Il riconoscimento di figlio naturale

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Il riconoscimento di figlio naturale
Il riconoscimento di figlio naturale: effetti e tutela
1) Nell’ambito degli strumenti probatori predisposti dal sistema processuale vigente, il
codice di rito contempla uno specifico mezzo istruttorio di cui il giudice può disporre anche
d’ufficio, ossia introdurre nel processo indipendentemente da una richiesta delle parti.
La prova del Dna costituisce un tipico caso di ispezione corporale prevista dall’articolo
118 1° comma c.p.c. a tenor del quale “ il giudice può ordinare alle parti di consentire sulla
loro persona.. le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti di causa..
purchè ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo”.
Benchè dal tenore letterale della norma appaia il carattere sussidiario di tale strumento
di prova, dovendo, cioè, ricorrere allo stesso quando la paternità non possa essere provata
altrimenti, ( ad esempio mediante scritti, lettere, fotografie o documenti di altro tipo
nonchè attraverso le dichiarazioni di testimoni) l’attuale tendenza dei giudici di merito è
nel senso di ricorrervi sempre più frequentemente, considerandolo come lo strumento
probatorio tipico dei giudizi di accertamento della paternità naturale giacchè consente di
attribuire la paternità in modo quasi certo.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha, al riguardo, statuito che ai fini
dell’accertamento della paternità naturale, la cui prova può essere data con ogni mezzo, “è
rimesso alla valutazione del giudice di merito decidere se fare ricorso alle indagini
ematologiche e genetiche per confermare gli elementi già acquisiti attraverso il normale
sistema probatorio, prove testimoniali o documentali, o, se invece, prescinderne, ove
sussistano elementi sufficienti a fondare il suo convincimento” (Cass. 1995 n. 432).
In ogni caso, il ricorso alla prova del DNA consente di accertare la paternità biologica in
modo decisivo in quanto i prelievi di campioni ematici da soggetti diversi e i successivi
raffronti sono effettuati allo scopo di stabilire le possibili compatibilità o incompatibilità e
quindi sono più probanti in senso negativo, cioè per escludere la paternità, che in senso
positivo, cioè per affermarla.
2) Il rifiuto del presunto padre di sottoporsi alla prova del DNA non determina di per sè
soccombenza nel giudizio.
Tale comportamento processuale viene, però, considerato dalla legge come un argomento
di prova , vale a dire come un elemento indiziario da valutare in concorso con tutte le altre
prove aliunde acquisite sia scritte che orali talchè il giudice può legittimamente fondare il
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suo convincimento, in ordine alla effettiva esistenza del rapporto di filiazione, anche su
risultanze probatorie dotate di valore puramente indiziario.
La minore efficacia probatoria riconosciuta all’argomento di prova rispetto agli elementi
che integrano la cosìddetta prova piena, deriva dalla sua configurazione quale elemento
che non è in grado di fondare , da solo, il convincimento giudiziale ma di cui il giudice si
avvale come punto di riferimento per valutare tutto il materiale probatorio
complessivamente raccolto nel processo.
In tal senso, la previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 118 c.p.c. è
estremamente chiara nel sancire che “ se la parte rifiuta di eseguire tale ordine senza
giustificato motivo, il giudice può da questo rifiuto desumere argomenti di prova a norma
dell’articolo 116 2° comma c. p.c. cioè valutarlo come argomento di prova ulteriore che
concorre ad integrare gli estremi della prova piena.
3) Il riconoscimento di figlio naturale costituisce un atto di autonomia privata
mediante il quale il soggetto che lo effettua rende giuridicamente certa nei suoi confronti
l’esistenza del rapporto di filiazione.
La riforma del diritto di famiglia di cui alla Legge 19/05/1975 n. 151, infatti, riconoscendo
il diritto allo stato di figlio, riconosce, altresì, il diritto all’accertamento, anche giudiziale, di
siffatto rapporto.
Quale negozio di accertamento, il riconoscimento determina in capo al riconosciuto
l’acquisto della titolarità formale della filiazione come conseguenza legale in virtù della
quale il figlio assume tutti i diritti e doveri propri della procreazione legittima.
Tale dichiarazione, i cui effetti sono dalla legge equiparati a quelli derivanti dalla
sentenza dichiarativa di paternità, è attributiva dello status di figlio “ in via irrevocabile e
vincolante, fino a quando lo stesso non venga rimosso con le specifiche impugnative
all’uopo previste” (Cassazione civile 10/08/1991 n. 8751).
La legge non prevede, pertanto, la possibilità di revocare il riconoscimento ma la sua
impugnazione per difetto di veridicità, per incapacità del genitore dichiarante e per
violenza.
L’articolo 263 1° comma del Codice Civile prevede, in primo luogo, che il riconoscimento
possa essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore dell’atto, da colui che è stato
riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse al fine di rimuovere la non corrispondenza
tra la realtà e ciò che è stato dichiarato.
La Corte di Cassazione ha precisato che la relativa azione è “ ammessa in ogni caso in cui
il riconoscimento sia obiettivamente non veridico, a nulla rilevando eventuali stati
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soggettivi di buona o di mala fede del dichiarante”(Cass. 1991 n. 5886); ciò significa che è
proponibile anche quando l’autore del riconoscimento fosse consapevole della
insussistenza del rapporto di filiazione.
La giurisprudenza aggiunge, altresì, che l’azione è imprescrittibile in considerazione della
peculiare natura delle azioni di stato che, in quanto relative a materie dominate da
interessi pubblici, sono sottratte alla disponibilità dei privati.
Oltre, quindi, che dallo stesso soggetto riconosciuto (art.264 C.C.) e sempre per difetto di
veridicità, il riconoscimento può essere altresì impugnato per violenza dall’autore dell’atto
entro un anno dal giorno in cui la violenza è cessata (art. 265 C.C.) e per incapacità di agire
del dichiarante derivante da interdizione giudiziale. In quest’ultimo caso, (art.266 C.C.),
l’azione può essere proposta dal tutore o dallo stesso autore del riconoscimento dopo la
revoca dell’interdizione e l’azione si prescrive entro un anno dalla revoca.
Che la legge non ammetta la revoca del riconoscimento è ribadito altresì da una
pronuncia della Suprema Corte in cui si legge che “l’impugnazione del riconoscimento di
figlio naturale, per difetto di veridicità, da parte del suo autore, ancorchè non richieda la
sopravvenienza di elementi di conoscenza nuovi rispetto a quelli noti al momento della
dichiarazione, non ne costituisce una revoca, di cui l’art. 256 C.C. sancisce il divieto” (Cass.
1993 n. 2269) con la conseguenza che il soggetto impugnante è tenuto alla dimostrazione
giudiziale della non rispondenza al vero, ossia l’inesistenza del rapporto, potendo la
relativa prova essere data con ogni mezzo, anche con presunzioni semplici.
4) L’articolo 278 C.C. contiene un espresso divieto di indagini sulla paternità o
maternità nei casi in cui il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato ai sensi dell’art.
251c.c., perchè relativo “a figli nati da soggetti legati da un vincolo di parentela, anche solo
naturale, in linea retta all’infinito o in linea collaterale nel secondo grado, ovvero un
vincolo di affinità in linea retta salvo che i genitori, al tempo del concepimento, ignorassero
il vincolo esistente tra di loro o che sia stato dichiarato nullo il matrimonio da cui deriva
l’affinità”.
Attesa la ratio del divieto, che è quella di impedire una pronuncia di dichiarazione
giudiziale della filiazione naturale in tutti i casi in cui il riconoscimento sia inammissibile,
si ritiene che il divieto operi anche nei casi in cui il riconoscimento non possa essere fatto
ex art. 253 c.c,
perchè contrastante con lo status di figlio legittimo in cui il soggetto si
trovi, potendo contrastare le risultanze dell’atto di nascita solo mediante un’azione di
disconoscimento, o ancora perchè in contrasto con lo status di figlio naturale acquisito in
virtù di precedente riconoscimento o dichiarazione giudiziale.
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Si è, per contro, riconosciuto che le indagini siano ammissibili ove l’accertamento del
rapporto di filiazione naturale non riconoscibile costituisca una questione pregiudiziale
onde dalla sua soluzione dipende la decisione di una diversa azione, potendo in tal caso
formare oggetto di accertamento incidentale senza efficacia di giudicato; tale è, ad esempio
la situazione che può verificarsi nei casi di impugnazione del riconoscimento ex art. 263
c.c., per difetto di veridicità, quando la prova di tali circostanze richieda l’identificazione
del padre vero.
La Corte Costituzionale ha, però, di recente (22/11/2002 n. 494) riconosciuto la parziale
illegittimità della norma contenuta nell’art. 278 c.c. 1° comma, ossia proprio nella parte in
cui esclude la dichiarazione giudiziale della filiazione naturale e le relative indagini nei casi
in cui il riconoscimento dei figli incestuoso è vietato. La pronuncia muove dal rilievo che la
“capitis deminutio perpetua” ossia la riduzione, definitiva e irrimediabile, di importanza e,
quindi, di tutela, “cui sono esposti i cosiddetti figli incestuosi come conseguenza oggettiva
di comportamenti di terzi soggetti, costituisce una evidente violazione del diritto a uno
status filiationis e del principio costituzionale di uguaglianza”.
Occorre tuttavia precisare che, come si legge in sentenza, “ l’accoglimento della questione
non coinvolge il parallelo divieto di riconoscimento da parte dei genitori che continua a
permanere”.
5) Relativamente alle questioni della titolarità, da parte del figlio naturale, di diritti e
obblighi acquistati a seguito del riconoscimento, compreso quello del diritto al
mantenimento, occorre osservare che la riforma del diritto di famiglia ha inteso operare
una equiparazione pressochè completa tra la posizione del figlio nato in costanza di
matrimonio (legittimo) e quella del figlio nato al di fuori dello stesso (naturale) sancendo
che “ il riconoscimento comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di
tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi” (art.261 c.c.).
Nell’assicurare, dunque, al figlio naturale, riconosciuto o dichiarato, una tutela giuridica
pari a quella riconosciuta ai figli legittimi in ogni campo, la legge di riforma ha accomunato
negli stessi diritti figli legittimi e naturali, prevedendo tale equiparazione anche a favore
dei figli naturali nati anteriormente alla entrata in vigore della riforma stessa.
Dal riconoscimento, pertanto, derivano a favore del figlio naturale tutte le posizioni
giuridiche connesse allo stato di filiazione, in primis l’obbligo di mantenimento che la
giurisprudenza ha costantemente riconosciuto come diritto che sorge ex lege sin dal
momento della nascita e rispetto al quale il genitore ha l’obbligo di provvedervi in
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proporzione delle proprie sostanze, ancorchè il rapporto di filiazione sia stato accertato
successivamente.
L’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli naturali riconosciuti ( minorenni o
maggiorenni non autosufficienti) prescinde, pertanto, a differenza delle prestazioni
alimentari, dal loro stato di bisogno mentre si estingue con il raggiungimento della loro
autosufficienza economica.
Dato il suo carattere essenzialmente patrimoniale e decorrendo dal momento della
nascita, la giurisprudenza ne riconosce la sussistenza anche per il periodo antecedente
l’accertamento del rapporto di filiazione. La Suprema Corte di Cassazione ha ribadito che
dalla stessa nascita decorre l’obbligo di rimborso pro quota dell’altro genitore che vi abbia
provveduto da solo (Cass. 1998 n. 8042 e Cass. 2000 n. 15063).
Va precisato che, essendo un diritto a contenuto patrimoniale, il diritto al mantenimento
si prescrive in cinque anni decorrenti dal giorno del raggiungimento della indipendenza
economica da parte del figlio.
6) Quanto ai possibili provvedimenti conservativi che possono essere adottati a
tutela dei diritti di natura patrimoniale del figlio naturale non è dato rinvenire nello stato
attuale della legislazione alcuna norma che possa fondare una siffatta forma di tutela e ciò
perchè la tutela urgente, di natura anticipatoria, presuppone l’attualità del diritto che si
intende tutelare allorchè vi sia fondato timore che nelle more del giudizio il diritto stesso
possa essere pregiudicato.
Posto, dunque, che la tutela d’urgenza è ammissibile solo in presenza di diritti
preesistenti alla stessa domanda giudiziale, il presunto figlio naturale che abbia chiesto
l’accertamento giudiziale del rapporto del filiazione non può, fino a quando non intervenga
la sentenza dichiarativa, lamentare alcun pregiudizio rispetto ad un diritto non ancora
riconosciuto non essendo configurabili nè il fumus boni iuris nè tantomeno il periculum in
mora.
Del resto, anche i figli legittimi non possono chiedere provvedimenti conservativi sul
patrimonio del genitore. Sia i figli naturali che quelli legittimi possono vantare diritti e
quindi chiederne la tutela a partire dalla morte del genitore naturale o legittimo.
7) Le disposizioni codicistiche dettate in materia successoria, con l’entrata in vigore della
riforma del diritto di famiglia hanno praticamente abolito ogni pregressa differenziazione
tra figli legittimi e naturali.
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Per quanto attiene alla successione necessaria, ossia alla successione che si realizza
anche contro gli atti di disposizione del defunto, la legge ha realizzato tale equiparazione
accomunando i figli legittimi e i figli naturali riconosciuti, nell’unitaria figura dei
legittimari, ossia degli stretti congiunti ai quali è riconosciuta una quota di riserva sul
patrimonio del de cuis, tutelata mediante il riconoscimento del diritto di legittima.
L’art. 536 c.c. sancisce, infatti, che le persone a favore delle quali la legge riserva una
quota di eredità o altri diritti nella successione sono il coniuge, i figli legittimi, ai quali sono
equiparati i legittimati e gli adottivi, i figli naturali e gli ascendenti legittimi; ciò significa
che la legge riconosce loro, indistintamente, un diritto successorio, di fronte ad una diversa
volontà del testatore, avente per contenuto il potere di acquistare, direttamente o mediante
azione giudiziaria di riduzione , beni dell’eredità e beni donati dal defunto fino alla
concorrenza del valore della legittima.
In particolare, l’art. 537 c.c contempla un’apposita riserva a favore dei figli naturali,
prevedendo sia l’ipotesi in cui il genitore lasci un figlio solo, legittimo o naturale, al quale è
devoluta la metà del patrimonio, sia l’ipotesi in cui vi siano più figli ai quali è riservata la
quota dei due terzi, da dividersi in parti uguali.
Nel caso, infine, di concorso del coniuge con un solo figlio, legittimo o naturale,
l’art. 542 c.c. 1° comma, riserva a quest’ultimo un terzo del patrimonio mentre l’altro
terzo spetta al coniuge;
nell’ipotesi, invece, di concorso del coniuge con più figli,
legittimi o naturali, la legge riserva al coniuge un quarto del patrimonio mentre ai figli
è complessivamente devoluta la metà dello stesso da dividersi in parti uguali tra tutti.
I figli legittimi, tuttavia, conservano una posizione privilegiata relativamente alla facoltà
di chiedere l’estromissione dei figli naturali del defunto dalla comunione ereditaria,
mediante la liquidazione delle quote e il pagamento del loro valore. L’art. 537 3° comma c.c
prevede, infatti, l’istituto della commutazione in virtù del quale “i figli legittimi possono
soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che
non vi si oppongano; nel caso di opposizione decide il giudice valutate le circostanze
personali e patrimoniali” degli eredi.
Poichè la commutazione comporta l’estromissione dei figli naturali dalla comunione
ereditaria, la richiesta deve pervenire da tutti i figli legittimi e deve essere rivolta nei
confronti di tutti i figli naturali avendo ad oggetto la porzione di eredità spettante a questi
ultimi.
Analoghe considerazioni valgono per quanto attiene alla successione legittima o ab
intestato, ossia alla successione cha ha titolo direttamente nella legge ove manchi in tutto
o in parte il testamento.
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In tale ipotesi, la legge distingue varie categorie di successibili, (art.565 c.c.) ossia di
qualifiche che distinguono gli aventi diritto alla successione ( coniuge e parenti fino al 6°
grado) fissando al contempo anche le quote; in particolare, l’art.581 c.c., nel caso di
concorso del coniuge con figli legittimi o naturali, stabilisce che al coniuge sia devoluta
la metà dell’eredità se vi è un solo figlio e un terzo negli altri casi, mentre ai figli
spettano globalmente i 2/3 dell’eredità.
Permane anche in tale ipotesi, tuttavia, la possibilità per i figli legittimi di chiedere
l’estromissione dei figli naturali dalla comunione ereditaria, secondo le norme sulla
commutazione prevista nell’ambito della successione necessaria, mentre ai figli naturali
non riconoscibili spetta, nella successione intestata, il medesimo diritto di riserva
costituito da un assegno vitalizio “pari all’ammontare della rendita della quota di eredità
alla quale avrebbero diritto se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta” (art.580
c.c. ).
8) Per quanto concerne l’ipotesi dell’eventuale premorienza del coniuge del presunto
padre, si osserva che i diritti successori del figlio naturale non sono in alcun modo
menomati; ciò in quanto il figlio naturale riconosciuto o dichiarato succede, in relazione
alla sua quota, nell’intero patrimonio del de cuius nella consistenza che questo presenta al
momento della sua morte.
Pertanto, nel caso di premorienza del coniuge, nel patrimonio del presunto padre andrà a
confluire anche la parte di eredità derivante dalla sua successione talchè al momento della
morte del padre naturale i diritti successori del figlio naturale saranno quantificati in
relazione all’intera massa ereditaria.
9) In riferimento alle problematiche relative all’istituto della collazione, va rilevato che
con la previsione di tale istituto la legge ha inteso rispondere ad un’esigenza di pari
trattamento tra tutti i soggetti che concorrono alla successione, configurando un mezzo
giuridico preordinato alla formazione della massa da dividere allo scopo di garantire a
ciascuno degli eredi stessi la possibilità di conseguire una quantità di beni proporzionata
alla propria quota.
La collazione costituisce, infatti, l’atto mediante il quale il coniuge e i discendenti ( figli
legittimi e naturali nonchè i loro discendenti legittimi e naturali) conferiscono nell’asse
ereditario, in natura o per imputazione, tutto ciò che hanno ricevuto dal de cuius in
donazione, sia direttamente che indirettamente, salvo che non ne siano stati dispensati,
anche tacitamente, dal defunto stesso.
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Non sono, quindi, configurabili differenziazioni tra figli legittimi e naturali essendo tutti
contemplati dall’art. 737 c.c quali soggetti tenuti alla collazione nei confronti dei coeredi;
d’altra parte va rilevato che l’obbligo è a carico solo dei donatari, eredi necessari, che
abbiano accettato l’eredità, avendo le loro quote ereditarie per oggetto l’asse ereditario
incrementato dai conferimenti; in caso contrario la legge prevede che nei loro confronti
possa essere esercitata, ove ne ricorrono i presupposti, l’azione di riduzione delle
donazioni, quale strumento di reintegrazione della quota di legittima.
La dispensa dalla collazione, che la legge ammette nei limiti della disponibile ex art. 737
2° comma c.c.,
può consistere in un negozio accessorio alla donazione, può essere
altrimenti contenuta nel testamento o consistere in qualsiasi atto o espressione che indichi
la volontà del defunto di assegnare la liberalità come un beneficio in più rispetto alla quota
ereditaria nella successione legittima: la dispensa, infatti, assegna al donatario un
privilegio rispetto agli altri coeredi in quanto, nei limiti della disponibile, gli consente di
trattenere le donazioni ricevute talchè l’asse ereditario da ripartire tra tutti gli eredi risulta
decurtato in proporzione delle stesse.
La giurisprudenza riconosce la natura di clausola contrattuale della dispensa contenuta
nello stesso atto di liberalità (Cass. 1984 n. 2752); ciò significa che se ne esclude la
revocabilità unilaterale da parte del donante.
L’obbligo della collazione, pertanto, sussiste sempre a carico del coniuge e dei
discendenti che abbiano accettato l’eredità , a nulla rilevando la circostanza che i coeredi
siano stati chiamati per successione legittima o testamentaria e a prescindere dalla entità
dell’asse ereditario: l’obbligo della collazione, infatti, sussiste anche nel caso in cui non vi
siano beni relitti da dividere.
Per contro, il legittimario che sia stato pretermesso dal testatore è tenuto alla collazione
se e in quanto abbia vittoriosamente esperito l’azione di riduzione delle disposizioni
testamentarie lesive della sua quota di riserva; in tal caso, infatti, conseguendo la qualità di
erede è tenuto al conferimento alla stregua degli altri coeredi.
Sono soggette a collazione tutte le liberalità realizzate dal defunto, sia le donazioni
prelevate dalla legittima come anticipo della quota spettante ai legittimari sia quelle
prelevate sulla disponibile e nei limiti di questa; l’obbligo, inoltre, si estende a tutte le
attribuzioni patrimoniali realizzate dal defunto, sia a quelle fatte a titolo di donazione sia
alle donazioni indirette, cioè alle liberalità realizzate mediante atti diversi dalla donazione
che costituiscono pur sempre un arricchimento senza corrispettivo qualificato da un
intento liberale del disponente.
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Rientra nel novero delle donazioni indirette, ad esempio, il negozio di compravendita di
un immobile nel quale il de cuius abbia fornito al donatario il denaro occorrente per il
pagamento del prezzo con la conseguenza che il beneficiario deve provvedere alla
collazione mediante l’imputazione, nella propria quota, del valore che il bene ha al
momento dell’apertura della successione, e corrispondendo in denaro agli altri coeredi
l’eventuale eccedenza, o mediante la restituzione in natura: ovviamente andrà data la
prova rigorosa di tale provvista.
La legge, infatti, prevede che il conferimento debba farsi per imputazione ( artt. 746
c.c , 747 c.c ) se la donazione ha avuto ad oggetto beni immobili alienati o ipotecati, in
caso contrario il beneficiario ha la scelta, da farsi mediante dichiarazione scritta, tra
l’imputazione del valore e la restituzione del bene.
Il conferimento deve sempre avvenire per imputazione se si tratta di beni mobili
(art. 750 c.c. 1° comma)
corrispondendo il valore (di mercato) che essi avevano al
momento dell’apertura della successione; la legge precisa che la determinazione del valore
dei titoli di stato e degli altri titoli quotati in borsa nonchè delle derrate e delle merci si
realizza in base ai listini di borsa e alle mercuriali del tempo dell’apertura della successione
( art. 750 ultimo comma c.c.).
In caso di collazione di un’azienda, l’imputazione deve farsi avuto riguardo al valore non
dei singoli beni ma a quello unitario del complesso aziendale al tempo dell’apertura della
successione; non è, invece, dovuta collazione di ciò che si è conseguito per effetto di società
contratta senza frode tra il defunto e alcuno degli eredi se le condizioni sono state regolate
con atto di data certa. ( art 743 c.c. ); sono parimenti escluse le spese di mantenimento e di
istruzione, quelle sostenute per malattia, quelle ordinarie per abbigliamento e nozze,
nonchè le donazioni di modico valore fatte al coniuge e le liberalità fatte in occasione di
servizi resi o in conformità agli usi ( ex art. 770 2° comma c.c. ).
Sono, invece, soggette a collazione ( ex art. 741 c.c.) tutte le assegnazioni fatte dal de
cuius a favore dei propri discendenti a causa di matrimonio, per l’avviamento all’esercizio
di attività produttiva o professionale o per soddisfare premi relativi a contratti di
assicurazione
sulla
vita.
La legge prevede l’obbligo della collazione per imputazione anche delle somme di denaro
mediante il prelevamento dall’asse ereditario, da parte degli altri coeredi, di una
corrispondente quantità di denaro in proporzione delle rispettive quote; ove l’asse
ereditario
non risulti sufficiente e il beneficiario non voglia eseguire il conferimento
mediante il pagamento in denaro o titoli di Stato secondo il loro valore nominale, i coeredi
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possono prelevare beni mobili o immobili ereditari sempre in proporzione delle rispettive
quote ( art. 751c.c).
Per quanto concerne l’ipotesi se una modifica nella cointestazione dei conti correnti a
favore dei figli legittimi possa integrare una fattispecie di donazione indiretta, la
giurisprudenza di legittimità insegna che la cointestazione, con firma e disponibilità
disgiunte di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito e appartenuta,
all’atto della cointestazione, ad uno solo dei cointestatari integra una donazione indiretta
del 50% della detta somma di denaro. (Cass. 1999 n. 3499).
Poichè la donazione indiretta attua, attraverso un diverso schema negoziale, il tipico fine
di liberalità che è proprio del contratto di donazione, è possibile che nell’ambito di un
procedimento negoziale complesso l’intento liberale possa essere realizzato anche
mediante la contitolarità di un contratto di deposito titoli; in tal modo la donazione
indiretta risulta valida se presenta la forma propria del singolo negozio scelto per
effettuare l’attribuzione talchè la stessa si realizza con la cointestazione di libretti di
deposito bancario e successivi versamenti di somme di denaro anche indipendentemente
dalla consegna materiale dei libretti da parte del donante.
In ogni ipotesi di cointestazione, però, la donazione va ritenuta al 50% del valore del
titolo.
10) Gli strumenti di tutela predisposti dalla legge in materia successoria non
consentono di operare una distinzione in riferimento ai diversi tipi di filiazione.
La tutela codicistica contempla, infatti, una serie di azioni volte a garantire i diritti
successori di tutti i legittimari di fronte a disposizioni testamentarie o a donazioni lesive
del diritto di legittima.
Una volta introdotti, da un lato, l’istituto della quota disponibile e quello della riserva
ereditaria dall’altro, la tutela di tutti i legittimari, indistintamente, si realizza attraverso la
proposizione delle azioni di riduzione volte alla reintegrazione nella quota di riserva previa
determinazione della disponibile.
In tale ottica, l’art. 553 c.c prevede che nel caso di successione legittima ove con i
legittimari concorrano altri successibili, “le porzioni che spetterebbero a questi ultimi si
riducono proporzionalmente nei limiti in cui è necessario per integrare la quota riservata ai
legittimari..”
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Allo stesso modo, gli articoli 554 c.c e 555 c.c prevedono rispettivamente, la riduzione
delle disposizioni testamentarie e delle donazioni eccedenti la quota di cui il de cuius
poteva disporre, nei limiti della quota medesima.
Allo stato attuale della legislazione e, considerando lo spirito che ha accompagnato la
riforma del diritto di famiglia, l’unico strumento che può essere utilizzato per realizzare
una maggiore tutela indiretta dei figli legittimi può consistere nel prevedere nel
testamento del coniuge del presunto padre che la propria quota disponibile vada ai soli figli
legittimi.
In vita del de cuius, poi, è opportuno che eventuali spostamenti di denaro dai c/c non
siano un giorno ricostruibili, e cioè che avvengano tramite plurimi passaggi, mentre
eventuali conferimenti immobiliari avvengano mediante acquisti diretti, da parte dei figli
legittimi, di beni immobili da terzi con denaro in nessun modo riconducibile al genitore.
Dott.ssa Alessandra Teresi
(marzo 2003)
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