con la
scienza, con il senso comune. Solo così può sorgere una filosofia che si sottragga al gioco illusorio di
“recomposer artificiellement les choses avec des abstractions” e che, sottomettendosi al controllo di
tutti, non degeneri in privilegio di casta e non si separi dall’umanità.
Non si tratta per la filosofia di rinunciare alla ricerca del significato e all’ideale regolativo
dell’unificazione del reale, ma per compiti così ardui e necessari a un tempo essa non si affida a
procedimenti che consistono nel prendere l’una o l’altra idea in cui far entrare, con le buone o con le
cattive, la totalità delle cose. Sono troppo facili, ma anche troppo fragili, le costruzioni sistematiche e i
meccanismi dialettici; mancando di senso della misura e non sottoponendosi a un processo di continua
verifica, le une e gli altri costituiscono piuttosto un pericolo che una via nella ricerca della verità.
“L’unification des choses - conclude Bergson - ne pourra s’effectuer que par une opération beaucoup
plus difficile, plus longue, plus délicate: la pensée humaine, au lieu de rétrécir la réalité à la dimension
d’une de ses idées, devra se dilater elle-même au point de coïncider avec une portion de plus en plus
vaste de la réalité. Mais il faudra, pour cela, le travail accumulé de bien des siècles. En attendant, le
rôle de chaque philosophe est de prendre, sur l’ensemble des choses, une vue qui pourra être définitive
sur certains points, mais qui sera nécessairement provisoire sur d’autres” (Mélanges, pp.1187-1188).
Questa idea di filosofia è divenuta consapevole di sé e ha trovato la sua esplicita formulazione nel
pensiero di Bergson, ma il pensatore francese vedeva in essa anche il tratto caratteristico della filosofia
moderna francese, a partire da Cartesio e Pascal, e dunque una lezione da rielaborare criticamente in
rapporto ai tempi nuovi. Bergson torna sull’argomento ancora in una conferenza - Quelques mots sur la
philosophie française - trasmessa per radio nel 1934, con cui concludeva idealmente il suo lungo
cammino speculativo. Ecco il passaggio che in quel testo ci sembra particolarmente significativo:
“Ailleurs, tel grand philosophe a pu faire une découverte mathématique, tel grand biologiste a pu
être philosophe par surcroît; mais la rencontre des deux aptitudes, ou des deux habitudes, ou des deux
attitudes, a été un fait accidentel. En France, ce fut toujours la règle. Depuis Descartes, inventeur de la
géométrie moderne en même temps que créateur de la philosophie moderne, depuis Pascal, égal aux
plus grands géomètres et qui aurait pu, s’il l’avait voulu, être le plus grand de tous, jusqu’à Claude
Bernard et Henri Poincaré, en passant par d’Alembert, Lamarck, Bonnet, Bichat, Laplace, Ampère,
Sadi-Carnot, Geoffroy Saint-Hilaire, Cuvier et tant d’autres, tous les savants français ont apporté leur
contribution à la philosophie française qu’ils ont rendue ainsi continuellement et indéfiniment
créatrice. Réciproquement, les philosophes de profession, les métaphysiciens, ceux mêmes qui ont
préconisé l’intuition pure et qui sont allés chercher au fond d’eux-même, au-delà d’eux-mêmes, le
principe de la vie et de la pensée, ceux-là encore ont voulu s’assurer des moyens de vérification et
effectuer autour du problème, avant de le traiter par la philosophie pure, tout un travail de
circonvallation scientifique” (Mélanges, pp. 1513-1514).
L’image médiatrice e lo stile bergsoniano
Bergson, grande filosofo, fu anche - è Valéry a sottolinearlo - “grand écrivain” e nel 1928 aveva
ricevuto il Nobel per la letteratura. Ebbene, per il pensatore francese lo stile non è un’aggiunta
posteriore a ciò che è stato pensato, un insieme di rifiniture e accorgimenti per comunicare agli altri una
dottrina o un sistema già prefigurati. Esso rinvia, invece, a interrogativi che sono di natura filosofica,
essendo strettamente congiunti al modo stesso di concepire la filosofia e di farla camminare tra gli
uomini che non abbiano ancora rinunciato a pensare e a pensarsi. Il primo interrogativo che sorge è il
seguente: se l’intuizione è conoscenza del “profondo”, di per sé semplice e immediata pur essendo un
punto d’arrivo, può il “profondo” trasparire, avere cioè una sua “espressione”? E l’espressione non è
forse, inevitabilmente, condannata a indebolire, ad estenuare l’intuizione? In realtà le difficoltà da
superare per esprimere il profondo provengono in primo luogo dal nostro linguaggio, quasi sempre
inficiato dall’ossessione della spazialità, e dal tipo di lavoro dell’intelligenza che si esplica con
procedimenti che per lo più sostituiscono il discontinuo al continuo, l’astratto al concreto. È pericoloso
partire dai concetti già fatti, invece che dall’esperienza del reale, e sacrificare al conoscere “utile”
dell’intelligenza quello “disinteressato” dell’intuizione. Il primo è necessario al senso comune, al
linguaggio, alla vita pratica e perfino, in una misura da determinare, alla scienza; il secondo, però, è
necessario alla verità e ha valore teoretico, vale cioè per se stesso sì che, in sua assenza, una vita per
l’uomo non è degna di essere vissuta.
La questione è discussa soprattutto in due scritti, la Introduction à la Métaphysique e L’intuition
philosophique, il celebre testo presentato al Congresso di filosofia di Bologna il 10 aprile 1911. Per
comunicare l’intuizione abbiamo bisogno di servirci dei mezzi di cui disponiamo, ma “nous n’avons
que deux moyen d’expression, le concept et l’image” (Oeuvres, p.1357). Dei concetti abbiamo
effettivamente bisogno nella vita sociale per comunicare e per qualsiasi lavoro che tenda al rigore, alla
precisione, all’indefinita estendibilità di un metodo o di un parametro a casi particolari; tuttavia essi
offrono solo un’impalcatura, una classificazione dei fenomeni che serve a orientare la nostra azione nel
mondo, ma dal punto di vista conoscitivo sono vaghi. Le immagini, in cui si è sempre visto qualcosa di
nettamente inferiore al concetto, hanno invece una sorprendente plasticità e una forza allusiva tali da
renderle idonee a suggerirci - e lo si sperimenta abitualmente nell’arte - cose che sono fuori dalla
portata del concetto. Spingendoci a cogliere i contorni di una realtà e insieme il suo senso, esse sono
mediatrici tra la semplicità dell’intuizione e la complessità delle astrazioni concettuali, a cui pure si
deve far ricorso. Le immagini hanno il compito di rendere la coscienza attenta all’intuizione,
dispongono all’intuizione e insieme ne sorreggono la presenza nella memoria. Bisogna, però, che siano
più d’una. Con chiaro riferimento alla sua esperienza di scrittore, Bergson avverte: “Beaucoup
d’images diverses, empruntées à des ordres de choses très différents, pourront, par la convergence de
leur action, diriger la conscience sur le point précis où il y a une certain intuition à saisir, En
choissant les images, aussi disparates que possible, on empêchera l’une quelconque d’entre elles
d’usurper la place de l’intuition qu’elle est chargée d’appeller, puisqu’elle serait alors chassée tout de
suite par ses rivales” (Introduction à la Métaphyque, in Oeuvres, pp.1399-1400). Colui che sia
pervenuto all’intuizione, nell’atto di comunicarla riscatta anche il linguaggio dall’uso utilitario, e più
spesso banale, che se ne fa: egli anima di una vita nuova i termini di cui si serve e, facendoli sgorgare
dal movimento stesso del suo spirito, li arricchisce di valenze e sfumature senza le quali il profondo
non potrebbe mai essere espresso.
A queste riflessioni Bergson ne accompagna altre che illuminano dal di dentro la sua attività di
scrittore e di docente. Il filosofo, a suo avviso, non deve scrivere per una cerchia ristretta di iniziati, ma
indirizzarsi all’umanità in generale e, proprio per questo, a ognuno in particolare. La semplicità della
forma è un atto di onestà per chi deve tener fede a questa intima, limpida convinzione:”Il n’y a pas
d’idée philosophique, si profonde ou si subtile soit-elle, qui ne puisse et ne doive s’exipremer dans la
langue de tout le monde” (La philosophie française, 1915, in Mélanges, p.1183). Se i filosofi hanno
bisogno di nuovi mezzi di espressione, non devono cercarli “dans la création d’un vocabulaire spécial
(opération qui aboutit souvent à enfermer, dans des termes artificiellement composés, des idées
incomplètement digérées), mais plutôt dans un assemblage ingénieux des mots usuels, qui donne à ces
mots de nouvelles nuances de sens et leur permet de traduire des idées plus subtiles ou plus profondes”
(ibid., p. 1184). È proprio quello che ha fatto Bergson, il quale ha comunicato le sue ardite esplorazioni
e i nuovi sviluppi del suo pensiero sempre con parole ed espressioni di uso comune. Tali, ad esempio,
sono: io superficiale-io profondo, istinto-intelligenza, intelligenza-intuizione, società chiusa-società
aperta, morale della pressione-morale dell’aspirazione, religione statica-religione dinamica, memoria
abitudine-memoria pura, cervello-coscienza, tempo spazializzato-tempo vissuto, e così via.
Certamente, per giungere a precisi punti di vista su determinate esperienze e a soluzioni, anche
parziali, di alcuni grandi problemi occorrono ricerche speciali e indagini preliminari per le quali si
richiede una tecnica, una terminologia scientifica e filosofica; ma per Bergson “on doit pouvoir y
renoncer de plus en plus à mesure qu’on monte plus haute, et tout se clarifie sur les sommets”
(Quelques mots sur la philosophie française, 1934, in Mélanges, p.1114). Non bisogna permettere alle
complicazioni della lettera di farci perdere di vista la semplicità dello spirito, in cui sta la vera essenza
della filosofia (Oeuvres, pp. 1345 e 1362).
Nel discorso di Valéry una delle riflessioni più intense riguarda l’analisi dello stile bergsoniano. Il
poeta non indugia in considerazioni di carattere letterario, come pure avrebbe potuto fare essendo
maestro indiscusso in quel campo, ma intuisce che vi è un nesso profondo tra il modo di procedere del
filosofo nella sua indagine e l’invenzione - sin dalla prima opera, noi aggiungiamo - di uno stile che
induca il lettore a liberarsi da stereotipi e insidiose illusioni per aprirsi finalmente alle realtà viste e
toccate dallo spirito. Scrive Valéry:
“Bergson avait rendu le service essentiel de restaurer et de réhabiliter le goût d’une méditation
plus approchée de notre essence... La vraie valeur de la philosophie n’est que de ramener la pensée à
elle-même. Cet effort exige de celui qui veut le décrire, et communiquer ce qui lui apparaî de sa vie
intérieure, une aplication particulière et même l’invention d’une manière de s’exprimer convenable à
ce dessein, car le langage expire à sa propre source. C’est ici que se manifesta toute la resource du
génie de M. Bergson. Il osa empronter à la Poésie ses armes enchantèes, dont il combina le pouvoir
avec la précision dont un esprit nourri aux sciences exactes ne peut souffrir de s’écarter. Les images,
les métaphores le plus heureuses et les plus neuves obéirent à son désir de reconstituer dans la
conscience d’autrui les découvertes qu’il faisait dans la sienne et les résultats de ses expériences
internelles. Il en naquit un style, qui pour être philosophique, négligea d’être pédantesque...”.
Con Bergson “la souplesse et la richesse gracieuse” della lingua francese resero insieme più
affascinante e più preciso il discorso filosofico. Si verificò così in campo speculativo ciò che,
pressappoco nello stesso tempo, “se produisit dans l’univers de la musique, quand se manifesta
l’oeuvre très subtile et très dégagée de Claude-Achille Debussy”. L’accostamento a Debussy non
sarebbe spiaciuto affatto a Bergson che, in un’intervista al Paris-Journal dell’11 dicembre 1910, aveva
dichiarato: “On m’a signalé combien la musique de M. Debussy et de son école est une musique de la
«durée», par l’emploi de la mélodie continue qui accompagne et exprime le courant unique et
ininterrompu de l’émotion dramatique. J’ai d’ailleurs une prédilection instinctive pour l’oeuvre de M.
Debussy” (Mélanges, p. 844).
Nel 1972, a più di trent’anni dall’allocuzione di Valéry, nell’introdurre i testi del pensatore
francese raccolti nel volume Mélanges, Henri Gouhier osserva che la metafisica bergsoniana - positiva
perché fondata su delle esperienze - riuscì a farsi comunicazione di esperienze grazie alla “médiation
poétique d’un style qui tourne l’esprit du lecteur vers le réalités vues ou touchées par l’esprit de
l’auteur” (ibid., p. XVIII). Lo stile ha, dunque, una forte rilevanza ed esercita un’insostituibile funzione
maieutica nel pensiero di Bergson; le esperienze esplorate in profondità dal filosofo possono, però,
diventare esperienze di tutti solo nella misura in cui ognuno divenga significativo per se stesso e si
associ, con tutta l’anima, allo sforzo di coloro da cui ci è venuta l’una o l’altra illuminazione,
conferendo così ad esse un’esistenza rinnovata. Una ricerca autenticamente filosofica è sempre
un’ardua conquista, un cammino di liberazione che esige da chi voglia percorrerlo una vera e propria
metànoia, un radicale cambiamento di mentalità: “Il faut pour cela qu’il se violente, qu’il renverse le
sens de l’opération par laquelle il pense habituellement, qu’il retourne ou plutôt refonde sans cesse ses
catégories... Philosopher consiste à invertir la direction habituelle du travail de la pensée”
(Introduction à la Métaphysique, in Oeuvres, 19703, pp. 1421-1422).
Bergson era convinto che se la coscienza di questo compito - che è proprio della conoscenza
disinteressata, cioè metafisica - e il suo fedele adempimento fossero sufficientemente diffusi, non
sarebbe solo la speculazione a trarne profitto: la vita di tutti i giorni potrebbe esserne riscaldata e
illuminata. Ricercando, invece, esclusivamente o in primo luogo l’utile, il benessere, il piacere anche
noi siamo “artificiellement façonnés à l’image d’un univers non moins artificiel, froid comme la mort”
(L’intuition philosophique, in Oeuvres, p. 1365). L’uomo, però, ha in sé di che superarsi, anche grazie
alla filosofia.
Considerazioni finali
Il discorso su Bergson è uno dei testi più alti di Valéry. In esso il poeta dà prova di un’eccezionale
capacità di penetrazione nel delineare la personalità del filosofo, il significato storico della sua
speculazione, “les maîtresses pensées et les lignes directrices” della sua riflessione, il metodo, lo stile.
Valéry accenna anche alla generosità con cui Bergson servì la Francia amatissima e la grande causa de
“l’union des esprits et des idéaux”; su questo punto, però, gli occorreva un supplemento di conoscenze
di cui, all’inizio di quel tragico 1941, non poteva disporre. Anche per questa ragione abbiamo cercato di
far luce sul Bergson patriota e cittadino del mondo; è un capitolo importante - ancora oggi, purtroppo,
abitualmente ignorato da quasi tutti - della biografia morale, politica ed anche intellettuale del Nostro.
Uno dei meriti di Valéry è che, a differenza di tanti altri, capì perfettamente che non avevano
fondamento alcuno i tentativi - sempre rinnovati, ma anche sempre devianti - di contrarre il pensiero di
Bergson nella categoria dell’estetico o, peggio, nella poetica dell’uno o dell’altro movimento letterario
e artistico. Il filosofo francese amava la “précision” e il suo era “un esprit nourri aux sciences
exactes”, scrive con ragione Valéry. La forza speculativa di Bergson sta proprio nell’aver portato la
precisione nel campo dello spirito: ne è nata una metafisica che, saldamente ancorata sul terreno
dell’esperienza, “en faisant appel à la science et à la conscience, est susceptible de la même précision
que la science positive” (Mélanges, p.1182). Noi abbiamo documentato questo carattere costitutivo
della nuova filosofia soprattutto con i testi inclusi nel secondo grande libro di scritti bergsoniani,
Mélanges, ancora tutti da scoprire.
I giudizi espressi da Valéry con scultorea brevità sorprendono per la loro chiarezza e
determinazione. Tra essi alcuni in particolare ci tornano in mente con insistenza perché, a nostro parere,
vanno al cuore stesso del bergsonismo: “Bergson entreprit de relever la métaphisyque de l’espece de
discrédit et d’abandon où il l’avait trouvée réduite”; “la biologie l’inspirait”; “il s’était laissé
heureusement séduire aux sciences de la vie”.
Noi crediamo di aver individuato verso la metà degli Anni Trenta le tracce dell’apertura - tardiva,
ma reale - del poeta verso il filosofo. Il discorso del 9 gennaio 1941 appare, dunque, come il punto
d’arrivo di una revisione portata avanti da Valéry nel proprio intimo, senza coup de théâtre, come a lui
si addiceva. Quando giunse al poeta la notizia della morte di Bergson, egli ne fu profondamente colpito.
In quei giorni di angosciosa tristezza, tra il 4 e il 9 gennaio, Valéry volle dar voce subito alla sua
commozione, rendendo onore al genio e alla grandezza d’animo dell’illustre scomparso.
Chi era, dunque, veramente Bergson per Valéry? La risposta ci viene proprio da ciò che egli dice
di lui nell’allocuzione pronunciata all’Académie: “Il était l’orgeuil de notre Compagnie, le plus grand
philosophe de notre temps... Nous avions en lui l’exemplaire le plus authentique des virtus
intellectuelles les plus elevées...Très haute, très pure, très supérieure figure de l’homme pensant, et
peut-être l’un des derniers hommes qui auront exclusivement, profondément, et supérieurement pensé,
dans une époque du monde où le monde va pensant et méditant de moins en moins... Son nom est le
dernier grand nom de l’histoire de l’intelligence européenne...”. Con queste parole il poeta ci ha
lasciato l’epitaffio di Bergson, certamente uno dei più nobilmente veraci che siano stati scritti.
Meditando oggi, a distanza di alcuni decenni, il discorso di Valéry - in un mondo in cui tutto, o quasi,
sembra scoraggiare o deprimere le imprese dello spirito - la figura e il messaggio di Bergson assumono,
per contrasto, un rilievo e un’attualità impressionanti. Quell’elogio pensoso e vibrante ci tocca ancora
nell’intimo, anche perché si colora di sincero rimpianto e di ansia per la sorte dell’umanità.