l`impresa italiana nell`economia globale

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l`impresa italiana nell`economia globale
L’ I M P R E S A I TA L I A N A N E L L’ E C O N O M I A G L O B A L E
4
Difficoltà e prospettive
dell’industria
F. Onida
Produttività, competitività
e commercio estero:
l’Italia nell’Europa alle soglie
del nuovo millennio
F. Varetto
Redditività e finanziamenti
delle imprese italiane
S. Meacci
Caratteristiche ed effetti
della delocalizzazione
N. Ortin
Il “modello” spagnolo:
una crescita senza precedenti
BIMESTRALE DI POLITICA ECONOMICA
GIUGNO
2006
L’ I M P R E S A I TA L I A N A N E L L’ E C O N O M I A G L O B A L E
Bimestrale di politica economica
n. 4 - Giugno 2006
Comitato scientifico
Paolo Gnes
PRESIDENTE
Boris Biancheri
Patrizio Bianchi
Innocenzo Cipolletta
Mario Deaglio
Alberto Majocchi
Giorgio Mulè
Marco Onado
Guido M. Rey
Franco Varetto
Direttore Responsabile
Alberto Mucci
Segreteria di redazione Priscilla Bigioni
Redazione
Global Competition
L’impresa italiana nell’economia globale
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‹ editoriale ›
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Riposizionarsi sulla qualità
di Paolo Gnes
Negli ultimi cinque anni l’economia italiana è cresciuta appena dello 0,7 per cento l’anno, collocandosi insieme
alla Germania all’ultimo posto tra le economie europee, a loro volta cresciute nel loro insieme ad un tasso nettamente inferiore a quello degli Stati Uniti, oltre che della Cina e della altre economie dinamiche dell’Asia.
Sia in Italia che in Germania la caduta del tasso di crescita è in parte imputabile al basso incremento demografico
e all’invecchiamento della popolazione. Ma le sue determinanti principali sono profondamente diverse tra i due paesi.
La Germania ha realizzato nell’ultimo decennio un fortissimo incremento delle esportazioni, accrescendo la propria
quota nel commercio internazionale nonostante l’ingresso delle economie asiatiche e diventando dal 2003 il primo
esportatore mondiale di manufatti davanti a Stati Uniti, Cina e Giappone. L’Italia ha subito invece una forte contrazione della propria quota di esportazioni, scendendo al settimo posto nella graduatoria mondiale alla pari con Canada e
Belgio e dietro anche all’Olanda. Il contestuale incremento delle importazioni ha eroso l’attivo delle partite correnti,
cosicché l’aumento del prezzo del petrolio e del gas sta determinando un pesante disavanzo nei conti con l’estero.
Il ristagno dell’economia tedesca riflette quindi la debolezza della domanda interna, mentre
quello dell’economia italiana dipende dalla sua perdita di competitività internazionale. Tale perdita
di competitività ha natura essenzialmente strutturale, in quanto si ricollega alle caratteristiche della
nostra industria manifatturiera, che da un lato è fortemente esposta alla concorrenza asiatica per la
sua specializzazione produttiva, dall’altro stenta a trarre vantaggio dall’apertura dei nuovi mercati
esteri e dalla rivoluzione tecnologica per la frammentazione del tessuto produttivo e la carenza di
grandi imprese.
La nostra industria manifatturiera si trova dunque stretta nella morsa della concorrenza delle
nuove economie asiatiche, che beneficiano di livelli salariali dell’ordine di un ventesimo dei nostri,
e delle economie più evolute, che hanno potuto e saputo trarre maggiori guadagni di produttività
dall’incorporazione delle nuove tecnologie.
Gli effetti sono evidenti. Dal 1996 al 2004 il passivo bilaterale dell’Italia verso la Cina è aumentato da 1 a 7,4
miliardi di euro, con un peggioramento di 6,4 miliardi che è solo la punta dell’iceberg, in quanto il grosso della perdita è nella sostituzione di esportazioni cinesi a quelle italiane nei paesi terzi. Il saldo bilaterale con la Germania, per
esempio, da attivo per 4,4 miliardi di euro è divenuto passivo per 12,5, con un peggioramento di 17 miliardi, sia per
la sostituzione di esportazioni italiane con prodotti a basso costo provenienti dall’Europa orientale e dall’Asia, sia per l’aumento delle nostre importazioni dalla Germania di prodotti di qualità.
Il vero proplema è dunque il collocamento dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro. O la nostra industria
(inclusi i servizi aperti alle transazioni internazionali quali il turismo e il suo indotto) riesce a riposizionarsi nei segmenti
e settori produttivi di maggiore qualità, in modo da garantirsi rispetto alle produzioni dei paesi emergenti differenziali
di prezzo corrispondenti ai differenziali retributivi, oppure questi ultimi dovranno prima o poi adeguarsi alla riduzione
dei prezzi salvo la delocalizzazione delle produzioni o la chiusura delle imprese.
Se questo è il problema, non servono politiche di sostegno della domanda, che sarebbero del resto incompatibili con
il riequilibrio del disavanzo pubblico e ora anche dei conti con l’estero, ma un’azione di grande respiro volta a favorire il
riposizionamento competitivo dell’industria e dei servizi esposti alla concorrenza internazionale.
Tale azione dovrebbe mirare, in particolare, a rendere più competitivi i mercati interni dei servizi privati, ad accrescere l’efficienza dei servizi pubblici (istruzione, giustizia, procedure di autorizzazione, etc.), ed accelerare la realizzazione delle infrastrutture (anche con un maggior ricorso al project financing), a razionalizzare e stabilizzare il quadro normativo per quanto concerne in particolare il mercato del lavoro e il prelievo fiscale, a promuovere la crescita delle grandi imprese tecnologicamente avanzate e la diffusione della ricerca applicata e dell’innovazione tecnologica anche mediante progetti mirati allo sviluppo di attività strategiche (nell’ambito dell’energia, della difesa, della
salute, dell’ICT, etc.). Sono interventi che richiedono tempo e che quindi vanno avviati con urgenza. Nel frattempo
occorre promuovere all’interno dell’Unione una politica commerciale che tenga maggiormente conto della specificità italiana, nel rispetto delle regole del WTO.
Un compito estremamente complesso, dunque, non meno impegnativo di quello che l’impresa dovrà svolgere
al suo interno e nel mercato. Ma non abbiamo alternative se vogliamo mantenere nella divisione internazionale del
lavoro un livello coerente con le nostre aspettative di benessere.
sommario
N.
4 -
GIUGNO
2006
Difficoltà e prospettive dell’industria
Fabrizio Onida
Produttività, competitività e commercio estero:
l’Italia nell’Europa alle soglie del nuovo millennio
pag. 3
Franco Varetto
Redditività e finanziamenti delle imprese italiane
pag. 10
Sergio Meacci
Caratteristiche ed effetti della delocalizzazione
pag. 19
Nicasio Ortin
Il “modello” spagnolo:
una crescita senza precedenti
pag. 28
Libri in vetrina
pag. 32
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
PRODUTTIVITÀ,
COMPETITIVITÀ
E COMMERCIO ESTERO:
L’ITALIA NELL’EUROPA ALLE SOGLIE
DEL NUOVO MILLENNIO
Nelle prime due sezioni l’Autore traccia un sintetico quadro,
con ombre e luci, sull’evoluzione della competitività dell’Europa nel contesto mondiale.
della struttura produttiva e di governance delle imprese.
partire dagli anni ’90 cresce in Europa intorno al 2%
all’anno, tasso al di sopra dell’1,5% del Giappone ma
molto al di sotto del 3,3% degli USA. Si sta dunque
aggravando il divario fra crescita del PIL totale nei due
continenti, che già origina da un differenziale sfavorevole di crescita della popolazione residente (0,4% in Europa
partire dalla seconda metà degli anni ’90, negli USA
contro 1,2% negli Usa negli anni ‘90). Per non parlare del
la crescita della produttività e del reddito reale pro
divario di crescita reale dell’Europa rispetto alle economie
capite della popolazione accelera, sconfessando così il
dinamiche dell’Asia. Secondo diverse proiezioni a lungo
cosiddetto “paradosso di Solow” secondo cui nell’econotermine (es. Goldman Sachs
mia americana si vedevano molti
2004), il PIL della Cina misurato a
più computer ma non il loro effetcambi PPP supererà quello della
to virtuoso sull’efficienza e sul
Germania nel 2010, quello del
benessere degli americani stessi.
Giappone nel 2020 e quello degli
Nello stesso periodo l’Europa non
USA nel 2045.
sta al passo con queste tendenze e
Non va dimenticato peraltro che
perde vistosamente colpi, confernella
sfida sulla crescita della “promando l’arresto se non l’inversione
duttività
totale dei fattori” (PTF),
del processo di lenta convergenza
ma
anche
sotto molti altri profili,
del proprio PIL per abitante verso il
FABRIZIO ONIDA
l’Europa
è
tutt’altro che un’area
livello americano, processo che
omogenea.
Mentre fino agli anni
aveva caratterizzato i primi 30 anni
Professore ordinario di Economia internazionale
’80
i
grandi
paesi
dell’Europa condel dopoguerra. Ai cambi di parità
all’Università Bocconi e presidente del CESPRI
tinentale
e
il
Giappone
erano in
dei poteri d’acquisto (PPP) il PIL per
(Centro ricerche sui processi di innovazione e
testa
alla
graduatoria
come
tasso
abitante in Europa è cresciuto dal
internazionalizzazione) presso la stessa
annuo
di
crescita
della
PTF
,
negli
Università.
Dal
1995
al
2001
ha
presieduto
40% al 70% di quello americano
l’ICE.
Ha
ricoperto
numerosi
incarichi
di
consuanni
’90
hanno
tutti
registrato
una
dal 1950 alla metà degli anni ’70,
lenza scientifica in Italia e all’estero. Dal gennaio
netta
decelerazione,
mentre
all’opma da allora si è mantenuto intor2004 presiede il Comitato scientifico di
posto - assieme a USA e Canada no a quel livello, come si vede dalla
Unicredit Banca d’Impresa. Dal luglio 2005 è
i paesi scandinavi e l’Irlanda
Figura 1 tratta da (Sapir 2004).
consigliere del CNEL come esperto nominato
hanno impresso una forte acceledal
presidente
della
Repubblica.
Secondo stime dell’OECD, il “PIL
razione, determinando così un
potenziale”, stimato in base a variadivario senza precedenti fra
bili economico-demografiche, a
Ia Sezione - Da più di un decennio l’Europa perde colpi
rispetto agli USA in termini di produttività, occupazione,
ricerca e investimenti privati in istruzione superiore e
nuove tecnologie.
A
GLOBAL COMPETITION
dell’Italia nel contesto internazionale, riconducibili a caratteristiche
4 - 2006
Nella terza sezione evidenzia gli elementi di fragilità del modello di specializzazione
3
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
Figura 1
Figura 2
GPD per capita at current market prices and PPS 1950 - 2000
EU - 15 and Japan, US=100
EU per capita GDP, US=100
120
100
90
100
80
70
80
60
60
50
40
40
30
20
20
10
0
1950
1955
1960
1965
1970
1975
1980
1985
1990
1995
2000
0
1970
EU-15
Japan
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
Fonte: European Commission, AMECO database; Maddison (1995) and own
calculations
4
1980
1990
2000
US
un’Europa dinamica della periferia del Nord (purtroppo
assai piccola in termini di popolazione) e un’Europa lenta
(“eurosclerotica”) dei maggiori paesi del Centro e del Sud.
Si aggiunga che i nuovi membri dell’Unione Europea,
emersi da una impressionante caduta di livelli produttivi
subito dopo il crollo del muro di Berlino, oggi tirano il
convoglio europeo in termini di crescita del prodotto e
della produttività, anche se il loro contributo al PIL europeo (un modesto 5-6% del PIL della UE-15) è assai superiore al loro apporto in termini di popolazione (20%) .
Nel valutare la performance deludente della crescita e
della produttività dell’Europa nel periodo recente, bisogna poi evitare la spiegazione semplicistica di un’Europa
“che non ha voglia di lavorare” contrapposta ad una sorta
di stakanovismo americano. I dati mostrano che nell’arco
di 30 anni la produttività per ora lavorata in Europa ( PIL
per ora lavorata) è cresciuta assai più in Europa che negli
USA, ma che l’effetto di aumento che ciò avrebbe comportato nel PIL per abitante è stato pressoché neutralizzato da un consistente calo del tasso di occupazione (occupati/popolazione in età lavorativa) e da un conseguente
calo delle ore lavorate per abitante, come si evidenzia
nella Figura 2 tratta dal citato Rapporto Sapir.
Il risultato è che nel 2000 circa un terzo della differenza
nel PIL pro capite fra Europa e USA era ascrivibile a un
minor tasso di occupazione, un terzo al minor numero di
ore lavorate per occupato (ferie e altri congedi non pagati più lunghi, ecc.).
Solo il restante terzo della differenza era dovuto ad una
minore produttività per occupato, riconducibile a sua
volta ad un insieme di fattori strutturali che mediamente
caratterizzano l’economia europea (pur con elevata
varianza tra paesi all’interno della UE) rispetto a quella
degli USA.
Tra i principali fattori strutturali della più bassa produttività in Europa vanno ricordati i seguenti: minor peso dei
settori tecnologicamente più avanzati, più bassa quota
delle risorse private spese in Ricerca&Sviluppo e in istruzione superiore, più bassa dimensione media d’impresa,
GDP per capita
Hourly productivity
Working hours per capita
Fonte: European Commission, AMECO database
minori investimenti in innovazioni organizzative legate
all’adozione di standard ICT (Jorgenson 2005, Denis et al.
2004, Gordon 2004), minor grado di concorrenza e connesso maggior grado di regolazione amministrativa nel
mercato dei prodotti e dei servizi (OECD, 2003). A sua
volta, la caduta assoluta e relativa nel tasso di occupazione non è rintracciabile nella fascia centrale della popolazione attiva, ma è concentrata nella popolazione in età
giovanile (15-24 anni) e in età più anziana (55-64 anni).
Le cause di ciò sono molteplici, come un mercato del
lavoro più rigido all’ingresso e nella mobilità geografica e
settoriale, un minor tasso di partecipazione femminile nei
paesi del Sud-Europa, un sistema pensionistico più incline
a uscite premature dalla forza lavoro, il prevalere (con l’eccezione di pochi piccoli paesi europei del Nord come
Olanda, Danimarca e Svezia) di sistemi di Stato sociale
meno capaci di adattarsi alle esigenze di un capitalismo
più flessibile attraverso efficaci strumenti di “welfare to
work” (Baily-Kirkegaard 2004). In anni recenti l’Europa
subisce anche un effetto sfavorevole derivante da un relativo invecchiamento della popolazione che porta a ridurre la quota di popolazione in età di lavoro sulla popolazione totale.
II a Sezione - Ma all’interno della Triade la quota europea sulle esportazioni mondiali risente meno di USA e
Giappone del forte progresso di Cina e paesi asiatici.
Nel giro di un quindicennio la quota dei mercati emergenti (soprattutto asiatici) sul commercio mondiale di
manufatti è cresciuta di circa 15 punti percentuali. Dal
1990 ad oggi la quota della Triade (USA, Giappone, UE)
sulle esportazioni mondiali al netto degli scambi intra-UE
si è ridotta di circa un quinto, scendendo dal 49% al 40%
(un po’ meno la quota sulle importazioni mondiali, a
causa del boom delle importazioni statunitensi). Ma le
esportazioni rapidamente crescenti di Cina e altre economie dinamiche dell’Asia (DAEs) sono andate soprattutto a
erodere le rispettive quote di USA e Giappone, a prezzi
Crescita della Produttività Totale dei Fattori
(1980 - 1990; 1990 - 2000)
1980 -1990
tasso di crescita nella domanda mondiale nell’ultimo
decennio è stato superiore alla media, mentre i settori tradizionali di consumo ovvero beni per la casa e la persona
(tessile-abbigliamento, pelle-calzature, mobilio, ecc.) storicamente crescono a tassi meno volatili ma più modesti, e
d’altro lato i settori ad alta intensità di tecnologia elettronica (spesso identificati come settori ad alta tecnologia)
hanno pesantemente risentito della “bolla della new economy” 1998-2003 fino a risultare a crescita inferiore alla
media mondiale su questo arco di tempo (ICE 2005,
Miotti-Sachwald 2006). Questo aspetto va sottolineato
per evitare luoghi comuni, ed è peraltro noto agli attenti
osservatori dei dati empirici sulla composizione del commercio mondiale, tra va ricordato il compianto Keith Pavitt
in alcuni suoi lavori presso lo S.P.R.U. di Brighton già negli
anni ’80).
Come evidenziato nelle analisi che utilizzano gli indici di
“saldo normalizzato” come indici di specializzazione internazionale, la UE gode di vantaggi comparati in un’ampia
gamma di settori finali e intermedi a media tecnologia (e
per taluni comparti ad alta tecnologia) come chimica, farmaceutica, gomma e plastica. acciaio e prodotti di metallo, materiali da costruzione, carta e cartotecnica, elettrodomestici bianchi, meccanica strumentale “non elettrica”,
termoelettromeccanica, meccanica di precisione (che
include automazione e robotica), autoveicoli e parti.
Nella mutevole geografia degli scambi mondiali, le
DAEs hanno dunque guadagnato rapidamente quota sia
nei settori tradizionali “low tech”, sia in settori ICT come
elettronica di consumo, informatica e telecomunicazioni
(telefoni cellulari) la cui dinamica di medio periodo è stata
colpita dalla citata bolla della “new economy”. A questo
proposito è interessante una recente ricerca (MiottiSachwald 2006) che, commentando il mancato tramonto
della “vecchia economia”, ricorda tre aspetti interessanti:
a) nel 2002-2004, passata la bolla Internet, i settori più
dinamici nella domanda mondiale sono stati in larga
parte dei settori “medium tech” (come i citati chimica,
metallurgia, meccanica, elettrodomestici bianchi, veicoli
stradali e navali) più solo un paio di settori tipicamente
“high tech” come farmaceutica e componenti per audiovideo, mentre computer e apparecchiature per telecomu-
1990 -2000
Per cent
4.5
Countries where MFP growth accelerated
Countries where MFP growth decelerated
4.0
Numero medio di ore lavorate per occupato (USA, Francia, UE)
2500
3.5
3.0
US
2000
2.5
1500
2.0
France
1.5
1000
1.0
EU15
0.5
500
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Austria
0
19
74
19
77
19
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19
83
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92
19
95
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98
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Fonte: OECD
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19
0
GLOBAL COMPETITION
costanti come a prezzi correnti. Fra il 1993 e il 2003 la
quota della UE sulle esportazioni mondiali (sempre al
netto degli scambi intra-UE) è scesa di un modesto 0,6%,
mentre le quote di USA e Giappone sono calate rispettivamente del 2.2% e del 3.0%. Ancora una volta, le performance dei singoli paesi membri della UE sono state molto
difformi, con Italia, Francia, Regno Unito e Benelux in calo
e Germania, Spagna, Irlanda in ascesa (EC 2005, ECB
2005). La bilancia commerciale e la bilancia delle partite
correnti della UE sono in sostanziale equilibrio, in contrasto con i persistenti avanzi del Giappone e delle economie
dinamiche dell’Asia Orientale, e il crescente disavanzo
degli USA che sfiora il 6% del PIL.
Il grado di apertura, misurato dal rapporto fra esportazioni di beni e servizi e PIL, è sensibilmente maggiore per
la UE e in particolare per l’Euroarea nel suo assieme (circa
20%) che per USA (10%) e Giappone (13%) (ECB 2005).
L’Euroarea pesa negli anni recenti circa il 23% sulle esportazioni mondiali di beni e servizi, seguita da USA (14%),
Giappone (8%) e Regno Unito (5%).
La perdita di quota del Giappone, pur in presenza di un
cambio reale dello yen in tendenziale deprezzamento,
trova una spiegazione importante (anche se non esaustiva) nei massicci investimenti all’estero e accordi di outsourcing con cui già a partire dagli anni ’90 il Giappone
ha trasferito le capacità produttiva dei propri settori più
maturi verso le DAEs, contribuendo così in modo significativo al successo esportativo delle medesime economie
emergenti. Sotto certi profili queste DAEs sono gradualmente divenute per il Giappone una importante piattaforma produttiva “cost saving” volta a rifornire i propri clienti sui mercati esteri e in parte il proprio mercato nazionale.
La performance complessiva delle esportazioni europee
nell’ultimo decennio ha risentito positivamente di una
favorevole composizione del proprio mix settoriale. Infatti
sulla base di vari indici di vantaggio comparato è possibile affermare che la UE-15 (oggi la UE-25) nel suo assieme
è maggiormente specializzata in un gruppo di settori classificati dall’OECD come “a medio-alta tecnologia” il cui
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
5
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
6
nicazioni hanno molto rallentato rispetto al boom degli
anni ’90.
b) in questo contesto i paesi che hanno meglio cavalcato l’espansione della domanda mondiale sono la
Germania, che dal 2003 è divenuto primo esportatore
mondiale scavalcando gli USA, e la Cina, che ha scavalcato il Giappone come terzo esportatore mondiale;
c) Cina e altre DAEs hanno attuato processi di specializzazione intra-settoriali, con divisione geografica del
lavoro all’interno dell’area asiatica entro le medesime filiere (componenti, intermedi, prodotti finiti), riflettendo i
notevoli divari nel costo del lavoro tra economie relativamente avanzate e ad alto salario (come Sud Corea,
Taiwan, Singapore e Hong Kong) e altre economie a
basso costo del lavoro (come Indonesia, Filippine,
Thailandia, Malesia).
La fortissima proiezione esportativa della Cina riposa
molto, come noto, sulle imprese a capitale estero che
spesso delocalizzano in Cina solo fasi di lavorazione relativamente limitate e a basso valore aggiunto (assemblaggio
di componenti importate dagli stessi paesi avanzati, da
altre DAEs e da altre economie emergenti). In questo
quadro di divisione del lavoro che passa all’interno dei
principali settori manifatturieri, più che tra i medesimi
grandi settori, si stanno inserendo anche importanti paesi
latino-americani come Messico e Brasile e gli stessi nuovi
e prossimi paesi membri della UE come Polonia,
Ungheria, Romania.
Questa analisi un po’ controcorrente, mirata tra l’altro a
mettere in luce qualche aspetto di fragilità del modello di
specializzazione internazionale della Francia, va naturalmente presa con la cautela dovuta alla relativamente
breve copertura temporale dei dati esaminati.
In particolare, è ancora troppo breve il periodo 20002004 per identificare un vero punto di svolta nella composizione merceologica della produzione e del commercio mondiale rispetto agli anni ’90, dominati dalla bolla Internet.
È comunque un contributo importante per smitizzare un
troppo frequente ricorso alle categorie “high tech” e “low
tech” per descrivere l’evoluzione nei modelli di specializzazione dei paesi. Confronti internazionali di strutture produttive e di indici di vantaggio comparato dei paesi devono comunque trarre ispirazione della ormai famosa tassonomia di Pavitt (1984).
A proposito dei paesi della “Nuova Europa”, è pure interessante notare la notevole diversità che emerge nell’evoluzione recente delle strutture produttive dei paesi del
Centro-Nord, già oggi proiettati su specializzazioni in settori moderni a media tecnologia (es. auto e parti, chimica,
gomma e plastica) e quelle dei paesi dell’area balcanica
come Romania e Bulgaria, assai più legati ai settori tradizionali come tessile-abbigliamento e pelle-calzature
(Amighini - Chiarlone 2005). Inoltre si conferma l’elevato
grado di specializzazione per prodotti intermedi (parti,
motori, componenti) negli scambi intra-UE-25.
La Nuova Europa: indici di vantaggio comparato rivelato
(quota export settoriale/quota export media del paese)
nelle esportazioni mondiali di alcuni settori, 1996 e 2003
Tessile Abbigl.
Calzature
Macchinari
Elettrodom.
Autoveicoli
Beni intermedi 1996
2003
1996
2003
1996
2003
1996
2003
1996
2003
Bulgaria
Rep. Ceca
Ungheria
Polonia
Romania
Slovacchia
1.24
1.29
0.53
0.58
0.79
0.90
8.32
3.74
8.90
3.48
25.32
2.27
16.67
1.25
2.33
1.48
33.75
5.01
0.76
1.86
0.96
0.83
1.12
1.36
0.96
1.87
0.97
0.95
1.10
1.38
0.49
1.72
1.65
0.50
0.06
1.39
0.59
1.07
2.50
1.61
5.40
0.60
0.09
1.37
1.05
0.40
0.41
1.74
0.09
2.73
1.61
1.62
0.86
3.40
1.10
1.37
0.54
0.51
0.56
1.33
Beni finali
1996
2003
1996
2003
1996
2003
1996
2003
1996
2003
Bulgaria
Rep. Ceca
Ungheria
Polonia
Romania
Slovacchia
1.00
0.57
1.50
1.68
3.12
0.62
3.72
0.40
0.65
0.87
4.34
0.65
1.51
1.24
1.68
0.97
3.76
1.75
2.36
0.25
0.83
0.56
7.58
2.04
0.33
0.57
0.31
0.27
0.17
0.34
0.19
0.66
0.29
0.26
0.13
0.24
0.15
0.43
2.02
0.64
0.36
2.08
1.09
0.51
1.79
1.89
0.65
1.80
0.06
0.66
0.20
0.50
0.12
0.54
0.03
0.81
0.41
0.56
0.05
1.89
Fonte: Amighini - Chiarlone (2005)
III a Sezione - L’Italia: potenzialità e ostacoli all’evoluzione verso un modello di specializzazione internazionale
meno fragile.
Nel passaggio al nuovo millennio i segnali di un progressivo scivolamento dell’Italia nella competizione internazionale sono andati moltiplicandosi: crescita rallentata
del PIL e della produttività anche rispetto alla media
dell’Euroarea, permanere di un basso tasso di occupazione (particolarmente femminile) e di alti tassi di disoccupazione giovanile (particolarmente nel Mezzogiorno) nonostante una parziale rimonta nell’ultimo decennio, persistenti difficoltà di aggiustamento nella finanza pubblica a
fronte di un livello anormalmente elevato di debito pubblico, mancata crescita del già basso rapporto fra spese di
R&S e PIL, livello medio di istruzione al di sotto di quello
della UE, graduale erosione dei guadagni di competitività
sul costo del lavoro per unità di prodotto ereditati dal
triennio 1992-95 di temporaneo forte deprezzamento del
cambio della lira, ritorno a permanenti disavanzi nella
bilancia delle partite correnti e conseguente rapido capovolgimento della posizione finanziaria netta sull’estero,
discesa nella graduatoria dei principali esportatori mondiali di manufatti (dal 6° posto ancora nel 1997 al 7°
posto nel 2005 alla pari con Canada e Belgio e superata
dalla Cina e dai Paesi Bassi), modesta quota come paese
ricevente degli investimenti diretti esteri. E l’elenco potrebbe continuare. “Il vero punto debole dell’economia italiana sembra essere il suo modello di specializzazione a livello internazionale” (Faini - Sapir 2005, p. 58). Un modello
che, come risulta da tutti i lavori empirici ed econometrici
in materia, si è evoluto assai più lentamente rispetto agli
altri paesi europei ed ha mantenuto le sue caratteristiche
di sproporzione tra una quota elevata di produzioni tradizionali e all’opposto una quota bassa di produzioni a
medio-alta tecnologia. Un modello che comporta utilizzo
relativamente basso di manodopera qualificata e ad alto
grado di istruzione, relativamente scarsa proiezione multi-
Tabella 1 - Spesa in R&S delle imprese manifatturiere
(diverse ipotesi di struttura produttiva e dimensionale e di
intensità di R&S)
Intensità di R&S di:
Struttura
produttiva e
dimensionale di:
Francia Germania Giappone Regno Unito
(a)
(b)
(c)
(b)
(a)
(a)
Francia (a)
Germania (b)
Giappone (c)
Regno Unito (b)
Stati Uniti (a)
Italia (a)
6,79
6,76
8,31
6,22
8,17
4,16
7,1
6,89
8,33
6,48
8,43
4,36
7,87
9,24
8,43
6,13
7,13
4,40
6,27
7,00
7,48
5,19
6,17
3,71
9,48
11,45
11,62
7,34
8,38
5,15
3,68
3,98
4,74
3,31
4,34
2,01
Fonte: Foresti (2002)
a: 1998
Stati Uniti
b: 1997
Italia
c: 1999
La peculiare struttura dimensionale delle imprese, il deficit di produttività rispetto ai principali paesi europei, la
specializzazione in produzioni più tradizionali con minor
fabbisogno di investimento nelle nuove tecnologie e di
manodopera particolarmente qualificata, la minor propensione ad un vero radicamento multinazionale sui
diversi mercati, la quota elevata di imprese esportatrici
instabili nel tempo e con numero esiguo di mercati di
sbocco, la minore attrattività nei confronti delle strategie
di rilocalizzazione dei grandi gruppi multinazionali: tutte
queste sono naturalmente facce dello stesso problema
che l’attuale modello di specializzazione dell’Italia si trova
a dover affrontare (Onida 2004, Banca Intesa 2005,
Bugamelli 2001, Chiarlone - Helg 2002, Rossi 2003, ICE
2005, Rossi 2006).
Questo modello è esposto ad una pressione crescente
di concorrenza dall’alto e dal basso. Dall’alto premono i
paesi più avanzati e a più elevato grado di istruzione che
coltivano i settori a maggior dinamismo tecnologico ed a
maggior crescita tendenziale della domanda mondiale.
Dal basso premono i nuovi mercati emergenti, Cina in
testa. Questi paesi, mentre competono in misura pressoché irresistibile sulle produzioni a basso valore aggiunto
con forte incidenza di un costo del lavoro (che per molti
anni, pur in rapida crescita già oggi, rimarrà nettamente
inferiore agli standard europei), al tempo stesso hanno
dimostrato di saper rapidamente conquistare conoscenze, competenze e capacità organizzativo-manageriali, tali
da permettere loro veloci trasformazioni produttive e spostamenti verso l’alto nella scala delle qualità dei prodotti e
delle tecnologie di processo. Da qui la percezione realistica (non ideologica o pregiudiziale) della fragilità di questo
modello. Tanto più se si pensa al rischio di un certo circolo vizioso sul fronte del capitale umano: imprese scarsamente orientate a coltivare vocazioni produttive ad alta
intensità di tecnologia e manodopera qualificata esprimono una debole domanda di forza lavoro con elevato
grado di istruzione, il che a sua volta ne scoraggia le
aspettative e in ultima analisi l’offerta (Faini-Sapir 2005). Si
potrebbe dire, mutuando da recenti terminologie della
teoria economica: una pericolosa situazione di “decrescita endogena”.
È un modello di cui peraltro non sarebbe corretto disconoscere le notevoli forze di antiche radici artigianali e
imprenditoriali e le ben note doti di flessibilità, adattamento, creatività, capacità di imporre standard di stile, qualità,
design e perfino tecnologia in molte produzioni apparentemente mature. Si pensi sia alle fasce medio-alte del
“made in Italy” (anche se in parte “made by Italy” con parziale delocalizzazione di lavorazioni ad alta intensità di
lavoro scarsamente qualificato), sia ai numerosissimi comparti di macchinari specializzati, spesso di altissimo standard tecnologico ed elevata reputazione internazionale,
produzioni meccaniche, attrezzature finite e loro componenti, produzioni intermedie destinate a grandi imprese
assemblatrici di prodotti finali complessi.
Sono peraltro proprio queste produzioni di fascia e
complessità tecnologica elevate che ancora oggi mantengono ancorate all’Italia alcune produzioni selezionate
da parte di grandi gruppi multinazionali, che spaziano
da Siemens a General Electric e ABB, da United
Technologies ad Alcatel, da Cisco a IBM Motorola e
Microsoft, da Electrolux a Whirlpool, da Bosch a
Michelin, da Glaxo a BASF.
Diversi studi che hanno analizzato i settori di esportazione-importazione dell’Italia con disaggregazioni statistiche
fini, allo scopo di cogliere indici di specializzazione per
fasce di qualità e mix-varietà di prodotti (valore medio unitario), arrivano peraltro a concludere che vi sono dissomiglianze abbastanza forti tra la tipologia di prodotti che
l’Italia esporta e quella dei maggiori concorrenti a basso
GLOBAL COMPETITION
nazionale, peso anormalmente elevato delle microimprese e delle piccole imprese con meno di 50 addetti, e per
contro un peso nettamente basso delle imprese di maggiori dimensioni.
A proposito di spese in R&S rapportate al PIL (v. Tabella
1), va chiarito che l’anomalia dell’Italia (che col suo stentato 1% contro il 2% e oltre dei paesi avanzati si colloca al
21° posto fra i 30 membri dell’OECD) consiste non tanto
in una bassa quota di spesa pubblica (che pure include il
costo del personale docente delle università), quanto
nella bassa propensione a questo tipo di investimento da
parte delle imprese (OECD 2005). Un semplice esercizio
di simulazione (Foresti 2002) ha mostrato che il basso
livello del rapporto R&S/PIL in Italia dipende solo in parte
dalla peculiare composizione del sistema produttivo italiano in termini di settori (maggior peso dei settori tradizionali che in quanto tali fanno meno ricerca di laboratorio
classificata nei bilanci come spesa in R&S) e in termini
dimensionali (maggior peso delle imprese di minori
dimensioni che in quanto tali hanno minore capacità di
sostenere queste spese). Infatti l’esercizio mostra che, se
anche l’Italia avesse una struttura settoriale e dimensionale simile a quella dei paesi più avanzati, ugualmente il rapporto tra spese in R&S e valore aggiunto industriale risulterebbe di almeno un terzo inferiore a quello effettivo dei
medesimi paesi di confronto.
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
7
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
8
costo del lavoro (Annichiarico - Quintieri 1999, Amighini Chiarlone 2005, Monti 2005). E non mancano alcuni
indicatori da cui appare un certo “potere di mercato” nella
fissazione dei prezzi da parte delle nostre imprese esportatrici (De Nardis - Pensa 2003, De Nardis - Traù 2005).
La fragilità del modello di specializzazione rinvia comunque a caratteristiche profonde dell’apparato produttivo, in
particolare ai nodi della “governance” di impresa. Le tipiche piccole e anche medie imprese familiari a struttura
proprietaria concentrata presentano troppo spesso caratteristiche di “governance” scarsamente compatibile con
autentiche strategie di crescita dimensionale e rapida
creazione di valore societario.
Sono imprese che faticano a diventare familiar-manageriali, cioè con una più netta divisione tra proprietà e controllo gestionale. Prevalgono modelli di comportamento
condizionati da stretti legami di parentela (dynastic management), commistione tra proprietà e controllo gestionale, patti proprietari non trasparenti, bilanci poco informativi, carenza di controlli interni, assenza o quasi di intermediari specializzati.
Bilanci poco informativi e strutture di governance non
trasparenti sono purtroppo spesso tollerati dalle banche
creditrici, in quanto la pratica assai diffusa del “multiaffidamento” e del credito basato su garanzie reali e personali
dell’imprenditore deresponsabilizza le banche stesse
rispetto ad un severo monitoraggio del merito di credito
(vedremo in quanto tempo le nuove regole di Basilea 2
produrranno incisivi cambiamenti in questi modelli di
comportamento bancario).
Imprese dalla brillante storia imprenditoriale del primo
I riferimenti Bibliografici di questo articolo sono a pag. 31
fondatore o dei suoi primi eredi tendono spesso più a
conservare le competenze accumulate nella storia familiare che a conquistare nuove competenze in campi dove
man mano va spostandosi la competizione con i paesi più
avanzati. Sono tradizionalmente imprese che faticano a
crescere anche perché sottocapitalizzate, molto dipendenti dal credito bancario a breve scadenza (una struttura finanziaria poco equilibrata rispetto a obiettivi di crescita dimensionale), diffidenti verso i mercati finanziari e l’apporto di capitali esterni anche quando sono ampiamente
disponibili tramite fondi di “private equity” (Onida 2004,
Bianchi et al. 2005).
A questo proposito, una interessante indagine compiuta da Unicredit Banca d’Impresa su un campione di 834
imprese clienti (UBI 2004) rivelava che: a) nel 58% dei casi
il direttore generale ha legami di parentela col proprietario; b) nel 78% dei casi il CdA non comprende nessun
amministratore indipendente; c) nell’87% dei casi l’impresa non si è dotata di un Comitato Audit interno; d)
nell’82% dei casi l’affidamento creditizio è basato su
garanzie reali e/o patrimoniali personali dell’imprenditore.
Più interessante è il risultato di una semplice analisi econometrica con modelli logit sul campione: strutture di impresa più aperte al capitale esterno e a una governance più
codificata e trasparente tendono ad essere associate a: a)
struttura finanziaria più equilibrata, come rapporto tra
scadenze dell’attivo e del passivo; b) minori garanzie personali dell’imprenditore; c) minor ricorso al multiaffidamento; d) minor costo medio del debito; e) minor probabilità di razionamento del credito sulla base del rapporto
utilizzato/accordato.
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
Il “punto” sui Distretti Industriali
di Marco Fortis*
gior numero di specializzazioni distrettuali
significative misurate a livello di sistemi
locali del lavoro, pari a 178, per un numero totale di 349.500 addetti. Seguono
per importanza l’Automazione-meccanica,
con 124 casi di specializzazioni distrettuali
e 161.511 addetti, e l’Arredo-casa, con 91
specializzazioni distrettuali e 155.445
addetti. Un minor numero di casi di specializzazioni territoriali, ma pur sempre
importante, caratterizza gli alimentari e
bevande e il comparto carta-gommaplastica.
Le quote di mercato mondiale che i DI
detengono nei propri settori di attività
esprimono il ruolo fondamentale svolto dai
DI nell’economia del nostro paese.
Ricordiamo, a scopo esemplificativo, il
distretto marchigiano delle cappe aspiranti: l’export della provincia di Ancona, dove
è insediato il distretto, è arrivato a rappresentare nel 1999 il 55% delle esportazioni
mondiali di questa categoria di prodotti.
Un altro caso significativo di leadership italiana è quello dello storico distretto delle
piastrelle ceramiche incentrato su Sassuolo
e Fiorano Modenese, la cui quota nell’export mondiale del settore è del 41%.
Dal 1991 al 2001 l’export distrettuale italiano è cresciuto nel complesso del 169%
circa, con una dinamica ampiamente positiva per tutti i comparti. Ma dopo il 2001,
a causa principalmente dell’ingresso della
Cina nel WTO, con la sua concorrenza
asimmetrica e la contraffazione dei marchi
delle aziende italiane, i distretti dei beni
per la persona e la casa hanno registrato
un andamento negativo a cui il migliore
andamento dei distretti meccanici, alimentari e tecnologici non è riuscito a sopperire. Di conseguenza, l’export complessivo
distrettuale ha subìto un calo dell’1,9% tra
il 2001 e il 2004 e i deboli segnali di recupero emersi nel corso del 2004 non
hanno trovato ulteriore slancio nei primi
nove mesi del 2005.
Le risposte avanzate da più parti alle sfide
competitive emerse dal nuovo contesto
internazionale, dominato dall’avvento
della globalizzazione e dall’esplosione
della concorrenza asimmetrica cinese,
hanno dato origine ad un dibattito, spesso confuso, sui DI in cui sono emerse posizioni nettamente “schierate”, pro o contro.
C’è chi ha esaltato il ruolo dei DI con toni
a volte eccessivi e chi invece ha fatto ricadere sui medesimi colpe che invero essi
non meritano argomentando che i problemi attuali dell’Italia dipenderebbero
soprattutto dal suo modello di specializzazione a cui si rimproverano essenzialmente due limiti: il non possedere un significativo numero di grandi imprese e il non
essere presente nei settori ad alta tecnolgia. A nostro avviso è certamente sbagliato pensare che l’Italia possa affrontare le
sfide economiche e tecnologiche del futuro facendo leva soltanto sulla risorsa tradizionale dei DI, come è sovente avvenuto
in passato in vari periodi, ma è innegabile
che i DI, le PMI e i settori classici del “made
in Italy” rappresentino una irrinunciabile e
preziosa risorsa. Si pensi al tema dell’innovazione e alle possibilità di intraprendere
sinergie tra Grandi Gruppi, Medie imprese, Distretti, Università e Centri di ricerca
per il rilancio della competitività italiana; al
tema della crescita dimensionale delle
imprese in cui i Distretti rappresentano
incubatori preziosi di quelle medie imprese strutturate considerate la migliore risposta del “made in Italy” alle nuove sfide globali. E non si dimentichi il contributo
ampiamente positivo delle specializzazioni
distrettuali del made in Italy al saldo commerciale italiano, pur non essendo ormai
più sufficiente a compensare il crescente
deficit energetico (che nel 2005 ha toccato i 40 miliardi di euro) e il passivo strutturale di autoveicoli, chimica-farmaceutica e
elettronica.
Alla luce della centralità del ruolo dei
distretti per il rafforzamento del sistema
competitivo italiano, consideriamo di rilevante importanza le recenti norme sui
Distretti contenute nella Legge Finanziaria
2006. È auspicabile che da misure di questo tipo, su cui vi è una convergenza
bipartisan, possa arrivare nuovo impulso
alle eccellenze distrettuali manifatturiere.
GLOBAL COMPETITION
ome è noto, i Distretti Industriali (DI),
le piccole e medie imprese (PMI) e i settori cosiddetti “tradizionali-innovativi” rappresentano tre facce tra loro connesse e
tutte egualmente caratterizzanti il sistema
manifatturiero italiano.
Tra le numerose “mappe” dei distretti proposte da varie fonti, ricordiamo la recente
individuazione dei 156 distretti Istat. Sulla
base dei risultati del censimento del 2001,
l’Istat ha rivisto la geografia e la composizione comunale dei Sistemi locali del lavoro (SLL) in cui è suddiviso il territorio italiano. La nuova classificazione ha individuato 686 SLL a partire dai quali sono stati
successivamente riconosciuti 156 “Distretti
manifatturieri di PMI”.
Secondo l’Istat le persone che nel 2001
lavoravano nei 156 SLL-DI Istat rappresentano il 25,4% degli occupati dell’intero
Paese in tutti i settori produttivi, mentre le
unità locali ammontano al 24,8% del totale. In particolare, l’occupazione manifatturiera dei 156 DI assomma nel 2001 a
1.928.602 persone, cioè il 39,3% di quella totale italiana. L’Istat ricorda inoltre che
le industrie principali dei distretti industriali sono quelle tipiche del made in Italy: il
tessile e abbigliamento (il 28,8% del totale); la meccanica (24,4%); i beni per la
casa (20,5%); la pelletteria e calzature
(12,8%); l’alimentare; l’oreficeria e strumenti musicali. I distretti così caratterizzati
sono 148 (il 94,8% di tutti i distretti); si rilevano poi 4 distretti dell’industria della
carta e cartotecnica e 4 dell’industria della
fabbricazione di prodotti in gomma e
materie plastiche.
Per analizzare la multiforme realtà dei DI
italiani la Fondazione Edison ha elaborato
una mappa dei principali distretti industriali italiani dei settori tipici del “made in
Italy”, non alternativa ma complementare
a quella dell’Istat, facendo riferimento ai
686 Sistemi Locali del Lavoro del 2001.
In base alla mappa della Fondazione
Edison, il comparto Abbigliamento-moda
(che oltre al tessile-abbigliamento include
anche pelletteria, calzature, oreficeria e
occhialeria) è quello che presenta il mag-
C
4 - 2006
*Presidente della Commissione
governativa sui distretti industriali
9
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
REDDITIVITÀ
E FINANZIAMENTI
DELLE IMPRESE ITALIANE
Utilizzando i dati dei bilanci aggregati di quasi 9.600 imprese nel biennio 2002-2004,
l’Autore esamina i risultati economici-finanziari dell’industria italiana realizzati nel 2004.
Emergono 12 profili tipici che contraddistinguono altrettanti sottoinsiemi di imprese…
grado di utilizzo della capacità produttiva è salito, anche
n questa prima parte dell’articolo vengono esaminati
se in misura assai contenuta, ed il valore aggiunto a prezsinteticamente i risultati economico-finanziari dell’induzi costanti dei settori manifatturieri ha sostanzialmente
stria italiana realizzati nel corso del 2004. L’analisi è conarrestato la caduta degli anni precedenti, a fronte di un
dotta sui bilanci aggregati (Tabella 1) di un insieme chiuaumento del 3,5% a prezzi correnti.
so di quasi 9600 imprese (9.594) che copre il triennio
L’aggregato delle 9600 imprese, espressivo soprattutto
2002-2004.
delle medie e delle grandi imprese, ha realizzato risultati
Nel 2004 questo aggregato, che include anche 36
significativamente più favorevoli di quelli nazionali: i ricaimprese pubbliche, ha generato ricavi per 465 miliardi di
vi sono aumentati del 5,7% (1% nel 2003) ed il valore
euro, valore aggiunto per 101 miliardi con un’occupazione
aggiunto del 5,6% (2% nel 2003). La crescita è stata più
di oltre 1,5 milioni di dipendenti. Nel complesso le 9600
intensa nei settori dei prodotti in metallo (+9,1% di increimprese rappresentano il 44% del valore aggiunto dell’inmento dei ricavi), degli apparecchi di precisione, legno e
dustria manifatturiera ed il 37,3% dell’occupazione
mobili, macchine e materiale meccanico, elettrico ed eletdipendente.
tronico, e chimico, nel quale peraltro la componente
Le imprese pubbliche coprono poco oltre il 4% dei ricaprezzi è stata rilevante.
vi totali delle imprese esaminate e poco meno del 4% delAnche il settore degli autoveicoli e componenti ha
l’occupazione. Le imprese private di maggiori dimensioni,
manifestato segni di ripresa con un aumento dei ricavi del
con ricavi superiori a 250 milioni, rappresentano il 30%
3,5%, a fronte di una diminuzione dello 0,2% dell’anno
del valore aggiunto complessivo ed oltre il 33% dei ricavi
precedente. Per contro i settori tessile (-2,6% dei ricavi) e
e dell’occupazione. Il valore aggiunto generato dai settopelli-cuoio e abbigliamento (variazione nulla) hanno
ri ad alta tecnologia è pari a poco più del 10% del totale,
messo chiaramente in luce la crisi
con un’occupazione del 7,2%, i setche caratterizza uno dei tradiziotori di specializzazione rappresentanali punti di forza dell’industria
no il 19% del valore aggiunto e
nazionale: in entrambi i comparti,
quasi il 20% dell’occupazione, i setperaltro, l’esercizio 2004 ha fatto
tori di scala il 40,4% ed il 39,7%
registrare qualche lieve migliorarispettivamente, i settori tradizionali
mento rispetto all’anno preceil 30% ed il 33,1%1.
dente.
Secondo i dati delle statistiche
La debolezza dell’attività pronazionali, nel corso del 2004 si è
duttiva si è inevitabilmente riflessa
registrato un certo miglioramento,
FRANCO VARETTO
sui livelli di occupazione: a fronte
anche se lieve, dell’attività manifatdi una diminuzione dello 0,6%
turiera: la produzione industriale è
Direttore della Centrale dei Bilanci. Docente al
Politecnico di Torino. Autore di numerose pubdelle unità di lavoro fatta registracresciuta dello 0,5% (rispetto ad
blicazioni in materia di economia e finanza
re a livello nazionale nei settori
una caduta dello 0,8% nel 2003), il
aziendale, con particolare rilievo alla valutaziomanifatturieri, le imprese censite
ne del rischio di credito, tra cui Il rischio creditiSi tratta della nota tassonomia di Pavitt;
hanno ridotto il numero dei
zio. Genetic Algorithms applications in the
per i dettagli si rinvia al volume della
analysis of insolvency risk, sul Journal of
dipendenti dell’1%. La riduzione
Centrale dei Bilanci, Economia e Finanza
Banking and Finance, n. 22, 1998, e Misura e
dell’occupazione è estesa a tutti i
delle Imprese Italiane, anni vari, Bancaria
controllo (con G. Szego), UTET, 1999.
Editrice, Roma.
comparti ed a quasi tutte le classi
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
I
10
1
2
Dal punto di vista finanziario il 2004 è stato un anno
caratterizzato dalla riduzione dei fabbisogni di finanza
esterna delle imprese. Il pur lieve miglioramento dei margini operativi ha condotto ad un piccolo aumento dell’autofinanziamento netto, favorito anche dalla diminuzione
relativa dell’entità dei dividendi distribuiti (dal 2% circa del
fatturato del 2003 all’1,1% del 2004). In parallelo, la ridotta dinamica dei volumi produttivi in termini monetari ha
contenuto il fabbisogno per circolante operativo mentre
la limitata accumulazione di capitale ha mantenuto complessivamente bassi gli investimenti fissi.
Ne è derivata quindi una riduzione dei Saldi Finanziari
Lordi, che anzi sono risultati positivi per quasi 1 punto percentuale dei ricavi (-0,6% nel 2003). La gestione operativa dell’aggregato delle imprese censite ha pertanto generato un lieve surplus di risorse finanziarie: tale risultato va
interpretato più come una manifestazione della debolezza dell’attività produttiva delle imprese che un segnale di
robustezza reddituale e finanziaria.
Anche gli investimenti (netti) in partecipazioni sono
diminuiti rispetto allo scorso esercizio, peraltro più che
compensati dalla lievitazione dei crediti finanziari.
Il Saldo Finanziario Netto (SFN), che tiene conto anche
degli investimenti finanziari e corrisponde al fabbisogno
di finanza esterna netta, è migliorato sensibilmente rispetto al 2003, collocandosi intorno allo 0,8% dei ricavi,
rispetto ad un fabbisogno del 2,1% dell’anno precedente2.
Nell’aggregato gli aumenti di capitale azionario delle
imprese (quasi 1,5% dei ricavi) sono stati più che sufficienti ad assorbire il fabbisogno ed hanno consentito la diminuzione dei livelli di indebitamento e l’incremento della
liquidità disponibile.
Ne è conseguito un complessivo rafforzamento delle
strutture finanziarie (il rapporto tra patrimonio netto e
debiti finanziari è passato dal 93% circa al 103,5%), dei
livelli di circolante netto (dal 10,1% dell’attivo all’11,5%) e
della flessibilità finanziaria (la liquidità è passata dal 6% al
6,4% dell’attivo) ed un miglioramento della struttura per
scadenza dell’indebitamento, la cui componente a breve
termine si è ridotta dal 54,3% del totale al 53,9%.
La riduzione dei fabbisogni operativi ed il miglioramento dei Saldi Finanziari hanno riguardato la generalità delle
classi dimensionali e dei comparti industriali: la diminuzione del SFN è stata più intensa nelle imprese maggiori e
nel comparto dei settori ad alta tecnologia; in questi ultimi il SFN assume valori positivi per l’effetto combinato dell’aumento dell’autofinanziamento operativo, della significativa diminuzione dei dividendi distribuiti e della riduzione relativa degli investimenti.
Gli aumenti di capitale azionario più rilevanti sono stati
concentrati nelle società maggiori e nei comparti dei settori ad alta tecnologia e dei settori di scala: negli stessi
aggregati si sono registrate le riduzioni più consistenti di
Un valore negativo del SFN esprime un fabbisogno di finanza, mentre un valore positivo indica un surplus.
GLOBAL COMPETITION
dimensionali, con punte del -2,3% nelle società di maggiori dimensioni e del -1,1% nei settori di scala e di specializzazione.
Ne è derivata un’apprezzabile ripresa della produttività
del lavoro, salita del 6,6% sul totale delle imprese, che ha
consentito un lieve spostamento della distribuzione del
valore aggiunto a favore dei margini lordi, di 1,7% punti
percentuali. L’aumento del costo del lavoro pro-capite è
stato infatti pari al 3,7%, inferiore alla crescita della produttività. Sono soprattutto le grandi imprese ed il comparto dei settori di scala a beneficiare del miglioramento della
produttività, mentre la scarsa performance dei settori tradizionali ha mantenuto l’aumento del valore aggiunto procapite a livelli inferiori a quelli del costo del lavoro. Il settore
di scala è anche l’unico comparto in cui i margini lordi sul
fatturato siano cresciuti.
Gli investimenti fissi dell’aggregato, valutati a prezzi
costanti in base al deflatore implicito dell’ISTAT, sono diminuiti del 4,2% rispetto al 2003; considerati a prezzi correnti e rapportati allo stock lordo di immobilizzazioni materiali dell’anno precedente, gli investimenti hanno fatto
registrare una riduzione del tasso di accumulazione di
circa 0,5 punti percentuali (dal 7,5% del 2003 al 7% del
2004). Accanto al rallentamento della formazione di
nuovo capitale sono diminuiti anche il tasso di disinvestimento, il tasso di ammortamento e la quota delle immobilizzazioni in corso sul totale delle immobilizzazioni lorde,
confermando l’attenuazione del ricambio tecnologico
delle imprese manifatturiere. Un aumento del tasso di
accumulazione, peraltro di lievissima entità, si registra unicamente nelle imprese di maggiori dimensioni.
Non vi sono state variazioni di rilievo nell’entità del circolante operativo.
Al netto degli ammortamenti e degli accantonamenti i
margini operativi sui ricavi sono lievemente migliorati di
circa 0,7 punti percentuali, consentendo un modesto
recupero della redditività sul capitale investito operativo,
che passa dal 7,2% del 2003 all’8,9% del 2004. È soprattutto nelle imprese di maggiori dimensioni (con oltre 250
milioni di ricavi) che la redditività operativa è migliorata
(circa 4 punti percentuali), riflettendosi, per valori più contenuti, sul comparto dei settori di scala (+2,5 punti) e su
quello dei settori ad alta tecnologia (+2 punti), mentre la
redditività operativa dei settori tradizionali è rimasta inalterata. Nonostante l’apprezzabile recupero di produttività,
la redditività dei settori di scala rimane la più bassa (6,4%
del capitale investito operativo), pari a meno della metà di
quella dei settori ad alta tecnologia (13,7%) e significativamente più bassa di quella dei settori di specializzazione
(11,1%) e tradizionali (9%). L’unico settore che realizza
perdite a livello operativo è quello degli autoveicoli e componenti, mentre, come di consueto, la farmaceutica e gli
strumenti di precisione sono i settori più redditizi.
4 - 2006
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11
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
indebitamento ed i più intensi rafforzamenti delle strutture finanziarie. La lieve diminuzione dell’indebitamento
finanziario ha consentito alle imprese di contenere il peso
degli oneri finanziari sul conto economico: nel corso del
2004 si è registrata una riduzione di 0,25 punti percentuali del rapporto tra oneri finanziari e ricavi e di quasi 2
punti percentuali del rapporto tra oneri finanziari netti
e margine operativo lordo. Il decremento del peso
degli oneri finanziari sul conto economico è prevalentemente concentrato nelle società di maggiori dimensioni e nel comparto dei settori di scala; negli altri
comparti le variazioni sono state assai contenute.
Nel complesso la combinazione dei diversi effetti economici e finanziari ha determinato un piccolo incremento
della redditività del capitale investito: il ROA è cresciuto di
meno di un punto percentuale, mentre il ROI ante componenti straordinarie ed imposte è aumentato di 1,6
punti percentuali. Dopo le partite straordinarie e le imposte, il ROE è cresciuto di ben 6,5 punti percentuali, passando dal -0,6 % del 2003 al 5,9% del 2004. A tale incremento hanno contribuito in misura significativa gli
effetti contabili del disinquinamento fiscale rilevato nei
Tabella 1 - Bilanci aggregati - dati di sintesi
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
TOTALE IMPRESE
2002 2003
2004
12
VARIAZIONE % RICAVI NETTI
VARIAZIONE % DIPENDENTI
VARIAZIONE % VALORE AGGIUNTO
Var% VAL. AGG./DIP
Var% COSTO LAV./DIP
1,02
-0,05
2,02
2,06
3,48
5,7
-0,96
5,56
6,59
3,70
CLASSE FATTURATO
OLTRE 250 m. n.
2002 2003
2004
2,09
-0,43
6,94
7,39
4,38
6,92
-2,33
10,28
12,92
4,35
59,46
22,03
18,92
6,94
2,02
0,36
2,33
1,61
0,73
-0,14
2,02
-1,43
SETTORI AD ALTA
TECNOLOGIA
2002 2003
2004
-22,13
0,69
4,38
-0,74
4,12
5,15
2,22
2,09
2,58
2,24
SETTORI DI
SPECIALIZZAZIONE
2002 2003
2004
-0,54
-0,15
-0,45
-0,32
3,01
4,56
-1,17
2,43
3,65
3,10
% SUI RICAVI
CONSUMI
SERVIZI
VALORE AGGIUNTO OPERATIVO
MOL
MON
PROVENTI FINANZIARI NETTI
UTILE CORRENTE ANTE ONERI FIN.
ONERI FINANZIARI
UTILE CORENTE
PARTITE STRAORDINARIE
IMPOSTE
RISULTATO NETTO RETTIFICATO
55,61
23,26
21,47
7,82
3,78
0,60
4,12
1,82
2,30
0,38
2,23
0,46
55,44
23,48
21,68
7,71
3,43
0,52
3,67
1,70
1,96
0,21
2,34
-0,17
55,88
23,06
21,65
8,07
4,11
0,79
4,58
1,45
3,13
1,27
2,56
1,84
60,17
22,03
18,06
6,30
1,61
0,73
2,26
1,68
0,58
0,20
1,90
-1,11
59,57
21,41
19,51
8,10
3,48
0,81
4,18
1,28
2,90
1,83
2,64
2,08
51,91
21,03
28,33
12,08
8,68
1,16
9,31
1,62
7,70
0,88
4,85
3,74
50,86
21,26
28,58
11,38
7,00
1,13
7,58
1,68
5,89
-0,18
5,13
0,58
50,72
21,41
28,18
11,28
7,89
0,52
8,17
1,32
6,85
1,79
4,69
3,95
52,11
23,25
25,22
9,06
5,49
0,91
5,33
1,93
3,40
0,49
2,40
1,49
51,74
23,63
25,24
8,54
4,69
0,79
4,65
1,94
2,72
0,37
2,49
0,59
52,67
23,23
24,73
8,45
4,99
0,83
5,25
1,60
3,65
2,05
3,00
2,69
ROE
ROA
M.O.N./CAP. INVEST.OPERATIVO
M.O.N/FATTURATO
FATTUR./CAP. INVEST.OPERATIVO
RICAVI PRO CAPITE (ML)
V.A. PRO CAPITE (ML)
COSTO LAVORO PRO CAPITE (ML)
TASSO DI INVESTIMENTO
TASSO DI ACCUMULAZIONE
IMMOB.TECN. LORDE PRO CAP.(ML)
V.A./IMMOB.TECNICHE LORDE
1,55
-0,57
3,93
3,48
8,16
7,22
3,78
3,44
2,16
2,10
275,47 278,42
59,15
60,37
37,61
38,92
.
3,79
.
6,91
140,30 149,32
42,16
40,43
5,91
4,38
8,94
4,12
2,17
297,17
64,35
40,36
3,58
6,64
156,88
41,02
-3,78
-5,01
6,77
2,22
2,30
4,25
4,22
5,09
9,12
1,61
2,02
3,48
2,62
2,52
2,62
353,54 362,51 396,86
63,86
68,58
77,44
41,59
43,41
45,30
.
3,51
3,52
.
6,59
6,84
178,50 187,86 198,32
35,77
36,51
39,05
7,47
2,96
23,26
1,26
18,46
88,88
50,98
.
.
6,79
87,73
26,00
2,83
3,00
16,48
1,26
13,08
88,22
53,08
3,44
7,37
6,88
95,48
25,08
7,05
2,71
20,84
1,28
16,28
90,50
54,27
3,00
6,90
6,78
100,66
25,11
5,21
4,91
12,30
5,49
2,24
236,70
59,70
38,24
.
.
98,51
60,60
2,01
4,23
10,08
4,69
2,15
235,77
59,51
39,39
3,18
6,81
108,27
54,97
8,59
4,70
11,08
4,99
2,22
249,43
61,68
40,61
2,98
6,40
114,57
53,84
LIQUID. CORRENTE
GIORNI DI CREDITO AI CLIENTI
GIORNI DI CREDITO DAI FORN.
GIORNI SCORTA MEDIA
CIRC.COMM.CORRENTE/FATT.
114,88 118,82
113,85 116,24
111,15 108,02
75,92
77,13
19,13
20,04
121,93
111,62
107,18
77,46
19,57
102,68 104,58 108,77
95,71 104,42 90,45
109,33 105,51 102,05
58,95
57,96
56,61
9,88
10,79
10,43
33,05
94,07
71,96
.
69,90
24,14
96,44
71,93
108,66
68,82
22,12
94,22
70,81
118,09
70,37
118,36
127,74
125,88
96,54
19,81
120,31
125,10
118,51
99,53
21,59
122,90
121,64
119,95
99,52
20,33
CAP. NETTO/DEBITI FIN. TOTALI
DEB. FIN. B/T / DEB. FIN. TOTALI
ONERI FIN./DEBITI FINANZIARI
ONERI FIN. NETTI/M.O.L.
91,20
57,16
5,40
16,53
92,98
54,31
4,87
15,29
103,47
53,86
4,44
13,30
92,62
52,09
5,03
18,76
6,43
13,38
-1,21
4,23
5,45
14,80
-0,61
3,55
4,81
11,73
-1,29
4,13
98,23
56,57
6,05
13,86
98,89
57,92
5,53
12,94
107,25
55,19
4,62
12,13
8,49
3,91
1,02
3,48
-0,60
1,50
-2,10
1,27
1,38
-0,51
0,04
8,97
5,06
0,65
3,49
0,93
1,70
-0,77
1,51
-0,05
-0,11
0,58
12,68
2,95
0,96
3,70
-1,71
2,99
-4,71
2,56
4,77
-4,26
-1,62
13,95
6,65
0,03
3,76
2,87
1,52
1,35
2,08
-1,69
-1,53
0,22
8,86
4,22
1,79
3,38
-0,95
1,98
-2,93
0,58
0,35
1,40
-0,60
9,41
4,77
0,20
2,87
1,70
2,23
-0,53
0,88
1,07
-0,44
0,98
% SUI RICAVI
AUTOFIN. ANTE GEST. FIN. ED IMP.
AUTOFINANZIAMENTO NETTO
- VAR.CIRCOLANTE OPERATIVO
- INVESTIMENTI FISSI
SALDO FINANZIARIO LORDO
- INVESTIMENTI FINANZIARI NETTI
SALDO FINANZIARIO NETTO
+ AUMENTI DI CAPITALE AZIONARIO
+ VAR. DEBITI FINANZIARI MLT
+ VAR. DEBITI FINANZIARI BT
= VAR.LIQUIDITA'
92,82
49,76
4,63
15,58
112,28
48,00
4,09
11,51
8,02
3,16
0,95
3,45
-1,24
2,55
-3,79
2,03
1,24
-0,47
-0,99
9,23
5,16
0,28
3,65
1,23
2,02
-0,79
2,45
-0,33
-1,31
0,02
NB: per le definizioni delle variabili si rinvia al volume della Centrale dei Bilanci, Economia e Finanza delle Imprese Italiane, anni vari, Bancaria Editrice, Roma.
.
.
SETTORI DI SCALA
2002 2003
2004
1,72
-0,34
4,55
4,91
3,93
7,72
-1,06
8,39
9,53
3,81
58,65
21,57
19,97
6,59
1,49
0,49
2,01
1,80
0,21
0,25
1,80
-1,34
58,26
21,80
20,53
6,91
1,68
0,26
1,92
1,61
0,30
0,07
1,86
-1,48
58,91
21,03
20,66
7,67
2,66
0,84
3,37
1,34
2,03
1,34
2,25
1,12
-4,57
2,00
3,50
1,49
2,35
283,34
56,59
37,91
173,38
32,64
-5,12
1,92
3,88
1,68
2,31
289,19
59,37
39,40
4,27
6,55
184,02
32,26
106,99
106,96
116,77
52,77
13,48
93,21
55,56
5,45
19,89
SETTORI TRADIZIONALI
2002
2003
2004
1,57
0,72
0,89
0,16
2,85
3,84
-0,96
2,15
3,14
4,01
55,12
25,05
20,00
8,21
4,95
0,21
4,84
1,81
3,03
0,35
2,09
1,29
55,33
25,30
19,86
7,84
4,48
0,42
4,42
1,71
2,72
0,34
2,26
0,79
55,61
25,36
19,54
7,62
4,45
0,47
4,41
1,55
2,86
0,74
2,30
1,30
3,70
3,48
6,41
2,66
2,41
314,85
65,03
40,90
4,15
6,58
193,99
33,53
4,87
5,27
10,05
4,95
2,03
279,99
55,99
32,99
.
.
131,31
42,63
2,90
4,75
8,87
4,48
1,98
282,37
56,08
33,93
3,76
7,52
138,55
40,48
4,58
4,74
8,99
4,45
2,02
296,06
57,84
35,29
3,48
6,91
146,62
39,45
109,54
116,24
114,23
53,38
14,72
115,07
105,19
110,85
52,84
14,64
119,58
112,95
100,12
64,11
23,84
123,04
110,38
96,89
65,06
24,04
124,08
108,66
97,36
64,70
23,77
97,03
54,63
4,89
16,82
111,69
52,60
4,57
13,32
78,90
59,18
5,34
16,57
83,23
57,53
4,93
16,43
88,16
59,10
4,64
16,19
7,89
3,81
1,54
3,95
-1,69
1,59
-3,28
2,08
0,38
-0,22
-1,04
8,40
5,13
0,97
3,89
0,27
1,58
-1,30
2,46
-0,02
-0,75
0,39
8,54
4,13
0,69
3,14
0,30
0,95
-0,65
0,44
0,94
0,13
0,86
8,45
4,48
0,42
3,24
0,82
1,14
-0,32
0,67
-0,33
0,65
0,68
to netto dei settori di scala si colloca al livello più basso dei
diversi comparti considerati in questa sede. Gravi perdite
sono state realizzate dal settore autoveicoli e componenti, mentre perdite limitate hanno riguardato il settore tessile (ROE pari a -0,6%); tutti gli altri settori hanno chiuso
l’esercizio in utile; i tassi di profitto più consistenti sono
stati realizzati nei settori degli apparecchi di precisione,
stampa ed editoria, farmaceutica e minerali non metalliferi.
In sintesi, il recupero di redditività operativa ed il miglioramento delle strutture finanziarie avvenuto nel 2004 ha
riguardato soprattutto le imprese di maggiori dimensioni
ed i comparti industriali caratterizzati da esse: a fronte di
una certa ripresa dei ricavi nominali, tali imprese hanno
ridotto l’incidenza dei costi per servizi esterni e mantenuto quasi stabili costi per consumi di materie prime e materiali. L’aumento del valore aggiunto è stato pertanto un
po’ più intenso di quello dei ricavi; su di esso si è innestata la ulteriore riduzione dei livelli occupazionali, peraltro
comune a tutti i comparti produttivi, che ha contribuito
ad accelerare la crescita della produttività. Il miglioramento dei margini, ancorché lieve nel complesso, ha determinato da un lato l’aumento della redditività del capitale
investito e dall’altro l’incremento dei livelli di autofinanziamento. Ad essi si sono contrapposti fabbisogni finanziari
di limitata entità, dati i bassi tassi di accumulazione in capitale fisso e circolante, che hanno ridotto di molto le necessità di finanza esterna netta, rispetto all’esercizio precedente. Nel 2004 gli aumenti di capitale azionario per contro sono stati di entità più consistente nei confronti del
2003 e non solo hanno assorbito il fabbisogno netto, ma
hanno condotto anche al rafforzamento delle strutture
finanziarie. L’iscrizione di partite di origine contabile connesse al disinquinamento fiscale dei bilanci ha ulteriormente portato al miglioramento dei livelli di redditività di
queste imprese.
Bassa accumulazione di capitale e riduzione dei livelli di
occupazione, ovvero, in altri termini, diminuzione relativa
dei livelli di fattori produttivi, spiegano buona parte della
differenza tra i risultati aggregati delle imprese maggiori e
quelli delle imprese medie e minori. L’elemento positivo
che emerge con maggiore evidenza dai dati riguarda l’inserimento di risorse fresche da parte degli azionisti nelle
imprese a titolo di aumento di capitale: se esse hanno
consentito la diminuzione dei tassi di indebitamento ed il
rafforzamento patrimoniale, anche a causa della stagnazione produttiva, è pure vero che rappresentano una
manifestazione tangibile del grado di fiducia degli
imprenditori nel futuro delle loro imprese.
Le preoccupazioni maggiori sono concentrate in alcune
aree di crisi specifiche che riguardano soprattutto il settore automobilistico, per la sua intensità, e l’insieme del tessile-abbigliamento, per la sua diffusione.
Applicando il Sistema di Analisi dei Rischi di Insolvenza
della Centrale dei Bilanci si ha una sintesi degli effetti dei
movimenti economici e finanziari del 2004: sul totale
GLOBAL COMPETITION
conti economici, tra le partite straordinarie.
Il miglioramento della redditività ha riguardato la maggior parte delle classi dimensionali e dei comparti industriali: le variazioni più favorevoli si sono registrate nelle
imprese maggiori e nel comparto dei settori di scala.
Dopo le componenti straordinarie, inclusive delle partite
contabili del disinquinamento fiscale ed al netto delle
imposte, il ROE delle società più grandi è cresciuto di
quasi 11,8 punti percentuali (dal -5% al 6,8%), mentre
quello dei settori di scala è aumentato di oltre 8,8 punti
(dal -5,1% al 3,7%). Pure considerando il significativo
aumento di redditività, per parte non trascurabile derivante peraltro da partite di natura contabile, il tasso di profit-
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
13
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
delle quasi 9.600 imprese censite, il 51,7% circa si colloca
nell’area di solvibilità, rispetto al 50,9% dell’anno precedente, con un miglioramento di 0.74 punti percentuali;
peraltro anche l’area di rischio è aumentata, anche se di
soli 0,2 punti (dal 17,4% al 17,6%): nell’esercizio si è quindi verificata una certa polarizzazione delle situazioni aziendali verso i due estremi (solvibilità e rischio), riducendo l’area intermedia delle imprese vulnerabili. In realtà, un’analisi per classi dimensionali mette in luce che lo spostamento verso l’area di rischio caratterizza soprattutto le piccole
imprese, mentre quelle maggiori, per i motivi indicati in
precedenza, hanno realizzato un generale spostamento
favorevole verso l’area di solvibilità: le società con oltre
250 milioni di euro di ricavi hanno infatti ridotto di quasi
5,8 punti percentuali la loro appartenenza all’area di
rischio, scesa dal 17,8% al 12%, ed aumentato di 6,2
punti la presenza nell’area di solvibilità (dal 58,7% al
64,9%).
14
Una tassonomia delle imprese industriali in 12
idealtipi
I bilanci aggregati se da un lato consentono di disporre
di un quadro complessivo chiaro e sintetico dall’altro compensano posizioni specifiche assai differenziate e non permettono di esaminare oltre un certo limite i profili strutturali delle imprese. L’analisi delle distribuzioni statistiche e la
costruzione di tassonomie specifiche sono due tra gli
approcci più utilizzati per dischiudere il contenuto dei dati
aggregati e far emergere le specificità più rilevanti delle
imprese. In questa sede, dati gli scopi dell’analisi, si è preferito adottare la metodologia della costruzione di una
tassonomia economico-finanziaria descrittiva delle imprese industriali italiane. Essa rappresenta una via intermedia
tra il dato aggregato, sia pure esaminato per classi dimensionali, aree geografiche e comparti settoriali, e la massima disaggregazione, costituita dai dati delle singole
imprese.
Preso in esame un certo numero di variabili rilevanti, l’obiettivo della tassonomia consiste nell’identificare i sottoinsiemi omogenei in cui può essere scomposta la popolazione delle imprese da esaminare. I sottoinsiemi non sono
costruiti a priori, quindi, come nel caso delle classi dimensionali o dei settori merceologici, ma derivano direttamente dai profili economico-finanziari delle imprese: ciascun
sottoinsieme raggruppa tutte le imprese che hanno tra di
loro il profilo più simile e nello stesso tempo più distante
da quello degli altri sottoinsiemi.
Poiché si considerano contemporaneamente più
descrittori economico-finanziari, la vicinanza dei profili
aziendali viene valutata su base multivariata, dopo aver
provveduto a gestire i valori anomali, standardizzare le
variabili originali ed a studiarne le correlazioni.
La scelta delle variabili da considerare e l’individuazione
del numero e tipologia dei sottoinsiemi comporta un certo
grado di soggettività, per i numerosi elementi che devono
essere contemperati: stabilità temporale dei profili identificati, riconoscibilità ed interpretabilità economica e finanziaria dei sottoinsiemi, numerosità relativa delle imprese che li
compongono, differenziazione dei profili, e così via.
Dall’analisi dell’intero triennio 2002-2004 sono emersi
12 profili tipici che contraddistinguono altrettanti sottoinsiemi di imprese, che sinteticamente possono essere definiti come segue (Tabella 2):
› Sottoinsieme 1: Profilo Medio
› Sottoinsieme 2: Imprese Eccellenti
› Sottoinsieme 3: Imprese a Bassa Intensità
di Capitale/Prodotto
› Sottoinsieme 4: Imprese Robustissime
› Sottoinsieme 5: Imprese Statiche
› Sottoinsieme 6: Imprese Fragilissime
› Sottoinsieme 7: Imprese Finanziarizzate
› Sottoinsieme 8: Imprese ad Alta Intensità
di Capitale/Lavoro
› Sottoinsieme 9: Imprese a Bassa Intensità
di Capitale/Lavoro
› Sottoinsieme 10: Imprese ad Alta Intensità di Circolante
Operativo
› Sottoinsieme 11: Imprese ad Alta Intensità di Leva
Commerciale
› Sottoinsieme 12: Disastri
Profilo medio
Questo sottoinsieme raccoglie il 14,3% dei bilanci esaminati, composto prevalentemente da imprese di dimensioni
intermedie, con circa 110 dipendenti e 31 milioni di ricavi
medi per impresa. Il suo è un profilo che non si caratterizza in modo specifico e pertanto, tenendo conto che questo sottoinsieme è quello più numeroso, è stato definito
come profilo tipo delle medie imprese industriali: la crescita media annua dei ricavi si aggira intorno al 4,1%, con
una redditività sia operativa che netta non elevata ed una
struttura finanziaria non particolarmente robusta.
Eccellenti
Questo sottoinsieme, che rappresenta il 9,4% dei bilanci, con dimensione media pari a 123 dipendenti ed oltre
33 milioni di euro di ricavi, è caratterizzato dai tassi di crescita più elevati, altissima redditività combinata con strutture finanziarie molto robuste. Il tasso medio di sviluppo
dei ricavi è pari al 7,6%, mentre la crescita del valore
aggiunto operativo raggiunge quasi il 12% e la creazione
di nuova occupazione è pari al 2,8%, il valore più alto tra
i diversi sottoinsiemi. La redditività sul capitale investito
operativo è del 41,9%, mentre quella complessiva sul
totale dell’attivo (ROA) è del 15% circa e la redditività
netta per gli azionisti supera il 22,5%.
Gli elevati tassi di profitto derivano essenzialmente da
margini sui ricavi molto elevati, più che da una rapida
rotazione dei capitali, che pure si colloca a livelli assai consistenti. I rilevanti margini unitari sono coerenti con valori
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
Bassa intensità di capitale/prodotto
In questo sottoinsieme è collocato il 7,4% dei bilanci,
con un’occupazione media di poco più di 70 dipendenti
e 41,3 milioni di euro di ricavi. La caratteristica specifica di
questo profilo risiede soprattutto nell’elevatissima produttività del capitale: la rotazione complessiva dei capitali è
infatti ai livelli massimi (2,15 volte), superiore a quello
delle imprese Eccellenti. Si tratta di imprese prevalentemente collocate nei settori tradizionali (il comparto rappresenta quasi il 64% dei bilanci inclusi nel sottoinsieme),
con valori molto alti di ricavi pro-capite, ma livelli molto
bassi di valore aggiunto sui ricavi e di produttività del lavoro: questo profilo appare tipico di produzioni di beni ad
elevato valore unitario, ma che richiedono un altrettanto
elevato ammontare di input esterni, lasciando all’impresa
un modesto valore aggiunto e bassi margini. Questi ultimi, combinandosi con l’elevatissima rotazione dei capitali,
determinano peraltro buoni livelli di redditività.
Robustissime
La peculiarità di questo profilo è l’eccezionale robustezza delle strutture finanziarie e dell’equilibrio patrimoniale.
Il sottoinsieme contiene il 9,6% dei bilanci, prevalentemente di dimensione media, con circa 116 dipendenti e
25,2 milioni di euro di ricavi, collocati per il 42,9% nei settori tradizionali. Il patrimonio netto è pari ad oltre 6 volte
l’ammontare dei debiti finanziari (615,8%) e supera il 46%
del totale attivo, mentre i capitali permanenti sono oltre
3,5 volte le attività immobilizzate, determinando il livello
Statiche
Bassissima crescita del valore aggiunto (1,1%), diminuzione dei ricavi, sia pure di lieve entità (-1%), unitamente
a scarsa produttività e redditività sono le caratteristiche
salienti di questo sottoinsieme che raccoglie l’8,8% dei
bilanci, con 109 dipendenti e 21,6 milioni di euro di ricavi, operanti per quasi il 48% nei settori tradizionali.
Margini operativi modesti e rotazione dei capitali molto
contenuta, innestati su livelli bassissimi di produttività dei
fattori, sono alla base della insufficiente performance di
queste imprese.
Fragilissime
La particolarità di questo sottoinsieme è la fragilità delle
strutture patrimoniali unita ad un significativo squilibro
finanziario. Sono inclusi nel sottoinsieme circa il 9,5% dei
bilanci, con 120 dipendenti in media e 25,8 milioni di
euro di ricavi; tali imprese sono operanti per il 46% nei
settori tradizionali e per il 34,3% in quelli di scala.
Il livello di capitale circolante di questi bilanci è negativo
per il -6,3% dell’attivo, corrispondente ad una liquidità
corrente del 91,5%; accanto allo squilibrio finanziario tra
capitali permanenti ed attività immobilizzate, questi bilanci hanno anche strutture patrimoniali altamente indebitate: il patrimonio netto rappresenta appena il 64,8% dei
debiti finanziari, il 46,3% delle immobilizzazioni, il 18,1%
dell’attivo.
La radice di tale debolezza va ricercata nell’elevato peso
(sull’attivo) delle immobilizzazioni tecniche, finanziato con
il ricorso massiccio all’indebitamento. Queste imprese
hanno anche un’intensa accumulazione di capitale fisso,
sia rispetto ai ricavi che al valore aggiunto, ed un basso
grado di ammortamento, pur in presenza di adeguati
tassi di ammortamento, che indicano un’età relativamente bassa delle immobilizzazioni.
Nel complesso la crescita è di entità limitata (+2,8% di
incremento medio dei ricavi), con una redditività modesta
(ROA pari a 2,7%) che diventa negativa a livello di ROE
(-5,1%).
Finanziarizzate
Questo è un sottoinsieme composto prevalentemente
da imprese di grande e medio-grande dimensione (205
dipendenti medi e oltre 60 milioni di euro di ricavi), ope-
4 - 2006
più elevato di circolante (39% del totale attivo). Alla robustezza finanziaria e patrimoniale si accompagna il livello
più consistente di liquidità: la liquidità disponibile è pari al
17,4% dell’attivo e al 16,6% dei ricavi. Peraltro queste
imprese appaiono fortemente condizionate nel loro sviluppo, con tassi di variazione dei ricavi che in media sono
negativi per l’1,5% e diminuzioni del valore aggiunto del
3,5%; ne consegue che i tassi di redditività, pur restando
positivi in media, sono a livelli molto modesti (ROE pari
allo 0,2% e ROA inferiore al 4%).
GLOBAL COMPETITION
particolarmente alti della quota del valore aggiunto sui
ricavi e della produttività del lavoro.
L’eccellente capacità reddituale di queste imprese si
accompagna a strutture finanziarie assai robuste, con
bassa incidenza dell’indebitamento finanziario sul capitale, modestissimo peso degli oneri finanziari sul conto economico e sui margini lordi e livelli di capitale circolante
molto consistenti: il basso tasso di indebitamento e il rilevante livello di equilibrio finanziario appaiono il risultato
della capacità di autofinanziamento, prolungata nel
tempo e derivante dall’eccellente redditività aziendale.
Queste imprese non hanno tassi di investimento elevati
e non devono far fronte a fabbisogni di finanza esterna:
il loro Saldo Finanziario Netto è infatti il migliore tra i diversi profili ed è positivo (indica un surplus disponibile invece che un fabbisogno) per il 2,5% dei ricavi: in questa
situazione è comprensibile che non solo si abbia una riduzione dei livelli di indebitamento, ma anche che gli
aumenti di capitale azionario di queste imprese si collochino ai livelli più bassi tra i diversi profili.
Si consideri che in questo sottoinsieme la quota delle
imprese collocate nel comparto ad alta tecnologia è la più
importante tra i diversi sottoinsiemi (7,1%), mentre quella
del comparto dei settori tradizionali è la più modesta
(33,2%).
15
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
ranti nei settori di scala (33,7%), ad alta tecnologia (7%)
e tradizionali (36,4%).
La specificità di questo profilo risiede soprattutto nell’elevata incidenza delle immobilizzazioni finanziarie: le partecipazioni rappresentano il 15,7% dell’attivo ed i crediti
finanziari immobilizzati il 4,7%; considerando anche i crediti finanziari a breve termine, il grado di finanziarizzazione del bilancio è dell’ordine del 23,5% dell’attivo.
Coerentemente con la dimensione elevata, il costo del
lavoro pro-capite di queste imprese raggiunge il valore
più elevato, pari in media a oltre 39 mila euro.
Si tratta quindi di un sottoinsieme espressivo di aziende
che si trovano ai vertici di gruppi societari, in cui i rapporti di controllo si sostanziano attraverso cospicui investimenti in partecipazioni, accompagnati dal sostegno diretto alle controllate e collegate tramite la concessione di
finanziamenti a breve od a medio e lungo termine.
La struttura finanziaria è correlata con il tipo di investimento effettuato e la natura delle relazioni societarie: il
patrimonio netto è dell’ordine di 2,2 volte i debiti finanziari, mentre l’indebitamento verso il gruppo rappresenta
una quota rilevante (16,4%) del totale dei debiti finanziari a breve.
Alta intensità di capitale/lavoro
L’elevato stock di capitale fisso pro-capite è la tipicità che
contrassegna questo sottoinsieme. Esso è formato dal
9,8% dei bilanci, con una media di 128 dipendenti e 36,1
milioni di euro di ricavi, operanti per il 48,8% nei settori
tradizionali e per il 32,2% nei settori di scala.
Le immobilizzazioni lorde per dipendente superano i
230 milioni di euro. L’intensità di capitale si accompagna
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
Tabella 2 - Profili economici-finanziari dei 12 ideltipi individuati
16
MEDIE DEL TRIENNIO 2002-2004
VARIAZIONE % RICAVI NETTI
VARIAZIONE % DIPENDENTI
VARIAZIONE % VALORE AGGIUNTO
VAL.AGGIUNTO/FATTURATO
MARG.OP. LORDO/FATTURATO
ROE
ROI
ROI ANTE IMPOSTE E COMP. STR.
ROA
R O A OPERATIVO
MARGINE SUI RICAVI
TURNOVER
V. A./IMMOB.TECNICHE LORDE
RICAVI PRO CAPITE (ML)
V. A. PRO CAPITE (ML)
COSTO LAVORO PRO CAPITE (ML)
IMMOB.TECN. LORDE PRO CAP.(ML)
TASSO DI INVESTIMENTO
TASSO DI ACCUMULAZIONE
INVESTIMENTI FISSI/V. A.
TASSO AMMORTAM. COMPLESSIVO
GRADO DI AMMORTAMENTO
LIQUID. CORRENTE (CON C.CAMB.)
GIORNI DI CREDITO AI CLIENTI
GIORNI DI CREDITO DAI FORN.
GIORNI SCORTA MEDIA
CIRC. COMM. CORRENTE/FATT.
CAP. NETTO/DEBITI FIN. TOTALI
DEB. FIN. B/T / DEB. FIN. TOTALI
CAP.NETTO/IMM.TECNICHE NETTE
CAP.PERMANENTI/ATTIV.IMMOBIL.
ONERI FIN.NETTI/M.O.L.
AUTOFINANZIAMENTO/FATTURATO
SALDO FIN. NETTO/FATTURATO
IMMOB. TEC. NETTI/AN
PARTECIPAZIONI NETTE/AN
CREDITI FIN. TOT/AN
LIQUIDITA/AN
CAPITALE NETTO /AN
DEB. FIN. TOTALI L.T. /AN
CAP. PERMANENTI /AN
DEBITI FINANZIARI B.T./AN
CAP. CIRCOLANTE /AN
INVEST. NETTI PARTEC. /FATT
AUM. NETTI CAPITALE AZ. /FATT
DEB. V/GRUPPO/DEB. FIN.B.T.
Profilo
medio
4,15
1,49
2,68
19,88
5,76
2,59
3,91
7,48
4,18
7,56
3,35
1,26
90,55
330,75
55,17
35,71
98,53
2,60
8,11
13,60
6,96
62,97
134,35
151,55
109,44
63,99
32,65
109,07
71,26
292,41
252,44
20,52
3,49
-3,16
14,33
1,26
2,73
2,67
22,21
9,06
38,50
24,23
17,83
0,18
0,22
6,80
Bassa
Bassa
Alta intesità intesità di
intensità
Eccellenti di cap. Robu- Statiche Fragilis- Finanzia- di capitale capitale
lavoro
lavoro
sime
rizzate
prodotto stissime
7,56
2,81
11,89
33,36
16,46
22,54
17,65
29,72
14,96
41,89
12,65
1,29
136,10
308,53
87,50
37,19
112,53
3,42
8,78
10,41
7,95
66,62
182,47
116,34
109,46
53,66
22,45
575,61
50,93
464,74
344,83
3,14
10,88
2,55
16,06
1,37
2,94
11,48
40,59
5,41
55,37
6,30
31,85
0,20
0,07
10,63
6,90
2,23
5,87
10,30
4,05
6,45
7,95
13,25
5,91
16,53
2,80
2,15
111,48
832,22
66,12
34,32
125,11
1,49
9,42
15,37
7,96
58,70
123,11
84,76
77,32
33,05
12,82
174,32
70,98
321,87
250,99
26,69
2,23
-0,08
14,27
1,20
2,69
6,42
19,62
7,20
32,39
21,48
11,85
0,10
0,17
4,64
-1,55
-0,83
-3,46
28,21
8,54
0,18
2,54
6,33
3,97
11,44
3,95
1,06
64,79
235,87
56,40
36,01
136,15
3,65
6,15
13,77
6,80
68,72
216,43
118,67
104,11
63,12
26,29
615,80
38,65
430,87
353,15
7,47
5,57
1,37
18,37
1,48
2,94
17,39
46,10
7,42
64,85
4,89
39,03
0,21
0,17
10,61
-0,98
-0,75
1,11
26,83
6,83
-8,17
2,62
5,04
3,03
6,30
3,10
0,99
88,68
213,77
48,95
34,40
90,80
2,86
6,81
11,68
6,09
60,72
123,52
123,50
123,52
129,36
38,18
50,91
69,46
181,64
186,95
42,29
2,87
-2,77
16,44
1,32
2,78
5,40
16,44
11,98
36,89
29,86
11,91
0,22
0,59
3,84
2,78
0,43
2,07
28,56
8,76
-5,13
2,37
4,72
2,69
5,30
2,74
1,02
33,19
227,69
54,74
35,18
191,32
6,47
8,15
26,11
6,36
52,21
91,53
116,29
134,95
51,44
15,38
64,76
62,08
46,31
86,47
29,66
5,62
-2,27
38,69
0,89
2,40
3,16
18,07
13,06
40,41
25,20
-6,29
0,14
0,48
8,01
2,72
0,16
1,36
25,57
8,93
2,96
5,18
8,17
5,03
15,44
5,61
0,92
76,03
324,16
67,53
39,07
150,93
3,60
7,27
15,30
6,79
65,99
126,43
126,88
117,47
62,02
24,00
222,13
55,26
391,85
125,34
24,58
6,80
-2,11
14,95
15,74
4,70
4,56
31,68
12,02
51,65
18,36
7,58
1,28
0,42
16,41
4,62
1,68
3,12
25,74
10,62
6,09
5,71
9,17
5,50
9,69
5,14
1,11
30,96
314,40
67,21
35,47
233,36
5,94
7,67
25,36
7,14
57,91
141,91
114,11
110,66
55,19
21,22
343,02
47,75
116,21
143,92
11,13
8,39
-0,67
35,57
1,27
2,55
3,07
38,37
10,65
57,15
10,65
14,59
0,15
0,20
8,49
3,67
1,48
8,08
31,17
9,28
3,20
5,39
11,13
6,04
12,97
5,09
1,23
139,27
199,01
54,62
35,71
63,92
2,91
8,95
9,60
7,38
61,66
113,04
151,95
116,39
57,94
31,35
46,88
78,73
187,96
172,54
23,86
4,40
-2,63
15,56
1,30
2,91
3,59
14,50
8,00
31,38
32,48
7,37
0,17
0,26
4,28
Alta intesità
di cirdolante
operativo e Alta leva
bassa leva commerc.
commerc.
-1,30
-0,51
-1,88
14,42
5,11
-1,38
3,58
4,54
3,41
4,40
3,87
0,91
59,77
547,29
61,14
33,76
188,57
2,95
7,10
20,39
5,74
55,49
141,94
123,01
91,56
163,93
52,99
75,45
69,40
303,36
267,70
49,95
2,93
-3,31
17,09
1,07
2,42
2,28
23,78
13,19
41,54
32,88
18,76
0,13
0,58
2,82
4,39
1,36
3,93
20,52
5,73
4,40
6,31
10,78
3,51
14,00
3,61
1,01
114,16
358,09
56,13
37,22
97,29
2,72
8,92
13,74
7,31
60,67
126,86
142,17
162,42
124,09
21,61
225,81
58,14
345,55
271,82
20,62
3,55
-1,00
11,93
1,18
2,58
5,63
17,92
7,05
32,11
11,18
14,54
0,18
0,31
8,32
Disastri
-11,43
-5,69
-40,36
3,00
-3,50
-16,10
-2,21
-4,00
-1,87
-5,97
-1,78
0,92
18,26
559,68
21,58
38,19
188,54
3,63
8,24
2,92
6,34
56,62
113,92
143,71
107,11
119,00
38,93
65,53
72,16
227,09
191,10
n.s.
-1,28
-3,89
16,50
2,43
3,74
3,41
15,62
11,17
31,50
33,10
5,62
0,38
1,13
10,93
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
Alta intensità di circolante/operativo
Questo sottoinsieme comprende il 5,6% dei bilanci, prevalentemente di piccola dimensione (57 dipendenti in
media, con 22,9 milioni di euro di ricavi), per il 76,4% collocati nei settori tradizionali.
La nota distintiva che differenzia questo profilo riguarda
l’elevatissima intensità del circolante operativo: la sua incidenza sui ricavi è dell’ordine del 53%, livello che è più del
doppio di quello che si riscontra nella maggior parte degli
altri sottoinsiemi.
A determinare questa situazione è soprattutto l’entità
delle rimanenze di magazzino (164 giorni di scorta
media), mentre i crediti verso clienti ed i debiti verso fornitori non assumono valori significativamente diversi dalla
media. Il ciclo commerciale che queste imprese devono
finanziare ha quindi una durata assai estesa (238 giorni).
Il circolante operativo è finanziato in larga misura con
indebitamento a breve, specialmente verso banche, rendendo greve il peso sul conto economico dei debiti finanziari e degli oneri connessi e fragili le strutture patrimoniali.
Alta intensità di leva commerciale
Se il sottoinsieme precedente soffre di eccesso di circolante operativo, questo ha invece livelli di circolante tra i
più bassi tra i diversi sottogruppi di imprese. Esso include
il 7,5% dei bilanci, con circa 110 dipendenti e quasi 32
milioni di euri di ricavi, collocati per quasi il 31% nei settori di specializzazione, il 29,4% in quelli di scala ed il 36%
in quelli tradizionali.
Il modesto livello di circolante di queste imprese non
deriva tanto da bassi livelli di scorte o di crediti commerciali quanto dall’elevato ricorso al debito di fornitura: ben
162 giorni circa.
Tale politica consente a queste imprese di ridurre, a
parità di attivo, l’entità del capitale investito e quindi di
realizzare una redditività su quest’ultimo (ROI ante imposte e componenti straordinarie del 10,9%) notevolmente
superiore alla redditività complessiva (ROA pari al 3,5%),
sfruttando in modo accentuato il moltiplicatore della leva
commerciale. Ne derivano elevati livelli di turnover del
capitale investito che compensano in modo più che proporzionale i modesti margini sui ricavi realizzati da queste
società.
Disastri
Questo sottoinsieme racchiude solo lo 0,7% dei bilanci
(poco più di 200), con 71 dipendenti medi e 25,7 milioni di
euro di ricavi, concentrati per il 62,7% nei settori tradizionali.
Il profilo economico-finanziario di questi bilanci è semplicemente disastroso: la radice della crisi deriva dal grave
crollo delle vendite (-11,4%) che trascina su valori pesatamente negativi tutti i parametri di redditività e di produttività. Strutture finanziarie fragili e pesantemente indebitate
a breve completano il quadro complessivo. La situazione
è tale che in queste società gli aumenti di capitale sociale
dagli azionisti sono i più elevati tra tutti i sottoinsiemi (oltre
1,1% dei ricavi): i conferimenti di risorse a titolo di capitale di rischio sono evidentemente essenziali per la sopravvivenza delle imprese.
Le transizioni tra i sottoinsiemi
L’analisi delle matrici di transizione dei bilanci tra i diversi sottoinsiemi avvenute nel triennio consente di studiare
gli effetti economici e finanziari delle politiche aziendali o
di eventi esterni: in questa sede, la politica aziendale è
vista come l’insieme delle manovre che modificano il profilo tipico che caratterizza un’impresa ad un dato istante
del tempo, facendole assumere, più o meno interamente,
un profilo diverso. I cambiamenti dei caratteri dei profili,
ovviamente, non sono solo il prodotto delle politiche
4 - 2006
Bassa intensità di capitale/lavoro
Il caso opposto al precedente si trova in questo sottoinsieme. I bilanci qui inseriti hanno la caratteristica del minimo impiego di capitale fisso pro-capite: meno di 64 mila
euro. Essi sono circa l’8% dei bilanci totali, con 109 dipendenti e quasi 20 milioni di euro di ricavi, con una presenza non secondaria nei settori ad alta tecnologia (6,3%) e
di scala (30%), oltre ad un 39,3% circa nei settori tradizionali.
Queste imprese hanno processi produttivi con una relativamente elevata intensità di lavoro, che comporta una
produttività del lavoro più bassa della media ed in parallelo un’elevata produttività del capitale.
La ridotta dimensione media in termini di ricavi e la
combinazione del tipo di beni prodotti con le caratteristiche dei processi operativi determinano livelli modesti di
crescita e di redditività.
La struttura finanziaria di queste imprese è molto debole, con un tasso di indebitamento addirittura peggiore di
quello delle Fragilissime, pur conservando un limitato
equilibrio patrimoniale (capitale circolante pari al 7,4%
dell’attivo): il capitale netto rappresenta meno del 47%
del totale dei debiti finanziari ed appena il 14,5% dell’attivo; il 78,7% dei debiti finanziari sono a breve termine. Si
tratta di strutture tipiche delle imprese minori, ad elevata
dipendenza dal sistema bancario.
Si tratta prevalentemente di società che hanno prodotti
soggetti a processi di invecchiamento o lenta stagionatura (tipicamente alimentari, ad esempio) oppure a lungo
ciclo di produzione.
GLOBAL COMPETITION
ad un’elevata produttività del lavoro, pur senza raggiungere i livelli delle Eccellenti, ad una modesta produttività
del capitale e ad una crescita di circa il 4,6% dei ricavi.
La redditività di queste imprese non è elevata, ma la
struttura finanziaria è complessivamente robusta, tenuto conto delle notevoli immobilizzazioni che le appesantiscono.
17
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
18
aziendali, ma possono essere il risultato del verificarsi di
eventi esterni (mosse dei concorrenti, anche potenziali,
quadro macroeconomico e politico, regulation,...)
La figura 1 riporta i principali spostamenti dei bilanci tra
i sottoinsiemi, trascurando le transizioni di minore importanza3. Tralasciamo l’analisi degli spostamenti verso il
Profilo Medio, tipici di quei casi che si trovano verso i bordi
esterni del proprio sottoinsieme e che quando attenuano
le caratteristiche distintive del sottoinsieme sono destinati
a lasciarlo rapidamente.
Il profilo delle Finanziarizzate non ha transizioni rilevanti con altri sottoinsiemi: la grande impresa holding capogruppo rappresenta quindi un insieme strutturalmente
molto stabile, almeno nel triennio considerato, per il
quale gli ingressi e le uscite sono poco probabili.
Non appena un’impresa Eccellente rallenta l’intensità
della crescita e la propria redditività, si sposta rapidamente nel sottoinsieme delle Robustissime; la transizione contraria, verso la condizione di Eccellenza, è invece meno
probabile, anche se si è verificata in un certo numero di
casi. Peraltro non vi sono transizioni significative verso le
Eccellenti da altri sottoinsiemi diversi dalle Robustissime.
Le Eccellenti dotate di elevate immobilizzazioni pro-capite non appena diminuiscono la crescita e la redditività si
spostano nel sottoinsieme ad Alta Intensità di
Capitale/Lavoro.
Da quest’ultimo sottoinsieme, peraltro, si registrano
spostamenti verso le Robustissime nei casi in cui si riducano i tassi di sviluppo e contemporaneamente sia in corso
un rafforzamento patrimoniale, anche in concorso con il
finanziamento di nuovi investimenti.
Se invece il rafforzamento patrimoniale si accompagna
ad un’accelerazione della crescita, lo spostamento avviene dal sottoinsieme delle Fragilissime a quello ad Alta
Intensità di Capitale/Lavoro.
Per buona sorte dell’industria italiana le transizioni verso
i Disastri sono di scarsissima intensità, o almeno lo sono
state nel triennio considerato, e come tali non sono state
riportate nella figura 1.
Le uscite dal sottoinsieme dei Disastri riguardano invece
ben quattro profili: verso l’Alta Intensità di Circolante
Operativo, per quelle imprese che migliorano crescita e
redditività, ma hanno processi produttivi che richiedono
rilevanti impieghi in scorte; verso la Bassa Intensità di
3
Figura 1
PRINCIPALI TRANSIZIONI TRA I SOTTOINSIEMI INDUSTRIALI
FINANZIARIZZATE
ECCELLENTI
ROBUSTISSIME
STATICHE
ALTO
K/L
PROFILO
MEDIO
BASSO
K/L
FRAGILISSIME
ALTO
CIRCOL.
OPER.
ALTA LEVA
COMMERC.
BASSO
K/PRODOTTO
DISASTRI
Capitale/Lavoro per quelle imprese che sono riuscite a
compiere il risanamento riducendo i capitali investiti, prevalentemente in immobilizzazioni, migliorando in misura
sensibile sia la crescita che la produttività dei fattori; verso
la Bassa Intensità di Capitale/Prodotto per quelle imprese
la cui razionalizzazione riguarda oltre al capitale fisso
anche l’entità del circolante, con miglioramento sensibile
dei tassi di rotazione; infine, se parte degli squilibri finanziari delle imprese-Disastri hanno comportato l’accumulo
di rilevanti ritardi nei pagamenti verso fornitori, il miglioramento di crescita e redditività determina lo spostamento
(con frequenza non elevata) verso l’Alta Intensità di Leva
Commerciale.
Da ultimo vi sono scambi tra il sottoinsieme delle
Statiche e quelli ad Alta Intensità di Circolante Operativo,
di Leva Commerciale e Bassa Intensità di Capitale/Lavoro
quando si verificano, per i bilanci collocati ai confini dei
profili, variazioni dei tassi di crescita e di indebitamento.
Nel complesso, tuttavia, l’analisi delle matrici di transizione mette in luce che la permanenza negli specifici sottoinsiemi prevale di gran lunga sugli spostamenti dei
bilanci, confermando la notevole stabilità dei profili identificati. Fa eccezione il sottoinsieme dei Disastri per il quale
sono alte le probabilità di uscire e basse quelle di entrare.
L’intensità ed il tratteggio delle frecce indicano l’importanza delle transizioni, mentre il verso rappresenta la direzione dello spostamento.
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
CARATTERISTICHE
ED EFFETTI
DELLA DELOCALIZZAZIONE
Dopo un dettagliato esame, con confronti internazionali, delle ricadute
della delocalizzazione in Italia, l’Autore sottolinea come questo processo appaia necessario
nel contesto di una strategia produttiva globale che le singole aziende devono darsi.
a globalizzazione, che negli anni ’80 si riferiva principalinsufficiente tasso di innovazione dell’offerta, per risponmente alle aree della triade (USA, Giappone, UE), ha
dere in modo adeguato alle nuove esigenze di qualità e
visto una profonda e accelerata estensione geografica nelprezzo della domanda, e una ridotta produttività aziendal’ultimo decennio, con l’irruzione violenta dei paesi emerle e complessiva, effetti di insufficienti dimensioni di
genti dell’Asia, ad alta crescita e basso costo del lavoro, la cui
impresa; un utilizzo ancora poco efficiente dell’ICT; sistemi
influenza si è estesa anche in altre aree geografiche.
distributivi e servizi alle imprese che restano costosi, in
Allora l’internazionalizzazione dell’Italia presentava forti
quanto troppo poco esposti alla concorrenza.
ritardi e gravi debolezze verso i paesi della triade. A partiIn Germania, Francia e Spagna gli effetti della ristrutture dagli anni ’90 si è avviata invece una fase dinamica
razione produttiva e distributiva si sono già dispiegati, le
caratterizzata da due fenomeni, che Mariotti e Mutinelli1
imprese si sono adeguate, l’efficienza dei servizi erogati è
hanno descritto, come l’“inseguimento multinazionale”,
notevolmente aumentata, anche in conseguenza di scelcon protagoniste le medie imprese, e l’“esportazione di
te energetiche che rendono, questi paesi, soprattutto la
skills imprenditoriali”, con la “formazione di una imprendiFrancia, esportatori di energia.
torialità italiana all’estero”. Come conseguenza di questo
Nel 2005 l’economia italiana ha peggiorato l’andamensecondo fenomeno si è ampliata “l’area grigia dei legami
to già debole degli anni precedenti. Fatta eguale a 100 la
fra nuovi imprenditori e imprese che delocalizzano, pur
produzione industriale del 2000, l’Italia, a gennaio 2006,
non creandosi imprese multinazionali”. Il processo dal
si colloca a 96,4, contro il 102,1 della Francia e il 108,4
2002 ha peraltro perso vigore e si assiste ad una focalizdella Germania. I settori con una maggiore contrazione
nel periodo sono: pelli e calzature che si colloca a 67,7;
zazione delle maggiori imprese in alcuni mercati, anche
gli apparecchi elettrici a 73,1; il tessile abbigliamento a
attraverso dismissioni da altri, e al rallentamento della
81,1. Nonostante la favorevole
spinta delle PMI. Si è tornati ai livelli modesti di nuove iniziative degli
crescita mondiale del periodo,
anni ’80 con “l’aggravante di una
prosegue nel 2005 la caduta della
riduzione della taglia media delle
quota detenuta dall’Italia nel cominiziative”. Pertanto superare la
mercio mondiale, non solo verso
sfida della globalizzazione, anche
la Cina, ma anche verso paesi
attraverso una delocalizzazione
come la Germania. Infatti l’induforte di produzioni e attività a
stria tedesca ha saputo ristruttuminor valore aggiunto, auspicabilrarsi e in pochi anni le sue espormente “positiva” senza chiusura di
tazioni sono cresciute del 50%,
SERGIO MEACCI
impianti in Italia (Fortis2), per effetto
con una produttività che è migliorata di 20 punti rispetto all’Italia.
di un ampliamento della gamma
Amministratore Delegato di Databank SpA dal
Questi risultati sono stati ottenuti
offerta e di una localizzazione pro1989. Vicepresidente di DBK SA di Madrid, di
duttiva per fascia di mercato, resta,
cui è stato Presidente fino al 2005. Esperto di
analisi competitiva di settore e di misura di indiS. Mariotti, M. Mutinelli, Italia multinazioper le imprese italiane, un passagnale
2005. Le partecipazioni italiane all’ecatori
di
prestazione.
Docente
al
Politecnico
di
gio necessario, urgente e decisivo,
stero ed estere in Italia, Politecnico di
Milano.
per recuperare un sentiero di creMilano – ICE, 2005
Autore di varie pubblicazioni fra cui Qualità,
scita competitiva.
Certificazione, Competitività, (con altri), Hoepli,
M. Fortis, “Il Made in Italy manifatturiero
Alla radice della debole posizione
2004; Conoscere le ISO 9000-2000, UNI, 2001.
e la sfida globale”, Economia e Politica
Industriale, n. 1, 2005
competitiva vi sono cause note: un
1
2
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
L
19
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
20
anche grazie alla riduzione reale del costo del lavoro per
ora lavorata, alla maggiore flessibilità e alla delocalizzazione di imprese dei settori tradizionali, sostenuta da brand
che rassicurano i consumatori, a prescindere dal luogo di
produzione, come nel caso delle calzature sportive.
Alla base di queste dinamiche vi è la differente specializzazione settoriale, che rende l’Italia più debole, avendo
una quota relativamente meno elevata di chimica e farmaceutica, meccanica strumentale e macchine e altri beni
ad alta tecnologia – il 50% del manifatturiero tedesco è
ad alta tecnologia – rispetto a beni di consumo tradizionali dei settori dell’abbigliamento e arredo casa, che
ancora presentano il vantaggio competitivo di produzione di qualità con il marchio Made in Italy.
Peraltro all’interno dei diversi settori aumentano le differenze intrasettoriali delle performances. Ciò segnala che
sono ormai i modelli di business differenziati nella riconfigurazione internazionale di produzione, distribuzione e
logistica a fare la differenza.
Mentre il paese è rimasto mediamente fermo, non è
così per i diversi settori, come dimostra la crescita della
meccanica strumentale – grazie alle macchine per industria alimentare, per imballaggio ed utensili ad asportazione di truciolo, nonostante le difficoltà del meccanotessile
–, e non è così per le imprese manifatturiere leader, fra cui
le numerose medie imprese che hanno saputo anticipare
strategie aggressive di globalizzazione, cogliendo le
opportunità di mercati in crescita e di minori costi di produzione.
Il mercato azionario ha premiato queste imprese, mentre per molte altre è aumentato il tasso di fallimento, cui si
aggiunge un’elevata quota di imprese in liquidazione. Nel
2005 sulle imprese attive, nel tessile il tasso di fallimento
raggiunge il 12,7% (10,1% nel 2000) e il tasso di liquidazione il 9,2% (7,6% nel 2000), nell’abbigliamento il
14,8% (11,9%) e l’8,2% (7,2%), nelle pelli cuoio e calzature il 16,9% (13,8%) e il 9,0% (7,9%), nelle macchine e
apparecchi elettrici il 10,3% (7,8%) e l’8,3% (7,2%) rispettivamente. Restano su livelli più bassi, fra il 3 e il 5%, l’alimentare, il legno, la metallurgia, gli apparecchi elettromedicali.
L’affermazione di nuovi modelli di business spiega le
performance differenziate delle imprese migliori, diffonde
stimoli alla imitazione ed è in grado di far accelerare i processi di riorganizzazione ed aggregazione di imprese
minori che, in ritardo o con lentezza inadeguata alle
urgenze, pure stanno avvenendo.
Il quadro presenta una molteplicità di piani di analisi per
comprendere l’effettiva realtà in cui si colloca la contraddizione fra un paese complessivamente rimasto fermo e
con previsioni a breve di ripresa, al di sotto del suo potenziale, imprese dinamiche, che hanno saputo riorganizzarsi e diventare leader anche internazionali, e imprese che
hanno dovuto invece chiudere l’attività.
La delocalizzazione già rappresenta nei settori tradizionali il più rilevante fenomeno nella attuale fase di interna-
zionalizzazione delle imprese italiane. Spesso è una delocalizzazione solo difensiva per migliorare la posizione di
costo; in diversi casi è invece una delocalizzazione offensiva per cogliere anche tutte le opportunità di mercati in
forte crescita; in pochi casi ancora è solo un aspetto di
una più organica strategia globale capace di gestire in
modo anticipato le continue riconfigurazioni delle attività
produttive, distributive e logistiche che la dinamica della
domanda mondiale impone.
La delocalizzazione produttiva (“offshoring”)
La delocalizzazione produttiva in senso stretto (“offshoring”) fa riferimento alle decisioni che determinano l’interruzione o la riduzione di una produzione in un sito ed il
suo contemporaneo trasferimento in un nuovo stabilimento estero, con l’obiettivo di usufruire dei vantaggi
derivanti dalla nuova ubicazione. La delocalizzazione non
va confusa con l’espansione della capacità produttiva
all’estero, che mantiene inalterata l’ubicazione delle unità
produttive e il numero di occupati in Italia e fa parte di
una più forte strategia di internazionalizzazione, né con la
crescita degli investimenti commerciali esteri per penetrare i mercati con produzioni il cui valore risiede nel Made
in Italy, come stanno facendo molte luxury companies
non solo italiane, né con l’outsourcing a fornitori esteri.
In questo senso, la delocalizzazione si differenzia nettamente dalle forme tradizionali di esternalizzazione italiana
(decentramento e subfornitura), nelle quali l’attività produttiva decentrata, o una singola lavorazione, viene affidata a un soggetto esterno indipendente, spesso artigiani appartenenti all’indotto dello stesso distretto territoriale,
strategia tipica dell’abbigliamento e calzature di fascia alta
che ricorre al terzismo Made in Italy di alta qualità, poiché
ad esso dà valore il consumatore mondiale.
Questa complessa realtà, come vedremo di seguito in
alcuni casi settoriali, rende difficile isolare nelle rilevazioni
quantitative la quota della produzione delocalizzata dal
totale della produzione italiana all’estero, e capire quanto
essa incida sulla produzione italiana reimportata e sulle
esportazioni dirette estero su estero, che riducono le
esportazioni dirette dall’Italia.
Per ora osserviamo che i competitors dei paesi sviluppati hanno adottato in misura assai rilevante scelte di delocalizzazione, trasferendo al di fuori dei confini nazionali
una parte molto significativa dell’attività produttiva domestica.
La delocalizzazione degli altri amplifica il gap competitivo
con l’Italia, cui si aggiunge, in misura crescente, l’internazionalizzazione delle maggiori imprese cinesi, con fenomeni di
rilocalizzazione nell’Est Europa (elettrodomestici e pc).
Ciò è avvenuto nei paesi con una maggiore concentrazione di medio-grandi imprese, prevalentemente con
nuovi insediamenti industriali, realizzati da controllate o
partecipate estere, all’interno dello stesso gruppo giuridi-
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
Il motivo principale delle imprese che delocalizzano è
stato il recupero di competitività di costo, in particolare nel
caso di produzioni imitabili e ad alta intensità di lavoro,
rispetto alle quali la rapida crescita delle grandi economie
asiatiche (Cina e India in primo luogo, ma anche altri
Paesi low cost come Pakistan, Thailandia, Bangladesh,
Malesia ecc.) ha determinato una progressiva intensificazione della pressione competitiva giocata sul fattore prezzo.
Nella produzione di scarpe il costo orario in Cina è in
media inferiore all’Italia di 20 volte.
Anche nell’industria meccanica, a fronte di un costo
orario di oltre 20 dollari USA per Germania, Giappone e
USA e di 18 dollari per l’Italia, paesi come Romania,
Tunisia e Cina si collocano al di sotto dei 2 dollari e l’India
a 0,50 dollari.
Il motivo strategicamente più rilevante è invece la penetrazione dei mercati emergenti e la costruzione di un sistema distributivo e logistico più efficiente.
Le decisioni di delocalizzazione attuate, lungi dall’essere
definitive, sono suscettibili di modifiche, sulla base degli
stessi criteri che avevano portato, a suo tempo, a scegliere una determinata ubicazione. In generale, una volta
uscite dal contesto nazionale, le imprese continuano a
perseguire gli obiettivi di contenimento dei costi e di ottimizzazione dei vantaggi derivanti dalla logistica distributiva, spostando le unità produttive nei paesi che presentano, man mano, le condizioni più favorevoli.
La delocalizzazione non è peraltro a senso unico.
Parallelamente, si sta avviando infatti un processo di rilocalizzazione in cui, mentre le produzioni a basso valore
aggiunto emigrano verso i paesi very low-cost, nei Paesi
3
Le caratteristiche della delocalizzazione italiana
In Italia, l’avvio dell’attuale fase di delocalizzazione si colloca negli anni ‘90, e coinvolge maggiormente le imprese dei settori del tessile-abbigliamento e del cuoio e calzature, di fascia media economica, incluse quelle di piccole
dimensioni, che, puntando a difendere la competitività
erosa dall’andamento sfavorevole del rapporto tra prezzo
e qualità, hanno iniziato a delocalizzare una parte della
loro attività in paesi dove il costo del lavoro era più basso.
Il caso di Timisoara in Romania è il più eclatante con oltre
10.000 imprese del nord est che hanno delocalizzato nell’area, di cui circa 3.000 sono stimate effettivamente attive. Le altre aree di elezione sono state l'Ungheria, la
Bulgaria, l'Albania, la Polonia e il bacino del Mediterraneo
(Marocco, Tunisia, Egitto e Turchia in particolare). Più
recentemente sono cresciuti Russia, India e a tassi più elevati la Cina, paesi che hanno un potenziale di crescita
superiore alle aree di tradizionale elezione italiana.
Per le imprese che operano nella fascia media economica del mercato, la delocalizzazione è una scelta obbligata, per compensare lo svantaggio derivante dall’elevato
costo del lavoro e dal rafforzamento dell’euro sul dollaro,
stringere accordi di partnership con imprese locali e penetrare mercati ad alto potenziale di crescita con produzioni
realizzate in loco o in paesi limitrofi, abbattendo i costi
logistici.
Dall’Indagine sulle imprese italiane 2001-2003, realizzata da Databank per Capitalia3 , emerge che il basso costo
del lavoro è individuato come il principale motivo delle
delocalizzazioni effettuate (74% dei casi), seguito, per le
imprese fino a 500 addetti, dalla necessità di ridurre i prezzi per mantenere la quota di mercato (44% dei casi). Con
un’incidenza che cresce al crescere della dimensione, la
prossimità dei mercati di sbocco e quindi le opportunità
legate alla penetrazione di nuovi mercati rientrano tra i
primi tre motivi alla base della delocalizzazione. Le aziende con oltre 500 addetti mostrano una maggior propensione a vendere la produzione delocalizzata nel paese in
cui è ubicata l’unità produttiva (40% dei casi contro il 4%
per le aziende con 11-20 addetti, per le quali invece nel
42% dei casi le produzioni delocalizzate vengono reimportate per essere vendute sul mercato italiano).
Il paese verso cui viene maggiormente delocalizzata l’attività produttiva delle imprese italiane è la Romania, scelta
da un terzo delle imprese e da circa la metà delle imprese con 21-50 addetti; seguono la Cina (20% dei casi),
seguite con un netto distacco da, Tunisia, Bulgaria e
Polonia, con il 7% dei casi, e Albania, Turchia e India, con
il 5%. Mentre per i settori tradizionali come principale
Area Studi di Capitalia, IX Indagine sulle imprese manifatturiere 2001-2003, Roma 2005.
4 - 2006
I motivi alla base delle scelte di delocalizzazione produttiva
dell’Est Europeo se ne insediano altre di competitors asiatici per le quali sono richiesti lavoratori qualificati.
GLOBAL COMPETITION
co. In Italia è avvenuto in minor misura e anche tramite la
costituzione di nuove società che, pur risultando giuridicamente indipendenti, appartengono ad un unico gruppo
economico in quanto riconducibili allo stesso proprietario.
Ne consegue che i dati rilevati dalle rilevazioni dirette e
dalle statistiche ufficiali sottostimano il fenomeno della
produzione italiana all’estero, potendosi riferire ai soli
gruppi giuridici, le “multinazionali tascabili” italiane, essendo difficile rilevare i gruppi economici all’estero, dove si ha
l’esportazione di skills imprenditoriali attraverso gli imprenditori che lanciano nuove iniziative.
Ad esempio l'Osservatorio Asia ha rilevato che la presenza industriale italiana in Cina, outsourcing escluso, è di
1.202 aziende, di cui 445 con attività produttiva, 1.085
sono investimenti riconducibili a società registrate in Italia
e 117 a società straniere con capitale italiano pari al 10%
del totale. Un dato che è considerato in difetto, data la
difficoltà di rilevazione.
21
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
22
paese di delocalizzazione si conferma la Romania, per i
settori ad alta tecnologia primeggia Hong Kong, seguita
dalla Tunisia; per i settori di scala, passano in testa alla
classifica Germania e Spagna; per i settori di specializzazione, la principale destinazione è di gran lunga la Cina.
Vengono delocalizzate prevalentemente le produzioni
di prodotti finiti (la quota è pari al 65% delle imprese che
delocalizzano e sale all’87% per i settori ad alta tecnologia), per una quota di fatturato che nel 25% dei casi (il
35% per le imprese della fascia 21-50 addetti) arriva ad
eguagliare il fatturato realizzato entro i confini nazionali.
Oltre la metà (55%) delle imprese che delocalizzano prevede una crescita dell’incidenza del valore della produzione delocalizzata, con una punta massima (75%) per le
imprese con oltre 500 addetti.
Risultano ancora poco diffuse le joint venture produttive con partner locali, realizzate mediamente solo dal 14%
delle imprese che delocalizzano, con una propensione
che cresce al crescere della dimensione, per arrivare al
25% delle imprese con più di 500 addetti (Tab. 1).
Tabella 1 - Destinazione della produzione delocalizzata,
per classi di addetti
Classi di addetti
11-20
21-50
51-250 251-500
oltre
500
Venduta nel Paese in cui
è ubicata l'unità produttiva
3,6
13,9
23,7
24,0
42,5
14,7
Importata per rientrare
nel ciclo produttivo in Italia
23,5
35,8
31,9
32,1
20,9
30,3
Importata per essere
venduta sul mercato italiano
41,7
34,7
25,0
21,7
17,7
33,0
Importata per essere
riesportata in paesi terzi
23,2
12,4
10,6
12,6
10,6
15,3
Venduta direttamente
in paesi terzi
8,0
3,2
8,7
9,6
8,2
6,7
Tot.ale
Fonte: Elaborazione Area Studi Capitalia
Le dimensioni dell’internazionalizzazione delle
imprese italiane e i settori a forte delocalizzazione
Al primo gennaio 20054 le imprese estere con partecipazioni italiane erano circa 17 mila, con 5.750 imprese
investitrici, un’occupazione totale di oltre un milione di
addetti e un fatturato totale di 275 miliardi di euro (Tab.
2). Si tratta per oltre l’85% dei casi di società controllate,
con partecipazioni detenute da investitori in gran parte
di dimensioni medio-piccole (circa il 50% occupa fino a
50 addetti), con sede nelle regioni del Nord-Ovest (per
oltre il 46% del totale) e del Nord-Est (per oltre il 33%) e
che, mediamente, sono presenti all’estero con 2 o 3
società. Le aziende di settori manifatturieri assorbono
l’80% circa del numero totale dei dipendenti esteri,
con una netta prevalenza dei settori con forti economie di scala (con oltre il 55% dei dipendenti) e dei set4
Banca dati Reprint, Politecnico di Milano – ICE, 2005.
Tabella 2 - Le partecipazioni italiane all’estero ed estere in
Italia al 1.1.2005
Partecipazioni
italiane all’estero (a)
Partecipazioni
italiane all’estero (b)
Valore
%
Valore
Totale
3.873
7.181
920.575
382.267
75.214
Imprese investitrici (N.)
Imprese partecipate (N.)
Dipendenti (N.)
Fatturato (milioni euro)
Valore aggiunto (milioni euro)
5.750
16.832
1.084.417
275.086
n.d.
100,0
100,0
100,0
100,0
n.d.
Imprese investitrici (N.)
Imprese partecipate (N.)
Dipendenti (N.)
Fatturato (milioni euro)
Valore aggiunto (milioni euro)
4.845
14.416
873.983
223.670
n.d.
Imprese investitrici (N.)
Imprese partecipate (N.)
Dipendenti (N.)
Fatturato (milioni euro)
Valore aggiunto (milioni euro)
Partecipazioni paritarie e
1.388
24,1
373
2.416
14,4
558
210.434
19,4 121.653
51.416
18,7
52.842
n.d.
n.d.
8.765
%
(a)
(b)
100,0
100,0
100,0
100,0
100,0
1,48
2,34
1,18
0,72
n.d.
Partecipazioni di controllo
84,3
3.691
95,3
85,6
6.623
92,2
80,6 798.922 86,8
81,3 329.425 86,2
n.d.
66.450
88,3
1,31
2,18
1,09
0,68
n.d
minoritarie
9,6
3,72
7,8
4,33
13,2
1,73
13,8
0,97
11,7
n.d
Nota: Il numero delle imprese investitrici totali è inferiore alla somma
delle imprese investitrici con partecipazioni di controllo e di quelle con
partecipazioni paritarie e minoritarie, data la presenza di soggetti presenti in entrambe le categorie
Fonte: banca dati REPRINT, Politecnico di Milano – ICE.
tori tradizionali (circa il 24% dei dipendenti).
La crescita manifatturiera all’estero è stata forte a partire dai
primi anni ’90, sia come numero di imprese investitrici, sia
come numero di addetti, sia come numero di partecipazioni.
Le aree geografiche con i tassi maggiori di sviluppo nel
periodo 2001-2005 sono state l’Asia, la Cina in particolare, e l’Est Europa, dove i settori tradizionali sono responsabili della grande crescita delle partecipazioni e della produzione italiana.
La ricerca di penetrare i nuovi mercati e di ridurre i costi
ha spinto il processo di “inseguimento multinazionale”.
Comunque resta non sufficiente la presenza internazionale delle imprese italiane, troppo sbilanciata in paesi a
minore potenziale di crescita competitiva, mentre negli ultimi anni si è ridotta la spinta alla crescita di nuove iniziative.
Anche altre fonti convergono sulle analisi condotte da
Mariotti e Mutinelli. Il Registro delle Imprese dell’Ufficio
Italiano Cambi all’inizio del 2004 indica in 870.000 gli
addetti di aziende estere controllate da imprese italiane
pari al 18% degli occupati nell’industria in Italia; di questi,
un terzo era occupato nell’Est Europeo e in Asia. Le imprese italiane con rilevanti attività all’estero erano 1.450; di
queste 390 erano ai vertici di imprese internazionali.
Secondo le indagini condotte da Banca d’Italia a livello
regionale, le imprese con attività all’estero producono un
valore aggiunto per addetto più alto del 9% rispetto a
quello medio delle altre imprese italiane. Anche gli investimenti per addetto sono più elevati. Nei settori classificabili a tecnologia media, la delocalizzazione non sembra
influenzare l’occupazione in Italia, o lo fa in modo positivo. Nei settori tradizionali, lo spostamento all’estero di
18% del 2000 al 24% del 2004.
Occorre poi considerare da un lato che le importazioni
in Italia di produzione italiana all’estero crescono di più
delle importazioni di produttori esteri, salvo casi, come
nell’intimo donna, dove crescono anche queste ultime,
perché i produttori esteri cominciano ad avere una autonoma capacità di penetrazione in Italia. Dall’altro lato, le
esportazioni italiane nei segmenti dove il Made in Italy ha
meno valore trovano crescenti difficoltà sui tradizionali
mercati di sbocco come la Germania, per la ridotta competitività verso produzioni asiatiche importate dai competitor e dai distributori tedeschi.
Viceversa, nei segmenti dove il Made in Italy ha più
valore, l’export italiano mantiene le posizioni e cresce
come quota della produzione nazionale, nonostante che
una componente di produzione italiana sia esportata
direttamente dal paese di delocalizzazione nel paese di
destinazione.
Analizzando più nel dettaglio le performances 20002004 dei settori del total look donna (Tab. 4) e uomo,
classico (Tab. 5) e sportswear (Tab. 6), si rileva che nel
total look classico uomo la produzione realizzata in Italia
ha accusato la riduzione più accentuata (-5,4 % medio
annuo in valore). Il total look uomo è anche il settore nel
quale si verifica la maggiore crescita dell’import di produzioni realizzate all’estero (+10% medio annuo in valore).
Subiscono cali più contenuti dell’attività produttiva nazionale il total look donna (-1,5% medio annuo, ma solo
–0,2% nel 2004) e lo sportswear uomo (-2,8% nel 2004,
ma +0,9% medio annuo). Il bilancio complessivo appare
peraltro meno critico se si osserva che nello stesso periodo per due dei tre settori è complessivamente cresciuta la
propensione all’export (dal 61% al 67% della produzione
nazionale di total look classico uomo, dal 55% al 59% per
lo sportswear uomo), in un contesto che vede le importazioni in calo dell’1% medio annuo nel total look
donna e del 7% circa nel total look classico uomo, e in
crescita, molto contenuta, nello sportswear uomo. Anche
nel caso dell’intimo donna (Tab. 7), nel quale le reimportazioni rappresentano oltre il 40% della produzione totale
Tabella 3 - Dimensione e andamento della produzione italiana all’estero reimportata e incidenza % sulla produzione
realizzata in Italia per alcuni settori del tessile-abbigliamento, dal 2000 al 2004
Mn. Euro
Total look donna
Total look classico uomo
Total look sportswear uomo
Intimo donna
Abbigliamento infantile
Valigeria e pelletteria
Filatura e ritorcitura del cotone
Fonte: Databank
5
Area Studi di Capitalia, op. cit.
2000
976
620
750
330
310
220
129
2001
1.294
743
929
350
330
260
140
2002
1.752
811
969
380
350
310
133
% sulla produzione nazionale
2003
1.883
818
1.019
400
365
340
142
2004
1.985
903
1.128
430
420
385
117
2000
8,4
15,4
22,7
45,7
18,1
9,5
14,2
2001
10,7
18,6
26,6
47,5
19,0
10,4
15,7
2002
15,1
21,7
27,3
50,1
19,6
13,3
16,5
2003
17,1
24,0
28,9
52,8
20,2
14,6
22,4
2004
18,1
28,0
32,9
60,7
24,4
15,5
20,8
GLOBAL COMPETITION
una parte della produzione ha carattere difensivo; riduce
l’occupazione, ma permette di sostenere il confronto
competitivo nel mercato mondiale.
Valutando la dimensione complessiva del fenomeno,
occorre notare che le varie indagini mostrano un impatto
della delocalizzazione italiana sulla struttura produttiva
nazionale ancora piuttosto contenuto. Le difficoltà organizzative e logistiche dovute alla lontananza, la mancanza di risorse umane con professionalità adeguate per
delocalizzare e l’eccessivo costo del trasporto del prodotto finito verso l’Italia sono infatti i principali motivi che
hanno finora ostacolato la delocalizzazione dell’attività
produttiva. Sono le imprese di dimensione medio-grande
(da 51 a 500 addetti) a risentire maggiormente della difficoltà di ridefinire la propria organizzazione logistica, mentre per i settori di specializzazione e per quelli ad alta tecnologia risulta più accentuata la difficoltà nel reperire
risorse umane con professionalità adeguate, e per quelli
tradizionali e di scala incide maggiormente l’eccessivo
costo del trasporto verso l’Italia.
Nel breve termine, i fenomeni di delocalizzazione italiana sono attesi in crescita, ma con tassi inferiori a quelli
registrati negli anni ’90, con una netta predominanza di
imprese potenzialmente interessate nella fascia 251-500
addetti (16% di risposte positive)5.
In diversi settori chiave dell’economia italiana, come il
tessile-abbigliamento, l’impatto sull’attività produttiva
nazionale è tutt’altro che trascurabile ed in forte crescita.
Se il caso dell’intimo donna, nel quale, secondo stime
Databank, la produzione italiana all’estero reimportata in
Italia è pari ad oltre il 60% della produzione nazionale in
valore, può essere considerato un’anomalia, nei principali settori del tessile-abbigliamento questa incidenza è compresa tra il 15% per la valigeria e pelletteria e il 28% del
total look classico uomo (Tab. 3).
Va anche rilevato il fatto che, in tutti i settori del comparto, l’incidenza della produzione delocalizzata reimportata è in forte e progressiva crescita, passando, ad esempio, nel settore della filatura del cotone, dal 14% del 2000
al 21% del 2004, oppure nell’abbigliamento infantile dal
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
23
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
Tabella 4 - Total look donna: produzione, importazione,
esportazione e consumo in valore, dal 2000 al 2004
(Mn. Euro a prezzi ex-fabrica)
2000
2001
2002
2003
% variaz.
2004/2003
2004
% variaz. m.a.
2004/2001
12.635 13.351
13.392
12.880
12.960
0,6
0,6
Produzione
11.659 12.057
nazionale
Prod.
92,2
90,3
naz./tot.%
Totale
1.968 2.324
importazioni(b)
Import. di prod.
976
1.294
11.640
10.997
10.975
-0,2
-1,5
86,9
85,4
84,7
2.628
2.815
2.938
4,4
10,5
1.752
1.883
1.985
5,4
19,4
876
6.037
8.231
932
5.540
8.272
953
5.470
8.443
2,3
-1,3
2,1
-1,0
-2,3
2,6
Prouzione. totale
naz. + prod. italiana
all’estero (a)
italiane all’estero
effettuate da oper. naz.
Altre import.
Esportazioni (b)
Consumo
apparente
992
6.003
7.624
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
Fonte: Databank
24
1.030
6.361
8.020
a) - include offshoring e esclude outsourcing
b) - prezzi franco dogana
e i concorrenti esteri guadagnano quota sul mercato
interno, arrivando a coprire il 47% della domanda (contro il 33% del 2000), le esportazioni sono comunque in
crescita del 7% medio annuo, con una propensione all’export che passa dal 63% all’84% della produzione nazionale.
Impatto della delocalizzazione
Mano a mano che si passa da delocalizzazione puramente difensiva a delocalizzazione offensiva e strategica,
la delocalizzazione impone la crescita di risorse umane più
qualificate e produce effetti positivi sulle imprese, in quanto fa migliorare la produttività, le competenze e le performances di vendita, imponendo l’adozione di modelli di
business innovativi e competitivi. Inoltre essa svolge un’azione importante di stimolo al tessuto imprenditoriale
locale, con la diffusione di “storie” che possono essere imitate, evitando gli errori commessi dai primi.
Tuttavia, a parità di condizioni in un sistema statico, la delocalizzazione può produrre una serie di effetti indesiderati:
› una riduzione della produzione realizzata sul territorio
nazionale, per la quota delocalizzata;
› la riduzione dei flussi di export dall’Italia, per la quota
Tabella 5 - Total look classico - fashion uomo: produzione,
importazione, esportazione e consumo in valore, dal 2000
al 2004 (Mn. Euro a prezzi ex-fabrica)
2000
2001
2002
2003
% variaz.
2004/2003
2004
% variaz. m.a.
2004/2001
Produzione totale
naz. + prod. italiana
all’estero (a)
4.649
4.743
4.541
4.232
4.130
-2,4
-2,9
Produzione
nazionale
Prod.
naz./tot.%
Totale (b)
importazioni
4.025
4.000
3.730
3.414
3.227
-5,5
-5,4
86,6
84,3
82,1
80,7
78,1
1.230
1.369
1.335
1.268
1.362
7,4
2,6
Import. di prod.
italiane all’estero
effettuate da oper. naz.
620
743
811
818
903
10,4
9,9
Altre import.
Esportazioni (b)
Consumo
apparente
610
2.455
2.800
626
2.633
2.736
524
2.432
2.633
450
2.190
2.492
459
2.160
2.429
2,0
-1,4
-2,5
-6,9
-3,1
-3,5
Fonte: Databank
a) - include offshoring e esclude outsourcing
b) - prezzi franco dogana
sostituita dalle vendite estero su estero, il cui eventuale
successivo incremento determina un’espansione dell’attività produttiva estera, lasciando inalterata quella nazionale
› l’incremento dei flussi di import dai Paesi di delocalizzazione, determinato dalla quota di produzione delocalizzata venduta sul mercato interno;
› un peggioramento del saldo della bilancia commerciale.
Un impatto certamente più rilevante sull’Italia è dato dalla
delocalizzazione degli altri paesi che è in grandissima
misura l’effettiva responsabile della riduzione delle esportazioni italiane in quei paesi.
La delocalizzazione italiana, quindi, non è responsabile
in modo diretto dell’attuale situazione di debolezza competitiva, che provoca, indipendentemente dalla delocalizzazione (fenomeno di ancora modeste proporzioni e
comunque valido sotto il profilo difensivo), la chiusura di
unità produttive.
Al contrario la delocalizzazione offensiva strategica ha
effetti positivi sulla crescita del valore aggiunto e della produttività, con ricadute positive sul paese.
Se si analizzano i dati relativi all’occupazione e al numero di unità produttive nei principali distretti industriali dei
settori del tessile-abbigliamento, si riscontra un calo marcato sia del numero di addetti complessivo (-5,8% tra il
1991 e il 2001), sia del numero di unità produttive (- 4,5%
nello stesso periodo).
Attualmente le crisi aziendali tra il 2005-2006 sono
aumentate e riguardano 86.000 tessili, di cui 74.000 in
cassa integrazione.
Tali crisi sono conseguenza di insufficiente competitività
del rapporto qualità-prezzo, che la delocalizzazione,
anche solo difensiva, può migliorare.
I nuovi modelli di business nel comparto tessile-abbigliamento
Come detto, la delocalizzazione produce effetti positivi
sulle imprese costringendole a ridefinire nuovi modelli di
business, attraverso la riconfigurazione su scala internazionale delle attività di produzione, distribuzione e logistica, anche nei mercati di origine, in modo coerente con i
bisogni del target di mercati serviti.
Nella distribuzione cresce il numero dei punti vendita a
gestione diretta, in tutte le fasce del mercato.
La logistica deve garantire una più efficiente politica
di riassortimenti. Il marketing mix si arricchisce di una
variabile, la produzione per origine, potendo meglio
differenziare i prodotti per fascia prezzo qualità con un
conseguente ampliamento dell’ambito di presenza
intrasettoriale.
Definire il proprio modello di supply chain e assicurare
la coerenza di questo con la strategia aziendale, in base
al prodotto e al target, è fondamentale per i competitors
del sistema moda, che devono coniugare esigenze di
quick response, con brevi cicli di vita ed elevata varietà del
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
2001
2002
2003
% variaz.
2004/2003
2004
% variaz. m.a.
2004/2001
Produzione totale
naz. + prod. italiana
all’estero (a)
4.055
4.415
4.518
4.545
4.554
0,2
2,9
Produzione
nazionale
Prod.
naz./tot.%
Totale
importazioni(b)
3.305
3.486
3.549
3.526
3.426
-2,8
0,9
81,5
79,0
78,6
77,6
75,2
1.420
1.669
1.694
1.716
1.845
7,5
6,8
Import. di prod.
italiane all’estero
effettuate da oper. naz.
750
929
969
1.019
1.128
10,7
10,7
Altre import.
Esportazioni (b)
Consumo
apparente
670
1.825
2.900
740
2.085
3.070
725
2.087
3.156
697
2.090
3.152
717
2.020
3.251
2,9
-3,3
3,1
1,7
2,6
2,9
Fonte: Databank
a) - include offshoring e esclude outsourcing
b) - prezzi franco dogana
prodotto, globalizzazione del mercato e frammentazione
della domanda.
Questa esigenza sollecita scelte strategiche differenziate
per fasce di mercato.
Mentre per le imprese più innovative di fascia lusso e
fine prevale l’orientamento verso fornitori nazionali flessibili, affidabili e specializzati, con cui mantenere rapporti di
lungo periodo, talora esclusivi, e, per ottenere maggiori
garanzie sulla loro disponibilità e sulla qualità delle lavorazioni, alcune aziende intervengono acquisendo quote di
partecipazione, per le aziende o le linee meno innovative,
le caratteristiche di maggiore prevedibilità e stabilità della
domanda portano ad orientarsi verso modelli di supply
chain efficiente, con enfasi sui costi, su una programmazione rigida ma ben pianificata e su una razionalizzazione
della gamma offerta.
Nei settori dell’abbigliamento, la delocalizzazione produttiva all’estero viene attuata attraverso:
- processi di acquisizioni o costituzioni di joint venture
(per le imprese maggiori che dispongono di risorse finanziarie sufficienti e la capacità di sviluppare competenze
non facilmente trasferibili in contesti diversi da quello
nazionale);
- forme di traffico di perfezionamento passivo (Tpp);
- l’acquisto diretto dei capi (soprattutto nelle fasce più
economiche e per le imprese minori).
Sono stati i paesi dell’Europa centro-orientale e dell’area
mediterranea ad essere favoriti dagli imprenditori italiani,
sia nel caso di investimenti diretti che del Tpp.
La vicinanza geografica e culturale con questi paesi li
rende attraenti anche per i piccoli imprenditori e consente di coniugare un risparmio di costi, seppure inferiore a
quello che si potrebbe ottenere operando nei più lontani
mercati del Sud Est Asiatico, con un’agevole possibilità di
controllo delle lavorazioni delocalizzate in subfornitura.
Tuttavia nel corso dell’ultimo biennio diversi operatori,
soprattutto della fascia inferiore del mercato, hanno incrementato il sourcing nei paesi del Sud Est Asiatico, sia attraverso scelte di buy, sia attraverso investimenti diretti.
Il mutato quadro competitivo sta provocando la divaricazione delle performances a livello intrasettoriale. Si apre
un nuovo filone di ricerca sui best/worst performers, per
capire quali siano le nuove determinanti dell’attività.
In questo contesto assume un peso rilevante l’analisi
dell’impatto di nuovi modelli business e della delocalizzazione produttiva. I dati riportati sul ROI nel periodo 20022004 per alcuni settori mostrano la crescente divaricazione dei risultati (Tab. 8).
Non è ancora possibile una valutazione quantitativa
delle principali cause delle performances dei best performers, mentre è certo che fra i worst si trovano soltanto
imprese spiazzate dalla concorrenza internazionale, che
sono rimaste ferme, incapaci di rinnovare offerte, fonti e
modalità di sourcing.
Conclusione
La delocalizzazione italiana, come modalità per recuperare competitività nei confronti della concorrenza internazionale, appare un processo necessario e urgente. Gli
squilibri con la Cina e altri paesi low cost possono infatti
essere solo marginalmente e transitoriamente attenuati,
come dimostrano i dazi di compensazione sulle calzature
cinesi e vietnamite, anche per l'opposizione di marchi
mondiali delocalizzati, importatori e dettaglianti.
La delocalizzazione potrebbe inoltre far accelerare sia le
aggregazioni fra imprese sia le riforme non rinviabili della
tutela del Made in Italy. Una tutela che privilegi il luogo di
produzione piuttosto che il soggetto produttore (come ha
stabilito anche la recente sentenza della Cassazione che
ha vietato il marchio "Italy" se il vestito è cucito all'estero);
che introduca l’obbligo del marchio di origine; standard
di qualità su prodotti importati in Europa e altre misure di
perequazione di fronte dal dumping sociale e ambientale
esistente. La delocalizzazione in aggiunta stimola la riforTabella 7 - Intimo donna: produzione, importazione, esportazione e consumo apparente in valore, dal 2000 al 2004
(Mn. Euro a prezzi ex-fabrica)
2000
Prod. totale
naz. + prod. italiana
all’estero (a)
2001
2002
1.134,5 1.174,5 1.234,0
2003
% variaz.
2004/2003
2004
% variaz. m.a.
2004/2001
1.258,0
1.245,5
-1,0
2,4
-6,6
-0,5
Produzione
nazionale
Prod.
naz./tot.%
Totale (b)
importazioni
722,0
737,0
759,0
758,0
708,0
63,6
62,8
61,5
60,3
56,8
627,0
675,0
733,0
797,0
922,0
15,7
10,1
Import. di prod.
italiane all’estero
effettuate da oper. naz.
330,0
350,0
380,0
400,0
430,0
7,5
6,8
Altre import.
Esportazioni (b)
Consumo
apparente
297,0
457,0
892,0
325,0
475,0
937,0
353,0
518,0
974,0
397,0
534,0
1.021,0
492,0
593,0
1.037,0
23,9
11,0
1,6
13,4
6,7
3,8
Fonte: Databank
a) - include offshoring e esclude outsourcing
b) - prezzi franco dogana
4 - 2006
2000
Performance differenziate delle imprese a livello intrasettoriale
GLOBAL COMPETITION
Tabella 6 - Total look sportswear uomo: produzione,
importazione, esportazione e consumo in valore, dal 2000
al 2004 (Mn. Euro a prezzi ex-fabrica)
25
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
ma della tassazione, per ridurre il costo del lavoro; quella
degli ammortizzatori sociali, per gestire la transizione;
quella dell'apertura dei mercati di settori e attività regolamentati, per assorbire nei servizi la forza lavoro in eccesso
nel settore manifatturiero.
Il trasferimento di parte dei settori tradizionali nei segmenti a basso valore aggiunto, verso i paesi low cost/alta
crescita (Cina e India in particolare) è peraltro un processo inarrestabile.
Le medie imprese di questi settori non lo stanno subendo per sopravvivere, ma sanno cogliere le opportunità di
un'internazionalizzazione offensiva e strategica con un
rafforzamento di posizionamento nelle nicchie mondiali
di alta qualità.
L'indagine Mediobanca-Unioncamere mostra che le
quasi 4.000 medie imprese analizzate, nel periodo 19962002, hanno creato valore aggiunto in misura 3 volte
superiore alle grandi, con una crescita del fatturato del
40%, con una crescita dell'export del 49%. L'8% dell'universo ha effettuato delocalizzazioni, con investimenti in
paesi a basso costo, accompagnati da aumento di personale qualificato nelle case madri.
Il coordinamento della politica industriale
ormai convincimento generale che
sia necessario un aggiustamento
reale del sistema produttivo e che, per far
ciò, occorra una politica industriale, intesa come insieme coordinato di interventi
di natura non macroeconomica, in termini molto vicini al concetto di competitività
espresso nel trattato di Maastricht. Un
aspetto centrale della questione, il coordinamento degli interventi, è stato analizzato con attenzione sulla rivista Economia
e Politica Industriale, nel numero 4 del
2005. Il coordinamento va articolato in:
a) visione d’insieme, senza la quale gli
interventi rischiano di risultare inutili o,
peggio, dannosi;
b) coerenza nelle scelte concrete, tratto
questo non caratterizzante della politica
finora praticata per il sistema produttivo;
c) attività operativa di coordinamento tra
organismi a vario titolo competenti in
materia di politica industriale.
Da una rilettura delle esperienze maturate nel nostro paese negli ultimi cinquant’anni sembra emergere il frequente
ripetersi di un medesimo processo: dapprima, con la finalità di attenuare i dualismi settoriali e territoriali dell’economia,
viene impostato un progetto politico illuminato, viene costituito un comitato
interministeriale di coordinamento e l’attuazione del progetto viene affidata ai
migliori istituti operativi già esistenti.
Successivamente, l’ampiezza e la complessità degli obiettivi e anche il mancato
raggiungimento degli stessi, unitamente
a istanze gestionali di natura politica,
inducono il governo a creare nuovi enti
È
specialistici accanto agli strumenti operativi esistenti. Tra i ministri si esplicitano
linee politiche divergenti, non ricomposte né ricomponibili nel comitato interministeriale. Quest’ultimo, ma anche gli istituti operativi, dopo un certo numero di
anni vengono abrogati, e le disfunzioni
per risolvere le quali era stato impostato il
progetto si accentuano. Inoltre, per risolvere anche problemi di ordine industriale, viene in linea di massima privilegiato
l’approccio generale e macroeconomico,
il più delle volte sotto la spinta di emergenze congiunturali o di bilancio.
Nel 1977 con la legge n° 675 il coordinamento fu affidato a un nuovo organismo, il Comitato interministeriale per la
politica industriale (Cipi), presieduto dal
presidente del Consiglio o, per sua delega, dal ministro del Bilancio e della programmazione economica che ne era
vicepresidente. Del Cipi facevano parte di
diritto sei ministri: Bilancio, Tesoro,
Industria, Partecipazioni statali, Lavoro e
Interventi straordinari nel Mezzogiorno.
Vi partecipavano inoltre numerosi altri
rappresentanti istituzionali. Il Cipi avrebbe
dovuto essere il crogiuolo in cui riunire
tutte le direttive governative in materia di
politica industriale e tutte le diverse visioni culturali e politiche delle maggioranze
pluripartitiche. Ma a poco a poco degenerò e divenne il luogo in cui ogni ministro, invece di portare il proprio contributo di pensiero politico, andava a frazionare con i colleghi la propria responsabilità
in atti amministrativi di competenza del
proprio dicastero. Più si frazionava, meno
ciascun ministro rischiava di suo, più dilagavano pressioni e connivenze nel concedere favoritismi. Il Cipi si trasformò, in
altri termini, in una sorta di sportello in
cui ogni ministro entrava, incassava la
delibera sulla tale questione che gli premeva e se ne usciva senza neanche
aspettare la fine della riunione. Il Cipi
cessò la propria attività a fine 1993.
Come ricorda Giuliano Amato, il trattato
di Maastricht attribuisce la politica industriale ancora una volta agli Stati, “affida
tuttavia alla Comunità il compito di promuoverla e coordinarla. Essa consiste in
tutte le iniziative che, possibilmente in
cooperazione fra loro e sotto l’impulso
della Commissione, gli Stati adotteranno
per rendere più competitive le industrie
europee. La nozione di politica industriale viene dunque ancorata a quella di
competitività”.
All’inizio del 2000 la politica industriale
era ancorata alla competitività, non c’era
più al centro uno specifico comitato interministeriale di coordinamento, la ripartizione delle competenze tra i due maggiori ministeri economici era stata razionalizzata, era stata introdotta – ma in
Italia non ancora assimilata – la dimensione territoriale della ripartizione delle competenze tra Unione europea, Stato,
Regioni ed enti locali.
Per stimare in che misura la responsabilità
statale delle politiche per la competitività
sia attribuibile ai vari ministeri, è utile far
riferimento al documento dell’IMD di
Losanna. Se si parte dal totale dei 314
indicatori e si eliminano quelli per i quali
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
Tabella 8 - ROI medio e relativo a best e worst performers, in alcuni settori del tessile abbigliamento, 2002-2004
ROI (%)
Total look donna fascia lusso
Total look donna fascia media
Total look uomo classico fashion
Intimo donna
Valigeria e pelletteria
Calzature
Tessuti lanieri per abbigliamento
Filatura e ritorcitura del cotone
Media settoriale
Best performers
Worst performers
2002
2003
2004
2002
2003
2004
2002
2003
2004
18,04
14,66
5,74
16,81
13,72
8,65
4,59
15,17
13,07
13,81
8,49
17,68
12,04
5,41
-1,00
17,49
14,53
12,46
3,36
19,35
11,13
7,66
-6,75
25,30
23,91
19,17
36,10
14,90
14,27
13,25
19,07
18,72
26,52
17,47
33,03
13,37
17,35
6,66
27,01
21,71
26,29
15,89
35,15
14,26
19,58
6,27
8,15
4,02
-5,54
10,05
9,76
2,84
3,82
11,26
0,85
6,59
2,01
7,88
5,40
-4,39
-3,19
7,97
3,05
4,36
-28,14
13,49
2,23
-14,92
-12,80
Fonte: Databank
non è possibile alcuna azione diretta del
governo, pur con una certa approssimazione derivante tra l’altro dalla condivisione di competenze tra più ministeri, emerge che in Italia la maggior responsabilità
percentuale (26%) compete, al Ministero
dell’Economia e Finanze, seguito dal
quello delle Attività Produttive (22%) e
dell’Università e ricerca (18%).
In effetti, la crisi finanziaria dello Stato
impone politiche dominate dalla priorità
del controllo della spesa e dell’aumento
delle entrate: l’esigenza dell’equilibrio
macroeconomico,
controllato
dal
Ministero dell’Economia, prevale anche
in aree di competenza del Ministero delle
Attività produttive.
Nel 2005 il Consiglio europeo per rilanciare la strategia di Lisbona approvò 24
orientamenti integrati per la crescita e
l’occupazione 2005-2008. In Italia, il
Consiglio dei ministri ha dato vita a un
comitato di ministri, coordinato dal ministro per le Politiche comunitarie, cui
hanno partecipato i ministri degli Esteri,
Economia e Finanze, Attività produttive,
Università
e
Ricerca,
Ambiente,
Innovazione tecnologica, Funzione pubblica e Politiche di coesione. Il lavoro preparatorio è stato curato da un comitato
tecnico, di cui ha fatto parte un rappresentante delle Regioni. Il piano approvato, tra i principali provvedimenti aventi
validità generale, prevede: una più
ampia liberalizzazione nel settore dei servizi; un miglioramento delle prestazioni
della P.A.; un contesto normativo propizio agli investimenti, all’innovazione e
allo sviluppo; una migliore normativa per
piccole imprese e distretti; la piena valorizzazione del capitale umano; la creazione o il completamento di reti infrastrutturali; l’attuazione della politica di coesione
europea; la protezione ambientale. La
mancata assegnazione di risorse finanziarie da parte del ministro dell’Economia e
delle Finanze, che pure era membro del
comitato dei ministri, ha di fatto rinviato
l’attuazione di questo piano. Dunque,
ancora una volta, la formula del coordinamento affidato a un comitato interministeriale di fatto non ha dato esito positivo.
Va rilevato che frammentazione e sovrapposizione di competenze in materia di
politica industriale o, come si è detto
prima, di competitività, è una questione
che riguarda lo stesso Consiglio dei ministri europei. Se poi si analizzano e si raffrontano le variegate competenze istituzionali nell’amministrazione centrale italiana con quelle di Gran Bretagna,
Francia, Germania e Spagna, si trova che
tranne la ricerca e l’innovazione tutte le
politiche sono funzionalmente attribuite
a un solo ministero.
Dopo le modifiche del titolo V della parte
II della Costituzione, larga parte dei poteri in tema di politica industriale sono
demandati alle Regioni. Infine, già a partire dagli anni ’90 si è consolidato il ruolo
di indirizzo e controllo da parte della
Commissione europea in molti ambiti
relativi alla politica industriale.
Il problema del coordinamento a livello di
governo centrale sta nell’attribuzione
delle competenze ai vari soggetti coinvol-
** Università Bicocca, Milano
ti in modo funzionale all’efficacia della
politica,
e
nel
coordinamento.
L’esperienza del CIPI o di organismi analoghi è superata. L’unicità di un ministero
attento al sistema produttivo è il modello
seguito da molti altri paesi europei, ed è
già indicato nel D.L. 22.01.04., di cui si è
detto sopra, ma di fatto non è implementata. Sarebbe pure utile una riallocazione
al margine delle competenze dei vari
ministeri e una migliore distinzione tra
quelle finanziarie, prerogativa del
Ministero dell’Economia, e quelle del funzionamento dell’economia reale, prerogativa di altri ministeri.
Ancora più complessa è la relazione tra
governo centrale e Regioni. Nelle attuali
condizioni tecnologiche, economiche e
sociali, sono importanti la partecipazione
e la valorizzazione delle risorse umane
locali, e quindi la qualità del sistema di
governo locale. Il luogo istituzionale in
cui si pratica la complessa mediazione tra
gli interessi generali e regionali e tra quelli delle diverse regioni è la Conferenza
Stato-Regioni. Dopo un’iniziale fase di
contrapposizione, il rapporto tra Stato e
Regioni sembra ora improntato a una
reciproca accettazione e collaborazione.
Concludendo, il recupero della competitività del nostro sistema produttivo dipende moltissimo dalla qualità del governo:
si richiede più competenza, maggiore
visione di medio e lungo periodo, più
coordinamento e maggior capacità di
controllo dei risultati. È una sfida che il
nuovo governo non può perdere.
GLOBAL COMPETITION
*Università La Sapienza, Roma
4 - 2006
di Riccardo Gallo* e Francesco Silva**
27
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
IL “MODELLO”
SPAGNOLO:
UNA CRESCITA SENZA PRECEDENTI
L’effetto positivo dell’ingresso della Spagna nell’UE e l’aumento di popolazione,
dovuto al fenomeno migratorio, sono stati i due principali fattori di sviluppo dell’economia
spagnola nell’ultimo decennio. Domanda e occupazione sono aumentate;
gruppi imprenditoriali si sono affermati. Ma carenze e squilibri mettono
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
in pericolo lo sviluppo futuro.
28
a Spagna vende. Le dimensioni del nuovo terminal
ricevuto ogni anno fondi pari all’uno per cento circa del
dell’aeroporto di Madrid, inaugurato nel febbraio del
suo PIL, diventandone il principale beneficiario netto. I tra2006, sono una misura dell’attrattività raggiunta dal
sferimenti comunitari sono stati fondamentali sia per il
paese per il business e il turismo. L’offerta alberghiera
mantenimento dei redditi agricoli, sia per lo sviluppo degli
delle principali città è in continuo aumento, sia dal punto
investimenti in infrastrutture e, secondo alcuni studi, ad
di vista della quantità che – soprattutto – della qualità.
essi è attribuibile un terzo della maggior crescita registraAlcune fiere settoriali di Madrid, Barcellona e Valenza
ta dall’economia spagnola rispetto alla media comunitaria.
sono tra le più importanti a livello internazionale. La
Inoltre, la Spagna è da annoverare tra i paesi
monocoltura sole e mare sta progressivamente lasciando
dell’Unione che hanno applicato con maggior rigore il
il passo al turismo culturale, all’agriturismo e al turismo
“Patto di stabilità e di crescita”, portando nell’ultimo
sportivo (i campi da golf aperti sono già più di 300). Il
decennio il suo disavanzo di bilancio a cifre praticamente
numero di studenti di spagnolo aumenta un anno dopo
irrilevanti rispetto al PIL e raggiungendo, dal 2001, l’obietl’altro in tutto il mondo...
tivo di mantenere il rapporto tra debito pubblico e PIL al
Parallelamente, nell’ultimo decennio l’economia spadi sotto del 60% (nell’anno 2004 era il 49%, di fronte al
gnola ha attraversato uno dei periodi più prosperi. Tra il
71% della “zona euro”). La disciplina di bilancio è stata
1994 e il 2004 la crescita media annuale del Prodotto
essenziale per la creazione di aspettative favorevoli in un
Interno Lordo è stata del 3,4 per cento (tasso identico a
paese che in genere destava sospetti in quest’ambito, perquello registrato nel 2005), cioè: un punto al di sopra
mettendo all’Amministrazione non solo di frenare la tendella media della “zona euro” e
denza all’aumento della pressione
quasi due punti in più rispetto alla
fiscale - tendenza in atto dagli anni
media raggiunta dall’Italia o dalla
ottanta - ma anche di ridurre legGermania. Nello stesso periodo, il
germente alcune imposte dirette.
reddito pro capite è passato dal
Non meno importante per la
78% a quasi il 90% della media
crescita dell’economia spagnola è
dell’UE-15 (e praticamente al 100%
stata la riduzione dei tassi d’intedella media dell’UE-25), mentre il
resse, che ha agevolato prima il
tasso di disoccupazione si è ridotto:
processo di convergenza con l’edal 24 all’11 per cento (all’8,5 per
conomia dei principali paesi euroNICASIO ORTIN
cento nel 2005).
pei, più recentemente l’adozione
Tra i fattori di un’evoluzione così
dell’euro e la sottomissione alla
Direttore Generale di DBK (dal 2005 nel Gruppo
positiva, occorre evidenziare innanpolitica monetaria della Banca
Cerved-Centrale dei Bilanci), l’azienda leader
zi tutto l’integrazione a pieno titolo
Centrale Europea. Gli operatori
nell’analisi dei settori economici di Spagna e
Portogallo, paesi dove realizza un monitoraggio
del paese nell’Unione Europea, che
economici spagnoli hanno potuto
continuo di circa 700 settori. Laureato in
ha avuto peso da diversi punti di
avvantaggiarsi non solo della
Economia e Commercio e in Legge.
vista. In primo luogo, dall’entrata
disponibilità di risorse e della stabiavvenuta nel 1986, la Spagna ha
lità, ma anche di tassi d’interesse
L
% CRESCITA MEDIA ANNUALE DEL PIL 1994-2004
3,4
3,3
3
2,8
2,6
2,5
2,3
2,2
2
1,6
1,5
1,2
OECD
UE-15
Giappone
Germania
Italia
Francia
Portogallo
Regno
Unito
Stati
Uniti
0
Spagna
1
15. La maggior parte si stabilisce in località delle Canarie
e della costa mediterranea (Florida Europea), dove nel
2004 sono state vendute 181.000 abitazioni nuove (il
40% a stranieri).
Per quanto riguarda il restante 80%, all’incirca la metà
dei nuovi arrivati proviene dai paesi latino americani (con
l’Ecuador in testa), la quarta parte dall’Africa (essenzialmente dal Marocco). Uno su cinque dall’Europa dell’Est
(la metà di costoro dalla Romania) e poco più del 5%
dall’Asia. Della crescente integrazione degli stranieri che
vivono in Spagna sono prove evidenti indicatori quali la
riduzione graduale nel volume annuale pro capite di
rimesse inviate (da 2.200 euro nel 2000 a 1.700 nel
2004), nonché l’aumento nel numero di stranieri adulti
residenti che utilizzano prodotti finanziari quali le carte di
credito (73%), i crediti ipotecari (16%) o i crediti al consumo (11%).
Passiamo ora ad analizzare l’offerta. Il settore economico che ha tratto maggiori vantaggi negli ultimi anni è
stato quello dell’edilizia pubblica e privata. La crescita,
sostenuta sia dalle opere civili, spinte dalla forza degli
investimenti pubblici in infrastrutture, sia dall’edilizia residenziale, ha portato il contributo del settore delle costruzioni al PIL spagnolo dal 7,1% del 1997 al 10,7% del
2004. Nello stesso periodo l’industria ha visto scendere la
sua incidenza dal 18,5% al 16,0%, mentre i servizi hanno
aumentato la loro, passando dal 65,8% al 67,3%.
Negli ultimi anni si è pertanto accentuata la terziarizzazione dell’economia spagnola, in linea con quanto verificatosi nella maggior parte dei paesi europei. Le crescite
più rilevanti sono state registrate nei settori delle comunicazioni, del tempo libero e dei servizi alle imprese. Per
quanto riguarda l’industria, la concorrenza in ambito
internazionale con alcuni paesi in via di sviluppo ha avuto
effetti importanti in alcuni settori come nel tessile-abbigliamento che, tra il 2002 e il 2005, ha perso 50.000 posti di
lavoro e circa il 20% della produzione.
L’evoluzione favorevole della domanda interna e la progressiva apertura verso l’esterno dell’economia spagnola
hanno influito in maniera positiva sulle aziende appartenenti ai settori più competitivi, che non solo sono stati in
grado di crescere, creando posti di lavoro ad un buon
ritmo sul mercato nazionale, ma hanno dato anche inizio
a processi di internazionalizzazione, prima nei paesi latino
americani e in seguito in diversi paesi europei. È il caso
dei grandi gruppi delle costruzioni - cinque dei quali si trovano tra i sette più importanti d’Europa -, delle principali
società immobiliari e di alcune catene alberghiere. Da
parte loro, le banche spagnole sono fra le più efficienti a
livello mondiale già da alcuni anni, con il BBVA e il
Gruppo Santander leader nei paesi di lingua spagnola, il
secondo con una posizione privilegiata anche in Europa,
grazie all’acquisizione dell’inglese Abbey. Telefónica è
diventata uno degli operatori di telecomunicazioni più
importanti del mondo, grazie alle recenti incorporazioni
GLOBAL COMPETITION
reali negativi, probabilmente per la prima volta nella storia economica del paese.
Alla luce delle condizioni macroeconomiche sopra
descritte, appaiono del tutto logici fenomeni quali l’incremento sostenuto del consumo privato e il boom immobiliare. Questi fenomeni hanno avuto un potente moltiplicatore nell’aumento del ricorso al credito da parte delle
famiglie. Nell’anno 2004 l’indebitamento di queste ha
superato il 100% del reddito lordo disponibile e, nel
2005, sono stati sottoscritti 1.670.000 nuovi crediti
ipotecari.
L’esplosione del settore immobiliare nell’ultimo decennio è tra i fenomeni economici che ha suscitato maggiore interesse e sul cui termine (quando sarà e con che conseguenze) si sta molto discutendo. Dal 1999, ogni anno
il numero di abitazioni iniziate ha superato sistematicamente il mezzo milione, con picchi che hanno sfiorato le
700.000, sia nel 2004 che nel 2005 e, secondo le previsioni, anche per il 2006. Tali cifre, che in alcuni anni
hanno superato la somma di quelle registrate in
Germania, Francia e Italia messe insieme, costituiscono la
risposta (per alcuni esagerata) al forte incremento della
domanda, sia delle famiglie che degli investitori, in un
paese dove il mattone è sempre stato il principale strumento di risparmio delle famiglie e dove la popolazione è
aumentata in modo significativo grazie al fenomeno
migratorio.
L’immigrazione rappresenta, infatti, l’altro fattore del
recente sviluppo della Spagna. Dei 44,1 milioni di abitanti del paese all’inizio del 2005 (erano 39,7 milioni nel
1996), circa 4 milioni erano stranieri (dieci anni prima gli
stranieri erano solo 0,5 milioni). La percentuale di stranieri oltrepassa già il 15% nelle Baleari e si situa tra il 10 e il
15% a Madrid, in Catalogna e nella Regione di Valenza.
Circa il 20% degli immigranti proviene da paesi dell’UE-
4 - 2006
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
29
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
Evoluzione di alcuni settori industriali spagnoli, 1998-2005
(Milioni euro correnti)
1998
2005 (a)
Produzione Mercato
Industria Farmaceutica
Cemento
Macchine Utensili
Mobili Casa
Calzature
Industria Tessile
GLOBAL COMPETITION
4 - 2006
Fonte: DBK
30
4.818
1.900
848
3.125
2.970
6.006
5.932
1.846
861
2.726
1.592
6.241
(a) dati provvisori
Produzione
8.755
3.331
915
3.125
2.180
4.150
% v.m.a. 2005/1998
Mercato Produzione Mercato
11.315
3.360
900
3.370
1.860
4.300
8,9
8,3
1,1
0,0
-4,3
-5,1
5,7
8,9
0,6
3,1
2,2
-5,2
v.m.a.: variazione media annuale.
di Cesky Telecom e O2.
Si deve dire, tuttavia, che nell’economia spagnola non
è oro tutto quello che luccica. Continuano ad esistere,
anzi si sono accentuati negli ultimi anni, alcuni squilibri,
che minacciano la continuità dello sviluppo a medio termine. Lo squilibrio più evidente è il deficit del conto corrente, che nel 2005 ha superato per la prima volta il livello del 7% del PIL, diventando il più elevato della “zona
euro” in termini assoluti. Le cause immediate di questo
andamento negativo sono da ricercare nella spinta al
consumo, nelle entrate derivate dal turismo, che aumentano ad un ritmo molto inferiore a quello delle importazioni di merci, e nella ridotta crescita delle esportazioni
spagnole. Se al di là della situazione congiunturale volessimo rilevare gli elementi strutturali in grado di spiegare il
deficit crescente della bilancia dei pagamenti, dovremmo
in primo luogo indicare la grande dipendenza dell’economia spagnola dal petrolio, che invece di diminuire negli
ultimi anni è incrementata. Inoltre, vale la pena sottolineare la posizione di debolezza dell’offerta spagnola nella
maggior parte dei paesi emergenti: il 61,3 % delle vendite di merci all’estero nel 2005 sono state effettuate in
Francia, Germania, Portogallo, Regno Unito, Italia e Stati
Uniti, mentre solo il 2,6% ha interessato l’Estremo Oriente
e appena un 1,4% l’Europa dell’Est. In terzo luogo, la
Spagna è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea dove
la produttività non è quasi aumentata negli ultimi anni,
fenomeno dovuto indubbiamente al predominio degli
investimenti nel settore delle costruzioni, piuttosto che in
attrezzature e tecnologia, ad una regolamentazione
eccessiva in alcuni mercati e agli scarsi stanziamenti destinati alla R&S, di poco superiori alla metà della media
comunitaria, se rapportati al PIL.
Se dalle variabili economiche passiamo ad esaminarne
altre più profonde, collegate alla ricordata caduta di competitività, è necessario citare la distanza che separa tuttora la società spagnola da quelle più avanzate, rispetto a
valori che si raggiungono e si consolidano più difficilmente del solo benessere economico. Il livello culturale medio
della popolazione continua ad essere relativamente basso
(la Spagna occupa il diciannovesimo posto nell’UE per
quanto riguarda la diffusione della stampa, mentre il 45
per cento della popolazione che ha compiuto 14 anni
ammette di non leggere mai o quasi mai). Ancora scarsa
è anche la dotazione di valori intangibili quali lo spirito
civico e l’impegno a favore del bene comune, necessari
non solo per una sana convivenza, ma anche per promuovere la crescita dell’economia a lungo termine.
D’altro canto il modello di sviluppo che ha funzionato
così bene negli ultimi anni incomincia a mostrare i primi
segni di stanchezza.
Il progressivo irrigidimento della politica monetaria della
Banca Centrale Europea e il conseguente aumento dei tassi
d’interesse contribuiranno indubbiamente ad accelerare in
maniera più o meno morbida l’atterraggio del mercato
immobiliare, frenando contemporaneamente i consumi
delle economie familiari, già al limite dell’indebitamento.
Infine, a partire dall’anno 2007, la Spagna smetterà di
ricevere gran parte delle sovvenzioni provenienti dall’UE,
che si sono rivelate così utili quando si è trattato di stimolare la crescita.
Lo spostamento del centro di gravità dell’Unione verso
l’Est non è, almeno in principio, una buona notizia per l’economia spagnola, una di quelle che dovrà sopportare di
CONTRIBUTO AL PIL DEI DIVERSI SETTORI DELL’ECONOMIA SPAGNOLA
1997
2004
7,1%
Servizi
10,7%
18,5%
Agricoltura,
allevamento
e pesca
16,0%
Energia
3,6%
5,0%
Fonte: Istituto Nazionale di Statistica
65,8%
2,5%
3,5%
Industria
67,3%
Edilizia
‹ Difficoltà e prospettive dell’industria ›
Evoluzione di alcuni settori dei servizi SPAGNOLI, 1998-2005
più il costo del recente “allargamento”, senza essere, probabilmente, tra i principali beneficiari degli effetti positivi
a medio termine. Inoltre l’indice di crescita e quello di produttività dei nuovi paesi membri rappresentano una sfida
importante per la competitività dell’industria spagnola sui
mercati e per gli investimenti internazionali.
Nei prossimi anni scopriremo quanto può durare la
forte spinta che ha accumulato l’economia spagnola nell’ultimo decennio e che capacità avranno i cittadini, le
imprese e i governi per migliorare la posizione del paese
rispetto agli squilibri e alle carenze create dalla sua crescita.
(Milioni euro correnti)
Telefonia Cellulare
Operatori Logistici
Consulting
Lavoro Interinale
Concessionari di Autostrade
Agenzie di Viaggi
Fonte: DBK
Mercato
1998
Mercato
2005 (a)
% v.m.a.
2005/1998
3.637
1.052
3.145
1.370
992
6.972
15.550
2.835
7.175
2.748
1.860
12.840
23,1
15,2
12,5
10,5
9,4
9,1
(a) dati provvisori
v.m.a.: variazione media annuale.
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31
Libri in vetrina
“ L’economia mondiale verso uno squilibrio globale.
E l’Italia che fa?”
Mario Baldassarri e Pasquale Capretta - Ed. Sperling & Kupfer - Milano
- 2006 - pagg. 140 - E 17.
L’economia globale appare, almeno in
questa fase, anche un’economia di
grandi squilibri. Non solo per l’irruzione di nuovi attori, come Cina e India,
ma anche e soprattutto per il cambiamento profondo che hanno avuto due
parametri centrali nei rapporti politici e
sociali: il tempo e lo spazio. Viviamo in
un mondo in cui il tempo è diventato
sempre più breve, non solo per la
rapidità delle comunicazioni, ma
anche per la velocità con cui avvengono trasformazioni e
cambiamenti.
E anche lo spazio si è fatto più ristretto, è cresciuta l’interdipendenza tra le diverse aree, sono stati progressivamente abbattuti i confini non solo per le merci, ma anche per le idee, per
la conoscenza, per l’innovazione tecnica e scientifica.
Ma in questo scontro tra giganti, in questa arena in cui sembrano operare alla grande le forze del mercato (e quindi la
logica dei più forti) l’Italia rischia di avere un ruolo sempre più
marginale, subalterno, schiacciato oltre che dal dinamismo
dei grandi anche dalle proprie incapacità.
Come uscirne. Mario Baldassarri, docente di economia alla
Sapienza e vice-ministro nel Governo Berlusconi, e Pasquale
Capretta, responsabile del modello econometrico al Centro
studi Confindustria, hanno cercato in questo libro di affiancare ad una analisi puntuale ed attenta dei temi dell’assetto
economico mondiale anche una serie di proposte e di possibile vie perché l’Europa, e insieme all’Europa anche l’Italia,
non resti schiacciata nello scontro tra l’elefante americano e
le tigri asiatiche come un vaso di coccio o una bella addormentata.
La strada non è facile. Soprattutto per l’Italia, infatti, sono
necessarie quelle riforme strutturali di cui da decenni si parla
senza ottenere risultati significativi. Perchè l’obiettivo, fino ad
ora mancato, deve essere quello di accrescere la produttività
e la competitività delle imprese.
“ Un passato che ritorna”
Valerio Castronovo - Editori Laterza - Roma, Bari - 2006 - pagg.
360 - E 19.
“Seicento anni fa, tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età
moderna, l’Europa dipendeva dall’Asia
per molti beni essenziali alla sua economia e d’uso corrente nella vita quotidiana. E tale vincolo sarebbe durato fino alla
fine dell’Ottocento. Allo stesso modo con
cui sino allora aveva mutuato dall’Oriente
importanti conoscenze scientifiche e varie
applicazioni pratiche”. Inizia così il secondo capitolo del libro che Valerio
Castronovo ha dedicato alla sfida asiatica.
Una prospettiva nuova, quella storica,
dopo decine di saggi che hanno cercato
di analizzare i grandi cambiamenti nell’ottica di breve periodo
della globalizzazione.
Castronovo, sicuramente il maggior esperto italiano di storia
dell’economia e dell’industria, offre così una visione estremamente realistica del processo che ha portato ai grandi cambiamenti attuali mettendo in luce tutti quegli elementi che
a cura di Gianfranco Fabi
dimostrano come si sia di fronte ad una evoluzione che
anche quando compie dei salti (come nelle scelte di mercato
dei vertici del partito comunista cinese) si colloca comunque
in una lunga linea di coerenza logica.
L’ambizione dello storico è anche di dimostrare come possano essere estremamente utili gli insegnamenti del passato per
guidare per quanto possibile anche le evoluzioni future. E
allora in questo libro, che resta un libro di storia, non mancano le istruzioni per l’uso per leggere le tendenze e mettere a
frutto le opportunità: con in primo piano l’esigenza di rispettare e anzi valorizzare, tradizioni, abitudini e culture. Per
l’Europa, per esempio, si tratta di “liberarsi dai retaggi psicologici dell’epoca coloniale”, quasi che il Vecchio Continente
rischi di essere vittima di un complesso di superiorità che ne
limiti in fondo le possibilità operative. Ed è un pericoloso complesso di superiorità, secondo Castronovo, il fatto che
l’Europa ritenga di poter affrontare le sfide del Terzo millennio
con le stesse armi del secolo scorso senza quindi affrontare
quelle esigenze di innovazione, ricerca e innovazione strutturale peraltro messe bene in luce, ma solo a parole, nel vertice e negli impegni di Lisbona.
“ La regina e il cavallo”
Salvatore Rossi - Editori Laterza – Roma, Bari – 2006 – pagg.
176 - E 10.
In molti manuali di management l’esempio della partita a
scacchi costituisce una simulazione sull’importanza della strategia nella conduzione aziendale. Con una filosofia molto
semplice da spiegare quanto complessa
da applicare: tante più mosse dell’avversario un giocatore saprà prevedere, in
risposta alle proprie, tanto più sarà in
grado di vincere la partita.
Il mercato è in fondo la grande scacchiera in cui i protagonisti dell’economia giocano la loro partita. Per le imprese italiane
si tratta di definire una strategia: da una parte valutando le
proprie potenzialità, ma dall’altra cercando si sfruttare al
meglio le regole del gioco.
Proprio la similitudine con il gioco degli scacchi costituisce il
filo conduttore di Salvatore Rossi, responsabile del Servizio
studi della Banca d’Italia, nell’analizzare nel libro i rischi e le
opportunità del sistema-Italia. La regina può muoversi in tutte
le direzioni e può attaccare direttamente l’avversario. Il cavallo ha la caratteristica di saltare e di muoversi di lato: e questo
nella metafora aziendale può voler dire sconfinare in terreni
vicini e più accessibili. Ma ci sono altre strategie scacchistiche:
l’arrocco, cioè il giocare in difesa magari valorizzando i propri
punti di forza, per arrivare alla soluzione estrema come buttare all’aria la scacchiera e andare a giocare da un’altra parte.
Con l’accattivante paragone con gli scacchi l’analisi di
Salvatore Rossi mette a fuoco con estremo realismo, e insieme con semplicità, i nodi di fondo dell’economia italiana,
quei nodi che hanno limitato negli ultimi anni le strade dello
sviluppo. Indicando anche i rimedi reali e le illusioni possibili.
Queste ultime, le illusioni, sono racchiuse soprattutto nella
speranza che per uscire dalle secche possa bastare una politica di bilancio più accomodante o una politica monetaria
meno rigorosa. I rimedi sono più difficili e impegnativi: passano per la dimensione delle imprese, la concorrenza, l’innovazione, la conoscenza. La partita comunque, e questo è un
dato positivo, resta sempre aperta.