l`impresa italiana nell`economia globale
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L’ I M P R E S A I TA L I A N A N E L L’ E C O N O M I A G L O B A L E 4 Difficoltà e prospettive dell’industria F. Onida Produttività, competitività e commercio estero: l’Italia nell’Europa alle soglie del nuovo millennio F. Varetto Redditività e finanziamenti delle imprese italiane S. Meacci Caratteristiche ed effetti della delocalizzazione N. Ortin Il “modello” spagnolo: una crescita senza precedenti BIMESTRALE DI POLITICA ECONOMICA GIUGNO 2006 L’ I M P R E S A I TA L I A N A N E L L’ E C O N O M I A G L O B A L E Bimestrale di politica economica n. 4 - Giugno 2006 Comitato scientifico Paolo Gnes PRESIDENTE Boris Biancheri Patrizio Bianchi Innocenzo Cipolletta Mario Deaglio Alberto Majocchi Giorgio Mulè Marco Onado Guido M. Rey Franco Varetto Direttore Responsabile Alberto Mucci Segreteria di redazione Priscilla Bigioni Redazione Global Competition L’impresa italiana nell’economia globale Via G. B. Morgagni, 30/h - 00161 Roma tel. 06-44110735 - fax 06-44110775 email: [email protected] sito: www.cerved.com Proprietario ed Editore Cerved Business Information SpA Via G. B. Morgagni, 30/h - 00161 Roma Stampa Mondadori Printing SpA - Stabilimento grafico Verona Via Mondadori,15 - Verona Distribuzione Mondadori in abbinamento a Panorama Economy Progetto grafico e impaginazione G&Z - Comunicazione integrata - Roma Le opinioni e i giudizi espressi negli articoli non impegnano la responsabilità di Cerved B.I. SpA Copyright 2005 Cerved B.I. SpA. Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati Testata registrata al Tribunale di Roma al n. 409 del 19 ottobre 2005 ‹ editoriale › ‹ editoriale › Riposizionarsi sulla qualità di Paolo Gnes Negli ultimi cinque anni l’economia italiana è cresciuta appena dello 0,7 per cento l’anno, collocandosi insieme alla Germania all’ultimo posto tra le economie europee, a loro volta cresciute nel loro insieme ad un tasso nettamente inferiore a quello degli Stati Uniti, oltre che della Cina e della altre economie dinamiche dell’Asia. Sia in Italia che in Germania la caduta del tasso di crescita è in parte imputabile al basso incremento demografico e all’invecchiamento della popolazione. Ma le sue determinanti principali sono profondamente diverse tra i due paesi. La Germania ha realizzato nell’ultimo decennio un fortissimo incremento delle esportazioni, accrescendo la propria quota nel commercio internazionale nonostante l’ingresso delle economie asiatiche e diventando dal 2003 il primo esportatore mondiale di manufatti davanti a Stati Uniti, Cina e Giappone. L’Italia ha subito invece una forte contrazione della propria quota di esportazioni, scendendo al settimo posto nella graduatoria mondiale alla pari con Canada e Belgio e dietro anche all’Olanda. Il contestuale incremento delle importazioni ha eroso l’attivo delle partite correnti, cosicché l’aumento del prezzo del petrolio e del gas sta determinando un pesante disavanzo nei conti con l’estero. Il ristagno dell’economia tedesca riflette quindi la debolezza della domanda interna, mentre quello dell’economia italiana dipende dalla sua perdita di competitività internazionale. Tale perdita di competitività ha natura essenzialmente strutturale, in quanto si ricollega alle caratteristiche della nostra industria manifatturiera, che da un lato è fortemente esposta alla concorrenza asiatica per la sua specializzazione produttiva, dall’altro stenta a trarre vantaggio dall’apertura dei nuovi mercati esteri e dalla rivoluzione tecnologica per la frammentazione del tessuto produttivo e la carenza di grandi imprese. La nostra industria manifatturiera si trova dunque stretta nella morsa della concorrenza delle nuove economie asiatiche, che beneficiano di livelli salariali dell’ordine di un ventesimo dei nostri, e delle economie più evolute, che hanno potuto e saputo trarre maggiori guadagni di produttività dall’incorporazione delle nuove tecnologie. Gli effetti sono evidenti. Dal 1996 al 2004 il passivo bilaterale dell’Italia verso la Cina è aumentato da 1 a 7,4 miliardi di euro, con un peggioramento di 6,4 miliardi che è solo la punta dell’iceberg, in quanto il grosso della perdita è nella sostituzione di esportazioni cinesi a quelle italiane nei paesi terzi. Il saldo bilaterale con la Germania, per esempio, da attivo per 4,4 miliardi di euro è divenuto passivo per 12,5, con un peggioramento di 17 miliardi, sia per la sostituzione di esportazioni italiane con prodotti a basso costo provenienti dall’Europa orientale e dall’Asia, sia per l’aumento delle nostre importazioni dalla Germania di prodotti di qualità. Il vero proplema è dunque il collocamento dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro. O la nostra industria (inclusi i servizi aperti alle transazioni internazionali quali il turismo e il suo indotto) riesce a riposizionarsi nei segmenti e settori produttivi di maggiore qualità, in modo da garantirsi rispetto alle produzioni dei paesi emergenti differenziali di prezzo corrispondenti ai differenziali retributivi, oppure questi ultimi dovranno prima o poi adeguarsi alla riduzione dei prezzi salvo la delocalizzazione delle produzioni o la chiusura delle imprese. Se questo è il problema, non servono politiche di sostegno della domanda, che sarebbero del resto incompatibili con il riequilibrio del disavanzo pubblico e ora anche dei conti con l’estero, ma un’azione di grande respiro volta a favorire il riposizionamento competitivo dell’industria e dei servizi esposti alla concorrenza internazionale. Tale azione dovrebbe mirare, in particolare, a rendere più competitivi i mercati interni dei servizi privati, ad accrescere l’efficienza dei servizi pubblici (istruzione, giustizia, procedure di autorizzazione, etc.), ed accelerare la realizzazione delle infrastrutture (anche con un maggior ricorso al project financing), a razionalizzare e stabilizzare il quadro normativo per quanto concerne in particolare il mercato del lavoro e il prelievo fiscale, a promuovere la crescita delle grandi imprese tecnologicamente avanzate e la diffusione della ricerca applicata e dell’innovazione tecnologica anche mediante progetti mirati allo sviluppo di attività strategiche (nell’ambito dell’energia, della difesa, della salute, dell’ICT, etc.). Sono interventi che richiedono tempo e che quindi vanno avviati con urgenza. Nel frattempo occorre promuovere all’interno dell’Unione una politica commerciale che tenga maggiormente conto della specificità italiana, nel rispetto delle regole del WTO. Un compito estremamente complesso, dunque, non meno impegnativo di quello che l’impresa dovrà svolgere al suo interno e nel mercato. Ma non abbiamo alternative se vogliamo mantenere nella divisione internazionale del lavoro un livello coerente con le nostre aspettative di benessere. sommario N. 4 - GIUGNO 2006 Difficoltà e prospettive dell’industria Fabrizio Onida Produttività, competitività e commercio estero: l’Italia nell’Europa alle soglie del nuovo millennio pag. 3 Franco Varetto Redditività e finanziamenti delle imprese italiane pag. 10 Sergio Meacci Caratteristiche ed effetti della delocalizzazione pag. 19 Nicasio Ortin Il “modello” spagnolo: una crescita senza precedenti pag. 28 Libri in vetrina pag. 32 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › PRODUTTIVITÀ, COMPETITIVITÀ E COMMERCIO ESTERO: L’ITALIA NELL’EUROPA ALLE SOGLIE DEL NUOVO MILLENNIO Nelle prime due sezioni l’Autore traccia un sintetico quadro, con ombre e luci, sull’evoluzione della competitività dell’Europa nel contesto mondiale. della struttura produttiva e di governance delle imprese. partire dagli anni ’90 cresce in Europa intorno al 2% all’anno, tasso al di sopra dell’1,5% del Giappone ma molto al di sotto del 3,3% degli USA. Si sta dunque aggravando il divario fra crescita del PIL totale nei due continenti, che già origina da un differenziale sfavorevole di crescita della popolazione residente (0,4% in Europa partire dalla seconda metà degli anni ’90, negli USA contro 1,2% negli Usa negli anni ‘90). Per non parlare del la crescita della produttività e del reddito reale pro divario di crescita reale dell’Europa rispetto alle economie capite della popolazione accelera, sconfessando così il dinamiche dell’Asia. Secondo diverse proiezioni a lungo cosiddetto “paradosso di Solow” secondo cui nell’econotermine (es. Goldman Sachs mia americana si vedevano molti 2004), il PIL della Cina misurato a più computer ma non il loro effetcambi PPP supererà quello della to virtuoso sull’efficienza e sul Germania nel 2010, quello del benessere degli americani stessi. Giappone nel 2020 e quello degli Nello stesso periodo l’Europa non USA nel 2045. sta al passo con queste tendenze e Non va dimenticato peraltro che perde vistosamente colpi, confernella sfida sulla crescita della “promando l’arresto se non l’inversione duttività totale dei fattori” (PTF), del processo di lenta convergenza ma anche sotto molti altri profili, del proprio PIL per abitante verso il FABRIZIO ONIDA l’Europa è tutt’altro che un’area livello americano, processo che omogenea. Mentre fino agli anni aveva caratterizzato i primi 30 anni Professore ordinario di Economia internazionale ’80 i grandi paesi dell’Europa condel dopoguerra. Ai cambi di parità all’Università Bocconi e presidente del CESPRI tinentale e il Giappone erano in dei poteri d’acquisto (PPP) il PIL per (Centro ricerche sui processi di innovazione e testa alla graduatoria come tasso abitante in Europa è cresciuto dal internazionalizzazione) presso la stessa annuo di crescita della PTF , negli Università. Dal 1995 al 2001 ha presieduto 40% al 70% di quello americano l’ICE. Ha ricoperto numerosi incarichi di consuanni ’90 hanno tutti registrato una dal 1950 alla metà degli anni ’70, lenza scientifica in Italia e all’estero. Dal gennaio netta decelerazione, mentre all’opma da allora si è mantenuto intor2004 presiede il Comitato scientifico di posto - assieme a USA e Canada no a quel livello, come si vede dalla Unicredit Banca d’Impresa. Dal luglio 2005 è i paesi scandinavi e l’Irlanda Figura 1 tratta da (Sapir 2004). consigliere del CNEL come esperto nominato hanno impresso una forte acceledal presidente della Repubblica. Secondo stime dell’OECD, il “PIL razione, determinando così un potenziale”, stimato in base a variadivario senza precedenti fra bili economico-demografiche, a Ia Sezione - Da più di un decennio l’Europa perde colpi rispetto agli USA in termini di produttività, occupazione, ricerca e investimenti privati in istruzione superiore e nuove tecnologie. A GLOBAL COMPETITION dell’Italia nel contesto internazionale, riconducibili a caratteristiche 4 - 2006 Nella terza sezione evidenzia gli elementi di fragilità del modello di specializzazione 3 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › Figura 1 Figura 2 GPD per capita at current market prices and PPS 1950 - 2000 EU - 15 and Japan, US=100 EU per capita GDP, US=100 120 100 90 100 80 70 80 60 60 50 40 40 30 20 20 10 0 1950 1955 1960 1965 1970 1975 1980 1985 1990 1995 2000 0 1970 EU-15 Japan GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 Fonte: European Commission, AMECO database; Maddison (1995) and own calculations 4 1980 1990 2000 US un’Europa dinamica della periferia del Nord (purtroppo assai piccola in termini di popolazione) e un’Europa lenta (“eurosclerotica”) dei maggiori paesi del Centro e del Sud. Si aggiunga che i nuovi membri dell’Unione Europea, emersi da una impressionante caduta di livelli produttivi subito dopo il crollo del muro di Berlino, oggi tirano il convoglio europeo in termini di crescita del prodotto e della produttività, anche se il loro contributo al PIL europeo (un modesto 5-6% del PIL della UE-15) è assai superiore al loro apporto in termini di popolazione (20%) . Nel valutare la performance deludente della crescita e della produttività dell’Europa nel periodo recente, bisogna poi evitare la spiegazione semplicistica di un’Europa “che non ha voglia di lavorare” contrapposta ad una sorta di stakanovismo americano. I dati mostrano che nell’arco di 30 anni la produttività per ora lavorata in Europa ( PIL per ora lavorata) è cresciuta assai più in Europa che negli USA, ma che l’effetto di aumento che ciò avrebbe comportato nel PIL per abitante è stato pressoché neutralizzato da un consistente calo del tasso di occupazione (occupati/popolazione in età lavorativa) e da un conseguente calo delle ore lavorate per abitante, come si evidenzia nella Figura 2 tratta dal citato Rapporto Sapir. Il risultato è che nel 2000 circa un terzo della differenza nel PIL pro capite fra Europa e USA era ascrivibile a un minor tasso di occupazione, un terzo al minor numero di ore lavorate per occupato (ferie e altri congedi non pagati più lunghi, ecc.). Solo il restante terzo della differenza era dovuto ad una minore produttività per occupato, riconducibile a sua volta ad un insieme di fattori strutturali che mediamente caratterizzano l’economia europea (pur con elevata varianza tra paesi all’interno della UE) rispetto a quella degli USA. Tra i principali fattori strutturali della più bassa produttività in Europa vanno ricordati i seguenti: minor peso dei settori tecnologicamente più avanzati, più bassa quota delle risorse private spese in Ricerca&Sviluppo e in istruzione superiore, più bassa dimensione media d’impresa, GDP per capita Hourly productivity Working hours per capita Fonte: European Commission, AMECO database minori investimenti in innovazioni organizzative legate all’adozione di standard ICT (Jorgenson 2005, Denis et al. 2004, Gordon 2004), minor grado di concorrenza e connesso maggior grado di regolazione amministrativa nel mercato dei prodotti e dei servizi (OECD, 2003). A sua volta, la caduta assoluta e relativa nel tasso di occupazione non è rintracciabile nella fascia centrale della popolazione attiva, ma è concentrata nella popolazione in età giovanile (15-24 anni) e in età più anziana (55-64 anni). Le cause di ciò sono molteplici, come un mercato del lavoro più rigido all’ingresso e nella mobilità geografica e settoriale, un minor tasso di partecipazione femminile nei paesi del Sud-Europa, un sistema pensionistico più incline a uscite premature dalla forza lavoro, il prevalere (con l’eccezione di pochi piccoli paesi europei del Nord come Olanda, Danimarca e Svezia) di sistemi di Stato sociale meno capaci di adattarsi alle esigenze di un capitalismo più flessibile attraverso efficaci strumenti di “welfare to work” (Baily-Kirkegaard 2004). In anni recenti l’Europa subisce anche un effetto sfavorevole derivante da un relativo invecchiamento della popolazione che porta a ridurre la quota di popolazione in età di lavoro sulla popolazione totale. II a Sezione - Ma all’interno della Triade la quota europea sulle esportazioni mondiali risente meno di USA e Giappone del forte progresso di Cina e paesi asiatici. Nel giro di un quindicennio la quota dei mercati emergenti (soprattutto asiatici) sul commercio mondiale di manufatti è cresciuta di circa 15 punti percentuali. Dal 1990 ad oggi la quota della Triade (USA, Giappone, UE) sulle esportazioni mondiali al netto degli scambi intra-UE si è ridotta di circa un quinto, scendendo dal 49% al 40% (un po’ meno la quota sulle importazioni mondiali, a causa del boom delle importazioni statunitensi). Ma le esportazioni rapidamente crescenti di Cina e altre economie dinamiche dell’Asia (DAEs) sono andate soprattutto a erodere le rispettive quote di USA e Giappone, a prezzi Crescita della Produttività Totale dei Fattori (1980 - 1990; 1990 - 2000) 1980 -1990 tasso di crescita nella domanda mondiale nell’ultimo decennio è stato superiore alla media, mentre i settori tradizionali di consumo ovvero beni per la casa e la persona (tessile-abbigliamento, pelle-calzature, mobilio, ecc.) storicamente crescono a tassi meno volatili ma più modesti, e d’altro lato i settori ad alta intensità di tecnologia elettronica (spesso identificati come settori ad alta tecnologia) hanno pesantemente risentito della “bolla della new economy” 1998-2003 fino a risultare a crescita inferiore alla media mondiale su questo arco di tempo (ICE 2005, Miotti-Sachwald 2006). Questo aspetto va sottolineato per evitare luoghi comuni, ed è peraltro noto agli attenti osservatori dei dati empirici sulla composizione del commercio mondiale, tra va ricordato il compianto Keith Pavitt in alcuni suoi lavori presso lo S.P.R.U. di Brighton già negli anni ’80). Come evidenziato nelle analisi che utilizzano gli indici di “saldo normalizzato” come indici di specializzazione internazionale, la UE gode di vantaggi comparati in un’ampia gamma di settori finali e intermedi a media tecnologia (e per taluni comparti ad alta tecnologia) come chimica, farmaceutica, gomma e plastica. acciaio e prodotti di metallo, materiali da costruzione, carta e cartotecnica, elettrodomestici bianchi, meccanica strumentale “non elettrica”, termoelettromeccanica, meccanica di precisione (che include automazione e robotica), autoveicoli e parti. Nella mutevole geografia degli scambi mondiali, le DAEs hanno dunque guadagnato rapidamente quota sia nei settori tradizionali “low tech”, sia in settori ICT come elettronica di consumo, informatica e telecomunicazioni (telefoni cellulari) la cui dinamica di medio periodo è stata colpita dalla citata bolla della “new economy”. A questo proposito è interessante una recente ricerca (MiottiSachwald 2006) che, commentando il mancato tramonto della “vecchia economia”, ricorda tre aspetti interessanti: a) nel 2002-2004, passata la bolla Internet, i settori più dinamici nella domanda mondiale sono stati in larga parte dei settori “medium tech” (come i citati chimica, metallurgia, meccanica, elettrodomestici bianchi, veicoli stradali e navali) più solo un paio di settori tipicamente “high tech” come farmaceutica e componenti per audiovideo, mentre computer e apparecchiature per telecomu- 1990 -2000 Per cent 4.5 Countries where MFP growth accelerated Countries where MFP growth decelerated 4.0 Numero medio di ore lavorate per occupato (USA, Francia, UE) 2500 3.5 3.0 US 2000 2.5 1500 2.0 France 1.5 1000 1.0 EU15 0.5 500 um Be i lg s Au e th Ne n rla without Austria 0 19 74 19 77 19 80 19 83 19 86 19 89 19 92 19 95 19 98 20 01 20 04 Ita 68 71 m Ja 19 er G an Fr ds 65 Ir Sp a tri 19 nd a el ly 62 nd n pa 19 Fi a nl ce 56 N or y an 59 De nm a n ai 19 Fonte: OECD Au ed Sw y wa 19 Ca Un ra st rk 19 na en 50 d ite a St lia 53 Ze da t a al w Ne es 19 nd 19 0 GLOBAL COMPETITION costanti come a prezzi correnti. Fra il 1993 e il 2003 la quota della UE sulle esportazioni mondiali (sempre al netto degli scambi intra-UE) è scesa di un modesto 0,6%, mentre le quote di USA e Giappone sono calate rispettivamente del 2.2% e del 3.0%. Ancora una volta, le performance dei singoli paesi membri della UE sono state molto difformi, con Italia, Francia, Regno Unito e Benelux in calo e Germania, Spagna, Irlanda in ascesa (EC 2005, ECB 2005). La bilancia commerciale e la bilancia delle partite correnti della UE sono in sostanziale equilibrio, in contrasto con i persistenti avanzi del Giappone e delle economie dinamiche dell’Asia Orientale, e il crescente disavanzo degli USA che sfiora il 6% del PIL. Il grado di apertura, misurato dal rapporto fra esportazioni di beni e servizi e PIL, è sensibilmente maggiore per la UE e in particolare per l’Euroarea nel suo assieme (circa 20%) che per USA (10%) e Giappone (13%) (ECB 2005). L’Euroarea pesa negli anni recenti circa il 23% sulle esportazioni mondiali di beni e servizi, seguita da USA (14%), Giappone (8%) e Regno Unito (5%). La perdita di quota del Giappone, pur in presenza di un cambio reale dello yen in tendenziale deprezzamento, trova una spiegazione importante (anche se non esaustiva) nei massicci investimenti all’estero e accordi di outsourcing con cui già a partire dagli anni ’90 il Giappone ha trasferito le capacità produttiva dei propri settori più maturi verso le DAEs, contribuendo così in modo significativo al successo esportativo delle medesime economie emergenti. Sotto certi profili queste DAEs sono gradualmente divenute per il Giappone una importante piattaforma produttiva “cost saving” volta a rifornire i propri clienti sui mercati esteri e in parte il proprio mercato nazionale. La performance complessiva delle esportazioni europee nell’ultimo decennio ha risentito positivamente di una favorevole composizione del proprio mix settoriale. Infatti sulla base di vari indici di vantaggio comparato è possibile affermare che la UE-15 (oggi la UE-25) nel suo assieme è maggiormente specializzata in un gruppo di settori classificati dall’OECD come “a medio-alta tecnologia” il cui 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 5 GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 6 nicazioni hanno molto rallentato rispetto al boom degli anni ’90. b) in questo contesto i paesi che hanno meglio cavalcato l’espansione della domanda mondiale sono la Germania, che dal 2003 è divenuto primo esportatore mondiale scavalcando gli USA, e la Cina, che ha scavalcato il Giappone come terzo esportatore mondiale; c) Cina e altre DAEs hanno attuato processi di specializzazione intra-settoriali, con divisione geografica del lavoro all’interno dell’area asiatica entro le medesime filiere (componenti, intermedi, prodotti finiti), riflettendo i notevoli divari nel costo del lavoro tra economie relativamente avanzate e ad alto salario (come Sud Corea, Taiwan, Singapore e Hong Kong) e altre economie a basso costo del lavoro (come Indonesia, Filippine, Thailandia, Malesia). La fortissima proiezione esportativa della Cina riposa molto, come noto, sulle imprese a capitale estero che spesso delocalizzano in Cina solo fasi di lavorazione relativamente limitate e a basso valore aggiunto (assemblaggio di componenti importate dagli stessi paesi avanzati, da altre DAEs e da altre economie emergenti). In questo quadro di divisione del lavoro che passa all’interno dei principali settori manifatturieri, più che tra i medesimi grandi settori, si stanno inserendo anche importanti paesi latino-americani come Messico e Brasile e gli stessi nuovi e prossimi paesi membri della UE come Polonia, Ungheria, Romania. Questa analisi un po’ controcorrente, mirata tra l’altro a mettere in luce qualche aspetto di fragilità del modello di specializzazione internazionale della Francia, va naturalmente presa con la cautela dovuta alla relativamente breve copertura temporale dei dati esaminati. In particolare, è ancora troppo breve il periodo 20002004 per identificare un vero punto di svolta nella composizione merceologica della produzione e del commercio mondiale rispetto agli anni ’90, dominati dalla bolla Internet. È comunque un contributo importante per smitizzare un troppo frequente ricorso alle categorie “high tech” e “low tech” per descrivere l’evoluzione nei modelli di specializzazione dei paesi. Confronti internazionali di strutture produttive e di indici di vantaggio comparato dei paesi devono comunque trarre ispirazione della ormai famosa tassonomia di Pavitt (1984). A proposito dei paesi della “Nuova Europa”, è pure interessante notare la notevole diversità che emerge nell’evoluzione recente delle strutture produttive dei paesi del Centro-Nord, già oggi proiettati su specializzazioni in settori moderni a media tecnologia (es. auto e parti, chimica, gomma e plastica) e quelle dei paesi dell’area balcanica come Romania e Bulgaria, assai più legati ai settori tradizionali come tessile-abbigliamento e pelle-calzature (Amighini - Chiarlone 2005). Inoltre si conferma l’elevato grado di specializzazione per prodotti intermedi (parti, motori, componenti) negli scambi intra-UE-25. La Nuova Europa: indici di vantaggio comparato rivelato (quota export settoriale/quota export media del paese) nelle esportazioni mondiali di alcuni settori, 1996 e 2003 Tessile Abbigl. Calzature Macchinari Elettrodom. Autoveicoli Beni intermedi 1996 2003 1996 2003 1996 2003 1996 2003 1996 2003 Bulgaria Rep. Ceca Ungheria Polonia Romania Slovacchia 1.24 1.29 0.53 0.58 0.79 0.90 8.32 3.74 8.90 3.48 25.32 2.27 16.67 1.25 2.33 1.48 33.75 5.01 0.76 1.86 0.96 0.83 1.12 1.36 0.96 1.87 0.97 0.95 1.10 1.38 0.49 1.72 1.65 0.50 0.06 1.39 0.59 1.07 2.50 1.61 5.40 0.60 0.09 1.37 1.05 0.40 0.41 1.74 0.09 2.73 1.61 1.62 0.86 3.40 1.10 1.37 0.54 0.51 0.56 1.33 Beni finali 1996 2003 1996 2003 1996 2003 1996 2003 1996 2003 Bulgaria Rep. Ceca Ungheria Polonia Romania Slovacchia 1.00 0.57 1.50 1.68 3.12 0.62 3.72 0.40 0.65 0.87 4.34 0.65 1.51 1.24 1.68 0.97 3.76 1.75 2.36 0.25 0.83 0.56 7.58 2.04 0.33 0.57 0.31 0.27 0.17 0.34 0.19 0.66 0.29 0.26 0.13 0.24 0.15 0.43 2.02 0.64 0.36 2.08 1.09 0.51 1.79 1.89 0.65 1.80 0.06 0.66 0.20 0.50 0.12 0.54 0.03 0.81 0.41 0.56 0.05 1.89 Fonte: Amighini - Chiarlone (2005) III a Sezione - L’Italia: potenzialità e ostacoli all’evoluzione verso un modello di specializzazione internazionale meno fragile. Nel passaggio al nuovo millennio i segnali di un progressivo scivolamento dell’Italia nella competizione internazionale sono andati moltiplicandosi: crescita rallentata del PIL e della produttività anche rispetto alla media dell’Euroarea, permanere di un basso tasso di occupazione (particolarmente femminile) e di alti tassi di disoccupazione giovanile (particolarmente nel Mezzogiorno) nonostante una parziale rimonta nell’ultimo decennio, persistenti difficoltà di aggiustamento nella finanza pubblica a fronte di un livello anormalmente elevato di debito pubblico, mancata crescita del già basso rapporto fra spese di R&S e PIL, livello medio di istruzione al di sotto di quello della UE, graduale erosione dei guadagni di competitività sul costo del lavoro per unità di prodotto ereditati dal triennio 1992-95 di temporaneo forte deprezzamento del cambio della lira, ritorno a permanenti disavanzi nella bilancia delle partite correnti e conseguente rapido capovolgimento della posizione finanziaria netta sull’estero, discesa nella graduatoria dei principali esportatori mondiali di manufatti (dal 6° posto ancora nel 1997 al 7° posto nel 2005 alla pari con Canada e Belgio e superata dalla Cina e dai Paesi Bassi), modesta quota come paese ricevente degli investimenti diretti esteri. E l’elenco potrebbe continuare. “Il vero punto debole dell’economia italiana sembra essere il suo modello di specializzazione a livello internazionale” (Faini - Sapir 2005, p. 58). Un modello che, come risulta da tutti i lavori empirici ed econometrici in materia, si è evoluto assai più lentamente rispetto agli altri paesi europei ed ha mantenuto le sue caratteristiche di sproporzione tra una quota elevata di produzioni tradizionali e all’opposto una quota bassa di produzioni a medio-alta tecnologia. Un modello che comporta utilizzo relativamente basso di manodopera qualificata e ad alto grado di istruzione, relativamente scarsa proiezione multi- Tabella 1 - Spesa in R&S delle imprese manifatturiere (diverse ipotesi di struttura produttiva e dimensionale e di intensità di R&S) Intensità di R&S di: Struttura produttiva e dimensionale di: Francia Germania Giappone Regno Unito (a) (b) (c) (b) (a) (a) Francia (a) Germania (b) Giappone (c) Regno Unito (b) Stati Uniti (a) Italia (a) 6,79 6,76 8,31 6,22 8,17 4,16 7,1 6,89 8,33 6,48 8,43 4,36 7,87 9,24 8,43 6,13 7,13 4,40 6,27 7,00 7,48 5,19 6,17 3,71 9,48 11,45 11,62 7,34 8,38 5,15 3,68 3,98 4,74 3,31 4,34 2,01 Fonte: Foresti (2002) a: 1998 Stati Uniti b: 1997 Italia c: 1999 La peculiare struttura dimensionale delle imprese, il deficit di produttività rispetto ai principali paesi europei, la specializzazione in produzioni più tradizionali con minor fabbisogno di investimento nelle nuove tecnologie e di manodopera particolarmente qualificata, la minor propensione ad un vero radicamento multinazionale sui diversi mercati, la quota elevata di imprese esportatrici instabili nel tempo e con numero esiguo di mercati di sbocco, la minore attrattività nei confronti delle strategie di rilocalizzazione dei grandi gruppi multinazionali: tutte queste sono naturalmente facce dello stesso problema che l’attuale modello di specializzazione dell’Italia si trova a dover affrontare (Onida 2004, Banca Intesa 2005, Bugamelli 2001, Chiarlone - Helg 2002, Rossi 2003, ICE 2005, Rossi 2006). Questo modello è esposto ad una pressione crescente di concorrenza dall’alto e dal basso. Dall’alto premono i paesi più avanzati e a più elevato grado di istruzione che coltivano i settori a maggior dinamismo tecnologico ed a maggior crescita tendenziale della domanda mondiale. Dal basso premono i nuovi mercati emergenti, Cina in testa. Questi paesi, mentre competono in misura pressoché irresistibile sulle produzioni a basso valore aggiunto con forte incidenza di un costo del lavoro (che per molti anni, pur in rapida crescita già oggi, rimarrà nettamente inferiore agli standard europei), al tempo stesso hanno dimostrato di saper rapidamente conquistare conoscenze, competenze e capacità organizzativo-manageriali, tali da permettere loro veloci trasformazioni produttive e spostamenti verso l’alto nella scala delle qualità dei prodotti e delle tecnologie di processo. Da qui la percezione realistica (non ideologica o pregiudiziale) della fragilità di questo modello. Tanto più se si pensa al rischio di un certo circolo vizioso sul fronte del capitale umano: imprese scarsamente orientate a coltivare vocazioni produttive ad alta intensità di tecnologia e manodopera qualificata esprimono una debole domanda di forza lavoro con elevato grado di istruzione, il che a sua volta ne scoraggia le aspettative e in ultima analisi l’offerta (Faini-Sapir 2005). Si potrebbe dire, mutuando da recenti terminologie della teoria economica: una pericolosa situazione di “decrescita endogena”. È un modello di cui peraltro non sarebbe corretto disconoscere le notevoli forze di antiche radici artigianali e imprenditoriali e le ben note doti di flessibilità, adattamento, creatività, capacità di imporre standard di stile, qualità, design e perfino tecnologia in molte produzioni apparentemente mature. Si pensi sia alle fasce medio-alte del “made in Italy” (anche se in parte “made by Italy” con parziale delocalizzazione di lavorazioni ad alta intensità di lavoro scarsamente qualificato), sia ai numerosissimi comparti di macchinari specializzati, spesso di altissimo standard tecnologico ed elevata reputazione internazionale, produzioni meccaniche, attrezzature finite e loro componenti, produzioni intermedie destinate a grandi imprese assemblatrici di prodotti finali complessi. Sono peraltro proprio queste produzioni di fascia e complessità tecnologica elevate che ancora oggi mantengono ancorate all’Italia alcune produzioni selezionate da parte di grandi gruppi multinazionali, che spaziano da Siemens a General Electric e ABB, da United Technologies ad Alcatel, da Cisco a IBM Motorola e Microsoft, da Electrolux a Whirlpool, da Bosch a Michelin, da Glaxo a BASF. Diversi studi che hanno analizzato i settori di esportazione-importazione dell’Italia con disaggregazioni statistiche fini, allo scopo di cogliere indici di specializzazione per fasce di qualità e mix-varietà di prodotti (valore medio unitario), arrivano peraltro a concludere che vi sono dissomiglianze abbastanza forti tra la tipologia di prodotti che l’Italia esporta e quella dei maggiori concorrenti a basso GLOBAL COMPETITION nazionale, peso anormalmente elevato delle microimprese e delle piccole imprese con meno di 50 addetti, e per contro un peso nettamente basso delle imprese di maggiori dimensioni. A proposito di spese in R&S rapportate al PIL (v. Tabella 1), va chiarito che l’anomalia dell’Italia (che col suo stentato 1% contro il 2% e oltre dei paesi avanzati si colloca al 21° posto fra i 30 membri dell’OECD) consiste non tanto in una bassa quota di spesa pubblica (che pure include il costo del personale docente delle università), quanto nella bassa propensione a questo tipo di investimento da parte delle imprese (OECD 2005). Un semplice esercizio di simulazione (Foresti 2002) ha mostrato che il basso livello del rapporto R&S/PIL in Italia dipende solo in parte dalla peculiare composizione del sistema produttivo italiano in termini di settori (maggior peso dei settori tradizionali che in quanto tali fanno meno ricerca di laboratorio classificata nei bilanci come spesa in R&S) e in termini dimensionali (maggior peso delle imprese di minori dimensioni che in quanto tali hanno minore capacità di sostenere queste spese). Infatti l’esercizio mostra che, se anche l’Italia avesse una struttura settoriale e dimensionale simile a quella dei paesi più avanzati, ugualmente il rapporto tra spese in R&S e valore aggiunto industriale risulterebbe di almeno un terzo inferiore a quello effettivo dei medesimi paesi di confronto. 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 7 GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 8 costo del lavoro (Annichiarico - Quintieri 1999, Amighini Chiarlone 2005, Monti 2005). E non mancano alcuni indicatori da cui appare un certo “potere di mercato” nella fissazione dei prezzi da parte delle nostre imprese esportatrici (De Nardis - Pensa 2003, De Nardis - Traù 2005). La fragilità del modello di specializzazione rinvia comunque a caratteristiche profonde dell’apparato produttivo, in particolare ai nodi della “governance” di impresa. Le tipiche piccole e anche medie imprese familiari a struttura proprietaria concentrata presentano troppo spesso caratteristiche di “governance” scarsamente compatibile con autentiche strategie di crescita dimensionale e rapida creazione di valore societario. Sono imprese che faticano a diventare familiar-manageriali, cioè con una più netta divisione tra proprietà e controllo gestionale. Prevalgono modelli di comportamento condizionati da stretti legami di parentela (dynastic management), commistione tra proprietà e controllo gestionale, patti proprietari non trasparenti, bilanci poco informativi, carenza di controlli interni, assenza o quasi di intermediari specializzati. Bilanci poco informativi e strutture di governance non trasparenti sono purtroppo spesso tollerati dalle banche creditrici, in quanto la pratica assai diffusa del “multiaffidamento” e del credito basato su garanzie reali e personali dell’imprenditore deresponsabilizza le banche stesse rispetto ad un severo monitoraggio del merito di credito (vedremo in quanto tempo le nuove regole di Basilea 2 produrranno incisivi cambiamenti in questi modelli di comportamento bancario). Imprese dalla brillante storia imprenditoriale del primo I riferimenti Bibliografici di questo articolo sono a pag. 31 fondatore o dei suoi primi eredi tendono spesso più a conservare le competenze accumulate nella storia familiare che a conquistare nuove competenze in campi dove man mano va spostandosi la competizione con i paesi più avanzati. Sono tradizionalmente imprese che faticano a crescere anche perché sottocapitalizzate, molto dipendenti dal credito bancario a breve scadenza (una struttura finanziaria poco equilibrata rispetto a obiettivi di crescita dimensionale), diffidenti verso i mercati finanziari e l’apporto di capitali esterni anche quando sono ampiamente disponibili tramite fondi di “private equity” (Onida 2004, Bianchi et al. 2005). A questo proposito, una interessante indagine compiuta da Unicredit Banca d’Impresa su un campione di 834 imprese clienti (UBI 2004) rivelava che: a) nel 58% dei casi il direttore generale ha legami di parentela col proprietario; b) nel 78% dei casi il CdA non comprende nessun amministratore indipendente; c) nell’87% dei casi l’impresa non si è dotata di un Comitato Audit interno; d) nell’82% dei casi l’affidamento creditizio è basato su garanzie reali e/o patrimoniali personali dell’imprenditore. Più interessante è il risultato di una semplice analisi econometrica con modelli logit sul campione: strutture di impresa più aperte al capitale esterno e a una governance più codificata e trasparente tendono ad essere associate a: a) struttura finanziaria più equilibrata, come rapporto tra scadenze dell’attivo e del passivo; b) minori garanzie personali dell’imprenditore; c) minor ricorso al multiaffidamento; d) minor costo medio del debito; e) minor probabilità di razionamento del credito sulla base del rapporto utilizzato/accordato. ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › Il “punto” sui Distretti Industriali di Marco Fortis* gior numero di specializzazioni distrettuali significative misurate a livello di sistemi locali del lavoro, pari a 178, per un numero totale di 349.500 addetti. Seguono per importanza l’Automazione-meccanica, con 124 casi di specializzazioni distrettuali e 161.511 addetti, e l’Arredo-casa, con 91 specializzazioni distrettuali e 155.445 addetti. Un minor numero di casi di specializzazioni territoriali, ma pur sempre importante, caratterizza gli alimentari e bevande e il comparto carta-gommaplastica. Le quote di mercato mondiale che i DI detengono nei propri settori di attività esprimono il ruolo fondamentale svolto dai DI nell’economia del nostro paese. Ricordiamo, a scopo esemplificativo, il distretto marchigiano delle cappe aspiranti: l’export della provincia di Ancona, dove è insediato il distretto, è arrivato a rappresentare nel 1999 il 55% delle esportazioni mondiali di questa categoria di prodotti. Un altro caso significativo di leadership italiana è quello dello storico distretto delle piastrelle ceramiche incentrato su Sassuolo e Fiorano Modenese, la cui quota nell’export mondiale del settore è del 41%. Dal 1991 al 2001 l’export distrettuale italiano è cresciuto nel complesso del 169% circa, con una dinamica ampiamente positiva per tutti i comparti. Ma dopo il 2001, a causa principalmente dell’ingresso della Cina nel WTO, con la sua concorrenza asimmetrica e la contraffazione dei marchi delle aziende italiane, i distretti dei beni per la persona e la casa hanno registrato un andamento negativo a cui il migliore andamento dei distretti meccanici, alimentari e tecnologici non è riuscito a sopperire. Di conseguenza, l’export complessivo distrettuale ha subìto un calo dell’1,9% tra il 2001 e il 2004 e i deboli segnali di recupero emersi nel corso del 2004 non hanno trovato ulteriore slancio nei primi nove mesi del 2005. Le risposte avanzate da più parti alle sfide competitive emerse dal nuovo contesto internazionale, dominato dall’avvento della globalizzazione e dall’esplosione della concorrenza asimmetrica cinese, hanno dato origine ad un dibattito, spesso confuso, sui DI in cui sono emerse posizioni nettamente “schierate”, pro o contro. C’è chi ha esaltato il ruolo dei DI con toni a volte eccessivi e chi invece ha fatto ricadere sui medesimi colpe che invero essi non meritano argomentando che i problemi attuali dell’Italia dipenderebbero soprattutto dal suo modello di specializzazione a cui si rimproverano essenzialmente due limiti: il non possedere un significativo numero di grandi imprese e il non essere presente nei settori ad alta tecnolgia. A nostro avviso è certamente sbagliato pensare che l’Italia possa affrontare le sfide economiche e tecnologiche del futuro facendo leva soltanto sulla risorsa tradizionale dei DI, come è sovente avvenuto in passato in vari periodi, ma è innegabile che i DI, le PMI e i settori classici del “made in Italy” rappresentino una irrinunciabile e preziosa risorsa. Si pensi al tema dell’innovazione e alle possibilità di intraprendere sinergie tra Grandi Gruppi, Medie imprese, Distretti, Università e Centri di ricerca per il rilancio della competitività italiana; al tema della crescita dimensionale delle imprese in cui i Distretti rappresentano incubatori preziosi di quelle medie imprese strutturate considerate la migliore risposta del “made in Italy” alle nuove sfide globali. E non si dimentichi il contributo ampiamente positivo delle specializzazioni distrettuali del made in Italy al saldo commerciale italiano, pur non essendo ormai più sufficiente a compensare il crescente deficit energetico (che nel 2005 ha toccato i 40 miliardi di euro) e il passivo strutturale di autoveicoli, chimica-farmaceutica e elettronica. Alla luce della centralità del ruolo dei distretti per il rafforzamento del sistema competitivo italiano, consideriamo di rilevante importanza le recenti norme sui Distretti contenute nella Legge Finanziaria 2006. È auspicabile che da misure di questo tipo, su cui vi è una convergenza bipartisan, possa arrivare nuovo impulso alle eccellenze distrettuali manifatturiere. GLOBAL COMPETITION ome è noto, i Distretti Industriali (DI), le piccole e medie imprese (PMI) e i settori cosiddetti “tradizionali-innovativi” rappresentano tre facce tra loro connesse e tutte egualmente caratterizzanti il sistema manifatturiero italiano. Tra le numerose “mappe” dei distretti proposte da varie fonti, ricordiamo la recente individuazione dei 156 distretti Istat. Sulla base dei risultati del censimento del 2001, l’Istat ha rivisto la geografia e la composizione comunale dei Sistemi locali del lavoro (SLL) in cui è suddiviso il territorio italiano. La nuova classificazione ha individuato 686 SLL a partire dai quali sono stati successivamente riconosciuti 156 “Distretti manifatturieri di PMI”. Secondo l’Istat le persone che nel 2001 lavoravano nei 156 SLL-DI Istat rappresentano il 25,4% degli occupati dell’intero Paese in tutti i settori produttivi, mentre le unità locali ammontano al 24,8% del totale. In particolare, l’occupazione manifatturiera dei 156 DI assomma nel 2001 a 1.928.602 persone, cioè il 39,3% di quella totale italiana. L’Istat ricorda inoltre che le industrie principali dei distretti industriali sono quelle tipiche del made in Italy: il tessile e abbigliamento (il 28,8% del totale); la meccanica (24,4%); i beni per la casa (20,5%); la pelletteria e calzature (12,8%); l’alimentare; l’oreficeria e strumenti musicali. I distretti così caratterizzati sono 148 (il 94,8% di tutti i distretti); si rilevano poi 4 distretti dell’industria della carta e cartotecnica e 4 dell’industria della fabbricazione di prodotti in gomma e materie plastiche. Per analizzare la multiforme realtà dei DI italiani la Fondazione Edison ha elaborato una mappa dei principali distretti industriali italiani dei settori tipici del “made in Italy”, non alternativa ma complementare a quella dell’Istat, facendo riferimento ai 686 Sistemi Locali del Lavoro del 2001. In base alla mappa della Fondazione Edison, il comparto Abbigliamento-moda (che oltre al tessile-abbigliamento include anche pelletteria, calzature, oreficeria e occhialeria) è quello che presenta il mag- C 4 - 2006 *Presidente della Commissione governativa sui distretti industriali 9 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › REDDITIVITÀ E FINANZIAMENTI DELLE IMPRESE ITALIANE Utilizzando i dati dei bilanci aggregati di quasi 9.600 imprese nel biennio 2002-2004, l’Autore esamina i risultati economici-finanziari dell’industria italiana realizzati nel 2004. Emergono 12 profili tipici che contraddistinguono altrettanti sottoinsiemi di imprese… grado di utilizzo della capacità produttiva è salito, anche n questa prima parte dell’articolo vengono esaminati se in misura assai contenuta, ed il valore aggiunto a prezsinteticamente i risultati economico-finanziari dell’induzi costanti dei settori manifatturieri ha sostanzialmente stria italiana realizzati nel corso del 2004. L’analisi è conarrestato la caduta degli anni precedenti, a fronte di un dotta sui bilanci aggregati (Tabella 1) di un insieme chiuaumento del 3,5% a prezzi correnti. so di quasi 9600 imprese (9.594) che copre il triennio L’aggregato delle 9600 imprese, espressivo soprattutto 2002-2004. delle medie e delle grandi imprese, ha realizzato risultati Nel 2004 questo aggregato, che include anche 36 significativamente più favorevoli di quelli nazionali: i ricaimprese pubbliche, ha generato ricavi per 465 miliardi di vi sono aumentati del 5,7% (1% nel 2003) ed il valore euro, valore aggiunto per 101 miliardi con un’occupazione aggiunto del 5,6% (2% nel 2003). La crescita è stata più di oltre 1,5 milioni di dipendenti. Nel complesso le 9600 intensa nei settori dei prodotti in metallo (+9,1% di increimprese rappresentano il 44% del valore aggiunto dell’inmento dei ricavi), degli apparecchi di precisione, legno e dustria manifatturiera ed il 37,3% dell’occupazione mobili, macchine e materiale meccanico, elettrico ed eletdipendente. tronico, e chimico, nel quale peraltro la componente Le imprese pubbliche coprono poco oltre il 4% dei ricaprezzi è stata rilevante. vi totali delle imprese esaminate e poco meno del 4% delAnche il settore degli autoveicoli e componenti ha l’occupazione. Le imprese private di maggiori dimensioni, manifestato segni di ripresa con un aumento dei ricavi del con ricavi superiori a 250 milioni, rappresentano il 30% 3,5%, a fronte di una diminuzione dello 0,2% dell’anno del valore aggiunto complessivo ed oltre il 33% dei ricavi precedente. Per contro i settori tessile (-2,6% dei ricavi) e e dell’occupazione. Il valore aggiunto generato dai settopelli-cuoio e abbigliamento (variazione nulla) hanno ri ad alta tecnologia è pari a poco più del 10% del totale, messo chiaramente in luce la crisi con un’occupazione del 7,2%, i setche caratterizza uno dei tradiziotori di specializzazione rappresentanali punti di forza dell’industria no il 19% del valore aggiunto e nazionale: in entrambi i comparti, quasi il 20% dell’occupazione, i setperaltro, l’esercizio 2004 ha fatto tori di scala il 40,4% ed il 39,7% registrare qualche lieve migliorarispettivamente, i settori tradizionali mento rispetto all’anno preceil 30% ed il 33,1%1. dente. Secondo i dati delle statistiche La debolezza dell’attività pronazionali, nel corso del 2004 si è duttiva si è inevitabilmente riflessa registrato un certo miglioramento, FRANCO VARETTO sui livelli di occupazione: a fronte anche se lieve, dell’attività manifatdi una diminuzione dello 0,6% turiera: la produzione industriale è Direttore della Centrale dei Bilanci. Docente al Politecnico di Torino. Autore di numerose pubdelle unità di lavoro fatta registracresciuta dello 0,5% (rispetto ad blicazioni in materia di economia e finanza re a livello nazionale nei settori una caduta dello 0,8% nel 2003), il aziendale, con particolare rilievo alla valutaziomanifatturieri, le imprese censite ne del rischio di credito, tra cui Il rischio creditiSi tratta della nota tassonomia di Pavitt; hanno ridotto il numero dei zio. Genetic Algorithms applications in the per i dettagli si rinvia al volume della analysis of insolvency risk, sul Journal of dipendenti dell’1%. La riduzione Centrale dei Bilanci, Economia e Finanza Banking and Finance, n. 22, 1998, e Misura e dell’occupazione è estesa a tutti i delle Imprese Italiane, anni vari, Bancaria controllo (con G. Szego), UTET, 1999. Editrice, Roma. comparti ed a quasi tutte le classi GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 I 10 1 2 Dal punto di vista finanziario il 2004 è stato un anno caratterizzato dalla riduzione dei fabbisogni di finanza esterna delle imprese. Il pur lieve miglioramento dei margini operativi ha condotto ad un piccolo aumento dell’autofinanziamento netto, favorito anche dalla diminuzione relativa dell’entità dei dividendi distribuiti (dal 2% circa del fatturato del 2003 all’1,1% del 2004). In parallelo, la ridotta dinamica dei volumi produttivi in termini monetari ha contenuto il fabbisogno per circolante operativo mentre la limitata accumulazione di capitale ha mantenuto complessivamente bassi gli investimenti fissi. Ne è derivata quindi una riduzione dei Saldi Finanziari Lordi, che anzi sono risultati positivi per quasi 1 punto percentuale dei ricavi (-0,6% nel 2003). La gestione operativa dell’aggregato delle imprese censite ha pertanto generato un lieve surplus di risorse finanziarie: tale risultato va interpretato più come una manifestazione della debolezza dell’attività produttiva delle imprese che un segnale di robustezza reddituale e finanziaria. Anche gli investimenti (netti) in partecipazioni sono diminuiti rispetto allo scorso esercizio, peraltro più che compensati dalla lievitazione dei crediti finanziari. Il Saldo Finanziario Netto (SFN), che tiene conto anche degli investimenti finanziari e corrisponde al fabbisogno di finanza esterna netta, è migliorato sensibilmente rispetto al 2003, collocandosi intorno allo 0,8% dei ricavi, rispetto ad un fabbisogno del 2,1% dell’anno precedente2. Nell’aggregato gli aumenti di capitale azionario delle imprese (quasi 1,5% dei ricavi) sono stati più che sufficienti ad assorbire il fabbisogno ed hanno consentito la diminuzione dei livelli di indebitamento e l’incremento della liquidità disponibile. Ne è conseguito un complessivo rafforzamento delle strutture finanziarie (il rapporto tra patrimonio netto e debiti finanziari è passato dal 93% circa al 103,5%), dei livelli di circolante netto (dal 10,1% dell’attivo all’11,5%) e della flessibilità finanziaria (la liquidità è passata dal 6% al 6,4% dell’attivo) ed un miglioramento della struttura per scadenza dell’indebitamento, la cui componente a breve termine si è ridotta dal 54,3% del totale al 53,9%. La riduzione dei fabbisogni operativi ed il miglioramento dei Saldi Finanziari hanno riguardato la generalità delle classi dimensionali e dei comparti industriali: la diminuzione del SFN è stata più intensa nelle imprese maggiori e nel comparto dei settori ad alta tecnologia; in questi ultimi il SFN assume valori positivi per l’effetto combinato dell’aumento dell’autofinanziamento operativo, della significativa diminuzione dei dividendi distribuiti e della riduzione relativa degli investimenti. Gli aumenti di capitale azionario più rilevanti sono stati concentrati nelle società maggiori e nei comparti dei settori ad alta tecnologia e dei settori di scala: negli stessi aggregati si sono registrate le riduzioni più consistenti di Un valore negativo del SFN esprime un fabbisogno di finanza, mentre un valore positivo indica un surplus. GLOBAL COMPETITION dimensionali, con punte del -2,3% nelle società di maggiori dimensioni e del -1,1% nei settori di scala e di specializzazione. Ne è derivata un’apprezzabile ripresa della produttività del lavoro, salita del 6,6% sul totale delle imprese, che ha consentito un lieve spostamento della distribuzione del valore aggiunto a favore dei margini lordi, di 1,7% punti percentuali. L’aumento del costo del lavoro pro-capite è stato infatti pari al 3,7%, inferiore alla crescita della produttività. Sono soprattutto le grandi imprese ed il comparto dei settori di scala a beneficiare del miglioramento della produttività, mentre la scarsa performance dei settori tradizionali ha mantenuto l’aumento del valore aggiunto procapite a livelli inferiori a quelli del costo del lavoro. Il settore di scala è anche l’unico comparto in cui i margini lordi sul fatturato siano cresciuti. Gli investimenti fissi dell’aggregato, valutati a prezzi costanti in base al deflatore implicito dell’ISTAT, sono diminuiti del 4,2% rispetto al 2003; considerati a prezzi correnti e rapportati allo stock lordo di immobilizzazioni materiali dell’anno precedente, gli investimenti hanno fatto registrare una riduzione del tasso di accumulazione di circa 0,5 punti percentuali (dal 7,5% del 2003 al 7% del 2004). Accanto al rallentamento della formazione di nuovo capitale sono diminuiti anche il tasso di disinvestimento, il tasso di ammortamento e la quota delle immobilizzazioni in corso sul totale delle immobilizzazioni lorde, confermando l’attenuazione del ricambio tecnologico delle imprese manifatturiere. Un aumento del tasso di accumulazione, peraltro di lievissima entità, si registra unicamente nelle imprese di maggiori dimensioni. Non vi sono state variazioni di rilievo nell’entità del circolante operativo. Al netto degli ammortamenti e degli accantonamenti i margini operativi sui ricavi sono lievemente migliorati di circa 0,7 punti percentuali, consentendo un modesto recupero della redditività sul capitale investito operativo, che passa dal 7,2% del 2003 all’8,9% del 2004. È soprattutto nelle imprese di maggiori dimensioni (con oltre 250 milioni di ricavi) che la redditività operativa è migliorata (circa 4 punti percentuali), riflettendosi, per valori più contenuti, sul comparto dei settori di scala (+2,5 punti) e su quello dei settori ad alta tecnologia (+2 punti), mentre la redditività operativa dei settori tradizionali è rimasta inalterata. Nonostante l’apprezzabile recupero di produttività, la redditività dei settori di scala rimane la più bassa (6,4% del capitale investito operativo), pari a meno della metà di quella dei settori ad alta tecnologia (13,7%) e significativamente più bassa di quella dei settori di specializzazione (11,1%) e tradizionali (9%). L’unico settore che realizza perdite a livello operativo è quello degli autoveicoli e componenti, mentre, come di consueto, la farmaceutica e gli strumenti di precisione sono i settori più redditizi. 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 11 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › indebitamento ed i più intensi rafforzamenti delle strutture finanziarie. La lieve diminuzione dell’indebitamento finanziario ha consentito alle imprese di contenere il peso degli oneri finanziari sul conto economico: nel corso del 2004 si è registrata una riduzione di 0,25 punti percentuali del rapporto tra oneri finanziari e ricavi e di quasi 2 punti percentuali del rapporto tra oneri finanziari netti e margine operativo lordo. Il decremento del peso degli oneri finanziari sul conto economico è prevalentemente concentrato nelle società di maggiori dimensioni e nel comparto dei settori di scala; negli altri comparti le variazioni sono state assai contenute. Nel complesso la combinazione dei diversi effetti economici e finanziari ha determinato un piccolo incremento della redditività del capitale investito: il ROA è cresciuto di meno di un punto percentuale, mentre il ROI ante componenti straordinarie ed imposte è aumentato di 1,6 punti percentuali. Dopo le partite straordinarie e le imposte, il ROE è cresciuto di ben 6,5 punti percentuali, passando dal -0,6 % del 2003 al 5,9% del 2004. A tale incremento hanno contribuito in misura significativa gli effetti contabili del disinquinamento fiscale rilevato nei Tabella 1 - Bilanci aggregati - dati di sintesi GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 TOTALE IMPRESE 2002 2003 2004 12 VARIAZIONE % RICAVI NETTI VARIAZIONE % DIPENDENTI VARIAZIONE % VALORE AGGIUNTO Var% VAL. AGG./DIP Var% COSTO LAV./DIP 1,02 -0,05 2,02 2,06 3,48 5,7 -0,96 5,56 6,59 3,70 CLASSE FATTURATO OLTRE 250 m. n. 2002 2003 2004 2,09 -0,43 6,94 7,39 4,38 6,92 -2,33 10,28 12,92 4,35 59,46 22,03 18,92 6,94 2,02 0,36 2,33 1,61 0,73 -0,14 2,02 -1,43 SETTORI AD ALTA TECNOLOGIA 2002 2003 2004 -22,13 0,69 4,38 -0,74 4,12 5,15 2,22 2,09 2,58 2,24 SETTORI DI SPECIALIZZAZIONE 2002 2003 2004 -0,54 -0,15 -0,45 -0,32 3,01 4,56 -1,17 2,43 3,65 3,10 % SUI RICAVI CONSUMI SERVIZI VALORE AGGIUNTO OPERATIVO MOL MON PROVENTI FINANZIARI NETTI UTILE CORRENTE ANTE ONERI FIN. ONERI FINANZIARI UTILE CORENTE PARTITE STRAORDINARIE IMPOSTE RISULTATO NETTO RETTIFICATO 55,61 23,26 21,47 7,82 3,78 0,60 4,12 1,82 2,30 0,38 2,23 0,46 55,44 23,48 21,68 7,71 3,43 0,52 3,67 1,70 1,96 0,21 2,34 -0,17 55,88 23,06 21,65 8,07 4,11 0,79 4,58 1,45 3,13 1,27 2,56 1,84 60,17 22,03 18,06 6,30 1,61 0,73 2,26 1,68 0,58 0,20 1,90 -1,11 59,57 21,41 19,51 8,10 3,48 0,81 4,18 1,28 2,90 1,83 2,64 2,08 51,91 21,03 28,33 12,08 8,68 1,16 9,31 1,62 7,70 0,88 4,85 3,74 50,86 21,26 28,58 11,38 7,00 1,13 7,58 1,68 5,89 -0,18 5,13 0,58 50,72 21,41 28,18 11,28 7,89 0,52 8,17 1,32 6,85 1,79 4,69 3,95 52,11 23,25 25,22 9,06 5,49 0,91 5,33 1,93 3,40 0,49 2,40 1,49 51,74 23,63 25,24 8,54 4,69 0,79 4,65 1,94 2,72 0,37 2,49 0,59 52,67 23,23 24,73 8,45 4,99 0,83 5,25 1,60 3,65 2,05 3,00 2,69 ROE ROA M.O.N./CAP. INVEST.OPERATIVO M.O.N/FATTURATO FATTUR./CAP. INVEST.OPERATIVO RICAVI PRO CAPITE (ML) V.A. PRO CAPITE (ML) COSTO LAVORO PRO CAPITE (ML) TASSO DI INVESTIMENTO TASSO DI ACCUMULAZIONE IMMOB.TECN. LORDE PRO CAP.(ML) V.A./IMMOB.TECNICHE LORDE 1,55 -0,57 3,93 3,48 8,16 7,22 3,78 3,44 2,16 2,10 275,47 278,42 59,15 60,37 37,61 38,92 . 3,79 . 6,91 140,30 149,32 42,16 40,43 5,91 4,38 8,94 4,12 2,17 297,17 64,35 40,36 3,58 6,64 156,88 41,02 -3,78 -5,01 6,77 2,22 2,30 4,25 4,22 5,09 9,12 1,61 2,02 3,48 2,62 2,52 2,62 353,54 362,51 396,86 63,86 68,58 77,44 41,59 43,41 45,30 . 3,51 3,52 . 6,59 6,84 178,50 187,86 198,32 35,77 36,51 39,05 7,47 2,96 23,26 1,26 18,46 88,88 50,98 . . 6,79 87,73 26,00 2,83 3,00 16,48 1,26 13,08 88,22 53,08 3,44 7,37 6,88 95,48 25,08 7,05 2,71 20,84 1,28 16,28 90,50 54,27 3,00 6,90 6,78 100,66 25,11 5,21 4,91 12,30 5,49 2,24 236,70 59,70 38,24 . . 98,51 60,60 2,01 4,23 10,08 4,69 2,15 235,77 59,51 39,39 3,18 6,81 108,27 54,97 8,59 4,70 11,08 4,99 2,22 249,43 61,68 40,61 2,98 6,40 114,57 53,84 LIQUID. CORRENTE GIORNI DI CREDITO AI CLIENTI GIORNI DI CREDITO DAI FORN. GIORNI SCORTA MEDIA CIRC.COMM.CORRENTE/FATT. 114,88 118,82 113,85 116,24 111,15 108,02 75,92 77,13 19,13 20,04 121,93 111,62 107,18 77,46 19,57 102,68 104,58 108,77 95,71 104,42 90,45 109,33 105,51 102,05 58,95 57,96 56,61 9,88 10,79 10,43 33,05 94,07 71,96 . 69,90 24,14 96,44 71,93 108,66 68,82 22,12 94,22 70,81 118,09 70,37 118,36 127,74 125,88 96,54 19,81 120,31 125,10 118,51 99,53 21,59 122,90 121,64 119,95 99,52 20,33 CAP. NETTO/DEBITI FIN. TOTALI DEB. FIN. B/T / DEB. FIN. TOTALI ONERI FIN./DEBITI FINANZIARI ONERI FIN. NETTI/M.O.L. 91,20 57,16 5,40 16,53 92,98 54,31 4,87 15,29 103,47 53,86 4,44 13,30 92,62 52,09 5,03 18,76 6,43 13,38 -1,21 4,23 5,45 14,80 -0,61 3,55 4,81 11,73 -1,29 4,13 98,23 56,57 6,05 13,86 98,89 57,92 5,53 12,94 107,25 55,19 4,62 12,13 8,49 3,91 1,02 3,48 -0,60 1,50 -2,10 1,27 1,38 -0,51 0,04 8,97 5,06 0,65 3,49 0,93 1,70 -0,77 1,51 -0,05 -0,11 0,58 12,68 2,95 0,96 3,70 -1,71 2,99 -4,71 2,56 4,77 -4,26 -1,62 13,95 6,65 0,03 3,76 2,87 1,52 1,35 2,08 -1,69 -1,53 0,22 8,86 4,22 1,79 3,38 -0,95 1,98 -2,93 0,58 0,35 1,40 -0,60 9,41 4,77 0,20 2,87 1,70 2,23 -0,53 0,88 1,07 -0,44 0,98 % SUI RICAVI AUTOFIN. ANTE GEST. FIN. ED IMP. AUTOFINANZIAMENTO NETTO - VAR.CIRCOLANTE OPERATIVO - INVESTIMENTI FISSI SALDO FINANZIARIO LORDO - INVESTIMENTI FINANZIARI NETTI SALDO FINANZIARIO NETTO + AUMENTI DI CAPITALE AZIONARIO + VAR. DEBITI FINANZIARI MLT + VAR. DEBITI FINANZIARI BT = VAR.LIQUIDITA' 92,82 49,76 4,63 15,58 112,28 48,00 4,09 11,51 8,02 3,16 0,95 3,45 -1,24 2,55 -3,79 2,03 1,24 -0,47 -0,99 9,23 5,16 0,28 3,65 1,23 2,02 -0,79 2,45 -0,33 -1,31 0,02 NB: per le definizioni delle variabili si rinvia al volume della Centrale dei Bilanci, Economia e Finanza delle Imprese Italiane, anni vari, Bancaria Editrice, Roma. . . SETTORI DI SCALA 2002 2003 2004 1,72 -0,34 4,55 4,91 3,93 7,72 -1,06 8,39 9,53 3,81 58,65 21,57 19,97 6,59 1,49 0,49 2,01 1,80 0,21 0,25 1,80 -1,34 58,26 21,80 20,53 6,91 1,68 0,26 1,92 1,61 0,30 0,07 1,86 -1,48 58,91 21,03 20,66 7,67 2,66 0,84 3,37 1,34 2,03 1,34 2,25 1,12 -4,57 2,00 3,50 1,49 2,35 283,34 56,59 37,91 173,38 32,64 -5,12 1,92 3,88 1,68 2,31 289,19 59,37 39,40 4,27 6,55 184,02 32,26 106,99 106,96 116,77 52,77 13,48 93,21 55,56 5,45 19,89 SETTORI TRADIZIONALI 2002 2003 2004 1,57 0,72 0,89 0,16 2,85 3,84 -0,96 2,15 3,14 4,01 55,12 25,05 20,00 8,21 4,95 0,21 4,84 1,81 3,03 0,35 2,09 1,29 55,33 25,30 19,86 7,84 4,48 0,42 4,42 1,71 2,72 0,34 2,26 0,79 55,61 25,36 19,54 7,62 4,45 0,47 4,41 1,55 2,86 0,74 2,30 1,30 3,70 3,48 6,41 2,66 2,41 314,85 65,03 40,90 4,15 6,58 193,99 33,53 4,87 5,27 10,05 4,95 2,03 279,99 55,99 32,99 . . 131,31 42,63 2,90 4,75 8,87 4,48 1,98 282,37 56,08 33,93 3,76 7,52 138,55 40,48 4,58 4,74 8,99 4,45 2,02 296,06 57,84 35,29 3,48 6,91 146,62 39,45 109,54 116,24 114,23 53,38 14,72 115,07 105,19 110,85 52,84 14,64 119,58 112,95 100,12 64,11 23,84 123,04 110,38 96,89 65,06 24,04 124,08 108,66 97,36 64,70 23,77 97,03 54,63 4,89 16,82 111,69 52,60 4,57 13,32 78,90 59,18 5,34 16,57 83,23 57,53 4,93 16,43 88,16 59,10 4,64 16,19 7,89 3,81 1,54 3,95 -1,69 1,59 -3,28 2,08 0,38 -0,22 -1,04 8,40 5,13 0,97 3,89 0,27 1,58 -1,30 2,46 -0,02 -0,75 0,39 8,54 4,13 0,69 3,14 0,30 0,95 -0,65 0,44 0,94 0,13 0,86 8,45 4,48 0,42 3,24 0,82 1,14 -0,32 0,67 -0,33 0,65 0,68 to netto dei settori di scala si colloca al livello più basso dei diversi comparti considerati in questa sede. Gravi perdite sono state realizzate dal settore autoveicoli e componenti, mentre perdite limitate hanno riguardato il settore tessile (ROE pari a -0,6%); tutti gli altri settori hanno chiuso l’esercizio in utile; i tassi di profitto più consistenti sono stati realizzati nei settori degli apparecchi di precisione, stampa ed editoria, farmaceutica e minerali non metalliferi. In sintesi, il recupero di redditività operativa ed il miglioramento delle strutture finanziarie avvenuto nel 2004 ha riguardato soprattutto le imprese di maggiori dimensioni ed i comparti industriali caratterizzati da esse: a fronte di una certa ripresa dei ricavi nominali, tali imprese hanno ridotto l’incidenza dei costi per servizi esterni e mantenuto quasi stabili costi per consumi di materie prime e materiali. L’aumento del valore aggiunto è stato pertanto un po’ più intenso di quello dei ricavi; su di esso si è innestata la ulteriore riduzione dei livelli occupazionali, peraltro comune a tutti i comparti produttivi, che ha contribuito ad accelerare la crescita della produttività. Il miglioramento dei margini, ancorché lieve nel complesso, ha determinato da un lato l’aumento della redditività del capitale investito e dall’altro l’incremento dei livelli di autofinanziamento. Ad essi si sono contrapposti fabbisogni finanziari di limitata entità, dati i bassi tassi di accumulazione in capitale fisso e circolante, che hanno ridotto di molto le necessità di finanza esterna netta, rispetto all’esercizio precedente. Nel 2004 gli aumenti di capitale azionario per contro sono stati di entità più consistente nei confronti del 2003 e non solo hanno assorbito il fabbisogno netto, ma hanno condotto anche al rafforzamento delle strutture finanziarie. L’iscrizione di partite di origine contabile connesse al disinquinamento fiscale dei bilanci ha ulteriormente portato al miglioramento dei livelli di redditività di queste imprese. Bassa accumulazione di capitale e riduzione dei livelli di occupazione, ovvero, in altri termini, diminuzione relativa dei livelli di fattori produttivi, spiegano buona parte della differenza tra i risultati aggregati delle imprese maggiori e quelli delle imprese medie e minori. L’elemento positivo che emerge con maggiore evidenza dai dati riguarda l’inserimento di risorse fresche da parte degli azionisti nelle imprese a titolo di aumento di capitale: se esse hanno consentito la diminuzione dei tassi di indebitamento ed il rafforzamento patrimoniale, anche a causa della stagnazione produttiva, è pure vero che rappresentano una manifestazione tangibile del grado di fiducia degli imprenditori nel futuro delle loro imprese. Le preoccupazioni maggiori sono concentrate in alcune aree di crisi specifiche che riguardano soprattutto il settore automobilistico, per la sua intensità, e l’insieme del tessile-abbigliamento, per la sua diffusione. Applicando il Sistema di Analisi dei Rischi di Insolvenza della Centrale dei Bilanci si ha una sintesi degli effetti dei movimenti economici e finanziari del 2004: sul totale GLOBAL COMPETITION conti economici, tra le partite straordinarie. Il miglioramento della redditività ha riguardato la maggior parte delle classi dimensionali e dei comparti industriali: le variazioni più favorevoli si sono registrate nelle imprese maggiori e nel comparto dei settori di scala. Dopo le componenti straordinarie, inclusive delle partite contabili del disinquinamento fiscale ed al netto delle imposte, il ROE delle società più grandi è cresciuto di quasi 11,8 punti percentuali (dal -5% al 6,8%), mentre quello dei settori di scala è aumentato di oltre 8,8 punti (dal -5,1% al 3,7%). Pure considerando il significativo aumento di redditività, per parte non trascurabile derivante peraltro da partite di natura contabile, il tasso di profit- 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 13 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 delle quasi 9.600 imprese censite, il 51,7% circa si colloca nell’area di solvibilità, rispetto al 50,9% dell’anno precedente, con un miglioramento di 0.74 punti percentuali; peraltro anche l’area di rischio è aumentata, anche se di soli 0,2 punti (dal 17,4% al 17,6%): nell’esercizio si è quindi verificata una certa polarizzazione delle situazioni aziendali verso i due estremi (solvibilità e rischio), riducendo l’area intermedia delle imprese vulnerabili. In realtà, un’analisi per classi dimensionali mette in luce che lo spostamento verso l’area di rischio caratterizza soprattutto le piccole imprese, mentre quelle maggiori, per i motivi indicati in precedenza, hanno realizzato un generale spostamento favorevole verso l’area di solvibilità: le società con oltre 250 milioni di euro di ricavi hanno infatti ridotto di quasi 5,8 punti percentuali la loro appartenenza all’area di rischio, scesa dal 17,8% al 12%, ed aumentato di 6,2 punti la presenza nell’area di solvibilità (dal 58,7% al 64,9%). 14 Una tassonomia delle imprese industriali in 12 idealtipi I bilanci aggregati se da un lato consentono di disporre di un quadro complessivo chiaro e sintetico dall’altro compensano posizioni specifiche assai differenziate e non permettono di esaminare oltre un certo limite i profili strutturali delle imprese. L’analisi delle distribuzioni statistiche e la costruzione di tassonomie specifiche sono due tra gli approcci più utilizzati per dischiudere il contenuto dei dati aggregati e far emergere le specificità più rilevanti delle imprese. In questa sede, dati gli scopi dell’analisi, si è preferito adottare la metodologia della costruzione di una tassonomia economico-finanziaria descrittiva delle imprese industriali italiane. Essa rappresenta una via intermedia tra il dato aggregato, sia pure esaminato per classi dimensionali, aree geografiche e comparti settoriali, e la massima disaggregazione, costituita dai dati delle singole imprese. Preso in esame un certo numero di variabili rilevanti, l’obiettivo della tassonomia consiste nell’identificare i sottoinsiemi omogenei in cui può essere scomposta la popolazione delle imprese da esaminare. I sottoinsiemi non sono costruiti a priori, quindi, come nel caso delle classi dimensionali o dei settori merceologici, ma derivano direttamente dai profili economico-finanziari delle imprese: ciascun sottoinsieme raggruppa tutte le imprese che hanno tra di loro il profilo più simile e nello stesso tempo più distante da quello degli altri sottoinsiemi. Poiché si considerano contemporaneamente più descrittori economico-finanziari, la vicinanza dei profili aziendali viene valutata su base multivariata, dopo aver provveduto a gestire i valori anomali, standardizzare le variabili originali ed a studiarne le correlazioni. La scelta delle variabili da considerare e l’individuazione del numero e tipologia dei sottoinsiemi comporta un certo grado di soggettività, per i numerosi elementi che devono essere contemperati: stabilità temporale dei profili identificati, riconoscibilità ed interpretabilità economica e finanziaria dei sottoinsiemi, numerosità relativa delle imprese che li compongono, differenziazione dei profili, e così via. Dall’analisi dell’intero triennio 2002-2004 sono emersi 12 profili tipici che contraddistinguono altrettanti sottoinsiemi di imprese, che sinteticamente possono essere definiti come segue (Tabella 2): › Sottoinsieme 1: Profilo Medio › Sottoinsieme 2: Imprese Eccellenti › Sottoinsieme 3: Imprese a Bassa Intensità di Capitale/Prodotto › Sottoinsieme 4: Imprese Robustissime › Sottoinsieme 5: Imprese Statiche › Sottoinsieme 6: Imprese Fragilissime › Sottoinsieme 7: Imprese Finanziarizzate › Sottoinsieme 8: Imprese ad Alta Intensità di Capitale/Lavoro › Sottoinsieme 9: Imprese a Bassa Intensità di Capitale/Lavoro › Sottoinsieme 10: Imprese ad Alta Intensità di Circolante Operativo › Sottoinsieme 11: Imprese ad Alta Intensità di Leva Commerciale › Sottoinsieme 12: Disastri Profilo medio Questo sottoinsieme raccoglie il 14,3% dei bilanci esaminati, composto prevalentemente da imprese di dimensioni intermedie, con circa 110 dipendenti e 31 milioni di ricavi medi per impresa. Il suo è un profilo che non si caratterizza in modo specifico e pertanto, tenendo conto che questo sottoinsieme è quello più numeroso, è stato definito come profilo tipo delle medie imprese industriali: la crescita media annua dei ricavi si aggira intorno al 4,1%, con una redditività sia operativa che netta non elevata ed una struttura finanziaria non particolarmente robusta. Eccellenti Questo sottoinsieme, che rappresenta il 9,4% dei bilanci, con dimensione media pari a 123 dipendenti ed oltre 33 milioni di euro di ricavi, è caratterizzato dai tassi di crescita più elevati, altissima redditività combinata con strutture finanziarie molto robuste. Il tasso medio di sviluppo dei ricavi è pari al 7,6%, mentre la crescita del valore aggiunto operativo raggiunge quasi il 12% e la creazione di nuova occupazione è pari al 2,8%, il valore più alto tra i diversi sottoinsiemi. La redditività sul capitale investito operativo è del 41,9%, mentre quella complessiva sul totale dell’attivo (ROA) è del 15% circa e la redditività netta per gli azionisti supera il 22,5%. Gli elevati tassi di profitto derivano essenzialmente da margini sui ricavi molto elevati, più che da una rapida rotazione dei capitali, che pure si colloca a livelli assai consistenti. I rilevanti margini unitari sono coerenti con valori ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › Bassa intensità di capitale/prodotto In questo sottoinsieme è collocato il 7,4% dei bilanci, con un’occupazione media di poco più di 70 dipendenti e 41,3 milioni di euro di ricavi. La caratteristica specifica di questo profilo risiede soprattutto nell’elevatissima produttività del capitale: la rotazione complessiva dei capitali è infatti ai livelli massimi (2,15 volte), superiore a quello delle imprese Eccellenti. Si tratta di imprese prevalentemente collocate nei settori tradizionali (il comparto rappresenta quasi il 64% dei bilanci inclusi nel sottoinsieme), con valori molto alti di ricavi pro-capite, ma livelli molto bassi di valore aggiunto sui ricavi e di produttività del lavoro: questo profilo appare tipico di produzioni di beni ad elevato valore unitario, ma che richiedono un altrettanto elevato ammontare di input esterni, lasciando all’impresa un modesto valore aggiunto e bassi margini. Questi ultimi, combinandosi con l’elevatissima rotazione dei capitali, determinano peraltro buoni livelli di redditività. Robustissime La peculiarità di questo profilo è l’eccezionale robustezza delle strutture finanziarie e dell’equilibrio patrimoniale. Il sottoinsieme contiene il 9,6% dei bilanci, prevalentemente di dimensione media, con circa 116 dipendenti e 25,2 milioni di euro di ricavi, collocati per il 42,9% nei settori tradizionali. Il patrimonio netto è pari ad oltre 6 volte l’ammontare dei debiti finanziari (615,8%) e supera il 46% del totale attivo, mentre i capitali permanenti sono oltre 3,5 volte le attività immobilizzate, determinando il livello Statiche Bassissima crescita del valore aggiunto (1,1%), diminuzione dei ricavi, sia pure di lieve entità (-1%), unitamente a scarsa produttività e redditività sono le caratteristiche salienti di questo sottoinsieme che raccoglie l’8,8% dei bilanci, con 109 dipendenti e 21,6 milioni di euro di ricavi, operanti per quasi il 48% nei settori tradizionali. Margini operativi modesti e rotazione dei capitali molto contenuta, innestati su livelli bassissimi di produttività dei fattori, sono alla base della insufficiente performance di queste imprese. Fragilissime La particolarità di questo sottoinsieme è la fragilità delle strutture patrimoniali unita ad un significativo squilibro finanziario. Sono inclusi nel sottoinsieme circa il 9,5% dei bilanci, con 120 dipendenti in media e 25,8 milioni di euro di ricavi; tali imprese sono operanti per il 46% nei settori tradizionali e per il 34,3% in quelli di scala. Il livello di capitale circolante di questi bilanci è negativo per il -6,3% dell’attivo, corrispondente ad una liquidità corrente del 91,5%; accanto allo squilibrio finanziario tra capitali permanenti ed attività immobilizzate, questi bilanci hanno anche strutture patrimoniali altamente indebitate: il patrimonio netto rappresenta appena il 64,8% dei debiti finanziari, il 46,3% delle immobilizzazioni, il 18,1% dell’attivo. La radice di tale debolezza va ricercata nell’elevato peso (sull’attivo) delle immobilizzazioni tecniche, finanziato con il ricorso massiccio all’indebitamento. Queste imprese hanno anche un’intensa accumulazione di capitale fisso, sia rispetto ai ricavi che al valore aggiunto, ed un basso grado di ammortamento, pur in presenza di adeguati tassi di ammortamento, che indicano un’età relativamente bassa delle immobilizzazioni. Nel complesso la crescita è di entità limitata (+2,8% di incremento medio dei ricavi), con una redditività modesta (ROA pari a 2,7%) che diventa negativa a livello di ROE (-5,1%). Finanziarizzate Questo è un sottoinsieme composto prevalentemente da imprese di grande e medio-grande dimensione (205 dipendenti medi e oltre 60 milioni di euro di ricavi), ope- 4 - 2006 più elevato di circolante (39% del totale attivo). Alla robustezza finanziaria e patrimoniale si accompagna il livello più consistente di liquidità: la liquidità disponibile è pari al 17,4% dell’attivo e al 16,6% dei ricavi. Peraltro queste imprese appaiono fortemente condizionate nel loro sviluppo, con tassi di variazione dei ricavi che in media sono negativi per l’1,5% e diminuzioni del valore aggiunto del 3,5%; ne consegue che i tassi di redditività, pur restando positivi in media, sono a livelli molto modesti (ROE pari allo 0,2% e ROA inferiore al 4%). GLOBAL COMPETITION particolarmente alti della quota del valore aggiunto sui ricavi e della produttività del lavoro. L’eccellente capacità reddituale di queste imprese si accompagna a strutture finanziarie assai robuste, con bassa incidenza dell’indebitamento finanziario sul capitale, modestissimo peso degli oneri finanziari sul conto economico e sui margini lordi e livelli di capitale circolante molto consistenti: il basso tasso di indebitamento e il rilevante livello di equilibrio finanziario appaiono il risultato della capacità di autofinanziamento, prolungata nel tempo e derivante dall’eccellente redditività aziendale. Queste imprese non hanno tassi di investimento elevati e non devono far fronte a fabbisogni di finanza esterna: il loro Saldo Finanziario Netto è infatti il migliore tra i diversi profili ed è positivo (indica un surplus disponibile invece che un fabbisogno) per il 2,5% dei ricavi: in questa situazione è comprensibile che non solo si abbia una riduzione dei livelli di indebitamento, ma anche che gli aumenti di capitale azionario di queste imprese si collochino ai livelli più bassi tra i diversi profili. Si consideri che in questo sottoinsieme la quota delle imprese collocate nel comparto ad alta tecnologia è la più importante tra i diversi sottoinsiemi (7,1%), mentre quella del comparto dei settori tradizionali è la più modesta (33,2%). 15 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › ranti nei settori di scala (33,7%), ad alta tecnologia (7%) e tradizionali (36,4%). La specificità di questo profilo risiede soprattutto nell’elevata incidenza delle immobilizzazioni finanziarie: le partecipazioni rappresentano il 15,7% dell’attivo ed i crediti finanziari immobilizzati il 4,7%; considerando anche i crediti finanziari a breve termine, il grado di finanziarizzazione del bilancio è dell’ordine del 23,5% dell’attivo. Coerentemente con la dimensione elevata, il costo del lavoro pro-capite di queste imprese raggiunge il valore più elevato, pari in media a oltre 39 mila euro. Si tratta quindi di un sottoinsieme espressivo di aziende che si trovano ai vertici di gruppi societari, in cui i rapporti di controllo si sostanziano attraverso cospicui investimenti in partecipazioni, accompagnati dal sostegno diretto alle controllate e collegate tramite la concessione di finanziamenti a breve od a medio e lungo termine. La struttura finanziaria è correlata con il tipo di investimento effettuato e la natura delle relazioni societarie: il patrimonio netto è dell’ordine di 2,2 volte i debiti finanziari, mentre l’indebitamento verso il gruppo rappresenta una quota rilevante (16,4%) del totale dei debiti finanziari a breve. Alta intensità di capitale/lavoro L’elevato stock di capitale fisso pro-capite è la tipicità che contrassegna questo sottoinsieme. Esso è formato dal 9,8% dei bilanci, con una media di 128 dipendenti e 36,1 milioni di euro di ricavi, operanti per il 48,8% nei settori tradizionali e per il 32,2% nei settori di scala. Le immobilizzazioni lorde per dipendente superano i 230 milioni di euro. L’intensità di capitale si accompagna GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 Tabella 2 - Profili economici-finanziari dei 12 ideltipi individuati 16 MEDIE DEL TRIENNIO 2002-2004 VARIAZIONE % RICAVI NETTI VARIAZIONE % DIPENDENTI VARIAZIONE % VALORE AGGIUNTO VAL.AGGIUNTO/FATTURATO MARG.OP. LORDO/FATTURATO ROE ROI ROI ANTE IMPOSTE E COMP. STR. ROA R O A OPERATIVO MARGINE SUI RICAVI TURNOVER V. A./IMMOB.TECNICHE LORDE RICAVI PRO CAPITE (ML) V. A. PRO CAPITE (ML) COSTO LAVORO PRO CAPITE (ML) IMMOB.TECN. LORDE PRO CAP.(ML) TASSO DI INVESTIMENTO TASSO DI ACCUMULAZIONE INVESTIMENTI FISSI/V. A. TASSO AMMORTAM. COMPLESSIVO GRADO DI AMMORTAMENTO LIQUID. CORRENTE (CON C.CAMB.) GIORNI DI CREDITO AI CLIENTI GIORNI DI CREDITO DAI FORN. GIORNI SCORTA MEDIA CIRC. COMM. CORRENTE/FATT. CAP. NETTO/DEBITI FIN. TOTALI DEB. FIN. B/T / DEB. FIN. TOTALI CAP.NETTO/IMM.TECNICHE NETTE CAP.PERMANENTI/ATTIV.IMMOBIL. ONERI FIN.NETTI/M.O.L. AUTOFINANZIAMENTO/FATTURATO SALDO FIN. NETTO/FATTURATO IMMOB. TEC. NETTI/AN PARTECIPAZIONI NETTE/AN CREDITI FIN. TOT/AN LIQUIDITA/AN CAPITALE NETTO /AN DEB. FIN. TOTALI L.T. /AN CAP. PERMANENTI /AN DEBITI FINANZIARI B.T./AN CAP. CIRCOLANTE /AN INVEST. NETTI PARTEC. /FATT AUM. NETTI CAPITALE AZ. /FATT DEB. V/GRUPPO/DEB. FIN.B.T. Profilo medio 4,15 1,49 2,68 19,88 5,76 2,59 3,91 7,48 4,18 7,56 3,35 1,26 90,55 330,75 55,17 35,71 98,53 2,60 8,11 13,60 6,96 62,97 134,35 151,55 109,44 63,99 32,65 109,07 71,26 292,41 252,44 20,52 3,49 -3,16 14,33 1,26 2,73 2,67 22,21 9,06 38,50 24,23 17,83 0,18 0,22 6,80 Bassa Bassa Alta intesità intesità di intensità Eccellenti di cap. Robu- Statiche Fragilis- Finanzia- di capitale capitale lavoro lavoro sime rizzate prodotto stissime 7,56 2,81 11,89 33,36 16,46 22,54 17,65 29,72 14,96 41,89 12,65 1,29 136,10 308,53 87,50 37,19 112,53 3,42 8,78 10,41 7,95 66,62 182,47 116,34 109,46 53,66 22,45 575,61 50,93 464,74 344,83 3,14 10,88 2,55 16,06 1,37 2,94 11,48 40,59 5,41 55,37 6,30 31,85 0,20 0,07 10,63 6,90 2,23 5,87 10,30 4,05 6,45 7,95 13,25 5,91 16,53 2,80 2,15 111,48 832,22 66,12 34,32 125,11 1,49 9,42 15,37 7,96 58,70 123,11 84,76 77,32 33,05 12,82 174,32 70,98 321,87 250,99 26,69 2,23 -0,08 14,27 1,20 2,69 6,42 19,62 7,20 32,39 21,48 11,85 0,10 0,17 4,64 -1,55 -0,83 -3,46 28,21 8,54 0,18 2,54 6,33 3,97 11,44 3,95 1,06 64,79 235,87 56,40 36,01 136,15 3,65 6,15 13,77 6,80 68,72 216,43 118,67 104,11 63,12 26,29 615,80 38,65 430,87 353,15 7,47 5,57 1,37 18,37 1,48 2,94 17,39 46,10 7,42 64,85 4,89 39,03 0,21 0,17 10,61 -0,98 -0,75 1,11 26,83 6,83 -8,17 2,62 5,04 3,03 6,30 3,10 0,99 88,68 213,77 48,95 34,40 90,80 2,86 6,81 11,68 6,09 60,72 123,52 123,50 123,52 129,36 38,18 50,91 69,46 181,64 186,95 42,29 2,87 -2,77 16,44 1,32 2,78 5,40 16,44 11,98 36,89 29,86 11,91 0,22 0,59 3,84 2,78 0,43 2,07 28,56 8,76 -5,13 2,37 4,72 2,69 5,30 2,74 1,02 33,19 227,69 54,74 35,18 191,32 6,47 8,15 26,11 6,36 52,21 91,53 116,29 134,95 51,44 15,38 64,76 62,08 46,31 86,47 29,66 5,62 -2,27 38,69 0,89 2,40 3,16 18,07 13,06 40,41 25,20 -6,29 0,14 0,48 8,01 2,72 0,16 1,36 25,57 8,93 2,96 5,18 8,17 5,03 15,44 5,61 0,92 76,03 324,16 67,53 39,07 150,93 3,60 7,27 15,30 6,79 65,99 126,43 126,88 117,47 62,02 24,00 222,13 55,26 391,85 125,34 24,58 6,80 -2,11 14,95 15,74 4,70 4,56 31,68 12,02 51,65 18,36 7,58 1,28 0,42 16,41 4,62 1,68 3,12 25,74 10,62 6,09 5,71 9,17 5,50 9,69 5,14 1,11 30,96 314,40 67,21 35,47 233,36 5,94 7,67 25,36 7,14 57,91 141,91 114,11 110,66 55,19 21,22 343,02 47,75 116,21 143,92 11,13 8,39 -0,67 35,57 1,27 2,55 3,07 38,37 10,65 57,15 10,65 14,59 0,15 0,20 8,49 3,67 1,48 8,08 31,17 9,28 3,20 5,39 11,13 6,04 12,97 5,09 1,23 139,27 199,01 54,62 35,71 63,92 2,91 8,95 9,60 7,38 61,66 113,04 151,95 116,39 57,94 31,35 46,88 78,73 187,96 172,54 23,86 4,40 -2,63 15,56 1,30 2,91 3,59 14,50 8,00 31,38 32,48 7,37 0,17 0,26 4,28 Alta intesità di cirdolante operativo e Alta leva bassa leva commerc. commerc. -1,30 -0,51 -1,88 14,42 5,11 -1,38 3,58 4,54 3,41 4,40 3,87 0,91 59,77 547,29 61,14 33,76 188,57 2,95 7,10 20,39 5,74 55,49 141,94 123,01 91,56 163,93 52,99 75,45 69,40 303,36 267,70 49,95 2,93 -3,31 17,09 1,07 2,42 2,28 23,78 13,19 41,54 32,88 18,76 0,13 0,58 2,82 4,39 1,36 3,93 20,52 5,73 4,40 6,31 10,78 3,51 14,00 3,61 1,01 114,16 358,09 56,13 37,22 97,29 2,72 8,92 13,74 7,31 60,67 126,86 142,17 162,42 124,09 21,61 225,81 58,14 345,55 271,82 20,62 3,55 -1,00 11,93 1,18 2,58 5,63 17,92 7,05 32,11 11,18 14,54 0,18 0,31 8,32 Disastri -11,43 -5,69 -40,36 3,00 -3,50 -16,10 -2,21 -4,00 -1,87 -5,97 -1,78 0,92 18,26 559,68 21,58 38,19 188,54 3,63 8,24 2,92 6,34 56,62 113,92 143,71 107,11 119,00 38,93 65,53 72,16 227,09 191,10 n.s. -1,28 -3,89 16,50 2,43 3,74 3,41 15,62 11,17 31,50 33,10 5,62 0,38 1,13 10,93 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › Alta intensità di circolante/operativo Questo sottoinsieme comprende il 5,6% dei bilanci, prevalentemente di piccola dimensione (57 dipendenti in media, con 22,9 milioni di euro di ricavi), per il 76,4% collocati nei settori tradizionali. La nota distintiva che differenzia questo profilo riguarda l’elevatissima intensità del circolante operativo: la sua incidenza sui ricavi è dell’ordine del 53%, livello che è più del doppio di quello che si riscontra nella maggior parte degli altri sottoinsiemi. A determinare questa situazione è soprattutto l’entità delle rimanenze di magazzino (164 giorni di scorta media), mentre i crediti verso clienti ed i debiti verso fornitori non assumono valori significativamente diversi dalla media. Il ciclo commerciale che queste imprese devono finanziare ha quindi una durata assai estesa (238 giorni). Il circolante operativo è finanziato in larga misura con indebitamento a breve, specialmente verso banche, rendendo greve il peso sul conto economico dei debiti finanziari e degli oneri connessi e fragili le strutture patrimoniali. Alta intensità di leva commerciale Se il sottoinsieme precedente soffre di eccesso di circolante operativo, questo ha invece livelli di circolante tra i più bassi tra i diversi sottogruppi di imprese. Esso include il 7,5% dei bilanci, con circa 110 dipendenti e quasi 32 milioni di euri di ricavi, collocati per quasi il 31% nei settori di specializzazione, il 29,4% in quelli di scala ed il 36% in quelli tradizionali. Il modesto livello di circolante di queste imprese non deriva tanto da bassi livelli di scorte o di crediti commerciali quanto dall’elevato ricorso al debito di fornitura: ben 162 giorni circa. Tale politica consente a queste imprese di ridurre, a parità di attivo, l’entità del capitale investito e quindi di realizzare una redditività su quest’ultimo (ROI ante imposte e componenti straordinarie del 10,9%) notevolmente superiore alla redditività complessiva (ROA pari al 3,5%), sfruttando in modo accentuato il moltiplicatore della leva commerciale. Ne derivano elevati livelli di turnover del capitale investito che compensano in modo più che proporzionale i modesti margini sui ricavi realizzati da queste società. Disastri Questo sottoinsieme racchiude solo lo 0,7% dei bilanci (poco più di 200), con 71 dipendenti medi e 25,7 milioni di euro di ricavi, concentrati per il 62,7% nei settori tradizionali. Il profilo economico-finanziario di questi bilanci è semplicemente disastroso: la radice della crisi deriva dal grave crollo delle vendite (-11,4%) che trascina su valori pesatamente negativi tutti i parametri di redditività e di produttività. Strutture finanziarie fragili e pesantemente indebitate a breve completano il quadro complessivo. La situazione è tale che in queste società gli aumenti di capitale sociale dagli azionisti sono i più elevati tra tutti i sottoinsiemi (oltre 1,1% dei ricavi): i conferimenti di risorse a titolo di capitale di rischio sono evidentemente essenziali per la sopravvivenza delle imprese. Le transizioni tra i sottoinsiemi L’analisi delle matrici di transizione dei bilanci tra i diversi sottoinsiemi avvenute nel triennio consente di studiare gli effetti economici e finanziari delle politiche aziendali o di eventi esterni: in questa sede, la politica aziendale è vista come l’insieme delle manovre che modificano il profilo tipico che caratterizza un’impresa ad un dato istante del tempo, facendole assumere, più o meno interamente, un profilo diverso. I cambiamenti dei caratteri dei profili, ovviamente, non sono solo il prodotto delle politiche 4 - 2006 Bassa intensità di capitale/lavoro Il caso opposto al precedente si trova in questo sottoinsieme. I bilanci qui inseriti hanno la caratteristica del minimo impiego di capitale fisso pro-capite: meno di 64 mila euro. Essi sono circa l’8% dei bilanci totali, con 109 dipendenti e quasi 20 milioni di euro di ricavi, con una presenza non secondaria nei settori ad alta tecnologia (6,3%) e di scala (30%), oltre ad un 39,3% circa nei settori tradizionali. Queste imprese hanno processi produttivi con una relativamente elevata intensità di lavoro, che comporta una produttività del lavoro più bassa della media ed in parallelo un’elevata produttività del capitale. La ridotta dimensione media in termini di ricavi e la combinazione del tipo di beni prodotti con le caratteristiche dei processi operativi determinano livelli modesti di crescita e di redditività. La struttura finanziaria di queste imprese è molto debole, con un tasso di indebitamento addirittura peggiore di quello delle Fragilissime, pur conservando un limitato equilibrio patrimoniale (capitale circolante pari al 7,4% dell’attivo): il capitale netto rappresenta meno del 47% del totale dei debiti finanziari ed appena il 14,5% dell’attivo; il 78,7% dei debiti finanziari sono a breve termine. Si tratta di strutture tipiche delle imprese minori, ad elevata dipendenza dal sistema bancario. Si tratta prevalentemente di società che hanno prodotti soggetti a processi di invecchiamento o lenta stagionatura (tipicamente alimentari, ad esempio) oppure a lungo ciclo di produzione. GLOBAL COMPETITION ad un’elevata produttività del lavoro, pur senza raggiungere i livelli delle Eccellenti, ad una modesta produttività del capitale e ad una crescita di circa il 4,6% dei ricavi. La redditività di queste imprese non è elevata, ma la struttura finanziaria è complessivamente robusta, tenuto conto delle notevoli immobilizzazioni che le appesantiscono. 17 GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 18 aziendali, ma possono essere il risultato del verificarsi di eventi esterni (mosse dei concorrenti, anche potenziali, quadro macroeconomico e politico, regulation,...) La figura 1 riporta i principali spostamenti dei bilanci tra i sottoinsiemi, trascurando le transizioni di minore importanza3. Tralasciamo l’analisi degli spostamenti verso il Profilo Medio, tipici di quei casi che si trovano verso i bordi esterni del proprio sottoinsieme e che quando attenuano le caratteristiche distintive del sottoinsieme sono destinati a lasciarlo rapidamente. Il profilo delle Finanziarizzate non ha transizioni rilevanti con altri sottoinsiemi: la grande impresa holding capogruppo rappresenta quindi un insieme strutturalmente molto stabile, almeno nel triennio considerato, per il quale gli ingressi e le uscite sono poco probabili. Non appena un’impresa Eccellente rallenta l’intensità della crescita e la propria redditività, si sposta rapidamente nel sottoinsieme delle Robustissime; la transizione contraria, verso la condizione di Eccellenza, è invece meno probabile, anche se si è verificata in un certo numero di casi. Peraltro non vi sono transizioni significative verso le Eccellenti da altri sottoinsiemi diversi dalle Robustissime. Le Eccellenti dotate di elevate immobilizzazioni pro-capite non appena diminuiscono la crescita e la redditività si spostano nel sottoinsieme ad Alta Intensità di Capitale/Lavoro. Da quest’ultimo sottoinsieme, peraltro, si registrano spostamenti verso le Robustissime nei casi in cui si riducano i tassi di sviluppo e contemporaneamente sia in corso un rafforzamento patrimoniale, anche in concorso con il finanziamento di nuovi investimenti. Se invece il rafforzamento patrimoniale si accompagna ad un’accelerazione della crescita, lo spostamento avviene dal sottoinsieme delle Fragilissime a quello ad Alta Intensità di Capitale/Lavoro. Per buona sorte dell’industria italiana le transizioni verso i Disastri sono di scarsissima intensità, o almeno lo sono state nel triennio considerato, e come tali non sono state riportate nella figura 1. Le uscite dal sottoinsieme dei Disastri riguardano invece ben quattro profili: verso l’Alta Intensità di Circolante Operativo, per quelle imprese che migliorano crescita e redditività, ma hanno processi produttivi che richiedono rilevanti impieghi in scorte; verso la Bassa Intensità di 3 Figura 1 PRINCIPALI TRANSIZIONI TRA I SOTTOINSIEMI INDUSTRIALI FINANZIARIZZATE ECCELLENTI ROBUSTISSIME STATICHE ALTO K/L PROFILO MEDIO BASSO K/L FRAGILISSIME ALTO CIRCOL. OPER. ALTA LEVA COMMERC. BASSO K/PRODOTTO DISASTRI Capitale/Lavoro per quelle imprese che sono riuscite a compiere il risanamento riducendo i capitali investiti, prevalentemente in immobilizzazioni, migliorando in misura sensibile sia la crescita che la produttività dei fattori; verso la Bassa Intensità di Capitale/Prodotto per quelle imprese la cui razionalizzazione riguarda oltre al capitale fisso anche l’entità del circolante, con miglioramento sensibile dei tassi di rotazione; infine, se parte degli squilibri finanziari delle imprese-Disastri hanno comportato l’accumulo di rilevanti ritardi nei pagamenti verso fornitori, il miglioramento di crescita e redditività determina lo spostamento (con frequenza non elevata) verso l’Alta Intensità di Leva Commerciale. Da ultimo vi sono scambi tra il sottoinsieme delle Statiche e quelli ad Alta Intensità di Circolante Operativo, di Leva Commerciale e Bassa Intensità di Capitale/Lavoro quando si verificano, per i bilanci collocati ai confini dei profili, variazioni dei tassi di crescita e di indebitamento. Nel complesso, tuttavia, l’analisi delle matrici di transizione mette in luce che la permanenza negli specifici sottoinsiemi prevale di gran lunga sugli spostamenti dei bilanci, confermando la notevole stabilità dei profili identificati. Fa eccezione il sottoinsieme dei Disastri per il quale sono alte le probabilità di uscire e basse quelle di entrare. L’intensità ed il tratteggio delle frecce indicano l’importanza delle transizioni, mentre il verso rappresenta la direzione dello spostamento. ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › CARATTERISTICHE ED EFFETTI DELLA DELOCALIZZAZIONE Dopo un dettagliato esame, con confronti internazionali, delle ricadute della delocalizzazione in Italia, l’Autore sottolinea come questo processo appaia necessario nel contesto di una strategia produttiva globale che le singole aziende devono darsi. a globalizzazione, che negli anni ’80 si riferiva principalinsufficiente tasso di innovazione dell’offerta, per risponmente alle aree della triade (USA, Giappone, UE), ha dere in modo adeguato alle nuove esigenze di qualità e visto una profonda e accelerata estensione geografica nelprezzo della domanda, e una ridotta produttività aziendal’ultimo decennio, con l’irruzione violenta dei paesi emerle e complessiva, effetti di insufficienti dimensioni di genti dell’Asia, ad alta crescita e basso costo del lavoro, la cui impresa; un utilizzo ancora poco efficiente dell’ICT; sistemi influenza si è estesa anche in altre aree geografiche. distributivi e servizi alle imprese che restano costosi, in Allora l’internazionalizzazione dell’Italia presentava forti quanto troppo poco esposti alla concorrenza. ritardi e gravi debolezze verso i paesi della triade. A partiIn Germania, Francia e Spagna gli effetti della ristrutture dagli anni ’90 si è avviata invece una fase dinamica razione produttiva e distributiva si sono già dispiegati, le caratterizzata da due fenomeni, che Mariotti e Mutinelli1 imprese si sono adeguate, l’efficienza dei servizi erogati è hanno descritto, come l’“inseguimento multinazionale”, notevolmente aumentata, anche in conseguenza di scelcon protagoniste le medie imprese, e l’“esportazione di te energetiche che rendono, questi paesi, soprattutto la skills imprenditoriali”, con la “formazione di una imprendiFrancia, esportatori di energia. torialità italiana all’estero”. Come conseguenza di questo Nel 2005 l’economia italiana ha peggiorato l’andamensecondo fenomeno si è ampliata “l’area grigia dei legami to già debole degli anni precedenti. Fatta eguale a 100 la fra nuovi imprenditori e imprese che delocalizzano, pur produzione industriale del 2000, l’Italia, a gennaio 2006, non creandosi imprese multinazionali”. Il processo dal si colloca a 96,4, contro il 102,1 della Francia e il 108,4 2002 ha peraltro perso vigore e si assiste ad una focalizdella Germania. I settori con una maggiore contrazione nel periodo sono: pelli e calzature che si colloca a 67,7; zazione delle maggiori imprese in alcuni mercati, anche gli apparecchi elettrici a 73,1; il tessile abbigliamento a attraverso dismissioni da altri, e al rallentamento della 81,1. Nonostante la favorevole spinta delle PMI. Si è tornati ai livelli modesti di nuove iniziative degli crescita mondiale del periodo, anni ’80 con “l’aggravante di una prosegue nel 2005 la caduta della riduzione della taglia media delle quota detenuta dall’Italia nel cominiziative”. Pertanto superare la mercio mondiale, non solo verso sfida della globalizzazione, anche la Cina, ma anche verso paesi attraverso una delocalizzazione come la Germania. Infatti l’induforte di produzioni e attività a stria tedesca ha saputo ristruttuminor valore aggiunto, auspicabilrarsi e in pochi anni le sue espormente “positiva” senza chiusura di tazioni sono cresciute del 50%, SERGIO MEACCI impianti in Italia (Fortis2), per effetto con una produttività che è migliorata di 20 punti rispetto all’Italia. di un ampliamento della gamma Amministratore Delegato di Databank SpA dal Questi risultati sono stati ottenuti offerta e di una localizzazione pro1989. Vicepresidente di DBK SA di Madrid, di duttiva per fascia di mercato, resta, cui è stato Presidente fino al 2005. Esperto di analisi competitiva di settore e di misura di indiS. Mariotti, M. Mutinelli, Italia multinazioper le imprese italiane, un passagnale 2005. Le partecipazioni italiane all’ecatori di prestazione. Docente al Politecnico di gio necessario, urgente e decisivo, stero ed estere in Italia, Politecnico di Milano. per recuperare un sentiero di creMilano – ICE, 2005 Autore di varie pubblicazioni fra cui Qualità, scita competitiva. Certificazione, Competitività, (con altri), Hoepli, M. Fortis, “Il Made in Italy manifatturiero Alla radice della debole posizione 2004; Conoscere le ISO 9000-2000, UNI, 2001. e la sfida globale”, Economia e Politica Industriale, n. 1, 2005 competitiva vi sono cause note: un 1 2 GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 L 19 GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 20 anche grazie alla riduzione reale del costo del lavoro per ora lavorata, alla maggiore flessibilità e alla delocalizzazione di imprese dei settori tradizionali, sostenuta da brand che rassicurano i consumatori, a prescindere dal luogo di produzione, come nel caso delle calzature sportive. Alla base di queste dinamiche vi è la differente specializzazione settoriale, che rende l’Italia più debole, avendo una quota relativamente meno elevata di chimica e farmaceutica, meccanica strumentale e macchine e altri beni ad alta tecnologia – il 50% del manifatturiero tedesco è ad alta tecnologia – rispetto a beni di consumo tradizionali dei settori dell’abbigliamento e arredo casa, che ancora presentano il vantaggio competitivo di produzione di qualità con il marchio Made in Italy. Peraltro all’interno dei diversi settori aumentano le differenze intrasettoriali delle performances. Ciò segnala che sono ormai i modelli di business differenziati nella riconfigurazione internazionale di produzione, distribuzione e logistica a fare la differenza. Mentre il paese è rimasto mediamente fermo, non è così per i diversi settori, come dimostra la crescita della meccanica strumentale – grazie alle macchine per industria alimentare, per imballaggio ed utensili ad asportazione di truciolo, nonostante le difficoltà del meccanotessile –, e non è così per le imprese manifatturiere leader, fra cui le numerose medie imprese che hanno saputo anticipare strategie aggressive di globalizzazione, cogliendo le opportunità di mercati in crescita e di minori costi di produzione. Il mercato azionario ha premiato queste imprese, mentre per molte altre è aumentato il tasso di fallimento, cui si aggiunge un’elevata quota di imprese in liquidazione. Nel 2005 sulle imprese attive, nel tessile il tasso di fallimento raggiunge il 12,7% (10,1% nel 2000) e il tasso di liquidazione il 9,2% (7,6% nel 2000), nell’abbigliamento il 14,8% (11,9%) e l’8,2% (7,2%), nelle pelli cuoio e calzature il 16,9% (13,8%) e il 9,0% (7,9%), nelle macchine e apparecchi elettrici il 10,3% (7,8%) e l’8,3% (7,2%) rispettivamente. Restano su livelli più bassi, fra il 3 e il 5%, l’alimentare, il legno, la metallurgia, gli apparecchi elettromedicali. L’affermazione di nuovi modelli di business spiega le performance differenziate delle imprese migliori, diffonde stimoli alla imitazione ed è in grado di far accelerare i processi di riorganizzazione ed aggregazione di imprese minori che, in ritardo o con lentezza inadeguata alle urgenze, pure stanno avvenendo. Il quadro presenta una molteplicità di piani di analisi per comprendere l’effettiva realtà in cui si colloca la contraddizione fra un paese complessivamente rimasto fermo e con previsioni a breve di ripresa, al di sotto del suo potenziale, imprese dinamiche, che hanno saputo riorganizzarsi e diventare leader anche internazionali, e imprese che hanno dovuto invece chiudere l’attività. La delocalizzazione già rappresenta nei settori tradizionali il più rilevante fenomeno nella attuale fase di interna- zionalizzazione delle imprese italiane. Spesso è una delocalizzazione solo difensiva per migliorare la posizione di costo; in diversi casi è invece una delocalizzazione offensiva per cogliere anche tutte le opportunità di mercati in forte crescita; in pochi casi ancora è solo un aspetto di una più organica strategia globale capace di gestire in modo anticipato le continue riconfigurazioni delle attività produttive, distributive e logistiche che la dinamica della domanda mondiale impone. La delocalizzazione produttiva (“offshoring”) La delocalizzazione produttiva in senso stretto (“offshoring”) fa riferimento alle decisioni che determinano l’interruzione o la riduzione di una produzione in un sito ed il suo contemporaneo trasferimento in un nuovo stabilimento estero, con l’obiettivo di usufruire dei vantaggi derivanti dalla nuova ubicazione. La delocalizzazione non va confusa con l’espansione della capacità produttiva all’estero, che mantiene inalterata l’ubicazione delle unità produttive e il numero di occupati in Italia e fa parte di una più forte strategia di internazionalizzazione, né con la crescita degli investimenti commerciali esteri per penetrare i mercati con produzioni il cui valore risiede nel Made in Italy, come stanno facendo molte luxury companies non solo italiane, né con l’outsourcing a fornitori esteri. In questo senso, la delocalizzazione si differenzia nettamente dalle forme tradizionali di esternalizzazione italiana (decentramento e subfornitura), nelle quali l’attività produttiva decentrata, o una singola lavorazione, viene affidata a un soggetto esterno indipendente, spesso artigiani appartenenti all’indotto dello stesso distretto territoriale, strategia tipica dell’abbigliamento e calzature di fascia alta che ricorre al terzismo Made in Italy di alta qualità, poiché ad esso dà valore il consumatore mondiale. Questa complessa realtà, come vedremo di seguito in alcuni casi settoriali, rende difficile isolare nelle rilevazioni quantitative la quota della produzione delocalizzata dal totale della produzione italiana all’estero, e capire quanto essa incida sulla produzione italiana reimportata e sulle esportazioni dirette estero su estero, che riducono le esportazioni dirette dall’Italia. Per ora osserviamo che i competitors dei paesi sviluppati hanno adottato in misura assai rilevante scelte di delocalizzazione, trasferendo al di fuori dei confini nazionali una parte molto significativa dell’attività produttiva domestica. La delocalizzazione degli altri amplifica il gap competitivo con l’Italia, cui si aggiunge, in misura crescente, l’internazionalizzazione delle maggiori imprese cinesi, con fenomeni di rilocalizzazione nell’Est Europa (elettrodomestici e pc). Ciò è avvenuto nei paesi con una maggiore concentrazione di medio-grandi imprese, prevalentemente con nuovi insediamenti industriali, realizzati da controllate o partecipate estere, all’interno dello stesso gruppo giuridi- ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › Il motivo principale delle imprese che delocalizzano è stato il recupero di competitività di costo, in particolare nel caso di produzioni imitabili e ad alta intensità di lavoro, rispetto alle quali la rapida crescita delle grandi economie asiatiche (Cina e India in primo luogo, ma anche altri Paesi low cost come Pakistan, Thailandia, Bangladesh, Malesia ecc.) ha determinato una progressiva intensificazione della pressione competitiva giocata sul fattore prezzo. Nella produzione di scarpe il costo orario in Cina è in media inferiore all’Italia di 20 volte. Anche nell’industria meccanica, a fronte di un costo orario di oltre 20 dollari USA per Germania, Giappone e USA e di 18 dollari per l’Italia, paesi come Romania, Tunisia e Cina si collocano al di sotto dei 2 dollari e l’India a 0,50 dollari. Il motivo strategicamente più rilevante è invece la penetrazione dei mercati emergenti e la costruzione di un sistema distributivo e logistico più efficiente. Le decisioni di delocalizzazione attuate, lungi dall’essere definitive, sono suscettibili di modifiche, sulla base degli stessi criteri che avevano portato, a suo tempo, a scegliere una determinata ubicazione. In generale, una volta uscite dal contesto nazionale, le imprese continuano a perseguire gli obiettivi di contenimento dei costi e di ottimizzazione dei vantaggi derivanti dalla logistica distributiva, spostando le unità produttive nei paesi che presentano, man mano, le condizioni più favorevoli. La delocalizzazione non è peraltro a senso unico. Parallelamente, si sta avviando infatti un processo di rilocalizzazione in cui, mentre le produzioni a basso valore aggiunto emigrano verso i paesi very low-cost, nei Paesi 3 Le caratteristiche della delocalizzazione italiana In Italia, l’avvio dell’attuale fase di delocalizzazione si colloca negli anni ‘90, e coinvolge maggiormente le imprese dei settori del tessile-abbigliamento e del cuoio e calzature, di fascia media economica, incluse quelle di piccole dimensioni, che, puntando a difendere la competitività erosa dall’andamento sfavorevole del rapporto tra prezzo e qualità, hanno iniziato a delocalizzare una parte della loro attività in paesi dove il costo del lavoro era più basso. Il caso di Timisoara in Romania è il più eclatante con oltre 10.000 imprese del nord est che hanno delocalizzato nell’area, di cui circa 3.000 sono stimate effettivamente attive. Le altre aree di elezione sono state l'Ungheria, la Bulgaria, l'Albania, la Polonia e il bacino del Mediterraneo (Marocco, Tunisia, Egitto e Turchia in particolare). Più recentemente sono cresciuti Russia, India e a tassi più elevati la Cina, paesi che hanno un potenziale di crescita superiore alle aree di tradizionale elezione italiana. Per le imprese che operano nella fascia media economica del mercato, la delocalizzazione è una scelta obbligata, per compensare lo svantaggio derivante dall’elevato costo del lavoro e dal rafforzamento dell’euro sul dollaro, stringere accordi di partnership con imprese locali e penetrare mercati ad alto potenziale di crescita con produzioni realizzate in loco o in paesi limitrofi, abbattendo i costi logistici. Dall’Indagine sulle imprese italiane 2001-2003, realizzata da Databank per Capitalia3 , emerge che il basso costo del lavoro è individuato come il principale motivo delle delocalizzazioni effettuate (74% dei casi), seguito, per le imprese fino a 500 addetti, dalla necessità di ridurre i prezzi per mantenere la quota di mercato (44% dei casi). Con un’incidenza che cresce al crescere della dimensione, la prossimità dei mercati di sbocco e quindi le opportunità legate alla penetrazione di nuovi mercati rientrano tra i primi tre motivi alla base della delocalizzazione. Le aziende con oltre 500 addetti mostrano una maggior propensione a vendere la produzione delocalizzata nel paese in cui è ubicata l’unità produttiva (40% dei casi contro il 4% per le aziende con 11-20 addetti, per le quali invece nel 42% dei casi le produzioni delocalizzate vengono reimportate per essere vendute sul mercato italiano). Il paese verso cui viene maggiormente delocalizzata l’attività produttiva delle imprese italiane è la Romania, scelta da un terzo delle imprese e da circa la metà delle imprese con 21-50 addetti; seguono la Cina (20% dei casi), seguite con un netto distacco da, Tunisia, Bulgaria e Polonia, con il 7% dei casi, e Albania, Turchia e India, con il 5%. Mentre per i settori tradizionali come principale Area Studi di Capitalia, IX Indagine sulle imprese manifatturiere 2001-2003, Roma 2005. 4 - 2006 I motivi alla base delle scelte di delocalizzazione produttiva dell’Est Europeo se ne insediano altre di competitors asiatici per le quali sono richiesti lavoratori qualificati. GLOBAL COMPETITION co. In Italia è avvenuto in minor misura e anche tramite la costituzione di nuove società che, pur risultando giuridicamente indipendenti, appartengono ad un unico gruppo economico in quanto riconducibili allo stesso proprietario. Ne consegue che i dati rilevati dalle rilevazioni dirette e dalle statistiche ufficiali sottostimano il fenomeno della produzione italiana all’estero, potendosi riferire ai soli gruppi giuridici, le “multinazionali tascabili” italiane, essendo difficile rilevare i gruppi economici all’estero, dove si ha l’esportazione di skills imprenditoriali attraverso gli imprenditori che lanciano nuove iniziative. Ad esempio l'Osservatorio Asia ha rilevato che la presenza industriale italiana in Cina, outsourcing escluso, è di 1.202 aziende, di cui 445 con attività produttiva, 1.085 sono investimenti riconducibili a società registrate in Italia e 117 a società straniere con capitale italiano pari al 10% del totale. Un dato che è considerato in difetto, data la difficoltà di rilevazione. 21 GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 22 paese di delocalizzazione si conferma la Romania, per i settori ad alta tecnologia primeggia Hong Kong, seguita dalla Tunisia; per i settori di scala, passano in testa alla classifica Germania e Spagna; per i settori di specializzazione, la principale destinazione è di gran lunga la Cina. Vengono delocalizzate prevalentemente le produzioni di prodotti finiti (la quota è pari al 65% delle imprese che delocalizzano e sale all’87% per i settori ad alta tecnologia), per una quota di fatturato che nel 25% dei casi (il 35% per le imprese della fascia 21-50 addetti) arriva ad eguagliare il fatturato realizzato entro i confini nazionali. Oltre la metà (55%) delle imprese che delocalizzano prevede una crescita dell’incidenza del valore della produzione delocalizzata, con una punta massima (75%) per le imprese con oltre 500 addetti. Risultano ancora poco diffuse le joint venture produttive con partner locali, realizzate mediamente solo dal 14% delle imprese che delocalizzano, con una propensione che cresce al crescere della dimensione, per arrivare al 25% delle imprese con più di 500 addetti (Tab. 1). Tabella 1 - Destinazione della produzione delocalizzata, per classi di addetti Classi di addetti 11-20 21-50 51-250 251-500 oltre 500 Venduta nel Paese in cui è ubicata l'unità produttiva 3,6 13,9 23,7 24,0 42,5 14,7 Importata per rientrare nel ciclo produttivo in Italia 23,5 35,8 31,9 32,1 20,9 30,3 Importata per essere venduta sul mercato italiano 41,7 34,7 25,0 21,7 17,7 33,0 Importata per essere riesportata in paesi terzi 23,2 12,4 10,6 12,6 10,6 15,3 Venduta direttamente in paesi terzi 8,0 3,2 8,7 9,6 8,2 6,7 Tot.ale Fonte: Elaborazione Area Studi Capitalia Le dimensioni dell’internazionalizzazione delle imprese italiane e i settori a forte delocalizzazione Al primo gennaio 20054 le imprese estere con partecipazioni italiane erano circa 17 mila, con 5.750 imprese investitrici, un’occupazione totale di oltre un milione di addetti e un fatturato totale di 275 miliardi di euro (Tab. 2). Si tratta per oltre l’85% dei casi di società controllate, con partecipazioni detenute da investitori in gran parte di dimensioni medio-piccole (circa il 50% occupa fino a 50 addetti), con sede nelle regioni del Nord-Ovest (per oltre il 46% del totale) e del Nord-Est (per oltre il 33%) e che, mediamente, sono presenti all’estero con 2 o 3 società. Le aziende di settori manifatturieri assorbono l’80% circa del numero totale dei dipendenti esteri, con una netta prevalenza dei settori con forti economie di scala (con oltre il 55% dei dipendenti) e dei set4 Banca dati Reprint, Politecnico di Milano – ICE, 2005. Tabella 2 - Le partecipazioni italiane all’estero ed estere in Italia al 1.1.2005 Partecipazioni italiane all’estero (a) Partecipazioni italiane all’estero (b) Valore % Valore Totale 3.873 7.181 920.575 382.267 75.214 Imprese investitrici (N.) Imprese partecipate (N.) Dipendenti (N.) Fatturato (milioni euro) Valore aggiunto (milioni euro) 5.750 16.832 1.084.417 275.086 n.d. 100,0 100,0 100,0 100,0 n.d. Imprese investitrici (N.) Imprese partecipate (N.) Dipendenti (N.) Fatturato (milioni euro) Valore aggiunto (milioni euro) 4.845 14.416 873.983 223.670 n.d. Imprese investitrici (N.) Imprese partecipate (N.) Dipendenti (N.) Fatturato (milioni euro) Valore aggiunto (milioni euro) Partecipazioni paritarie e 1.388 24,1 373 2.416 14,4 558 210.434 19,4 121.653 51.416 18,7 52.842 n.d. n.d. 8.765 % (a) (b) 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 1,48 2,34 1,18 0,72 n.d. Partecipazioni di controllo 84,3 3.691 95,3 85,6 6.623 92,2 80,6 798.922 86,8 81,3 329.425 86,2 n.d. 66.450 88,3 1,31 2,18 1,09 0,68 n.d minoritarie 9,6 3,72 7,8 4,33 13,2 1,73 13,8 0,97 11,7 n.d Nota: Il numero delle imprese investitrici totali è inferiore alla somma delle imprese investitrici con partecipazioni di controllo e di quelle con partecipazioni paritarie e minoritarie, data la presenza di soggetti presenti in entrambe le categorie Fonte: banca dati REPRINT, Politecnico di Milano – ICE. tori tradizionali (circa il 24% dei dipendenti). La crescita manifatturiera all’estero è stata forte a partire dai primi anni ’90, sia come numero di imprese investitrici, sia come numero di addetti, sia come numero di partecipazioni. Le aree geografiche con i tassi maggiori di sviluppo nel periodo 2001-2005 sono state l’Asia, la Cina in particolare, e l’Est Europa, dove i settori tradizionali sono responsabili della grande crescita delle partecipazioni e della produzione italiana. La ricerca di penetrare i nuovi mercati e di ridurre i costi ha spinto il processo di “inseguimento multinazionale”. Comunque resta non sufficiente la presenza internazionale delle imprese italiane, troppo sbilanciata in paesi a minore potenziale di crescita competitiva, mentre negli ultimi anni si è ridotta la spinta alla crescita di nuove iniziative. Anche altre fonti convergono sulle analisi condotte da Mariotti e Mutinelli. Il Registro delle Imprese dell’Ufficio Italiano Cambi all’inizio del 2004 indica in 870.000 gli addetti di aziende estere controllate da imprese italiane pari al 18% degli occupati nell’industria in Italia; di questi, un terzo era occupato nell’Est Europeo e in Asia. Le imprese italiane con rilevanti attività all’estero erano 1.450; di queste 390 erano ai vertici di imprese internazionali. Secondo le indagini condotte da Banca d’Italia a livello regionale, le imprese con attività all’estero producono un valore aggiunto per addetto più alto del 9% rispetto a quello medio delle altre imprese italiane. Anche gli investimenti per addetto sono più elevati. Nei settori classificabili a tecnologia media, la delocalizzazione non sembra influenzare l’occupazione in Italia, o lo fa in modo positivo. Nei settori tradizionali, lo spostamento all’estero di 18% del 2000 al 24% del 2004. Occorre poi considerare da un lato che le importazioni in Italia di produzione italiana all’estero crescono di più delle importazioni di produttori esteri, salvo casi, come nell’intimo donna, dove crescono anche queste ultime, perché i produttori esteri cominciano ad avere una autonoma capacità di penetrazione in Italia. Dall’altro lato, le esportazioni italiane nei segmenti dove il Made in Italy ha meno valore trovano crescenti difficoltà sui tradizionali mercati di sbocco come la Germania, per la ridotta competitività verso produzioni asiatiche importate dai competitor e dai distributori tedeschi. Viceversa, nei segmenti dove il Made in Italy ha più valore, l’export italiano mantiene le posizioni e cresce come quota della produzione nazionale, nonostante che una componente di produzione italiana sia esportata direttamente dal paese di delocalizzazione nel paese di destinazione. Analizzando più nel dettaglio le performances 20002004 dei settori del total look donna (Tab. 4) e uomo, classico (Tab. 5) e sportswear (Tab. 6), si rileva che nel total look classico uomo la produzione realizzata in Italia ha accusato la riduzione più accentuata (-5,4 % medio annuo in valore). Il total look uomo è anche il settore nel quale si verifica la maggiore crescita dell’import di produzioni realizzate all’estero (+10% medio annuo in valore). Subiscono cali più contenuti dell’attività produttiva nazionale il total look donna (-1,5% medio annuo, ma solo –0,2% nel 2004) e lo sportswear uomo (-2,8% nel 2004, ma +0,9% medio annuo). Il bilancio complessivo appare peraltro meno critico se si osserva che nello stesso periodo per due dei tre settori è complessivamente cresciuta la propensione all’export (dal 61% al 67% della produzione nazionale di total look classico uomo, dal 55% al 59% per lo sportswear uomo), in un contesto che vede le importazioni in calo dell’1% medio annuo nel total look donna e del 7% circa nel total look classico uomo, e in crescita, molto contenuta, nello sportswear uomo. Anche nel caso dell’intimo donna (Tab. 7), nel quale le reimportazioni rappresentano oltre il 40% della produzione totale Tabella 3 - Dimensione e andamento della produzione italiana all’estero reimportata e incidenza % sulla produzione realizzata in Italia per alcuni settori del tessile-abbigliamento, dal 2000 al 2004 Mn. Euro Total look donna Total look classico uomo Total look sportswear uomo Intimo donna Abbigliamento infantile Valigeria e pelletteria Filatura e ritorcitura del cotone Fonte: Databank 5 Area Studi di Capitalia, op. cit. 2000 976 620 750 330 310 220 129 2001 1.294 743 929 350 330 260 140 2002 1.752 811 969 380 350 310 133 % sulla produzione nazionale 2003 1.883 818 1.019 400 365 340 142 2004 1.985 903 1.128 430 420 385 117 2000 8,4 15,4 22,7 45,7 18,1 9,5 14,2 2001 10,7 18,6 26,6 47,5 19,0 10,4 15,7 2002 15,1 21,7 27,3 50,1 19,6 13,3 16,5 2003 17,1 24,0 28,9 52,8 20,2 14,6 22,4 2004 18,1 28,0 32,9 60,7 24,4 15,5 20,8 GLOBAL COMPETITION una parte della produzione ha carattere difensivo; riduce l’occupazione, ma permette di sostenere il confronto competitivo nel mercato mondiale. Valutando la dimensione complessiva del fenomeno, occorre notare che le varie indagini mostrano un impatto della delocalizzazione italiana sulla struttura produttiva nazionale ancora piuttosto contenuto. Le difficoltà organizzative e logistiche dovute alla lontananza, la mancanza di risorse umane con professionalità adeguate per delocalizzare e l’eccessivo costo del trasporto del prodotto finito verso l’Italia sono infatti i principali motivi che hanno finora ostacolato la delocalizzazione dell’attività produttiva. Sono le imprese di dimensione medio-grande (da 51 a 500 addetti) a risentire maggiormente della difficoltà di ridefinire la propria organizzazione logistica, mentre per i settori di specializzazione e per quelli ad alta tecnologia risulta più accentuata la difficoltà nel reperire risorse umane con professionalità adeguate, e per quelli tradizionali e di scala incide maggiormente l’eccessivo costo del trasporto verso l’Italia. Nel breve termine, i fenomeni di delocalizzazione italiana sono attesi in crescita, ma con tassi inferiori a quelli registrati negli anni ’90, con una netta predominanza di imprese potenzialmente interessate nella fascia 251-500 addetti (16% di risposte positive)5. In diversi settori chiave dell’economia italiana, come il tessile-abbigliamento, l’impatto sull’attività produttiva nazionale è tutt’altro che trascurabile ed in forte crescita. Se il caso dell’intimo donna, nel quale, secondo stime Databank, la produzione italiana all’estero reimportata in Italia è pari ad oltre il 60% della produzione nazionale in valore, può essere considerato un’anomalia, nei principali settori del tessile-abbigliamento questa incidenza è compresa tra il 15% per la valigeria e pelletteria e il 28% del total look classico uomo (Tab. 3). Va anche rilevato il fatto che, in tutti i settori del comparto, l’incidenza della produzione delocalizzata reimportata è in forte e progressiva crescita, passando, ad esempio, nel settore della filatura del cotone, dal 14% del 2000 al 21% del 2004, oppure nell’abbigliamento infantile dal 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 23 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › Tabella 4 - Total look donna: produzione, importazione, esportazione e consumo in valore, dal 2000 al 2004 (Mn. Euro a prezzi ex-fabrica) 2000 2001 2002 2003 % variaz. 2004/2003 2004 % variaz. m.a. 2004/2001 12.635 13.351 13.392 12.880 12.960 0,6 0,6 Produzione 11.659 12.057 nazionale Prod. 92,2 90,3 naz./tot.% Totale 1.968 2.324 importazioni(b) Import. di prod. 976 1.294 11.640 10.997 10.975 -0,2 -1,5 86,9 85,4 84,7 2.628 2.815 2.938 4,4 10,5 1.752 1.883 1.985 5,4 19,4 876 6.037 8.231 932 5.540 8.272 953 5.470 8.443 2,3 -1,3 2,1 -1,0 -2,3 2,6 Prouzione. totale naz. + prod. italiana all’estero (a) italiane all’estero effettuate da oper. naz. Altre import. Esportazioni (b) Consumo apparente 992 6.003 7.624 GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 Fonte: Databank 24 1.030 6.361 8.020 a) - include offshoring e esclude outsourcing b) - prezzi franco dogana e i concorrenti esteri guadagnano quota sul mercato interno, arrivando a coprire il 47% della domanda (contro il 33% del 2000), le esportazioni sono comunque in crescita del 7% medio annuo, con una propensione all’export che passa dal 63% all’84% della produzione nazionale. Impatto della delocalizzazione Mano a mano che si passa da delocalizzazione puramente difensiva a delocalizzazione offensiva e strategica, la delocalizzazione impone la crescita di risorse umane più qualificate e produce effetti positivi sulle imprese, in quanto fa migliorare la produttività, le competenze e le performances di vendita, imponendo l’adozione di modelli di business innovativi e competitivi. Inoltre essa svolge un’azione importante di stimolo al tessuto imprenditoriale locale, con la diffusione di “storie” che possono essere imitate, evitando gli errori commessi dai primi. Tuttavia, a parità di condizioni in un sistema statico, la delocalizzazione può produrre una serie di effetti indesiderati: › una riduzione della produzione realizzata sul territorio nazionale, per la quota delocalizzata; › la riduzione dei flussi di export dall’Italia, per la quota Tabella 5 - Total look classico - fashion uomo: produzione, importazione, esportazione e consumo in valore, dal 2000 al 2004 (Mn. Euro a prezzi ex-fabrica) 2000 2001 2002 2003 % variaz. 2004/2003 2004 % variaz. m.a. 2004/2001 Produzione totale naz. + prod. italiana all’estero (a) 4.649 4.743 4.541 4.232 4.130 -2,4 -2,9 Produzione nazionale Prod. naz./tot.% Totale (b) importazioni 4.025 4.000 3.730 3.414 3.227 -5,5 -5,4 86,6 84,3 82,1 80,7 78,1 1.230 1.369 1.335 1.268 1.362 7,4 2,6 Import. di prod. italiane all’estero effettuate da oper. naz. 620 743 811 818 903 10,4 9,9 Altre import. Esportazioni (b) Consumo apparente 610 2.455 2.800 626 2.633 2.736 524 2.432 2.633 450 2.190 2.492 459 2.160 2.429 2,0 -1,4 -2,5 -6,9 -3,1 -3,5 Fonte: Databank a) - include offshoring e esclude outsourcing b) - prezzi franco dogana sostituita dalle vendite estero su estero, il cui eventuale successivo incremento determina un’espansione dell’attività produttiva estera, lasciando inalterata quella nazionale › l’incremento dei flussi di import dai Paesi di delocalizzazione, determinato dalla quota di produzione delocalizzata venduta sul mercato interno; › un peggioramento del saldo della bilancia commerciale. Un impatto certamente più rilevante sull’Italia è dato dalla delocalizzazione degli altri paesi che è in grandissima misura l’effettiva responsabile della riduzione delle esportazioni italiane in quei paesi. La delocalizzazione italiana, quindi, non è responsabile in modo diretto dell’attuale situazione di debolezza competitiva, che provoca, indipendentemente dalla delocalizzazione (fenomeno di ancora modeste proporzioni e comunque valido sotto il profilo difensivo), la chiusura di unità produttive. Al contrario la delocalizzazione offensiva strategica ha effetti positivi sulla crescita del valore aggiunto e della produttività, con ricadute positive sul paese. Se si analizzano i dati relativi all’occupazione e al numero di unità produttive nei principali distretti industriali dei settori del tessile-abbigliamento, si riscontra un calo marcato sia del numero di addetti complessivo (-5,8% tra il 1991 e il 2001), sia del numero di unità produttive (- 4,5% nello stesso periodo). Attualmente le crisi aziendali tra il 2005-2006 sono aumentate e riguardano 86.000 tessili, di cui 74.000 in cassa integrazione. Tali crisi sono conseguenza di insufficiente competitività del rapporto qualità-prezzo, che la delocalizzazione, anche solo difensiva, può migliorare. I nuovi modelli di business nel comparto tessile-abbigliamento Come detto, la delocalizzazione produce effetti positivi sulle imprese costringendole a ridefinire nuovi modelli di business, attraverso la riconfigurazione su scala internazionale delle attività di produzione, distribuzione e logistica, anche nei mercati di origine, in modo coerente con i bisogni del target di mercati serviti. Nella distribuzione cresce il numero dei punti vendita a gestione diretta, in tutte le fasce del mercato. La logistica deve garantire una più efficiente politica di riassortimenti. Il marketing mix si arricchisce di una variabile, la produzione per origine, potendo meglio differenziare i prodotti per fascia prezzo qualità con un conseguente ampliamento dell’ambito di presenza intrasettoriale. Definire il proprio modello di supply chain e assicurare la coerenza di questo con la strategia aziendale, in base al prodotto e al target, è fondamentale per i competitors del sistema moda, che devono coniugare esigenze di quick response, con brevi cicli di vita ed elevata varietà del ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 2001 2002 2003 % variaz. 2004/2003 2004 % variaz. m.a. 2004/2001 Produzione totale naz. + prod. italiana all’estero (a) 4.055 4.415 4.518 4.545 4.554 0,2 2,9 Produzione nazionale Prod. naz./tot.% Totale importazioni(b) 3.305 3.486 3.549 3.526 3.426 -2,8 0,9 81,5 79,0 78,6 77,6 75,2 1.420 1.669 1.694 1.716 1.845 7,5 6,8 Import. di prod. italiane all’estero effettuate da oper. naz. 750 929 969 1.019 1.128 10,7 10,7 Altre import. Esportazioni (b) Consumo apparente 670 1.825 2.900 740 2.085 3.070 725 2.087 3.156 697 2.090 3.152 717 2.020 3.251 2,9 -3,3 3,1 1,7 2,6 2,9 Fonte: Databank a) - include offshoring e esclude outsourcing b) - prezzi franco dogana prodotto, globalizzazione del mercato e frammentazione della domanda. Questa esigenza sollecita scelte strategiche differenziate per fasce di mercato. Mentre per le imprese più innovative di fascia lusso e fine prevale l’orientamento verso fornitori nazionali flessibili, affidabili e specializzati, con cui mantenere rapporti di lungo periodo, talora esclusivi, e, per ottenere maggiori garanzie sulla loro disponibilità e sulla qualità delle lavorazioni, alcune aziende intervengono acquisendo quote di partecipazione, per le aziende o le linee meno innovative, le caratteristiche di maggiore prevedibilità e stabilità della domanda portano ad orientarsi verso modelli di supply chain efficiente, con enfasi sui costi, su una programmazione rigida ma ben pianificata e su una razionalizzazione della gamma offerta. Nei settori dell’abbigliamento, la delocalizzazione produttiva all’estero viene attuata attraverso: - processi di acquisizioni o costituzioni di joint venture (per le imprese maggiori che dispongono di risorse finanziarie sufficienti e la capacità di sviluppare competenze non facilmente trasferibili in contesti diversi da quello nazionale); - forme di traffico di perfezionamento passivo (Tpp); - l’acquisto diretto dei capi (soprattutto nelle fasce più economiche e per le imprese minori). Sono stati i paesi dell’Europa centro-orientale e dell’area mediterranea ad essere favoriti dagli imprenditori italiani, sia nel caso di investimenti diretti che del Tpp. La vicinanza geografica e culturale con questi paesi li rende attraenti anche per i piccoli imprenditori e consente di coniugare un risparmio di costi, seppure inferiore a quello che si potrebbe ottenere operando nei più lontani mercati del Sud Est Asiatico, con un’agevole possibilità di controllo delle lavorazioni delocalizzate in subfornitura. Tuttavia nel corso dell’ultimo biennio diversi operatori, soprattutto della fascia inferiore del mercato, hanno incrementato il sourcing nei paesi del Sud Est Asiatico, sia attraverso scelte di buy, sia attraverso investimenti diretti. Il mutato quadro competitivo sta provocando la divaricazione delle performances a livello intrasettoriale. Si apre un nuovo filone di ricerca sui best/worst performers, per capire quali siano le nuove determinanti dell’attività. In questo contesto assume un peso rilevante l’analisi dell’impatto di nuovi modelli business e della delocalizzazione produttiva. I dati riportati sul ROI nel periodo 20022004 per alcuni settori mostrano la crescente divaricazione dei risultati (Tab. 8). Non è ancora possibile una valutazione quantitativa delle principali cause delle performances dei best performers, mentre è certo che fra i worst si trovano soltanto imprese spiazzate dalla concorrenza internazionale, che sono rimaste ferme, incapaci di rinnovare offerte, fonti e modalità di sourcing. Conclusione La delocalizzazione italiana, come modalità per recuperare competitività nei confronti della concorrenza internazionale, appare un processo necessario e urgente. Gli squilibri con la Cina e altri paesi low cost possono infatti essere solo marginalmente e transitoriamente attenuati, come dimostrano i dazi di compensazione sulle calzature cinesi e vietnamite, anche per l'opposizione di marchi mondiali delocalizzati, importatori e dettaglianti. La delocalizzazione potrebbe inoltre far accelerare sia le aggregazioni fra imprese sia le riforme non rinviabili della tutela del Made in Italy. Una tutela che privilegi il luogo di produzione piuttosto che il soggetto produttore (come ha stabilito anche la recente sentenza della Cassazione che ha vietato il marchio "Italy" se il vestito è cucito all'estero); che introduca l’obbligo del marchio di origine; standard di qualità su prodotti importati in Europa e altre misure di perequazione di fronte dal dumping sociale e ambientale esistente. La delocalizzazione in aggiunta stimola la riforTabella 7 - Intimo donna: produzione, importazione, esportazione e consumo apparente in valore, dal 2000 al 2004 (Mn. Euro a prezzi ex-fabrica) 2000 Prod. totale naz. + prod. italiana all’estero (a) 2001 2002 1.134,5 1.174,5 1.234,0 2003 % variaz. 2004/2003 2004 % variaz. m.a. 2004/2001 1.258,0 1.245,5 -1,0 2,4 -6,6 -0,5 Produzione nazionale Prod. naz./tot.% Totale (b) importazioni 722,0 737,0 759,0 758,0 708,0 63,6 62,8 61,5 60,3 56,8 627,0 675,0 733,0 797,0 922,0 15,7 10,1 Import. di prod. italiane all’estero effettuate da oper. naz. 330,0 350,0 380,0 400,0 430,0 7,5 6,8 Altre import. Esportazioni (b) Consumo apparente 297,0 457,0 892,0 325,0 475,0 937,0 353,0 518,0 974,0 397,0 534,0 1.021,0 492,0 593,0 1.037,0 23,9 11,0 1,6 13,4 6,7 3,8 Fonte: Databank a) - include offshoring e esclude outsourcing b) - prezzi franco dogana 4 - 2006 2000 Performance differenziate delle imprese a livello intrasettoriale GLOBAL COMPETITION Tabella 6 - Total look sportswear uomo: produzione, importazione, esportazione e consumo in valore, dal 2000 al 2004 (Mn. Euro a prezzi ex-fabrica) 25 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › ma della tassazione, per ridurre il costo del lavoro; quella degli ammortizzatori sociali, per gestire la transizione; quella dell'apertura dei mercati di settori e attività regolamentati, per assorbire nei servizi la forza lavoro in eccesso nel settore manifatturiero. Il trasferimento di parte dei settori tradizionali nei segmenti a basso valore aggiunto, verso i paesi low cost/alta crescita (Cina e India in particolare) è peraltro un processo inarrestabile. Le medie imprese di questi settori non lo stanno subendo per sopravvivere, ma sanno cogliere le opportunità di un'internazionalizzazione offensiva e strategica con un rafforzamento di posizionamento nelle nicchie mondiali di alta qualità. L'indagine Mediobanca-Unioncamere mostra che le quasi 4.000 medie imprese analizzate, nel periodo 19962002, hanno creato valore aggiunto in misura 3 volte superiore alle grandi, con una crescita del fatturato del 40%, con una crescita dell'export del 49%. L'8% dell'universo ha effettuato delocalizzazioni, con investimenti in paesi a basso costo, accompagnati da aumento di personale qualificato nelle case madri. Il coordinamento della politica industriale ormai convincimento generale che sia necessario un aggiustamento reale del sistema produttivo e che, per far ciò, occorra una politica industriale, intesa come insieme coordinato di interventi di natura non macroeconomica, in termini molto vicini al concetto di competitività espresso nel trattato di Maastricht. Un aspetto centrale della questione, il coordinamento degli interventi, è stato analizzato con attenzione sulla rivista Economia e Politica Industriale, nel numero 4 del 2005. Il coordinamento va articolato in: a) visione d’insieme, senza la quale gli interventi rischiano di risultare inutili o, peggio, dannosi; b) coerenza nelle scelte concrete, tratto questo non caratterizzante della politica finora praticata per il sistema produttivo; c) attività operativa di coordinamento tra organismi a vario titolo competenti in materia di politica industriale. Da una rilettura delle esperienze maturate nel nostro paese negli ultimi cinquant’anni sembra emergere il frequente ripetersi di un medesimo processo: dapprima, con la finalità di attenuare i dualismi settoriali e territoriali dell’economia, viene impostato un progetto politico illuminato, viene costituito un comitato interministeriale di coordinamento e l’attuazione del progetto viene affidata ai migliori istituti operativi già esistenti. Successivamente, l’ampiezza e la complessità degli obiettivi e anche il mancato raggiungimento degli stessi, unitamente a istanze gestionali di natura politica, inducono il governo a creare nuovi enti È specialistici accanto agli strumenti operativi esistenti. Tra i ministri si esplicitano linee politiche divergenti, non ricomposte né ricomponibili nel comitato interministeriale. Quest’ultimo, ma anche gli istituti operativi, dopo un certo numero di anni vengono abrogati, e le disfunzioni per risolvere le quali era stato impostato il progetto si accentuano. Inoltre, per risolvere anche problemi di ordine industriale, viene in linea di massima privilegiato l’approccio generale e macroeconomico, il più delle volte sotto la spinta di emergenze congiunturali o di bilancio. Nel 1977 con la legge n° 675 il coordinamento fu affidato a un nuovo organismo, il Comitato interministeriale per la politica industriale (Cipi), presieduto dal presidente del Consiglio o, per sua delega, dal ministro del Bilancio e della programmazione economica che ne era vicepresidente. Del Cipi facevano parte di diritto sei ministri: Bilancio, Tesoro, Industria, Partecipazioni statali, Lavoro e Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Vi partecipavano inoltre numerosi altri rappresentanti istituzionali. Il Cipi avrebbe dovuto essere il crogiuolo in cui riunire tutte le direttive governative in materia di politica industriale e tutte le diverse visioni culturali e politiche delle maggioranze pluripartitiche. Ma a poco a poco degenerò e divenne il luogo in cui ogni ministro, invece di portare il proprio contributo di pensiero politico, andava a frazionare con i colleghi la propria responsabilità in atti amministrativi di competenza del proprio dicastero. Più si frazionava, meno ciascun ministro rischiava di suo, più dilagavano pressioni e connivenze nel concedere favoritismi. Il Cipi si trasformò, in altri termini, in una sorta di sportello in cui ogni ministro entrava, incassava la delibera sulla tale questione che gli premeva e se ne usciva senza neanche aspettare la fine della riunione. Il Cipi cessò la propria attività a fine 1993. Come ricorda Giuliano Amato, il trattato di Maastricht attribuisce la politica industriale ancora una volta agli Stati, “affida tuttavia alla Comunità il compito di promuoverla e coordinarla. Essa consiste in tutte le iniziative che, possibilmente in cooperazione fra loro e sotto l’impulso della Commissione, gli Stati adotteranno per rendere più competitive le industrie europee. La nozione di politica industriale viene dunque ancorata a quella di competitività”. All’inizio del 2000 la politica industriale era ancorata alla competitività, non c’era più al centro uno specifico comitato interministeriale di coordinamento, la ripartizione delle competenze tra i due maggiori ministeri economici era stata razionalizzata, era stata introdotta – ma in Italia non ancora assimilata – la dimensione territoriale della ripartizione delle competenze tra Unione europea, Stato, Regioni ed enti locali. Per stimare in che misura la responsabilità statale delle politiche per la competitività sia attribuibile ai vari ministeri, è utile far riferimento al documento dell’IMD di Losanna. Se si parte dal totale dei 314 indicatori e si eliminano quelli per i quali ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › Tabella 8 - ROI medio e relativo a best e worst performers, in alcuni settori del tessile abbigliamento, 2002-2004 ROI (%) Total look donna fascia lusso Total look donna fascia media Total look uomo classico fashion Intimo donna Valigeria e pelletteria Calzature Tessuti lanieri per abbigliamento Filatura e ritorcitura del cotone Media settoriale Best performers Worst performers 2002 2003 2004 2002 2003 2004 2002 2003 2004 18,04 14,66 5,74 16,81 13,72 8,65 4,59 15,17 13,07 13,81 8,49 17,68 12,04 5,41 -1,00 17,49 14,53 12,46 3,36 19,35 11,13 7,66 -6,75 25,30 23,91 19,17 36,10 14,90 14,27 13,25 19,07 18,72 26,52 17,47 33,03 13,37 17,35 6,66 27,01 21,71 26,29 15,89 35,15 14,26 19,58 6,27 8,15 4,02 -5,54 10,05 9,76 2,84 3,82 11,26 0,85 6,59 2,01 7,88 5,40 -4,39 -3,19 7,97 3,05 4,36 -28,14 13,49 2,23 -14,92 -12,80 Fonte: Databank non è possibile alcuna azione diretta del governo, pur con una certa approssimazione derivante tra l’altro dalla condivisione di competenze tra più ministeri, emerge che in Italia la maggior responsabilità percentuale (26%) compete, al Ministero dell’Economia e Finanze, seguito dal quello delle Attività Produttive (22%) e dell’Università e ricerca (18%). In effetti, la crisi finanziaria dello Stato impone politiche dominate dalla priorità del controllo della spesa e dell’aumento delle entrate: l’esigenza dell’equilibrio macroeconomico, controllato dal Ministero dell’Economia, prevale anche in aree di competenza del Ministero delle Attività produttive. Nel 2005 il Consiglio europeo per rilanciare la strategia di Lisbona approvò 24 orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione 2005-2008. In Italia, il Consiglio dei ministri ha dato vita a un comitato di ministri, coordinato dal ministro per le Politiche comunitarie, cui hanno partecipato i ministri degli Esteri, Economia e Finanze, Attività produttive, Università e Ricerca, Ambiente, Innovazione tecnologica, Funzione pubblica e Politiche di coesione. Il lavoro preparatorio è stato curato da un comitato tecnico, di cui ha fatto parte un rappresentante delle Regioni. Il piano approvato, tra i principali provvedimenti aventi validità generale, prevede: una più ampia liberalizzazione nel settore dei servizi; un miglioramento delle prestazioni della P.A.; un contesto normativo propizio agli investimenti, all’innovazione e allo sviluppo; una migliore normativa per piccole imprese e distretti; la piena valorizzazione del capitale umano; la creazione o il completamento di reti infrastrutturali; l’attuazione della politica di coesione europea; la protezione ambientale. La mancata assegnazione di risorse finanziarie da parte del ministro dell’Economia e delle Finanze, che pure era membro del comitato dei ministri, ha di fatto rinviato l’attuazione di questo piano. Dunque, ancora una volta, la formula del coordinamento affidato a un comitato interministeriale di fatto non ha dato esito positivo. Va rilevato che frammentazione e sovrapposizione di competenze in materia di politica industriale o, come si è detto prima, di competitività, è una questione che riguarda lo stesso Consiglio dei ministri europei. Se poi si analizzano e si raffrontano le variegate competenze istituzionali nell’amministrazione centrale italiana con quelle di Gran Bretagna, Francia, Germania e Spagna, si trova che tranne la ricerca e l’innovazione tutte le politiche sono funzionalmente attribuite a un solo ministero. Dopo le modifiche del titolo V della parte II della Costituzione, larga parte dei poteri in tema di politica industriale sono demandati alle Regioni. Infine, già a partire dagli anni ’90 si è consolidato il ruolo di indirizzo e controllo da parte della Commissione europea in molti ambiti relativi alla politica industriale. Il problema del coordinamento a livello di governo centrale sta nell’attribuzione delle competenze ai vari soggetti coinvol- ** Università Bicocca, Milano ti in modo funzionale all’efficacia della politica, e nel coordinamento. L’esperienza del CIPI o di organismi analoghi è superata. L’unicità di un ministero attento al sistema produttivo è il modello seguito da molti altri paesi europei, ed è già indicato nel D.L. 22.01.04., di cui si è detto sopra, ma di fatto non è implementata. Sarebbe pure utile una riallocazione al margine delle competenze dei vari ministeri e una migliore distinzione tra quelle finanziarie, prerogativa del Ministero dell’Economia, e quelle del funzionamento dell’economia reale, prerogativa di altri ministeri. Ancora più complessa è la relazione tra governo centrale e Regioni. Nelle attuali condizioni tecnologiche, economiche e sociali, sono importanti la partecipazione e la valorizzazione delle risorse umane locali, e quindi la qualità del sistema di governo locale. Il luogo istituzionale in cui si pratica la complessa mediazione tra gli interessi generali e regionali e tra quelli delle diverse regioni è la Conferenza Stato-Regioni. Dopo un’iniziale fase di contrapposizione, il rapporto tra Stato e Regioni sembra ora improntato a una reciproca accettazione e collaborazione. Concludendo, il recupero della competitività del nostro sistema produttivo dipende moltissimo dalla qualità del governo: si richiede più competenza, maggiore visione di medio e lungo periodo, più coordinamento e maggior capacità di controllo dei risultati. È una sfida che il nuovo governo non può perdere. GLOBAL COMPETITION *Università La Sapienza, Roma 4 - 2006 di Riccardo Gallo* e Francesco Silva** 27 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › IL “MODELLO” SPAGNOLO: UNA CRESCITA SENZA PRECEDENTI L’effetto positivo dell’ingresso della Spagna nell’UE e l’aumento di popolazione, dovuto al fenomeno migratorio, sono stati i due principali fattori di sviluppo dell’economia spagnola nell’ultimo decennio. Domanda e occupazione sono aumentate; gruppi imprenditoriali si sono affermati. Ma carenze e squilibri mettono GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 in pericolo lo sviluppo futuro. 28 a Spagna vende. Le dimensioni del nuovo terminal ricevuto ogni anno fondi pari all’uno per cento circa del dell’aeroporto di Madrid, inaugurato nel febbraio del suo PIL, diventandone il principale beneficiario netto. I tra2006, sono una misura dell’attrattività raggiunta dal sferimenti comunitari sono stati fondamentali sia per il paese per il business e il turismo. L’offerta alberghiera mantenimento dei redditi agricoli, sia per lo sviluppo degli delle principali città è in continuo aumento, sia dal punto investimenti in infrastrutture e, secondo alcuni studi, ad di vista della quantità che – soprattutto – della qualità. essi è attribuibile un terzo della maggior crescita registraAlcune fiere settoriali di Madrid, Barcellona e Valenza ta dall’economia spagnola rispetto alla media comunitaria. sono tra le più importanti a livello internazionale. La Inoltre, la Spagna è da annoverare tra i paesi monocoltura sole e mare sta progressivamente lasciando dell’Unione che hanno applicato con maggior rigore il il passo al turismo culturale, all’agriturismo e al turismo “Patto di stabilità e di crescita”, portando nell’ultimo sportivo (i campi da golf aperti sono già più di 300). Il decennio il suo disavanzo di bilancio a cifre praticamente numero di studenti di spagnolo aumenta un anno dopo irrilevanti rispetto al PIL e raggiungendo, dal 2001, l’obietl’altro in tutto il mondo... tivo di mantenere il rapporto tra debito pubblico e PIL al Parallelamente, nell’ultimo decennio l’economia spadi sotto del 60% (nell’anno 2004 era il 49%, di fronte al gnola ha attraversato uno dei periodi più prosperi. Tra il 71% della “zona euro”). La disciplina di bilancio è stata 1994 e il 2004 la crescita media annuale del Prodotto essenziale per la creazione di aspettative favorevoli in un Interno Lordo è stata del 3,4 per cento (tasso identico a paese che in genere destava sospetti in quest’ambito, perquello registrato nel 2005), cioè: un punto al di sopra mettendo all’Amministrazione non solo di frenare la tendella media della “zona euro” e denza all’aumento della pressione quasi due punti in più rispetto alla fiscale - tendenza in atto dagli anni media raggiunta dall’Italia o dalla ottanta - ma anche di ridurre legGermania. Nello stesso periodo, il germente alcune imposte dirette. reddito pro capite è passato dal Non meno importante per la 78% a quasi il 90% della media crescita dell’economia spagnola è dell’UE-15 (e praticamente al 100% stata la riduzione dei tassi d’intedella media dell’UE-25), mentre il resse, che ha agevolato prima il tasso di disoccupazione si è ridotto: processo di convergenza con l’edal 24 all’11 per cento (all’8,5 per conomia dei principali paesi euroNICASIO ORTIN cento nel 2005). pei, più recentemente l’adozione Tra i fattori di un’evoluzione così dell’euro e la sottomissione alla Direttore Generale di DBK (dal 2005 nel Gruppo positiva, occorre evidenziare innanpolitica monetaria della Banca Cerved-Centrale dei Bilanci), l’azienda leader zi tutto l’integrazione a pieno titolo Centrale Europea. Gli operatori nell’analisi dei settori economici di Spagna e Portogallo, paesi dove realizza un monitoraggio del paese nell’Unione Europea, che economici spagnoli hanno potuto continuo di circa 700 settori. Laureato in ha avuto peso da diversi punti di avvantaggiarsi non solo della Economia e Commercio e in Legge. vista. In primo luogo, dall’entrata disponibilità di risorse e della stabiavvenuta nel 1986, la Spagna ha lità, ma anche di tassi d’interesse L % CRESCITA MEDIA ANNUALE DEL PIL 1994-2004 3,4 3,3 3 2,8 2,6 2,5 2,3 2,2 2 1,6 1,5 1,2 OECD UE-15 Giappone Germania Italia Francia Portogallo Regno Unito Stati Uniti 0 Spagna 1 15. La maggior parte si stabilisce in località delle Canarie e della costa mediterranea (Florida Europea), dove nel 2004 sono state vendute 181.000 abitazioni nuove (il 40% a stranieri). Per quanto riguarda il restante 80%, all’incirca la metà dei nuovi arrivati proviene dai paesi latino americani (con l’Ecuador in testa), la quarta parte dall’Africa (essenzialmente dal Marocco). Uno su cinque dall’Europa dell’Est (la metà di costoro dalla Romania) e poco più del 5% dall’Asia. Della crescente integrazione degli stranieri che vivono in Spagna sono prove evidenti indicatori quali la riduzione graduale nel volume annuale pro capite di rimesse inviate (da 2.200 euro nel 2000 a 1.700 nel 2004), nonché l’aumento nel numero di stranieri adulti residenti che utilizzano prodotti finanziari quali le carte di credito (73%), i crediti ipotecari (16%) o i crediti al consumo (11%). Passiamo ora ad analizzare l’offerta. Il settore economico che ha tratto maggiori vantaggi negli ultimi anni è stato quello dell’edilizia pubblica e privata. La crescita, sostenuta sia dalle opere civili, spinte dalla forza degli investimenti pubblici in infrastrutture, sia dall’edilizia residenziale, ha portato il contributo del settore delle costruzioni al PIL spagnolo dal 7,1% del 1997 al 10,7% del 2004. Nello stesso periodo l’industria ha visto scendere la sua incidenza dal 18,5% al 16,0%, mentre i servizi hanno aumentato la loro, passando dal 65,8% al 67,3%. Negli ultimi anni si è pertanto accentuata la terziarizzazione dell’economia spagnola, in linea con quanto verificatosi nella maggior parte dei paesi europei. Le crescite più rilevanti sono state registrate nei settori delle comunicazioni, del tempo libero e dei servizi alle imprese. Per quanto riguarda l’industria, la concorrenza in ambito internazionale con alcuni paesi in via di sviluppo ha avuto effetti importanti in alcuni settori come nel tessile-abbigliamento che, tra il 2002 e il 2005, ha perso 50.000 posti di lavoro e circa il 20% della produzione. L’evoluzione favorevole della domanda interna e la progressiva apertura verso l’esterno dell’economia spagnola hanno influito in maniera positiva sulle aziende appartenenti ai settori più competitivi, che non solo sono stati in grado di crescere, creando posti di lavoro ad un buon ritmo sul mercato nazionale, ma hanno dato anche inizio a processi di internazionalizzazione, prima nei paesi latino americani e in seguito in diversi paesi europei. È il caso dei grandi gruppi delle costruzioni - cinque dei quali si trovano tra i sette più importanti d’Europa -, delle principali società immobiliari e di alcune catene alberghiere. Da parte loro, le banche spagnole sono fra le più efficienti a livello mondiale già da alcuni anni, con il BBVA e il Gruppo Santander leader nei paesi di lingua spagnola, il secondo con una posizione privilegiata anche in Europa, grazie all’acquisizione dell’inglese Abbey. Telefónica è diventata uno degli operatori di telecomunicazioni più importanti del mondo, grazie alle recenti incorporazioni GLOBAL COMPETITION reali negativi, probabilmente per la prima volta nella storia economica del paese. Alla luce delle condizioni macroeconomiche sopra descritte, appaiono del tutto logici fenomeni quali l’incremento sostenuto del consumo privato e il boom immobiliare. Questi fenomeni hanno avuto un potente moltiplicatore nell’aumento del ricorso al credito da parte delle famiglie. Nell’anno 2004 l’indebitamento di queste ha superato il 100% del reddito lordo disponibile e, nel 2005, sono stati sottoscritti 1.670.000 nuovi crediti ipotecari. L’esplosione del settore immobiliare nell’ultimo decennio è tra i fenomeni economici che ha suscitato maggiore interesse e sul cui termine (quando sarà e con che conseguenze) si sta molto discutendo. Dal 1999, ogni anno il numero di abitazioni iniziate ha superato sistematicamente il mezzo milione, con picchi che hanno sfiorato le 700.000, sia nel 2004 che nel 2005 e, secondo le previsioni, anche per il 2006. Tali cifre, che in alcuni anni hanno superato la somma di quelle registrate in Germania, Francia e Italia messe insieme, costituiscono la risposta (per alcuni esagerata) al forte incremento della domanda, sia delle famiglie che degli investitori, in un paese dove il mattone è sempre stato il principale strumento di risparmio delle famiglie e dove la popolazione è aumentata in modo significativo grazie al fenomeno migratorio. L’immigrazione rappresenta, infatti, l’altro fattore del recente sviluppo della Spagna. Dei 44,1 milioni di abitanti del paese all’inizio del 2005 (erano 39,7 milioni nel 1996), circa 4 milioni erano stranieri (dieci anni prima gli stranieri erano solo 0,5 milioni). La percentuale di stranieri oltrepassa già il 15% nelle Baleari e si situa tra il 10 e il 15% a Madrid, in Catalogna e nella Regione di Valenza. Circa il 20% degli immigranti proviene da paesi dell’UE- 4 - 2006 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › 29 ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › Evoluzione di alcuni settori industriali spagnoli, 1998-2005 (Milioni euro correnti) 1998 2005 (a) Produzione Mercato Industria Farmaceutica Cemento Macchine Utensili Mobili Casa Calzature Industria Tessile GLOBAL COMPETITION 4 - 2006 Fonte: DBK 30 4.818 1.900 848 3.125 2.970 6.006 5.932 1.846 861 2.726 1.592 6.241 (a) dati provvisori Produzione 8.755 3.331 915 3.125 2.180 4.150 % v.m.a. 2005/1998 Mercato Produzione Mercato 11.315 3.360 900 3.370 1.860 4.300 8,9 8,3 1,1 0,0 -4,3 -5,1 5,7 8,9 0,6 3,1 2,2 -5,2 v.m.a.: variazione media annuale. di Cesky Telecom e O2. Si deve dire, tuttavia, che nell’economia spagnola non è oro tutto quello che luccica. Continuano ad esistere, anzi si sono accentuati negli ultimi anni, alcuni squilibri, che minacciano la continuità dello sviluppo a medio termine. Lo squilibrio più evidente è il deficit del conto corrente, che nel 2005 ha superato per la prima volta il livello del 7% del PIL, diventando il più elevato della “zona euro” in termini assoluti. Le cause immediate di questo andamento negativo sono da ricercare nella spinta al consumo, nelle entrate derivate dal turismo, che aumentano ad un ritmo molto inferiore a quello delle importazioni di merci, e nella ridotta crescita delle esportazioni spagnole. Se al di là della situazione congiunturale volessimo rilevare gli elementi strutturali in grado di spiegare il deficit crescente della bilancia dei pagamenti, dovremmo in primo luogo indicare la grande dipendenza dell’economia spagnola dal petrolio, che invece di diminuire negli ultimi anni è incrementata. Inoltre, vale la pena sottolineare la posizione di debolezza dell’offerta spagnola nella maggior parte dei paesi emergenti: il 61,3 % delle vendite di merci all’estero nel 2005 sono state effettuate in Francia, Germania, Portogallo, Regno Unito, Italia e Stati Uniti, mentre solo il 2,6% ha interessato l’Estremo Oriente e appena un 1,4% l’Europa dell’Est. In terzo luogo, la Spagna è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea dove la produttività non è quasi aumentata negli ultimi anni, fenomeno dovuto indubbiamente al predominio degli investimenti nel settore delle costruzioni, piuttosto che in attrezzature e tecnologia, ad una regolamentazione eccessiva in alcuni mercati e agli scarsi stanziamenti destinati alla R&S, di poco superiori alla metà della media comunitaria, se rapportati al PIL. Se dalle variabili economiche passiamo ad esaminarne altre più profonde, collegate alla ricordata caduta di competitività, è necessario citare la distanza che separa tuttora la società spagnola da quelle più avanzate, rispetto a valori che si raggiungono e si consolidano più difficilmente del solo benessere economico. Il livello culturale medio della popolazione continua ad essere relativamente basso (la Spagna occupa il diciannovesimo posto nell’UE per quanto riguarda la diffusione della stampa, mentre il 45 per cento della popolazione che ha compiuto 14 anni ammette di non leggere mai o quasi mai). Ancora scarsa è anche la dotazione di valori intangibili quali lo spirito civico e l’impegno a favore del bene comune, necessari non solo per una sana convivenza, ma anche per promuovere la crescita dell’economia a lungo termine. D’altro canto il modello di sviluppo che ha funzionato così bene negli ultimi anni incomincia a mostrare i primi segni di stanchezza. Il progressivo irrigidimento della politica monetaria della Banca Centrale Europea e il conseguente aumento dei tassi d’interesse contribuiranno indubbiamente ad accelerare in maniera più o meno morbida l’atterraggio del mercato immobiliare, frenando contemporaneamente i consumi delle economie familiari, già al limite dell’indebitamento. Infine, a partire dall’anno 2007, la Spagna smetterà di ricevere gran parte delle sovvenzioni provenienti dall’UE, che si sono rivelate così utili quando si è trattato di stimolare la crescita. Lo spostamento del centro di gravità dell’Unione verso l’Est non è, almeno in principio, una buona notizia per l’economia spagnola, una di quelle che dovrà sopportare di CONTRIBUTO AL PIL DEI DIVERSI SETTORI DELL’ECONOMIA SPAGNOLA 1997 2004 7,1% Servizi 10,7% 18,5% Agricoltura, allevamento e pesca 16,0% Energia 3,6% 5,0% Fonte: Istituto Nazionale di Statistica 65,8% 2,5% 3,5% Industria 67,3% Edilizia ‹ Difficoltà e prospettive dell’industria › Evoluzione di alcuni settori dei servizi SPAGNOLI, 1998-2005 più il costo del recente “allargamento”, senza essere, probabilmente, tra i principali beneficiari degli effetti positivi a medio termine. Inoltre l’indice di crescita e quello di produttività dei nuovi paesi membri rappresentano una sfida importante per la competitività dell’industria spagnola sui mercati e per gli investimenti internazionali. Nei prossimi anni scopriremo quanto può durare la forte spinta che ha accumulato l’economia spagnola nell’ultimo decennio e che capacità avranno i cittadini, le imprese e i governi per migliorare la posizione del paese rispetto agli squilibri e alle carenze create dalla sua crescita. (Milioni euro correnti) Telefonia Cellulare Operatori Logistici Consulting Lavoro Interinale Concessionari di Autostrade Agenzie di Viaggi Fonte: DBK Mercato 1998 Mercato 2005 (a) % v.m.a. 2005/1998 3.637 1.052 3.145 1.370 992 6.972 15.550 2.835 7.175 2.748 1.860 12.840 23,1 15,2 12,5 10,5 9,4 9,1 (a) dati provvisori v.m.a.: variazione media annuale. Bibliografia dell’articolo a pag. 3 di Fabrizio Onida Annicchiarico, B.e Quintieri B. (1999), Il commercio intra-industriale “verticale” dell’Italia nel tessile-abbigliamento, in (ICE 1999, pp. 175-181). Faini R.– Sapir A (2005) Un modello obsoleto? Crescita e specializzazione dell’economia italiana, in Boeri T. et al., Oltre il declino, Mulino, Bologna. 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GLOBAL COMPETITION Amighini A. – Chiarlone S. (2005a), L’emergere di nuovi vantaggi competitivi nei Paesi dell’Europa Centrale e Orientale, in Onida (2005). 31 Libri in vetrina “ L’economia mondiale verso uno squilibrio globale. E l’Italia che fa?” Mario Baldassarri e Pasquale Capretta - Ed. Sperling & Kupfer - Milano - 2006 - pagg. 140 - E 17. L’economia globale appare, almeno in questa fase, anche un’economia di grandi squilibri. Non solo per l’irruzione di nuovi attori, come Cina e India, ma anche e soprattutto per il cambiamento profondo che hanno avuto due parametri centrali nei rapporti politici e sociali: il tempo e lo spazio. Viviamo in un mondo in cui il tempo è diventato sempre più breve, non solo per la rapidità delle comunicazioni, ma anche per la velocità con cui avvengono trasformazioni e cambiamenti. E anche lo spazio si è fatto più ristretto, è cresciuta l’interdipendenza tra le diverse aree, sono stati progressivamente abbattuti i confini non solo per le merci, ma anche per le idee, per la conoscenza, per l’innovazione tecnica e scientifica. Ma in questo scontro tra giganti, in questa arena in cui sembrano operare alla grande le forze del mercato (e quindi la logica dei più forti) l’Italia rischia di avere un ruolo sempre più marginale, subalterno, schiacciato oltre che dal dinamismo dei grandi anche dalle proprie incapacità. Come uscirne. Mario Baldassarri, docente di economia alla Sapienza e vice-ministro nel Governo Berlusconi, e Pasquale Capretta, responsabile del modello econometrico al Centro studi Confindustria, hanno cercato in questo libro di affiancare ad una analisi puntuale ed attenta dei temi dell’assetto economico mondiale anche una serie di proposte e di possibile vie perché l’Europa, e insieme all’Europa anche l’Italia, non resti schiacciata nello scontro tra l’elefante americano e le tigri asiatiche come un vaso di coccio o una bella addormentata. La strada non è facile. Soprattutto per l’Italia, infatti, sono necessarie quelle riforme strutturali di cui da decenni si parla senza ottenere risultati significativi. Perchè l’obiettivo, fino ad ora mancato, deve essere quello di accrescere la produttività e la competitività delle imprese. “ Un passato che ritorna” Valerio Castronovo - Editori Laterza - Roma, Bari - 2006 - pagg. 360 - E 19. “Seicento anni fa, tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna, l’Europa dipendeva dall’Asia per molti beni essenziali alla sua economia e d’uso corrente nella vita quotidiana. E tale vincolo sarebbe durato fino alla fine dell’Ottocento. Allo stesso modo con cui sino allora aveva mutuato dall’Oriente importanti conoscenze scientifiche e varie applicazioni pratiche”. Inizia così il secondo capitolo del libro che Valerio Castronovo ha dedicato alla sfida asiatica. Una prospettiva nuova, quella storica, dopo decine di saggi che hanno cercato di analizzare i grandi cambiamenti nell’ottica di breve periodo della globalizzazione. Castronovo, sicuramente il maggior esperto italiano di storia dell’economia e dell’industria, offre così una visione estremamente realistica del processo che ha portato ai grandi cambiamenti attuali mettendo in luce tutti quegli elementi che a cura di Gianfranco Fabi dimostrano come si sia di fronte ad una evoluzione che anche quando compie dei salti (come nelle scelte di mercato dei vertici del partito comunista cinese) si colloca comunque in una lunga linea di coerenza logica. L’ambizione dello storico è anche di dimostrare come possano essere estremamente utili gli insegnamenti del passato per guidare per quanto possibile anche le evoluzioni future. E allora in questo libro, che resta un libro di storia, non mancano le istruzioni per l’uso per leggere le tendenze e mettere a frutto le opportunità: con in primo piano l’esigenza di rispettare e anzi valorizzare, tradizioni, abitudini e culture. Per l’Europa, per esempio, si tratta di “liberarsi dai retaggi psicologici dell’epoca coloniale”, quasi che il Vecchio Continente rischi di essere vittima di un complesso di superiorità che ne limiti in fondo le possibilità operative. Ed è un pericoloso complesso di superiorità, secondo Castronovo, il fatto che l’Europa ritenga di poter affrontare le sfide del Terzo millennio con le stesse armi del secolo scorso senza quindi affrontare quelle esigenze di innovazione, ricerca e innovazione strutturale peraltro messe bene in luce, ma solo a parole, nel vertice e negli impegni di Lisbona. “ La regina e il cavallo” Salvatore Rossi - Editori Laterza – Roma, Bari – 2006 – pagg. 176 - E 10. In molti manuali di management l’esempio della partita a scacchi costituisce una simulazione sull’importanza della strategia nella conduzione aziendale. Con una filosofia molto semplice da spiegare quanto complessa da applicare: tante più mosse dell’avversario un giocatore saprà prevedere, in risposta alle proprie, tanto più sarà in grado di vincere la partita. Il mercato è in fondo la grande scacchiera in cui i protagonisti dell’economia giocano la loro partita. Per le imprese italiane si tratta di definire una strategia: da una parte valutando le proprie potenzialità, ma dall’altra cercando si sfruttare al meglio le regole del gioco. Proprio la similitudine con il gioco degli scacchi costituisce il filo conduttore di Salvatore Rossi, responsabile del Servizio studi della Banca d’Italia, nell’analizzare nel libro i rischi e le opportunità del sistema-Italia. La regina può muoversi in tutte le direzioni e può attaccare direttamente l’avversario. Il cavallo ha la caratteristica di saltare e di muoversi di lato: e questo nella metafora aziendale può voler dire sconfinare in terreni vicini e più accessibili. Ma ci sono altre strategie scacchistiche: l’arrocco, cioè il giocare in difesa magari valorizzando i propri punti di forza, per arrivare alla soluzione estrema come buttare all’aria la scacchiera e andare a giocare da un’altra parte. Con l’accattivante paragone con gli scacchi l’analisi di Salvatore Rossi mette a fuoco con estremo realismo, e insieme con semplicità, i nodi di fondo dell’economia italiana, quei nodi che hanno limitato negli ultimi anni le strade dello sviluppo. Indicando anche i rimedi reali e le illusioni possibili. Queste ultime, le illusioni, sono racchiuse soprattutto nella speranza che per uscire dalle secche possa bastare una politica di bilancio più accomodante o una politica monetaria meno rigorosa. I rimedi sono più difficili e impegnativi: passano per la dimensione delle imprese, la concorrenza, l’innovazione, la conoscenza. La partita comunque, e questo è un dato positivo, resta sempre aperta.