ED elettrica-1 - Testo e Senso

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ED elettrica-1 - Testo e Senso
Paola Castellucci
Dalla gabbia tipografica allo spazio dello
scrivere. Il “corpus elettrico” di Emily
Dickinson
Testo & Senso
n. 12, 2011
www.testoesenso.it
Il testo a stampa
613
They shut me up in Prose —
As when a little Girl
They put me in the Closet —
Because they liked me "still" —
Still! Could themself have peeped —
And seen my Brain — go round —
They might as wise have lodged a Bird
For Treason — in the Pound —
Himself has but to will
And easy as a Star
Look down upon Captivity —
And laugh — No more have I —
Se questa poesia ci raggiungesse, come un messaggio nella bottiglia, su un foglio strappato,
senza alcun indizio per risalire al contesto, non avremmo comunque difficoltà a riconoscere la voce
di Emily Dickinson. Lo capiremmo sulla base di aspetti materiali che fanno delle poesie di Dickinson
un oggetto grafico immediatamente riconoscibile: è infatti dal 1955, data della prima edizione critica
a cura di Thomas H. Johnson, che le poesie di Dickinson appaiono senza titolo ma numerate; con
alcune parole maiuscole oltre a quelle di inizio verso; spesso, come in questo caso, senza il punto
finale e con abbondante uso di un segno di interpunzione generalmente poco frequentato, il
trattino.
Un numero al posto del titolo, la presenza del trattino, un abbondante uso delle maiuscole.
Ancor prima di leggere la poesia, al solo vederla, sappiamo che è di Dickinson. Alcune di queste
caratteristiche erano già del manoscritto e il lavoro di Johnson è stato quello di reintegrarle
nell'edizione critica dopo che per 60 anni — dal 1890, data della prima pubblicazione, postuma —
le poesie di Dickinson apparivano con un titolo tematico aggiunto dal curatore e con pesanti
rimaneggiamenti operati per conformare la potente voce autoriale a quello che si riteneva essere il
delicato orecchio del lettore. Altri elementi che caratterizzano adesso il testo a stampa non
appartenevano invece al manoscritto e sono stati introdotti da Johnson e poi accettati come standard
per le successive edizioni, anche in traduzione. Era nel manoscritto, e quindi nell’intentio auctoris, l’uso
delle maiuscole, pratica specificatamente dickinsoniana che per numero e intensità eccede anche il
modello elisabettiano. Era nel manoscritto l'ormai celebre segno del trattino che potrebbe essere
preso di per sé come firma di Dickinson. Il trattino indica atti linguistici della più varia natura: una
pausa, un cambiamento del ritmo; in altri casi indica la fine e in altri, viceversa, rappresenta
l'impossibilità di porre un punto finale; talvolta è tratto di unione, fra parole, fra concetti, fra strofe e
altre segna invece lo stacco.
Se riconosciamo quindi a prima vista la poesia è perché ormai la versione a stampa viene
percepita come la versione autentica. La titolazione delle poesie tramite un numero progressivo
corrisponde inoltre all'ipotesi di datazione formulata dallo stesso Johnson secondo criteri grafologici
e riferimenti interni. Nell’edizione del 1955 il corpus dickinsoniano risulta composto da 1775 poesie,
datate in modo approssimativo dalla numero 1, ritenuta del 1850, fino alle ultime del 1886, data di
morte. Ma la maggior parte si collocano in un arco temporale ristretto: dalla 153 alla 1066
trascorrono infatti solo 5 anni (dal 1860 al 1865 il momento della cosiddetta piena coincidente
peraltro con la Guerra civile, di cui reca segrete tracce1). In particolare per la poesia appena citata,
la datazione ipotizzata è il 1862, momento centrale della grande fase creativa.
Nel foglio stampato troviamo anche un’altra caratteristica che era già del manoscritto: la
mancanza di titoli. Le poesie di Dickinson sono uno scontro frontale. Non annunciano, non
spiegano, non vanno a rubricare con un'intestazione un contenuto informativo: fanno tuffare il
lettore direttamente nella cosa in sé, direttamente nell'eloquio poetico. E Dickinson ha fiducia nella
sua capacità di empatia e di riemersione dall'incontro con la poesia.
La mancanza di titoli è un segnale che caratterizza fortemente Dickinson. Pensiamo al
contemporaneo Walt Whitman e ai suoi splendidi e lunghissimi titoli. O a Elizabeth e Robert
Browning, costante riferimento. Ma Dickinson non resta schiacciata né dal clima poetico del
momento né dall’autorevolezza del modello e crea invece qualcosa di assolutamente originale: la sua
qualità principale secondo Harold Bloom2. In un confronto a sua volta segnato dall'originalità e
dalla spregiudicatezza nell'abbattere confini emotivi e culturali, Bloom considera infatti Dickinson
pari per valore ai Salmi, a Platone, Shakespeare e Freud. Tutti iniziatori di una nuova era,
nonostante il riferimento a fonti autorevoli:
Dickinson's strangeness, partly masked, still causes us to wonder at her, as we ought to wonder at Shakespeare or
Freud. Like them, she has no single, overwhelming precursor whose existence can lessen her wildness for us. Her agon
was waged with the whole tradition, but particularly with the Bible and with romanticism.
Bloom indica tra le fonti la Bibbia, Shakespeare, i Romantici, la grande tradizione cui
Dickinson si richiama e rispetto alla quale si differenzia. Per questo si riferisce a Dickinson
utilizzando termini spaziali di conquista e scoperta: Dickinson «usurps immense spaces», suscitando
in noi lettori il senso di immensità inesplorate; di fronte alla sua poesia respiriamo «the wild» («her
wildness for us») e rimaniamo stupiti «still causes us to wonder at her».
Sempre considerando la poesia 613 – un identikit poetico di Dickinson – possiamo notare che
proprio gli aspetti materiali del testo riportano al confronto proposto da Bloom: l’assenza di titoli
richiama e contrasta il clima poetico contemporaneo; l'uso delle maiuscole amplifica fino a
stravolgere il modello shakespeariano; infine la forma metrica cita ma problematizza il contesto
religioso. Se infatti l'amato Shakespeare prediligeva il sonetto e Keats l'ode, Dickinson sceglie invece
il ritmo che caratterizzava non già le letture ma l’esperienza di vita: l'inno, intonato nelle chiese, lo
Short Meter (quartine di tripodie giambiche) dalla sonorità concisa e martellante, facilmente
memorizzabile, come era necessario per coinvolgere tutti nel canto.
Una poesia, dunque, che “esce dalla gabbia” della testualità per condurre oltre la pagina,
verso una dimensione sonora. Da qui un ulteriore motivo di intraducibilità, problema sempre vivo per
ogni poesia, ma in questo caso ulteriormente accentuato dalla difficoltà di rendere il ritmo:
613
Nella prosa mi chiudono
come quando, bambina,
1
Ad esempio, proprio la poesia 613 presenta una esplicita variante al penultimo verso, seguita da Johnson ma non
dall’edizione italiana: «Abolish his Captivity».
2
HAROLD BLOOM, Introduzione a Emily Dickinson, New York, Chelsea House Publishers, 1985, p. 1.
mi chiudevano dentro lo stanzino,
perché volevano stessi "tranquilla".
Tranquilla! Avessero potuto sbirciare,
vedere la mia mente che frullava,
tanto sarebbe valso chiudere un uccello
per tradimento, dietro uno steccato.
Basta che quello voglia,
e pronto come stella
guarda dall'alto la sua prigionia
e ne ride. Lo stesso accade a me!
Nella traduzione di Margherita Guidacci – del 1961, inserita nella raccolta
completa delle poesie di Dickinson in italiano a cura di Marisa Bulgheroni pubblicata solo nel
1997, ossia a 111 anni dalla morte di Dickinson e a ben 135 dalla presunta data di
composizione
–
i
verbi
irregolari
«put»
e
«shut»
vengono
resi
uno con il presente e l'altro con l’imperfetto; viene ripetuto lo stesso verbo «chiudere», per
giunta molto più lungo dell’originale. Viene modificata la punteggiatura ed eliminato l'uso delle
maiuscole.
Non
compaiono
trattini.
Il comando urlato da They viene reso con «tranquilla» spegnendo l’effetto di un ordine
perentorio. Il ritmo risulta pertanto rallentato e indebolito.
Le prove dell’autenticità della poesia sono tutte perse in traduzione. Si ripercorrono così quelle
azioni di violenza e contenimento nella “gabbia della prosa” che avevano caratterizzato le prime
versioni a stampa. Come è noto, Dickinson è un poeta postumo, avendo pubblicato in vita (e
comunque anonime e ampiamente normalizzate) solo 7 poesie. Dickinson si era rivolta – e solo negli
anni giovanili – a due lettori autorevoli, ben inseriti nel mondo dell’editoria: Samuel Bowles,
affascinante amico, direttore del giornale progressista «Springfield Republican»; e Thomas
Higginson, scrittore, giornalista di «Atlantic Monthly». Dalle pagine di questa prestigiosa rivista
Higginson lancia un appello a un possibile giovane collaboratore, proponendo in definitiva un
ritratto ideale del poeta americano moderno. Dickinson risponde e invia alcune poesie per avere
un parere. Higginson resta incuriosito e inizia una corrispondenza mai interrotta. Va anche a far
visita a Dickinson due volte, invitandola però a essere meno «frenetica e spasmodica» e ad
aspettare per pubblicare. Propone semmai tagli e cambiamenti. Dickinson non accetta. Sarà solo
dopo la morte che Higginson pubblicherà, a suo modo, la poesia di quella donna misteriosa,
sempre vestita di bianco, sola, che non esce mai di casa. Quella donna che – come Higginson
rivela in una lettera alla moglie dopo la sua prima visita – gli «prosciuga le energie vitali».
Eliminato il corpo della poetessa, resta però il corpus poetico. E anche questo inquieta. Viene
pertanto debitamente ingabbiato: postumo, in edizione non integrale, con pesanti manipolazioni,
e con l’aggiunta di titoli. Addomesticata nella forma antologica, abbellita da copertine con
immagini rassicuranti di fiori, Dickinson fa il suo primo ingresso “in società”. L’amante del
fratello, Mabel Loomis Todd, ricopia a macchina per 3 anni le poesie che più gradisce. Se ha
incertezze circa la calligrafia, interpreta con fin troppa libertà. Chiede aiuto proprio a Higginson
e trovano un editore disposto a pubblicare. In pochi anni sarà un successo. Un successo anche di
vendite che inasprirà i contrasti familiari e le brame di possesso. Un’altra edizione di Dickinson
verrà infatti curata per iniziativa della moglie del fratello, Susan, e di sua figlia, Martha
Dickinson Bianchi.
Le poesie ritrovate nella stanza di Emily, o affidate alla governante e conservate in una cassa, o
ancora, inviate per posta ad amici, tornano perigliosamente insieme. Ma il processo di
ricomposizione del corpus è in effetti ancora da compiersi e sarà solo l’edizione critica elettronica
che potrà adeguatamente contenere – ma non ingabbiare – la poesia di Dickinson3.
Our electronic Dickinson
Fra le molte letture che hanno cercato di penetrare nella stanza chiusa di Dickinson e di
interpretare i misteri della sua vicenda umana e artistica, certo è stato fondamentale il
contributo della critica femminista che, in definitiva, ha proposto un’immagine che ha finito
per essere quella ufficiale: My Emily Dickinson, titola Susan Howe nel 1985, esplicitando la
tendenza all’empatia espresso dalle studiose, molte delle quali loro stesse scrittrici o poetesse.
Grazie alla critica femminista Dickinson è entrata nelle storie letterarie con la dignità dei
classici. Consideriamo ad esempio due fra le più autorevoli storie letterarie statunitensi: The
Columbia Literary History of the United States (Wendy Martin, 1988) e The Columbia History of
American Poetry (Cynthia Griffin Wolff, 1993). Nel piano generale dell'opera, il capitolo di Wendy
Martin è inserito all'interno della sezione Major Voices. Rispetto al canone, però, Dickinson viene
presentata come «radical dissent». Secondo la tesi di Wendy Martin la posizione estetica è anche
una posizione politica:
Dickinson developed an aesthetic that was, in part, to demolish patriarchal poetic
conventions. […] Dickinson's counter-poetic is characterized by lexical surprises,
frequent use of oxymoron and synaesthesia, which create a world of resonant possibilities
that she associated with traditional masculinity. (p. 619)
Anche Cynthia Griffin Wolff imposta la sua interpretazione sulla omologia fra modo poetico
e identità politica. Ogni aspetto è pertanto condizionato dal gender: dalla scelta dei temi al modo di
trattarli, alla peculiarità ortografica e metrica. Anche la scelta di non pubblicare (che tale si tratta per
Wolff) è una risposta femminile, un atto di ribellione rispetto al concetto stesso di letteratura e ai suoi
modi di comunicazione, entrambi «male-authored, male-focused» (p. 132). Come concordano
anche le biografe italiane Barbara Lanati e Marisa Bulgheroni, Dickinson avrebbe quindi deciso di
non pubblicare in opposizione al «professional role of author» e al sistema di produzione culturale
maschile (e infatti, aggiunge Wolff, sono sempre stati i critici maschi a considerare la sua scelta di
non pubblicare come un segno di eccentricità se non addirittura di malattia mentale).
Una lettura meno essenzialista proviene da Sandra M. Gilbert, già autrice a fine anni Settanta,
insieme a Susan Gubar, del best seller The Madwomen in the Attic dedicato ad alcuni personaggi letterari
femminili caratterizzati da una vita di isolamento o di reclusione. A molti anni di distanza Gilbert
riprende questo concetto e lo riferisce a Dickinson ma considera con maggior grado di complessità il
3
E ogni edizione elettronica è sempre un’edizione critica. Consideriamo in particolare su questo aspetto i lavori di Tito
Orlandi, Giuseppe Gigliozzi, e di Fabio Ciotti, Lorenzo Perilli, Francesca Tomasi.
ruolo dei “carcerieri” che restano impauriti di fronte a tanta originalità4. Nell'analisi di Gilbert è
apprezzabile lo sforzo di mettere in scena un dialogo non caricaturale fra Emily e gli inadeguati
lettori, primo fra tutti Higginson su cui si esercita di solito la facile ironia di chi lo accusa di aver
incontrato il grande genio letterario, di aver avuto la possibilità di diventarne l’editor, ma di aver poi
miseramente fallito. Per Gilbert, invece, è comprensibile l'inquietudine che Dickinson poteva
suscitare, non solo per la genialità, ma anche per la provocatrice costruzione dell'immagine di sé.
Non emerge pertanto un ritratto di esile fanciulla del New England rinchiusa nella dimensione del
domestico da famiglia e convenzioni e obbligata all’anonimato o allo pseudonimo, alla dimensione
manoscritta e postuma, a causa di inetti lettori. Semmai, secondo Gilbert, Dickinson sceglie con piena
consapevolezza la domesticità e la trasforma in dimensione esistenziale di reclusione.
La necessità di una lettura militante di Dickinson è meno sentita adesso. Non è più necessario
lottare per sostenere il valore della sua poesia visto che compare in ogni storia letteraria fra i classici.
Semmai la questione può essere colta da un altro punto di vista: definire i termini della “reclusione
nella gabbia” non tanto rispetto all’identità femminile e femminista, quanto rispetto al
riconoscimento del ruolo autoriale. Le nuove tecnologie offrono infatti uno spazio dello scrivere –
riprendendo David Jay Bolter – che spinge a un totale ripensamento della stessa scrittura nonché dei
suoi modi di comunicazione. Con la rete si può benissimo seguire il modello di Dickinson e, ad
esempio, bypassare editori e curatori per cercare semmai un faccia a faccia con il lettore, magari
restando chiusi in casa, o non avendo mezzi economici, o perfino mantenendo l’anonimato.
Dickinson è così diventata un modello della nuova narrativa in rete5. Riprendendo proprio il
saggio di Howe già citato, Lori Emerson titola infatti My Digital Dickinson, riconoscendo nella scrittura
dickinsoniana un modello sia per la poesia che per la nuova narrativa digitale 6. Pertanto, il processo
di identificazione si gioca adesso non tanto rispetto al gender ma rispetto all’identità artistica e alle
scelte di comunicazione. In un’epoca come la nostra in cui si accentua il ruolo del self (selfarchiving,
selfpublishing, blog, social network) come punto di propulsione di una radiant textuality7, la vicenda di
Dickinson appare non tanto di reclusione ma di liberazione dalla gabbia tipografica e di esplorazione
di uno sconfinato spazio dello scrivere. Una visione questa che giustamente è stata colta come
anticipatrice. La vicenda non-editoriale Dickinson, nella critica del nuovo millennio, risulta pertanto
non tanto quella della donna ingabbiata ma dell’autore nello spazio della scrittura elettronica che
esplora un modo alternativo alla stampa per la diffusione dei suoi prodotti artistici, testuali e non. La
scrittura inizia infatti a essere intesa – come giustamente propone Kathryne Hayles– come oggetto
ibrido alla ricerca di una nuova identità tra testualità, altre arti, multimedialità, performance8. Una
scrittura che si pone cioè oltre i termini testuali per esplorare dimensioni multimediali e, perfino,
plurisensoriali, esperienziali. Se la lettura modernista – ad esempio quella della poetessa Amy
Lowell– vedeva in Dickinson una poetessa del Novecento, fatta propria, compresa, non dal suo
4
SARA M. GILBERT, The Wayward Nun beneath the Hill. Emily Dickinson and the Mysteries of Woomanhood, in
Emily Dickinson: A Collection of Critical Essays, (ed. Judith Farr), Upper Saddle River, Prentice Hall, 1996, pp. 2039. 5
Si sottolinea in particolare il collegamento di www.emilydickinson.it con www.ilmiolibro.it e dunque con la pratica
del selfpublishing.
6
LORI EMERSON, My Digital Dickinson, «The Emily Dickinson Journal», 17 (2), 2008, pp. 55-76.
7
JEROME MCGANN, La letteratura dopo il World Wide Web. Il testo letterario nell’era digitale, Bologna, Bononia
University Press, 2002. 8
N. KATHERINE HAYLES, Writing Machines, Cambridge Mass., The MIT Press, 2002, dove le nuove narrazioni
vengono definite humument, technotext.
secolo, ma da quello successivo, parimenti adesso la possiamo considerare, postmodernamente,
poeta del XXI secolo e della modalità elettronica e in rete.
Sul finire del millennio Italo Calvino si chiedeva nelle Lezioni americane quale tipo di scrittura e
quali classici si sarebbero salvati. Calvino salvava proprio la leggerezza del software e alcuni autori, tra
cui Dickinson. A partire da una prospettiva meno millenaristica, Judith Farr, nell'introduzione alla
già citata raccolta di saggi, cerca di fare il punto sulla fortuna critica di Dickinson sul finire del
Novecento. Si pone in particolare una domanda: di cosa si occuperanno gli studiosi dickinsoniani
nel prossimo secolo? (pp. 15-16). Due sono le ipotesi formulate: le ricerche si concentreranno sulle
peculiarità del manoscritto e sulla modalità di comunicazione e diffusione.
Se Calvino ritiene che i classici sono i libri da salvare, nel caso di Dickinson è infatti ancora tutto
da definire quale sia il libro in questione, quale sia il testo autentico. La prospettiva è pertanto duplice:
Dickinson è ormai assunta a modello della nuova scrittura “elettrica”; ma, limitatamente al corpus
poetico dickinsoniano, occorre ancora stabilire il testo filologicamente corretto, emendato da
interpolazioni, cancellazioni, omissioni, operate da curatori, editori, critici.
L'interrogativo si dirama in varie direzioni e richiede pertanto diversi approcci di analisi. Da
una parte si volge al passato e va ad indagare i motivi di uno dei principali misteri intorno a cui si è
costruito il mito dickinsoniano: la non pubblicazione in vita. Dall'altra, la questione si rivolge al
futuro e a i modi in cui il testo dickinsoniano si presenterà ai suoi lettori nel tempo. In questo
secondo caso viene pertanto affrontato — a partire dal caso davvero peculiare rappresentato da
Dickinson — uno dei problemi centrali della critica contemporanea: la trasformazione del concetto
stesso di testualità, non solo dal punto di vista del mutare del dibattito critico, ma anche rispetto
all'evoluzione della condizione materiale dell'oggetto libro9. Non dobbiamo quindi chiederci solo se la
poesia di Dickinson avrà una tenuta nel tempo (se continuerà ad essere un classico); dobbiamo anche
interrogarci su quale potrà essere il libro delle poesie di Dickinson, e come lo si potrà salvare –
riconoscendo ovviamente anche l'allusione alla nuova accezione che il termine salvare ha assunto
all'interno delle nuove tecnologie informatiche.
Il primo interrogativo posto da Farr — perché Dickinson non ha pubblicato in vita — non solo
ha dato luogo a un ventaglio di possibilità interpretative molto ampio, ma è
stato anche affrontato a partire da angoli prospettici differenti, dal momento che la
questione della non pubblicazione è stata messa in relazione a una condizione
generale che accomuna tutta la letteratura postuma. Per altri la questione deve invece porre in evidenza
l'assoluta specificità dickinsoniana. Infine, possiamo adesso aggiungere, proprio la peculiarità del
corpus poetico non edito e concepito come misto dal punto di vista dei generi, può rappresentare un
modello per le nuove narrazioni.
Il corpus poetico di Dickinson è infatti di per sé un organismo misterioso e ancora da esplorare.
Secondo uno studio più recente sul corpus dickinsoniano, nemmeno l'edizione del 1955 di Johnson
avrebbe reso il testo dickinsoniano: molti sarebbero infatti i fraintendimenti della grafia; le datazioni
non sono certe; e l'ordine stesso in cui sono presentati i singoli componimenti risulterebbe del tutto
arbitrario perché privilegia il criterio di sequenza cronologica (per giunta, come si diceva, non certa)
quando nell'originale Dickinson adottava altri criteri di raggruppamento delle poesie10. La questione
non si configura pertanto come erudita disputa filologica; viene semmai individuata una delle
9
Sull’oggetto libro del futuro GINO RONCAGLIA, La quarta rivoluzione: sei lezioni sul futuro del libro, Roma-Bari,
Laterza, 2010.
10
DAVID S. REYNOLDS, The American Women's Renaissance and Emily Dickinson, in Beneath the American The
Subversive Imagination in the Age of Emerson and Melville, Cambridge Mass., Harvard University pp. 387-437. principali peculiarità di Dickinson che, ancora una volta, fa di lei un modello per la
contemporaneità. Infatti, oltre che postumo, il macrotesto dickinsoniano è stato quasi segretamente
"tessuto" per tutta una vita (amici e parenti sapevano che lei scriveva; ma solo alla morte, scoprendo
le poesie nel baule, la sorella capirà quanto aveva scritto). Non è poi facile tirare una linea di
demarcazione netta fra quel che può essere ritenuto poesia e quel che invece non rientrerebbe in tale
categoria estetica11. In particolare, non è facile distinguere fra epistolario e canzoniere perché
Dickinson concepisce tanto le lettere che le poesie come testi mobili, interscambiabili, sottoposti a
revisione e fruibili in modi e momenti diversi. Ad esempio, Dickinson spesso inviava differenti
versioni della stessa poesia o, viceversa, rielaborava in forma poetica brani di lettere
precedentemente composte, e magari le inviava a destinatari differenti, e talvolta con varianti12. Il
confine fra i due ambiti, epistolare e lirico, appare talvolta così tenue da aver indotto William H.
Shurr a pubblicare nel 1993 una revisione del canone dickinsoniano con l'aggiunta di altri 498
componimenti estrapolati da lettere13. Operazione questa che ha reso ancor più manifesto il grado di
instabilità del testo.
Postumo; composto segretamente; senza marcate distinzioni fra epistolario e canzoniere; con
molte varianti: tale si presenta il libro di Dickinson. Di conseguenza, perfino l'edizione critica, pur
essendo la possibilità più vicina alla restituzione della voce dell'autore, è comunque il risultato di
una complessa lettura filologica e critica delle diverse fonti: sia le poesie tenute celate che quelle
inviate per lettera, sia quelle pazientemente ricopiate da Dickinson stessa. Non essendo possibile il
confronto con un testo, l'edizione critica traccia solo l'ipotesi di una rotta in un macrotesto,
seguendo sia il movimento di scrittura rivolto verso l'interno — il nascondimento, la segretezza —
che verso l'esterno — la comunicazione e ricerca di destinatari. Soprattutto in questo secondo caso
il compito di ricostruzione di un "originale" risulta particolarmente difficile, al punto che, come
afferma Paula Bennett «All published versions of Dickinson's poems, even those in critical texts
[...], represent editorial revisions»( p. XIII). Non si può pertanto, a rigore, parlare di un testo
critico, originale, quanto piuttosto di varie edizioni a cura di interpreti che propongono varie versioni a
stampa di quell'incantatore intrigo di fogli che è il corpus poetico dickinsoniano. Una produzione
che non beneficia — proprio per il suo carattere totalizzante, proprio perché coincide con tutta la
vita e la assorbe — della formula più elementare di ordine, ossia la sequenza numerata delle
pagine. La poesia aveva completamente saturato lo spazio: tutto lo spazio della sua vita ma anche,
più banalmente, ogni spazio fisico della sua stanza. Dickinson nascondeva infatti le poesie,
arrotolate, in ogni interstizio dei mobili della stanza. Solo alcune (quelle che lei preferiva? o quelle
che aveva fatto a tempo a rivedere?) sono state trascritte da Dickinson in fogli poi cuciti fra loro, in
una sorta di artigianale libretto. Di questi libretti ne sono stati ritrovati nella sua stanza dopo la
morte (e in una cassa custodita da una governante) quasi cinquanta e vengono denominati, sulla
base di come li chiamava la sorella Lavinia, fascicles.
In assenza di un corpus originale ordinato in sequenza, già il passaggio dalla mobilità dei fogli
manoscritti alla sequenza numerata dell'edizione a stampa (come avviene nell'edizione Johnson) è
dunque di per sé un percorso, un'indicazione di rotta segnata da un lettore e non il testo ordinato
11
Sulla impossibilità di distinguere prosa/poesia, generi poetici/generi documentali: TZVETAN TODOROV, I generi del
discorso, Firenze, La nuova Italia, 1993.
12
CRISTIANNE MILLER, Letters to the World, in Emily Dickinson: A Poet’s Grammar, Cambridge Mass., Harvard
University Press, 1995, pp. 1-19. 13
New Poems of Emily Dickinson, (William H. Shurr ed., with Anna Dunlap & Emily Grey Shurr), Chapel Hill, The
University of North Carolina Press, 1993.
secondo la volontà autoriale. Quel che invece può essere offerto ai moderni lettori di Dickinson non
è tanto il testo a stampa sequenziale, quanto un ipertesto, ossia un continuum testuale, percorribile a
piacere dal lettore, appunto senza i vincoli di una sequenza, che in effetti nell'originale non erano
presenti. Nel caso di Dickinson l'ipotesi di collocare la sua produzione poetica in uno spazio della
scrittura differente dalle pagine ordinate di un libro a stampa è un modo per avvicinarsi il più
possibile a un concetto pur sempre immaginario di originale «changing, complex, indeterminate»14.
Potrebbero allora essere eliminati i numeri-titoli aggiunti da Johnson perché perderebbe di
rilevanza l'idea stessa di sequenza ma si sottolineerebbe semmai la qualità di macrotesto, di unico
componimento poetico. Nel caso di Dickinson, lo spazio elettrico non rappresenta solo un
adeguamento alle nuove tecnologie, semmai il nuovo medium risulta omologo al contenuto poetico,
concepito come non book-centered. Infine, se un libro è fisicamente separato da altri libri (nel caso di
Dickinson, ad esempio, le poesie sono di solito pubblicate in un libro distinto dall'epistolario15,
dall’erbario, dal ricettario), lo spazio elettrico consentirebbe invece di contenere tutto insieme. E,
soprattutto, consentirebbe di percepire ogni genere e ogni tipologia documentaria, come un unico
testo.
E ancora, il passaggio a un corpus elettrico – I sing the body electric, cantava il suo contemporaneo, il
nostro contemporaneo, Walt Whitman – renderebbe possibile quell’uscita della poesia dalla gabbia
della testualità, offrendo al lettore la possibilità di leggere o ascoltare le poesie, di confrontare varie
versioni, di vedere l’originale manoscritto, di sapere se quella poesia era stata mandata per posta o
offerta, in una sorta di performance, con un fiore o una torta, o una bandiera, come Dickinson era
solita fare. Il corpus elettrico non offrirebbe pertanto una banale copia, ma un testo nuovo,
multimediale, ultratestuale, polisensoriale, esperienziale. Per Dickinson lo spazio della poesia è
sconfinato:
742
Four Trees — upon a solitary Acre —
Without Design
Or Order, or Apparent Action —
Maintain —
The Sun — upon a Morning meets them —
The Wind—
No nearer Neighbor — have they —
But God —
The Acre gives them — Place —
They — Him — Attention of Passer by —
Of Shadow, or of Squirrel, haply —
Or Boy —
What Deed is Theirs unto the General Nature —
What Plan
They severally — retard — or further —
Unknown —
14
Secondo la prima definizione di ipertesto. PAOLA CASTELLUCCI, Dall'ipertesto al Web. Storia culturale
dell’informatica, Roma-Bari, Laterza, 2009.
15
Opportunamente è stato stampato in versione facsimilare il “primo libro” di Dickinson, l’erbario. In italiano è edito
da Elliot nel 2007.
Uno spazio assolutamente opposto rispetto a quello evocato dalla poesia citata in apertura. Gli
alberi in un terreno solitario rispondono probabilmente a un più elevato ordine che però resta
misterioso; o si trapiantano gli alberi in fila, secondo uno schema noto e tranquillizzante, oppure
si cerca di entrare in contatto con la loro geometria non euclidea. A partire da tale prospettiva si
può allora avanzare un’ulteriore ipotesi rispetto alla non pubblicazione. Forse Dickinson sentiva
che il libro a stampa non era il supporto più adatto per la sua poesia e, pertanto, non si è
adoperata più di tanto per pubblicare. Era troppo presa dalla esclusiva attività di scrivere per
perdere tempo e porsi il problema di mantenere i giusti contatti sociali necessari per pubblicare.
Inoltre, le condizioni che le venivano poste per ottenere un premio secolare quale la
pubblicazione (in definitiva, la normalizzazione della sua poesia) erano per lei inaccettabili.
Meglio aver fede nel lettore futuro, meglio sperare che qualcuno avrebbe scoperto le poesie
tenute nascoste in vita. Meglio aspettare che qualcuno avrebbe poi trovato il messaggio nella
bottiglia, quel messaggio che giunge adesso a noi e ci fa dire: «è lei».