MATCH POINT2005
Transcript
MATCH POINT2005
Locke (2013) Un film di Steven Knight Genere: Thriller; Durata: 85'; Interpreti: Tom Hardy (Ivan Locke); Ruth Wilson (Katrina| voce); Olivia Colman (Bethan| voce); Andrew Scott (Donal| voce); Ben Daniels (Gareth| voce); Soggetto: Steven Knight; Sceneggiatura: Steven Knight; Fotografia: Haris Zambarloukos; Montaggio: Justine Wright; Musica: Dickon Hinchliffe; Nazione: Stati Uniti d’America, Regno Unito; Produzione: IM Global, Shoebox Films; Distribuzione: Good Films; Ivan Locke guida nella notte verso Londra. È un costruttore di edifici, ma questa notte si consuma la demolizione della sua vita. All'alba avrebbe dovuto presiedere alla più ingente colata di cemento di cui si sia mai dovuto occupare. Gli americani e i suoi capi hanno incaricato lui, perché per nove anni è stato un lavoratore impeccabile, il migliore: solido come il cemento, appunto. Ma la telefonata di una donna di nome Bethan riscrive l'esistenza di Locke. Prima di quella telefonata, e del viaggio che ha deciso di intraprendere di conseguenza, aveva un lavoro, una moglie, una casa. Ora, nulla sarà più come prima. L'attesa opera seconda di Steven Knight non solo soddisfa ma supera piacevolmente le aspettative. Sceneggiatore talentuoso, per Frears e Cronenberg, con Locke eccelle nell'esercizio di scrittura, ideando un percorso di quasi novanta minuti nel quale il tempo della storia e il tempo del racconto coincidono e non c'è altro luogo al di fuori dell'abitacolo della Bmw in movimento e nessun altro personaggio oltre a quello del titolo, impegnato in un dialogo telefonico pressoché ininterrotto con gli altri nomi del copione: Bethan, dall'ospedale di Londra, la moglie Katrina e i due figli da casa, Garreth, il capo furioso, e Donal, l'operaio polacco al quale Ivan Locke ha affidato la delicata gestione di ogni preparativo in sua assenza. A riscattare, però, Locke da una natura puramente letteraria (viene alla mente un altro portentoso viaggio in macchina su carta, "Wyoming", firmato da Barry Gifford) è la performance di Tom Hardy, per la prima volta spogliato delle maschere che l'hanno imposto all'attenzione internazionale e messo alla prova nei panni di un uomo medio, dall'aspetto medio, nell'attimo della sua esistenza che fa la differenza. Nel modo in cui Hardy increspa le onde del testo, suscitando tanto l'ironica commedia quanto l'umana tragedia, con poche battute e il proprio volto come unici strumenti, si conferma il bravo attore, ma nella scelta di adottare esclusivamente i toni bassi, impedendosi l'appiglio anche solo una volta alla scena urlata o al sussurro autocommiseratorio, sta il contributo d'eccezione. Il resto è il documento di un circolo creativo e produttivo virtuoso, che conta una manciata di settimane di distanza tra la consegna della sceneggiatura e l'inizio della preparazione, e un tournage di sole otto notti, per un film che non porta con sé alcuna traccia di rinuncia o compromesso e parla nel momento giusto del tema del giusto, dell'assunzione di responsabilità, per scomoda e punitiva che sia, e dell'estrema fragilità degli edifici morali sui quali costruiamo le nostre famiglie e le nostre sicurezze.. Marianna Cappi, mymovies.it Era chissà perché fuori concorso ma “Locke”, il titolo migliore dell’ultima Mostra di Venezia, meritava molto di più di qualche benevolo report seguito dall’incertezza sulle prospettive di programmazione italiana. Meno male che il problema adesso sia risolto e il pubblico possa accedere a un film indipendente e a micro-budget, sommesso e teso, ironico e disperato, un thriller morale che sembra studiato (e lo è), virtuosistico (e lo è), claustrofobico (e lo è) eppure riesce a evidenziare i rischi dell’assunzione di responsabilità davanti a quegli eventi che come un vento di tempesta possono squassare all’improvviso le nostre fragili esistenze. E’ lo stesso meccanismo, fatte le debite differenze, usato da Shakespeare fino a Thomas Hardy, quello che il regista britannico Steven Knight, già sceneggiatore nominato agli Oscar per “Piccoli affari sporchi” e “La promessa dell’assassino”, applica concentrandosi su un personaggio bloccato fisicamente e mentalmente e congegnando una scommessa sulle potenzialità del primo piano o close-up, storica e cruciale prerogativa del cinema. Eccellente, in questo senso, è la prestazione di Tom Hardy (uno dei duri più camaleontici dello schermo) che nel corso di 85 serratissimi minuti di one-man-show deve usare la propria faccia e la propria voce (doppiata credibilmente da Fabrizio Pucci) come catalizzatrici di una scarica micidiale di emozioni e decisioni affine a quella prodotta da film di genere come “In linea con l’assassino”, “Buried – Sepolto” o anche “Gravity”, ma servita da contrappunti umanistici ben più densi e lancinanti. Preferiamo, di conseguenza, rivelare il minimo di un intreccio che potrebbe definirsi un processo di rinascita in cui gli spasimi, gli sguardi, i toni prendono il posto delle affettazioni drammaturgiche, le scene madri e le spiegazioni di routine. Il capomastro Ivan Locke lascia il cantiere in piena notte e si mette alla guida di una Bmw: è diretto a Londra perché la telefonata di una donna l’ha distolto dall’onerosa mansione che l’attende il giorno dopo. Nell’unità di tempo e luogo richiesta dal contesto –il morbido scivolamento dell’auto sul nastro autostradale, le ipnotiche e intermittenti luci esterne (fotografate con tre macchine digitali dal superbo operatore Zambarloukos) e le svarianti angolazioni di ripresa all’interno dell’abitacolo- una serie di squilli ininterrotti via Bluetooth sul display digitale di feroci rimostranze o amare incomprensioni da parte d’interlocutori speciali o occasionali, ci faranno capire cosa è successo, cosa succede e cosa potrà succedere prima che sorga l’alba. Le fondamenta di cemento armato delle cui pose è superspecialista in edilizia, sembrano, così, metaforicamente sgretolarsi nel vissuto di Ivan, nonostante il suo sangue freddo, al diapason delle voci lontane che ora stupefatte, ora infuriate, ora imploranti, ora straziate l’assediano man mano che le ore e i chilometri passano. Valerio Caprara, Il Mattino, 1 Maggio 2014