Il riconoscimento di figlio naturale
Transcript
Il riconoscimento di figlio naturale
Il riconoscimento di figlio naturale: effetti e tutela 1) Nell’ambito degli strumenti probatori predisposti dal sistema processuale vigente, il codice di rito contempla uno specifico mezzo istruttorio di cui il giudice può disporre anche d’ufficio, ossia introdurre nel processo indipendentemente da una richiesta delle parti. La prova del Dna costituisce un tipico caso di ispezione corporale prevista dall’articolo 118 1° comma c.p.c. a tenor del quale “ il giudice può ordinare alle parti di consentire sulla loro persona.. le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti di causa.. purchè ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo”. Benchè dal tenore letterale della norma appaia il carattere sussidiario di tale strumento di prova, dovendo, cioè, ricorrere allo stesso quando la paternità non possa essere provata altrimenti, ( ad esempio mediante scritti, lettere, fotografie o documenti di altro tipo nonchè attraverso le dichiarazioni di testimoni) l’attuale tendenza dei giudici di merito è nel senso di ricorrervi sempre più frequentemente, considerandolo come lo strumento probatorio tipico dei giudizi di accertamento della paternità naturale giacchè consente di attribuire la paternità in modo quasi certo. La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha, al riguardo, statuito che ai fini dell’accertamento della paternità naturale, la cui prova può essere data con ogni mezzo, “è rimesso alla valutazione del giudice di merito decidere se fare ricorso alle indagini ematologiche e genetiche per confermare gli elementi già acquisiti attraverso il normale sistema probatorio, prove testimoniali o documentali, o, se invece, prescinderne, ove sussistano elementi sufficienti a fondare il suo convincimento” (Cass. 1995 n. 432). In ogni caso, il ricorso alla prova del DNA consente di accertare la paternità biologica in modo decisivo in quanto i prelievi di campioni ematici da soggetti diversi e i successivi raffronti sono effettuati allo scopo di stabilire le possibili compatibilità o incompatibilità e quindi sono più probanti in senso negativo, cioè per escludere la paternità, che in senso positivo, cioè per affermarla. 2) Il rifiuto del presunto padre di sottoporsi alla prova del DNA non determina di per sè soccombenza nel giudizio. Tale comportamento processuale viene, però, considerato dalla legge come un argomento di prova , vale a dire come un elemento indiziario da valutare in concorso con tutte le altre prove aliunde acquisite sia scritte che orali talchè il giudice può legittimamente fondare il 1 suo convincimento, in ordine alla effettiva esistenza del rapporto di filiazione, anche su risultanze probatorie dotate di valore puramente indiziario. La minore efficacia probatoria riconosciuta all’argomento di prova rispetto agli elementi che integrano la cosìddetta prova piena, deriva dalla sua configurazione quale elemento che non è in grado di fondare , da solo, il convincimento giudiziale ma di cui il giudice si avvale come punto di riferimento per valutare tutto il materiale probatorio complessivamente raccolto nel processo. In tal senso, la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 118 c.p.c. è estremamente chiara nel sancire che “ se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza giustificato motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argomenti di prova a norma dell’articolo 116 2° comma c. p.c. cioè valutarlo come argomento di prova ulteriore che concorre ad integrare gli estremi della prova piena. 3) Il riconoscimento di figlio naturale costituisce un atto di autonomia privata mediante il quale il soggetto che lo effettua rende giuridicamente certa nei suoi confronti l’esistenza del rapporto di filiazione. La riforma del diritto di famiglia di cui alla Legge 19/05/1975 n. 151, infatti, riconoscendo il diritto allo stato di figlio, riconosce, altresì, il diritto all’accertamento, anche giudiziale, di siffatto rapporto. Quale negozio di accertamento, il riconoscimento determina in capo al riconosciuto l’acquisto della titolarità formale della filiazione come conseguenza legale in virtù della quale il figlio assume tutti i diritti e doveri propri della procreazione legittima. Tale dichiarazione, i cui effetti sono dalla legge equiparati a quelli derivanti dalla sentenza dichiarativa di paternità, è attributiva dello status di figlio “ in via irrevocabile e vincolante, fino a quando lo stesso non venga rimosso con le specifiche impugnative all’uopo previste” (Cassazione civile 10/08/1991 n. 8751). La legge non prevede, pertanto, la possibilità di revocare il riconoscimento ma la sua impugnazione per difetto di veridicità, per incapacità del genitore dichiarante e per violenza. L’articolo 263 1° comma del Codice Civile prevede, in primo luogo, che il riconoscimento possa essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore dell’atto, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse al fine di rimuovere la non corrispondenza tra la realtà e ciò che è stato dichiarato. La Corte di Cassazione ha precisato che la relativa azione è “ ammessa in ogni caso in cui il riconoscimento sia obiettivamente non veridico, a nulla rilevando eventuali stati 2 soggettivi di buona o di mala fede del dichiarante”(Cass. 1991 n. 5886); ciò significa che è proponibile anche quando l’autore del riconoscimento fosse consapevole della insussistenza del rapporto di filiazione. La giurisprudenza aggiunge, altresì, che l’azione è imprescrittibile in considerazione della peculiare natura delle azioni di stato che, in quanto relative a materie dominate da interessi pubblici, sono sottratte alla disponibilità dei privati. Oltre, quindi, che dallo stesso soggetto riconosciuto (art.264 C.C.) e sempre per difetto di veridicità, il riconoscimento può essere altresì impugnato per violenza dall’autore dell’atto entro un anno dal giorno in cui la violenza è cessata (art. 265 C.C.) e per incapacità di agire del dichiarante derivante da interdizione giudiziale. In quest’ultimo caso, (art.266 C.C.), l’azione può essere proposta dal tutore o dallo stesso autore del riconoscimento dopo la revoca dell’interdizione e l’azione si prescrive entro un anno dalla revoca. Che la legge non ammetta la revoca del riconoscimento è ribadito altresì da una pronuncia della Suprema Corte in cui si legge che “l’impugnazione del riconoscimento di figlio naturale, per difetto di veridicità, da parte del suo autore, ancorchè non richieda la sopravvenienza di elementi di conoscenza nuovi rispetto a quelli noti al momento della dichiarazione, non ne costituisce una revoca, di cui l’art. 256 C.C. sancisce il divieto” (Cass. 1993 n. 2269) con la conseguenza che il soggetto impugnante è tenuto alla dimostrazione giudiziale della non rispondenza al vero, ossia l’inesistenza del rapporto, potendo la relativa prova essere data con ogni mezzo, anche con presunzioni semplici. 4) L’articolo 278 C.C. contiene un espresso divieto di indagini sulla paternità o maternità nei casi in cui il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato ai sensi dell’art. 251c.c., perchè relativo “a figli nati da soggetti legati da un vincolo di parentela, anche solo naturale, in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un vincolo di affinità in linea retta salvo che i genitori, al tempo del concepimento, ignorassero il vincolo esistente tra di loro o che sia stato dichiarato nullo il matrimonio da cui deriva l’affinità”. Attesa la ratio del divieto, che è quella di impedire una pronuncia di dichiarazione giudiziale della filiazione naturale in tutti i casi in cui il riconoscimento sia inammissibile, si ritiene che il divieto operi anche nei casi in cui il riconoscimento non possa essere fatto ex art. 253 c.c, perchè contrastante con lo status di figlio legittimo in cui il soggetto si trovi, potendo contrastare le risultanze dell’atto di nascita solo mediante un’azione di disconoscimento, o ancora perchè in contrasto con lo status di figlio naturale acquisito in virtù di precedente riconoscimento o dichiarazione giudiziale. 3 Si è, per contro, riconosciuto che le indagini siano ammissibili ove l’accertamento del rapporto di filiazione naturale non riconoscibile costituisca una questione pregiudiziale onde dalla sua soluzione dipende la decisione di una diversa azione, potendo in tal caso formare oggetto di accertamento incidentale senza efficacia di giudicato; tale è, ad esempio la situazione che può verificarsi nei casi di impugnazione del riconoscimento ex art. 263 c.c., per difetto di veridicità, quando la prova di tali circostanze richieda l’identificazione del padre vero. La Corte Costituzionale ha, però, di recente (22/11/2002 n. 494) riconosciuto la parziale illegittimità della norma contenuta nell’art. 278 c.c. 1° comma, ossia proprio nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della filiazione naturale e le relative indagini nei casi in cui il riconoscimento dei figli incestuoso è vietato. La pronuncia muove dal rilievo che la “capitis deminutio perpetua” ossia la riduzione, definitiva e irrimediabile, di importanza e, quindi, di tutela, “cui sono esposti i cosiddetti figli incestuosi come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti, costituisce una evidente violazione del diritto a uno status filiationis e del principio costituzionale di uguaglianza”. Occorre tuttavia precisare che, come si legge in sentenza, “ l’accoglimento della questione non coinvolge il parallelo divieto di riconoscimento da parte dei genitori che continua a permanere”. 5) Relativamente alle questioni della titolarità, da parte del figlio naturale, di diritti e obblighi acquistati a seguito del riconoscimento, compreso quello del diritto al mantenimento, occorre osservare che la riforma del diritto di famiglia ha inteso operare una equiparazione pressochè completa tra la posizione del figlio nato in costanza di matrimonio (legittimo) e quella del figlio nato al di fuori dello stesso (naturale) sancendo che “ il riconoscimento comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi” (art.261 c.c.). Nell’assicurare, dunque, al figlio naturale, riconosciuto o dichiarato, una tutela giuridica pari a quella riconosciuta ai figli legittimi in ogni campo, la legge di riforma ha accomunato negli stessi diritti figli legittimi e naturali, prevedendo tale equiparazione anche a favore dei figli naturali nati anteriormente alla entrata in vigore della riforma stessa. Dal riconoscimento, pertanto, derivano a favore del figlio naturale tutte le posizioni giuridiche connesse allo stato di filiazione, in primis l’obbligo di mantenimento che la giurisprudenza ha costantemente riconosciuto come diritto che sorge ex lege sin dal momento della nascita e rispetto al quale il genitore ha l’obbligo di provvedervi in 4 proporzione delle proprie sostanze, ancorchè il rapporto di filiazione sia stato accertato successivamente. L’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli naturali riconosciuti ( minorenni o maggiorenni non autosufficienti) prescinde, pertanto, a differenza delle prestazioni alimentari, dal loro stato di bisogno mentre si estingue con il raggiungimento della loro autosufficienza economica. Dato il suo carattere essenzialmente patrimoniale e decorrendo dal momento della nascita, la giurisprudenza ne riconosce la sussistenza anche per il periodo antecedente l’accertamento del rapporto di filiazione. La Suprema Corte di Cassazione ha ribadito che dalla stessa nascita decorre l’obbligo di rimborso pro quota dell’altro genitore che vi abbia provveduto da solo (Cass. 1998 n. 8042 e Cass. 2000 n. 15063). Va precisato che, essendo un diritto a contenuto patrimoniale, il diritto al mantenimento si prescrive in cinque anni decorrenti dal giorno del raggiungimento della indipendenza economica da parte del figlio. 6) Quanto ai possibili provvedimenti conservativi che possono essere adottati a tutela dei diritti di natura patrimoniale del figlio naturale non è dato rinvenire nello stato attuale della legislazione alcuna norma che possa fondare una siffatta forma di tutela e ciò perchè la tutela urgente, di natura anticipatoria, presuppone l’attualità del diritto che si intende tutelare allorchè vi sia fondato timore che nelle more del giudizio il diritto stesso possa essere pregiudicato. Posto, dunque, che la tutela d’urgenza è ammissibile solo in presenza di diritti preesistenti alla stessa domanda giudiziale, il presunto figlio naturale che abbia chiesto l’accertamento giudiziale del rapporto del filiazione non può, fino a quando non intervenga la sentenza dichiarativa, lamentare alcun pregiudizio rispetto ad un diritto non ancora riconosciuto non essendo configurabili nè il fumus boni iuris nè tantomeno il periculum in mora. Del resto, anche i figli legittimi non possono chiedere provvedimenti conservativi sul patrimonio del genitore. Sia i figli naturali che quelli legittimi possono vantare diritti e quindi chiederne la tutela a partire dalla morte del genitore naturale o legittimo. 7) Le disposizioni codicistiche dettate in materia successoria, con l’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia hanno praticamente abolito ogni pregressa differenziazione tra figli legittimi e naturali. 5 Per quanto attiene alla successione necessaria, ossia alla successione che si realizza anche contro gli atti di disposizione del defunto, la legge ha realizzato tale equiparazione accomunando i figli legittimi e i figli naturali riconosciuti, nell’unitaria figura dei legittimari, ossia degli stretti congiunti ai quali è riconosciuta una quota di riserva sul patrimonio del de cuis, tutelata mediante il riconoscimento del diritto di legittima. L’art. 536 c.c. sancisce, infatti, che le persone a favore delle quali la legge riserva una quota di eredità o altri diritti nella successione sono il coniuge, i figli legittimi, ai quali sono equiparati i legittimati e gli adottivi, i figli naturali e gli ascendenti legittimi; ciò significa che la legge riconosce loro, indistintamente, un diritto successorio, di fronte ad una diversa volontà del testatore, avente per contenuto il potere di acquistare, direttamente o mediante azione giudiziaria di riduzione , beni dell’eredità e beni donati dal defunto fino alla concorrenza del valore della legittima. In particolare, l’art. 537 c.c contempla un’apposita riserva a favore dei figli naturali, prevedendo sia l’ipotesi in cui il genitore lasci un figlio solo, legittimo o naturale, al quale è devoluta la metà del patrimonio, sia l’ipotesi in cui vi siano più figli ai quali è riservata la quota dei due terzi, da dividersi in parti uguali. Nel caso, infine, di concorso del coniuge con un solo figlio, legittimo o naturale, l’art. 542 c.c. 1° comma, riserva a quest’ultimo un terzo del patrimonio mentre l’altro terzo spetta al coniuge; nell’ipotesi, invece, di concorso del coniuge con più figli, legittimi o naturali, la legge riserva al coniuge un quarto del patrimonio mentre ai figli è complessivamente devoluta la metà dello stesso da dividersi in parti uguali tra tutti. I figli legittimi, tuttavia, conservano una posizione privilegiata relativamente alla facoltà di chiedere l’estromissione dei figli naturali del defunto dalla comunione ereditaria, mediante la liquidazione delle quote e il pagamento del loro valore. L’art. 537 3° comma c.c prevede, infatti, l’istituto della commutazione in virtù del quale “i figli legittimi possono soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi si oppongano; nel caso di opposizione decide il giudice valutate le circostanze personali e patrimoniali” degli eredi. Poichè la commutazione comporta l’estromissione dei figli naturali dalla comunione ereditaria, la richiesta deve pervenire da tutti i figli legittimi e deve essere rivolta nei confronti di tutti i figli naturali avendo ad oggetto la porzione di eredità spettante a questi ultimi. Analoghe considerazioni valgono per quanto attiene alla successione legittima o ab intestato, ossia alla successione cha ha titolo direttamente nella legge ove manchi in tutto o in parte il testamento. 6 In tale ipotesi, la legge distingue varie categorie di successibili, (art.565 c.c.) ossia di qualifiche che distinguono gli aventi diritto alla successione ( coniuge e parenti fino al 6° grado) fissando al contempo anche le quote; in particolare, l’art.581 c.c., nel caso di concorso del coniuge con figli legittimi o naturali, stabilisce che al coniuge sia devoluta la metà dell’eredità se vi è un solo figlio e un terzo negli altri casi, mentre ai figli spettano globalmente i 2/3 dell’eredità. Permane anche in tale ipotesi, tuttavia, la possibilità per i figli legittimi di chiedere l’estromissione dei figli naturali dalla comunione ereditaria, secondo le norme sulla commutazione prevista nell’ambito della successione necessaria, mentre ai figli naturali non riconoscibili spetta, nella successione intestata, il medesimo diritto di riserva costituito da un assegno vitalizio “pari all’ammontare della rendita della quota di eredità alla quale avrebbero diritto se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta” (art.580 c.c. ). 8) Per quanto concerne l’ipotesi dell’eventuale premorienza del coniuge del presunto padre, si osserva che i diritti successori del figlio naturale non sono in alcun modo menomati; ciò in quanto il figlio naturale riconosciuto o dichiarato succede, in relazione alla sua quota, nell’intero patrimonio del de cuius nella consistenza che questo presenta al momento della sua morte. Pertanto, nel caso di premorienza del coniuge, nel patrimonio del presunto padre andrà a confluire anche la parte di eredità derivante dalla sua successione talchè al momento della morte del padre naturale i diritti successori del figlio naturale saranno quantificati in relazione all’intera massa ereditaria. 9) In riferimento alle problematiche relative all’istituto della collazione, va rilevato che con la previsione di tale istituto la legge ha inteso rispondere ad un’esigenza di pari trattamento tra tutti i soggetti che concorrono alla successione, configurando un mezzo giuridico preordinato alla formazione della massa da dividere allo scopo di garantire a ciascuno degli eredi stessi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata alla propria quota. La collazione costituisce, infatti, l’atto mediante il quale il coniuge e i discendenti ( figli legittimi e naturali nonchè i loro discendenti legittimi e naturali) conferiscono nell’asse ereditario, in natura o per imputazione, tutto ciò che hanno ricevuto dal de cuius in donazione, sia direttamente che indirettamente, salvo che non ne siano stati dispensati, anche tacitamente, dal defunto stesso. 7 Non sono, quindi, configurabili differenziazioni tra figli legittimi e naturali essendo tutti contemplati dall’art. 737 c.c quali soggetti tenuti alla collazione nei confronti dei coeredi; d’altra parte va rilevato che l’obbligo è a carico solo dei donatari, eredi necessari, che abbiano accettato l’eredità, avendo le loro quote ereditarie per oggetto l’asse ereditario incrementato dai conferimenti; in caso contrario la legge prevede che nei loro confronti possa essere esercitata, ove ne ricorrono i presupposti, l’azione di riduzione delle donazioni, quale strumento di reintegrazione della quota di legittima. La dispensa dalla collazione, che la legge ammette nei limiti della disponibile ex art. 737 2° comma c.c., può consistere in un negozio accessorio alla donazione, può essere altrimenti contenuta nel testamento o consistere in qualsiasi atto o espressione che indichi la volontà del defunto di assegnare la liberalità come un beneficio in più rispetto alla quota ereditaria nella successione legittima: la dispensa, infatti, assegna al donatario un privilegio rispetto agli altri coeredi in quanto, nei limiti della disponibile, gli consente di trattenere le donazioni ricevute talchè l’asse ereditario da ripartire tra tutti gli eredi risulta decurtato in proporzione delle stesse. La giurisprudenza riconosce la natura di clausola contrattuale della dispensa contenuta nello stesso atto di liberalità (Cass. 1984 n. 2752); ciò significa che se ne esclude la revocabilità unilaterale da parte del donante. L’obbligo della collazione, pertanto, sussiste sempre a carico del coniuge e dei discendenti che abbiano accettato l’eredità , a nulla rilevando la circostanza che i coeredi siano stati chiamati per successione legittima o testamentaria e a prescindere dalla entità dell’asse ereditario: l’obbligo della collazione, infatti, sussiste anche nel caso in cui non vi siano beni relitti da dividere. Per contro, il legittimario che sia stato pretermesso dal testatore è tenuto alla collazione se e in quanto abbia vittoriosamente esperito l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie lesive della sua quota di riserva; in tal caso, infatti, conseguendo la qualità di erede è tenuto al conferimento alla stregua degli altri coeredi. Sono soggette a collazione tutte le liberalità realizzate dal defunto, sia le donazioni prelevate dalla legittima come anticipo della quota spettante ai legittimari sia quelle prelevate sulla disponibile e nei limiti di questa; l’obbligo, inoltre, si estende a tutte le attribuzioni patrimoniali realizzate dal defunto, sia a quelle fatte a titolo di donazione sia alle donazioni indirette, cioè alle liberalità realizzate mediante atti diversi dalla donazione che costituiscono pur sempre un arricchimento senza corrispettivo qualificato da un intento liberale del disponente. 8 Rientra nel novero delle donazioni indirette, ad esempio, il negozio di compravendita di un immobile nel quale il de cuius abbia fornito al donatario il denaro occorrente per il pagamento del prezzo con la conseguenza che il beneficiario deve provvedere alla collazione mediante l’imputazione, nella propria quota, del valore che il bene ha al momento dell’apertura della successione, e corrispondendo in denaro agli altri coeredi l’eventuale eccedenza, o mediante la restituzione in natura: ovviamente andrà data la prova rigorosa di tale provvista. La legge, infatti, prevede che il conferimento debba farsi per imputazione ( artt. 746 c.c , 747 c.c ) se la donazione ha avuto ad oggetto beni immobili alienati o ipotecati, in caso contrario il beneficiario ha la scelta, da farsi mediante dichiarazione scritta, tra l’imputazione del valore e la restituzione del bene. Il conferimento deve sempre avvenire per imputazione se si tratta di beni mobili (art. 750 c.c. 1° comma) corrispondendo il valore (di mercato) che essi avevano al momento dell’apertura della successione; la legge precisa che la determinazione del valore dei titoli di stato e degli altri titoli quotati in borsa nonchè delle derrate e delle merci si realizza in base ai listini di borsa e alle mercuriali del tempo dell’apertura della successione ( art. 750 ultimo comma c.c.). In caso di collazione di un’azienda, l’imputazione deve farsi avuto riguardo al valore non dei singoli beni ma a quello unitario del complesso aziendale al tempo dell’apertura della successione; non è, invece, dovuta collazione di ciò che si è conseguito per effetto di società contratta senza frode tra il defunto e alcuno degli eredi se le condizioni sono state regolate con atto di data certa. ( art 743 c.c. ); sono parimenti escluse le spese di mantenimento e di istruzione, quelle sostenute per malattia, quelle ordinarie per abbigliamento e nozze, nonchè le donazioni di modico valore fatte al coniuge e le liberalità fatte in occasione di servizi resi o in conformità agli usi ( ex art. 770 2° comma c.c. ). Sono, invece, soggette a collazione ( ex art. 741 c.c.) tutte le assegnazioni fatte dal de cuius a favore dei propri discendenti a causa di matrimonio, per l’avviamento all’esercizio di attività produttiva o professionale o per soddisfare premi relativi a contratti di assicurazione sulla vita. La legge prevede l’obbligo della collazione per imputazione anche delle somme di denaro mediante il prelevamento dall’asse ereditario, da parte degli altri coeredi, di una corrispondente quantità di denaro in proporzione delle rispettive quote; ove l’asse ereditario non risulti sufficiente e il beneficiario non voglia eseguire il conferimento mediante il pagamento in denaro o titoli di Stato secondo il loro valore nominale, i coeredi 9 possono prelevare beni mobili o immobili ereditari sempre in proporzione delle rispettive quote ( art. 751c.c). Per quanto concerne l’ipotesi se una modifica nella cointestazione dei conti correnti a favore dei figli legittimi possa integrare una fattispecie di donazione indiretta, la giurisprudenza di legittimità insegna che la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito e appartenuta, all’atto della cointestazione, ad uno solo dei cointestatari integra una donazione indiretta del 50% della detta somma di denaro. (Cass. 1999 n. 3499). Poichè la donazione indiretta attua, attraverso un diverso schema negoziale, il tipico fine di liberalità che è proprio del contratto di donazione, è possibile che nell’ambito di un procedimento negoziale complesso l’intento liberale possa essere realizzato anche mediante la contitolarità di un contratto di deposito titoli; in tal modo la donazione indiretta risulta valida se presenta la forma propria del singolo negozio scelto per effettuare l’attribuzione talchè la stessa si realizza con la cointestazione di libretti di deposito bancario e successivi versamenti di somme di denaro anche indipendentemente dalla consegna materiale dei libretti da parte del donante. In ogni ipotesi di cointestazione, però, la donazione va ritenuta al 50% del valore del titolo. 10) Gli strumenti di tutela predisposti dalla legge in materia successoria non consentono di operare una distinzione in riferimento ai diversi tipi di filiazione. La tutela codicistica contempla, infatti, una serie di azioni volte a garantire i diritti successori di tutti i legittimari di fronte a disposizioni testamentarie o a donazioni lesive del diritto di legittima. Una volta introdotti, da un lato, l’istituto della quota disponibile e quello della riserva ereditaria dall’altro, la tutela di tutti i legittimari, indistintamente, si realizza attraverso la proposizione delle azioni di riduzione volte alla reintegrazione nella quota di riserva previa determinazione della disponibile. In tale ottica, l’art. 553 c.c prevede che nel caso di successione legittima ove con i legittimari concorrano altri successibili, “le porzioni che spetterebbero a questi ultimi si riducono proporzionalmente nei limiti in cui è necessario per integrare la quota riservata ai legittimari..” 10 Allo stesso modo, gli articoli 554 c.c e 555 c.c prevedono rispettivamente, la riduzione delle disposizioni testamentarie e delle donazioni eccedenti la quota di cui il de cuius poteva disporre, nei limiti della quota medesima. Allo stato attuale della legislazione e, considerando lo spirito che ha accompagnato la riforma del diritto di famiglia, l’unico strumento che può essere utilizzato per realizzare una maggiore tutela indiretta dei figli legittimi può consistere nel prevedere nel testamento del coniuge del presunto padre che la propria quota disponibile vada ai soli figli legittimi. In vita del de cuius, poi, è opportuno che eventuali spostamenti di denaro dai c/c non siano un giorno ricostruibili, e cioè che avvengano tramite plurimi passaggi, mentre eventuali conferimenti immobiliari avvengano mediante acquisti diretti, da parte dei figli legittimi, di beni immobili da terzi con denaro in nessun modo riconducibile al genitore. Dott.ssa Alessandra Teresi (marzo 2003) 11