Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2013 19 edizione

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Premio Letterario "Federico Ghibaudo" anno 2013 19 edizione
Liceo
Scientifico
"Frisi"
Monza
Premio
Letterario
Federico Ghibaudo
9/5/80 - 9/1/95
"Federico
Ghibaudo"
Liceo Scientifico
"Frisi" -1a G - a.s.94/95
Gerardiana Basket
Monza
anno 2013
19 a edizione
Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
anno 2013 - 19a edizione
“L’INDICE”
1° premio
2° premio
Gabriele D’Errico
Alice Colombo
4a - B pag.
5a - D pag.
Premi giuria
“
Beatrice Costa
Marco Vergani
Camilla Commissati
Martina Monti
Lara Gallarati
5a - B
4a - E
2a - C
4a - G
5a - G
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9
10
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altri componimenti
in ordine di presentazione:
Valeria Agostini
4a - A
Chiara Bosisio
5a - A
Daniele Angioletti
5a - E
Camilla Mrad
2a - D
Antonio Scannella
5a - H
Penya Cavallini
3a - E
Camilla Poloni (Zucchi) 3a - A
Davide Poloni
2a - C
Emanuele Malpezzi
5a - H
Giuseppe Galbiati
4a - F
Clara Rossi
5a - A
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Premio Letterario "Federico Ghibaudo"
anno 2013 - 19a edizione
“ELENCO FINALISTI PRECEDENTI EDIZIONI”
1995
1° Classificato
2° Classificato
3° Classificato
Alexandra Bonfanti
Loredana Lunadei
Arianna Ferrario
2a F
2a G
1a G
1996
1° Classificato
2° Classificato
3° Classificato
Martino Redaelli
Elena Cattaneo
Marika Pignatelli
4a A
4a G
3a C
1997
1° Classificato
2° Classificato
3° Classificato
Niccolò Manzolini
Matteo Pozzi
Elena Cattaneo
4a A
3a I
5a G
1998
1° Classificato
2° Classificato
3° Classificato
Lorenzo Piccolo
Matteo Pozzi
Lucia Gardenal
4a A
4a I
2a I
1999
1° Classificato
2° Classificato
3° Classificato
Dacia dalla Libera
Lorenzo Piccolo
Vincenzo Calvaruso
3a E
5a D
3a H
2000
1° Classificato
2° Classificato
3° Classificato
Giulia Pezzi
Dacia dalla Libera
Cristina Sanvito
4a G
4a E
4a D
2001
1° Classificato
2° Classificato
3° Classificato
Tiziano Erriquez
Giorgia di Tolle
Chiara Grumelli
4a D
4a D
4a A
2002
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Alessandro Sala
Federica Archieri
Caterina Cenci
Alessandro Dulbecco
4a H
5a L
4a H
3a C
2003
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Alesssandro Farsi
Cristina Pozzi
Alessandro Dulbecco
Pietro Spinelli
5a E
3a D
4a C
4a B
2004
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Margherita Corradi
Riccardo Tremolada
Paola Molteni
Pietro Spinelli
2a L
2a L
5a F
5a B
2005
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Margherita Corradi
Paolo Marchiori
Roberta Motter
Veronica Merlo
3a G
2a F
3a G
3a G
2006
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Armando Petrella
Andrea Guadagnino
Veronica Merlo
Gabriele Bambina
2a C
5a B
4a G
4a F
2007
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Gabriele Bambina
Lorenzo Pasciutti
Francesca Montanari
Matteo Goggia
5a F
3a D
3a A
5a G
2008
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Lucca Cazzaniga
Paolo Marchiori
Lorenzo Pasciutti
Alice Spreafico
5a E
5a F
4a D
5a H
2009
1° Class. poesia
2°
1° Class. prosa
2°
Giona Casiraghi
Claudio Rendina
Sveva Anchise
Riccardo Galli
5a H
5a B
3a H
5a F
2010
1° Classificato
2° Classificato
Alessandro Boggiani
Vanja Vasiljević
5a B
3a C
2011
1° Classificato
2° Classificato
Stefano Franzini
Clara Rossi
4a D
3a A
2012
1° Classificato
2° Classificato
R.Luigi Pessina
Gabriele D’Errico
5a H
3a B
Concorso Letterario "Federico Ghibaudo"
anno 2013 - 19a edizione
“LA GIURIA”
Luca Frittoli
Letizia Mariangeli
Maria Luisa Nardo
Lorenzo Giordano
Elia Cavallo
Alba Sommerschield
Pietro Bonomi
Dario Pagano
Gianluca Donatello
5a - A
5a - B
5a - D
5a - G
5a - F
5a - E
5a - H
4a - E
4a - E
“IL CONCORSO”
Il concorso è riservato agli studenti del Liceo “Frisi” ed ha
un grosso difetto, i vincitori ufficiali sono pochi, mentre ogni
partecipante, che ha messo nero su bianco le sue idee, le sue
esperienze, la sua fantasia, la sua anima, per farle conoscere
agli altri, ogni partecipante, è un vincitore.
Ma le regole consolidate per i concorsi, che sono poi le
stesse che spingono a partecipare, richiedono una classifica
che, per le innumerevoli varianti in campo, non potrà che
essere imperfetta.
I componimenti sono quelli originali, non è stato previsto
nessun intervento sugli stessi da parte di nessuno, con
l’obiettivo di non creare interferenze di nessun genere sulla
spontaneità degli elaborati.
Invitiamo pertanto ogni singolo lettore a trovare il SUO
componimento preferito e a far suo lo stile ed il messaggio in
esso contenuto. Questo concorso vuole infatti proporsi come
punto di ritrovo, come un punto di confronto, una palestra
per idee, sentimenti ed emozioni.
“INTERNET”
I testi di tutti i concorsi, dal primo fino all’attuale
si possono trovare su internet al seguente indirizzo:
http://www.premio-liceofrisi.it
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“LA BIBLIOTECA”
in biblioteca sono disponibili
per la consultazione,
i fascicoli delle precedenti edizioni del Concorso...
...oltre una copia dei seguenti libri premio:
1996
L’Alchimista - Paulo Coelho - Bompiani
1997
Messaggio per un’aquila che si crede un pollo
Istruzione di volo per aquile e polli - Antony de Mello..-..Piemme
1998
Il viaggio di Theo - Catherine Clèment - Longanesi
1999
Abbiate coraggio - Francesco Alberoni -
2000
Perchè credo in Colui che ha creato il mondo
Antonio Zichicci - il Saggatore
2001
Il mondo di Sofia - Jostein Gaarder - Longanesi
2002
Il tao della fisica - Fritjof Capra - Adelphi
2003
L’universo in un guscio di noce - Stephen Hawking - Mondadori
2004
Storia della Filosofia Moderna da Cartesio a Kant
Luciano De Crescenzo - Mondadori
2005
Che cosa sappiamo della mente - Vilayanur S.Ramachandran - Mondadori
2006
Menti curiose - John Brockman - Codice Edizioni
2007
2008
Alla ricerca delle coccole perdute
Come diventare un buddha in cinque settimane
Giulio Cesare Giacobbe - Ponte alle Grazie
Complessità - Morris Mitchell Waldrop - Instar Libri
2009
L’io della mente - D.R.Hostadter e D.C.Dennet – Adelphi
2010
L’impero greco-romano - Le radici del mondo globale – Paul Veyne - Rozzoli
2011
La Patria, bene o male – Carlo Fruttero e Massimo Gramellini – Mondadori
2012
I discorsi che hanno cambiato il mondo – White Star
2013
Dietro le quinte della storia – Piero Angela Alessandro Barbero - Rizzoli
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
Primo Classificato
“LE MANI DELLA NOTTE”
di Gabriele D’Errico - 4a B
L’ingenua semplicità
Che ti avvolgeva il sorriso
Hai perso negli anni
Ormai persi a cercare le mani
Della notte,
Che con affusolate dita di seta ti mordeva le labbra.
E il chiaro di Luna acceca ancora le tue lenti,
Così graffiate e malmesse,
Che la sua luce rifratta sembra raggi infiniti,
Che penetrano i vichi più bui della tua mente.
Ancora ti guardo mentre miope passeggi
Per la piazza vermiglia,
Senza vedere me, la tua notte
Che solo aspetto il calar del sole
Per sfiorarti ancora una volta,
L’ultima prima che tu
Mi abbandoni,
Sognando ancora quella notte.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
Secondo Classificato
“MARIO MANINI”
di Alice Colombo - 5a D
Mario Manini, classe 1921.
La mia casa non è questa, la mia casa è molto distante da qui. La mia casa è in mezzo alle
risaie, dove i bambini giocano con le rane e corrono dietro alle lepri, ogni pomeriggio, tutto il
pomeriggio. Mia madre non voleva che passassi troppo tempo all’aperto nei mesi estivi,
perché in Piemonte l’estate è piena di moscerini: se stai immobile un solo secondo ecco che te
ne ritrovi uno sciame appoggiato sul braccio. L’Agosto della collina è caldo bollente, l’umidità
ti toglie il fiato, ti soffoca, ti stritola, ti provoca una fiacchezza immane, la voglia di gettarti
sull’amaca e di risvegliarti a settembre, giusto in tempo per la vendemmia.
Quando penso a me da bambino mi viene da ridere, mi fa quasi tenerezza quel ragazzetto
magro e ciondolante, con una testa troppo grossa per essere sorretta da un collo così sottile,
ma con le mani abbastanza piccole da essere il più veloce separatore di lolla del circondario.
Sarà la vecchiaia, sarà che la memoria si annebbia insieme alla vista, ma ogni tanto mi sembra
di non aver mai vissuto quelle giornate. Mi sembra di aver letto uno splendido libro
ambientato in un luogo lontano e di essermi immedesimato nel suo protagonista, facendo
miei i suoi gesti, i suoi movimenti, le sue parole ma senza riuscire davvero a leggere in fondo
alla sua anima. Questo ragazzo aleggia in una nuvola di luce calda, umidiccia e piena di
zanzare, e viene a trovarmi nelle prime ore dei pomeriggi estivi che passo sprofondato nella
mia bellissima poltrona sulla mia bellissima veranda nel bellissimo agosto della bellissima
Milano. Lui viene e mi conforta, mi mette una mano sulla spalla e mi dice di smettere di
leggere quegli enormi libri di guerra che mi mettono tanta tristezza, mi dice di smettere di
fumare la pipa trovata cinquant’anni prima su un sentiero tra i boschi, mi dice di smettere di
riflettere su un passato che, grazie al cielo, è passato.
Allora, quando a Teresa ancora non tremava la voce, quando le sue mani erano coperte di un
soffice strato di carne avvolto da pelle bianca, morbida, in cui si intravedevano le vene violette
in cui pulsava la vita, allora sì che era diverso. Malattia e dolore si portano via la dolce
compagna della mia esistenza, ogni giorno se ne appropriano un poco di più; disprezzo questi
amanti indesiderati dai volti misteriosi che accarezzano mia moglie per privarmi della sua
presenza, ma contro loro non posso nulla.
Ora è taciturna, il cuscino sulla sua poltrona ha ripreso la forma che aveva quando lo abbiamo
comprato, mentre io, fedele al mio compito, non gli permetto di tornare soffice e rigonfio.
Deve sentire il peso degli anni e della malinconia, perché io non sono in grado di sopportarlo
da solo, ho bisogno che almeno un paziente spettatore rimanga ad ascoltare le vecchie storie
di un pover’uomo che vive solo del suo passato. Le mie gambe erano secche e striminzite ma
non si spezzavano mai, erano canne di bambù. Ero in grado di camminare instancabilmente
per ore, sui sentieri impervi che serpeggiano tra le Langhe, la mia casa. Le chiamo casa ma
dovrei chiamarle famiglia, perché mi hanno nutrito e protetto per tutta la vita, soprattutto da
quando la mia famiglia anagrafica ha dovuto trasferirsi in città, dopo che i fascisti hanno
occupato il mio paesino. Io non me ne sono andato, ho deciso di rimanere con quelli giovani e
speranzosi, con quelli che nelle loro idee ci credevano e pur di non macchiare la tela candida
della loro anima rischiavano di farsi ammazzare. Non so mentire a me stesso, sarò pure stato
un camminatore, un arrampicatore, uno scalatore ma le mie mani erano troppo piccole per
stringere l’arma che portavo appesa alla cintura. Quando mio cugino mi ha arruolato nella sua
brigata il mio compito doveva essere esplorare luoghi ancora sconosciuti, trovare sentieri
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agevoli e non ancora battuti per passare più velocemente da una città all’altra, evitando le
zone controllate dalle pattuglie che vigilavano i paesi occupati. Ne andavo fiero come se già
avessi indosso una medaglia al valore, la medaglia al valore che in realtà non ho mai ricevuto.
Io la pistola l’ho toccata due volte: una per infilarla nella fondina quando mi è stata
consegnata, e una per tirarla fuori quando la disumana ingratitudine ci ha chiesto di
riconsegnare ogni bene fornitoci per combattere per la causa. Non che mi dispiacesse dire
addio ad un pezzo di ferro che penzolava inutilmente dalla mia cintura, ma era una questione
di principio. Così dicevo allora. E protestavo insieme ai miei compagni, protestavo perché non
avevamo ricevuto riconoscimenti ufficiali e nemmeno ufficiosi, protestavo perché mi ero
allontanato dai campi per combattere e ci dovevo ritornare senza uno straccio di soldo, o un
lavoro, o un vestito pulito. Nel cuore sentivo una fiamma che ardeva, che mi scuoteva, che mi
divorava e non potevo far altro che obbedire ai suoi comandi, anzi, desideravo con tutto me
stesso essere ai suoi ordini, mi sarei fatto ridurre in polvere pur di esserle fedele: dovevo
difendere me stesso, il mio onore, la giustizia. Adesso capisco tutti coloro che se ne sono
fregati di me e delle mie ragioni. Abbi pure tutta la buona volontà che Nostro Signore è
disposto a concedere, ma se hai le mani troppo fragili per sollevare un mattone senza
graffiarti, è tutto inutile.
Dopo tanti anni mi volto indietro e sorrido davanti a tutta quell’energia, quella grinta, quella
forza di volontà che mi agitava, che arrivava a consumarmi.
Osservo la mia mano che si muove lenta e sgraziata su questo foglio: sento solo desolazione.
Ho scritto queste parole perché è un pomeriggio di agosto, Teresa è a letto e il ragazzino del
libro è venuto a farmi visita. Si è seduto sulla poltrona di fronte alla mia e con i gomiti
appoggiati sulle ginocchia, le gambe penzoloni, mi ha annunciato che sarebbe stata la sua
ultima visita. Mi ha chiesto di scrivere per lui qualche parola su di me, sulla mia storia, sul mio
ieri. Ha detto che voleva portarla con sé per ricordarsi al meglio proprio di me, di questo
stupido anziano. Ma ora sulla poltrona non vedo più nessuno, dev’essersene andato senza dire
nulla.
Conservo questa lettera per quando tornerai, ragazzino, so che tornerai.
P.S. Perdona la calligrafia ma questa mano non ha mai saputo stringere niente con fermezza,
nemmeno una penna.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
Premio Speciale Giuria
“SE VUOI TI ACCAREZZO”
di Beatrice Costa - 5a B
Mi tenevi le mani
quando, piccola e illesa,
cercavo sostegno nella tua salda presa.
Dolce, decisa, non pensavi al domani
confidavi nel destino, mi stringevi le mani.
Ci tenevamo le mani
in una veloce giravolta,
il sole splendeva, la luce dissolta.
Andiamo veloci, non pensiamo al domani
confidiam nel destino, ci stringiamo le mani.
Ti tenevo le mani
in quella camera vuota.
La luce accecante, il mio cuore si svuota
per donarti la forza, o almeno provare
a pensare al destino senza mollare.
La vita scivola giù dalle dita,
sgorga dal corpo, non è più custodita.
È troppo il dolore che mi soffoca il cuore:
il destino ha spento il tuo giovane ardore.
Parole amare, parole di fuoco,
preghiere al cielo dissolte nel vuoto.
Unghie nei cuscini come fanno i felini.
Nel pianto ho soffocato i ns. destini.
La speranza è spezzata, stordita.
Delle mani non restano neppure le dita
da poterci sfiorare, per poterci parlare
di sensazioni occultate, emozioni troncate.
Parlami ora, vienimi appresso
della memoria sono ancora in possesso.
Ne sento il bisogno, se vuoi ti accarezzo
nonostante le mani non siano più il mezzo.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
Premio Speciale Giuria
“PAURA DI NON DAR UNA MANO”
di Marco Vergani - 4a E
Forse erano quelle tarde ore
che, pigre del presente fuggivano
e cedevano il passo alla cieca notte.
Sentivo un torpore.
Forse eran i cupi sguardi inquieti
di chi una notte ha vissuto, malsana euforia
per dimenticare la triste vita del giorno.
Sentivo un tremore.
Forse eran di una donna da drammi scolpita
seduta sul ciglio della giungla di metallo tagliente
che implorava carità ai viandanti, tese tremanti le mani.
Sentivo un timore.
Timore di non saper ascoltare
singhiozzando di mano in mano il grido,
ultimo slancio di disperazione oppressa nel cuore.
Tremavo guardar ignorata la mano
ultimo appiglio, estremo saluto
fiaccola di speranza ardente arsa tra i ciechi.
Assopito in un fiume in piena ero
ma il torpor dal sonno m’assalì
e infin quella mano, dalla cecità, gli occhi aprì.
Furon dunque quelle che mi svegliaron
dal sonno immenso, dal grigio grigior
della vita senza più vita che sol era esistenza.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
Premio Speciale Giuria
“LE SUE MANI...”
di Camilla Commissati - 2a C
Mani per accarezzare, mani per pregare, mani per toccare, mani per afferrare, mani per
sollevare, mani per salutare, mani per alzare, mani per sostenere, mani per ringraziare, mani
per portare, mani per abbracciare, mani per cucinare, mani per coprire, mani per regalare,
mani per curare, mani per piangere... le sue mani.
La sera calda ci avvolge di un tiepido calore. Io e mamma siamo sedute sul divano accoccolate
tra le nostre braccia. Le mani dolci mi accarezzano e dentro il suo abbraccio percepisco il suo
affetto, la sua paura. Paura che la fa tremare quando sentiamo la porta sbattere con grande
furia e cattiveria.
Un brivido.
Un sussulto.
Un ricordo.
Un obbligo.
Il corpo della mamma si irrigidisce e mi stringe più forte. Io so che non posso scappare dalle
mani dell’uomo che è entrato, di quell’uomo che è mio padre. Mi vede, mi afferra, mi
strattona e mi butta per terra.
Mamma è immobile, incapace di reagire agli insulti e agli schiaffi, dati da quelle mani brutali
senza amore, tatto, riservatezza. Mani grandi, che lasciano sulla mia pelle liscia e fredda lividi
viola e incurabili, che il tempo fa svanire e ritornare con la stessa velocità con cui una bufera
di vento spazza la sabbia, lasciando sulla terra solo rimasugli di quella che una volta era una
città, una vita.
Il mio cuore batte forte, quasi voglia uscire da questo corpo e lasciare questa vita così irreale,
insignificante. Sento il suo sguardo addosso e i miei occhi non possono fare altro che
abbassarsi. Non voglio vederlo, non voglio annusare il suo profumo.
Il suo tocco violento mi fa sussultare, un gemito viene soffocato da quegli strumenti, una volta
usati con amore e ora solo con cattiveria, ripugnanza.
Passano le ore di violenza e io vado nel mio letto e mi avvolgo ancora tremante e impaurita
sotto le coperte.
Pianto.
Rabbia.
Chiudo gli occhi e sogno soltanto le sue enormi mani, che mi spaventano.
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Mani che sembrano sproporzionate dal resto del corpo, troppo grandi per una persona, troppo
violente per un padre, troppo ruvide per una carezza, troppo... paurose.
Apro gli occhi. Non riesco a dormire. Guardo le mie mani. No, le mie non sono come le sue, le
mie non faranno del male, le mie sono piccole, desiderose di aiutare, di abbracciare, di
liberarsi da questa prigionia.
Guardo il mio corpo.
Dolore.
Vergogna.
Come tutte le notti non dormo, ma rimango a guardare il soffitto. Vorrei chiudermi in camera
e non uscire più. Non voglio che qualcuno mi veda così. Sono uno schifo, un oggetto che viene
regalato a qualcuno che non apprezza e che mette da parte, ricordandosi di quello solo nei
momenti in cui serve e maledicendo il giorno in cui gli è stato regalato.
Mattina.
La sveglia suona. Mi alzo, vado allo specchio e non vedo altro che due enormi occhiaie. Non
voglio uscire, ma è domenica e c’è l’abituale pranzo dai nonni. Indosso i primi vestiti che trovo
ed esco.
Lui non c’è.
Siamo solo io e mamma.
I nonni ci accolgono con il loro solito sorriso, un sorriso affettuoso, caldo come le loro mani.
Mangiamo. Sento lo sguardo del nonno addosso, i suoi occhi mi fissano. Mi chiede della
scuola, degli amici, dei primi amori. Io non amo, nessuno ama me.
Il pranzo finisce. Il nonno mi guarda ancora e con una scusa mi porta a fare un passeggiata.
Mi chiede se va tutto bene a casa e io rispondo di si.
Silenzio.
La testa pulsa, non riesco a mentire al nonno, lui deve sapere che non va tutto bene, non
posso non dirglielo.
Prendo coraggio, so che è il momento giusto, so che il nonno capirà, devo solo riuscire a
pronunciare quelle due parole, che mi fanno sussultare e richiamano alla memoria le sue
mani.
“Il Papà ci picchia, ci violenta.”
Il nonno si ferma, mi guarda e io gli spiego la situazione.
Mi prende per mano.
Le sue mani sono calde, forti, sicure, rassicuranti.
Torniamo a casa. Il nonno parla alla mamma e lei scoppia a piangere. Ha paura, lo supplica di
non dire niente, di non fare niente. Ma egli è deciso, è un uomo vero, non ci fa del male, ci
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vuole bene.
La casa è fredda e si sente solo il rumore della televisione accesa.
Avviene il solito rituale, spero per l’ultima volta. L’aveva detto il nonno di non tornare a casa,
di stare li con loro, ma la mamma era troppo spaventata, sapeva che se non fossimo rientrate
sarebbe arrivato a prenderci.
Nel letto mi vengono in mente molti pensieri, non vedo l’ora di domani per andare dal nonno.
Ha detto che avrebbe sistemato tutto. Io mi fido di lui, è la mia speranza.
Mattina.
Il nonno suona alla porta, sapendo che papà era andato al lavoro. Io scendo, mamma non
vuole. Perché non riesce a capire che il nonno ci sta aiutando? Perché non vuole liberarsi di
quell’uomo che le fa del male?
Siamo davanti ai Carabinieri. Il nonno mi prende per mano e sento nella sua stretta tutto
l’amore e la sicurezza che possiede.
Entriamo.
Dopo un lungo interrogatorio usciamo.
Sono ancora stretta nelle mani del nonno. Mani grandi e consumate dagli anni di lavoro; mani
soffici come quelle di un bambino che ti accarezzano ad ogni passo; mani profumate che ti
fanno sentire a casa; mani amorevoli, dolci, protettive, calme, sincere, affidabili, come quelle
mani che dovrebbe avere un padre.
Il nonno sorride e io non posso fare altro che imitarlo, perché alla fine quelle mani vere e
sicure mi hanno aiutato a vincere.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
Premio Speciale Giuria
“QUELLE MANI DA UN LATO SCURE E
DALL’ALTRO CHIARE. CHISSÀ MAI PERCHÉ”
di Martina Monti - 4a G
«Spara!» ordinò la voce virile del capitano.
Tupac strinse il fucile tra le mani, che però tremavano terribilmente. La sua fronte era
imperlata di sudore, e quando il suo dito scivolò sul grilletto, un brivido gli percorse la
spina dorsale. Tutto ciò che vedeva era un nero infinito. Dalla benda che gli era stata
stretta sugli occhi non trapelava neppure un blando raggio del sole radioso che brillava
sempre folgorante, in quella regione.
«Spara!» ripeté il capitano, imperioso.
Tupac non credeva che ce l’avrebbe fatta. Cercò di brandire il fucile con più sicurezza,
impugnandolo saldamente, ma le sue mani continuavano a tremare.
«Non ho tempo di aspettare!» esclamò il capitano. «Quest’uomo merita di morire, e tu sei
un soldato, e i soldati combattono per la libertà contro il male! Quest’uomo ha fatto il
male e merita di morire!»
Tupac strinse le palpebre, poi finalmente sparò.
Un colpo. Un grido di dolore. Poi una violenta pacca sulla spalla. Il capitano gli strappò
via la benda, e il sole accecante ferì gli occhi di Tupac. Il ragazzo dovette sbattere più
volte le palpebre, prima di riuscire a discernere davanti a sé un uomo piegato su se
stesso, i vestiti impregnati di un liquido cremisi.
«Portatelo via» comandò il capitano con noncuranza.
Due uomini sollevarono il cadavere e si allontanarono dallo spiazzo. Tupac restò a
osservare il punto in cui prima giaceva l’uomo, privo di vita. L’uomo che aveva ucciso. Di
lui restava soltanto una pozza rosso scuro.
Tupac ingoiò la minestra con avidità. Era fredda, verdognola e non emanava un odore
invitante, ma dovette adeguarsi. Affondò di nuovo il cucchiaio nella ciotola e mandò giù
un’altra sorsata di brodo.
Provò a pensare a qualcosa di felice, ma niente sostituì l’immagine di quell’uomo che quel
giorno aveva visto il sole per l’ultima volta. Nella mente di Tupac, quel ricordo era
limpido come acqua di sorgente, doloroso come una stilettata nel ventre. Cosa avrebbero
detto mamma e papà, e i suoi fratelli e le sue sorelle? Ormai non importava più, si disse,
quei volti appartenevano al passato, un passato lontano e confuso come un sogno.
***
Jack sollevò pigramente le palpebre, e fu un’amara delusione rendersi conto di trovarsi
ancora nella sua stanza d’ospedale, nel suo letto scricchiolante, con quell’odore di etere
che si insinuava nelle sue narici. Aveva fatto un sogno, uno di quei sogni così belli e così
veri da cui non vorresti mai svegliarti. Nel sogno, Jack si dondolava su un’altalena, in un
prato infinito, verde brillante. Nel sogno, Jack aveva le mani. Sì, le mani. E delle dita,
delle unghie, dei polpastrelli, delle impronte digitali. Con le sue mani si aggrappava alle
corde dell’altalena, e così era sicuro di non cadere. Jack abbassò lo sguardo sulle sue
braccia. I polsi terminavano tondeggianti e inutili.
Jack era convinto che ogni persona avesse un sogno, per dare un senso alla propria vita.
Il suo, però, non poteva essere realizzato. Aveva sentito parlare di strane operazioni, le
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protesi, o forse protasi, non si ricordava, con cui anche chi non aveva un braccio, una
gamba, poteva utilizzarne uno finto. Ma costavano troppo, e lui non aveva neanche un
soldo. E non poteva guadagnarli, perché la sua malattia non gli permetteva di andarsene
dall’ospedale, dato che doveva essere sottoposto continuamente a controlli e trasfusioni.
Un’infermiera entrò nella stanza e portò a Jack la colazione, su un vassoio di plastica. Si
sedette sul letto accanto a lui e iniziò a imboccarlo. A Jack non piaceva essere imboccato,
si sentiva un incapace, e anche un parassita. Forse sarebbe stato meglio per tutti se non
fosse mai nato.
“Ecco qui” disse l’infermiera quando ebbe finito, e se ne andò rivolgendogli un sorriso
quasi meccanico, come se qualcuno le avesse ordinato di farlo.
Jack rimase solo, di nuovo. Accanto al suo letto, ce n’era uno vuoto. L’ultima persona che
l’aveva ospitato era un uomo sulla sessantina, che poi dopo alcuni giorni era stato
dimesso. Sebbene cercasse sempre di instaurare un dialogo con quelli che di volta in
volta dividevano la stanza con lui, non aveva neppure un amico. Le poche persone a cui
si affezionava, poco dopo se ne andavano e lui non le rivedeva mai più.
Jack immaginava sempre la vita dei ragazzi normali della sua età, quelli sani e con le
mani.
Andavano a scuola, forse, poi giocavano a pallone, avevano degli amici, si innamoravano
e ridevano insieme. Jack non si era mai innamorato, e non era mai riuscito a capire che
cosa volesse dire. Come non sapeva cosa volesse dire avere dei genitori, o essere come
tutti gli altri, con la pelle scura. Si era chiesto sempre come mai la sua pelle era così
diversa, pallida, quasi esangue, e i suoi occhi così chiari, azzurri e non marrone scuro o
neri come quelli di tutti. Si sentiva strano, un estraneo in quel mondo, come se fosse
stato uno sbaglio, un errore che la Natura aveva distrattamente compiuto. In fin dei
conti, che utilità aveva la sua esistenza? Chi avrebbe sentito la sua mancanza se quel
letto fosse stato occupato da un altro paziente? Jack era fermamente convinto che la sua
vita non avesse un senso, che quando sarebbe morto nessuno se ne sarebbe accorto, e
tutti avrebbero continuato a vivere come se non fosse accaduto nulla.
Osservò i suoi polsi privi di mani, poi reclinò il capo sul cuscino e chiuse gli occhi. Provò
a viaggiare con l’immaginazione. Ora era di nuovo sull’altalena, ora era felice.
***
«Dovresti esserne fiero, Tupac” lo incoraggiò Zuri, un ragazzo dal naso simile a una
locomotiva che dormiva nel letto sopra di lui.
«Che orgoglio dovrei avere? Ho ucciso una persona” replicò Tupac, con le lacrime agli
occhi.
«Io ne ho uccise un sacco! E sai che ti dico? Sono davvero compiaciuto di ciò che ho
fatto. Mi sono arruolato di mia spontanea volontà nell’esercito, all’età di quattordici anni.
Prima vivevo per strada, e non era per niente una bella vita. Adesso combatto per la
libertà. Adesso aiuto la nostra patria, e questo è importante. Io sono qualcuno adesso,
qualcuno che fa la storia».
«Sei qualcuno? E per chi, per il capitano?» disse Tupac, ricacciando indietro una lacrima
bollente.
«Il capitano si è complimentato con me» lo rimbrottò Zuri.
«Come se gliene importasse qualcosa di te» obiettò un altro ragazzo.
«Io ho contribuito nella guerra” protestò Zuri. «Quelle persone meritavano di morire».
«Parli proprio come il capitano” gli fece notare Tupac.
«Beh ho imparato dal migliore» eccepì Zuri, con una punta di irritazione.
«Oppure hai imparato a fare la marionetta» disse Tupac, e si girò dall’altra parte.
«Come ti permetti, marmocchio! Hai quindici anni, e io ne ho diciotto! Quindi non hai il
diritto di parlarmi in questo modo!” inveì Zuri, e scese dal letto con un balzo.
«Lasciami dormire» disse Tupac in tono pacato.
Zuri allora lo prese con veemenza e lo sbatté a terra. In un batter d’occhio gli fu addosso,
e iniziò a colpirlo con rabbia.
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«Ahi! Lasciami! Ahia!» implorò Tupac, coprendosi la testa con le mani.
Zuri gli sferrò un pugno in pancia, e per un momento il ragazzo si sentì mancare il fiato.
Poi tutti gli altri intervennero, bloccando Zuri che inveiva come un matto. Le buone
intenzioni di bloccare quella rissa degenerarono in un tafferuglio, e Tupac riuscì a
svicolare mettendosi accucciato in un angolo.
La mattina seguente nessuno di loro ricevette la colazione.
Forse avevano ragione. Zuri e il capitano. Forse era giusto combattere. Tupac cercava di
convincersi di questo, ma non ci riusciva. Non sapeva se ci sarebbe riuscito. Ma convinto
o no, era costretto a uccidere. Doveva uccidere per forza. Aveva sentito molte storie sui
disertori, e non gli erano piaciute. Alcuni venivano uccisi, altri puniti duramente. Però
forse era meglio morire che far morire.
«Ehi, ragazzino, vuoi dormire stanotte o pulire i cessi fino all’alba?» chiese un ufficiale.
Tupac si riscosse, e impugnò quel fucile troppo grande per le sue esili braccine,
assumendo un’espressione seria e imperscrutabile.
«Ci siamo capiti» disse l’ufficiale con un ghigno, scoprendo una fila di denti marci e storti.
«Al mio tre, colpite il bersaglio!» fu l’ordine di un altro soldato.
«Uno, due, tre!»
Un rumore assordante di botti squarciò l’aria. Un istante dopo i bersagli avevano
guadagnato un nuovo foro.
«Uno, due, tre!»
Tupac scavalcò un cadavere, rischiando quasi di inciampare, e proseguì, il fucile stretto
tra le mani sudate. A pochi metri da lui c’era un uomo che rantolava piano, il volto
sporco di terra e sangue. «Finiscilo» ordinò un ufficiale.
Tupac puntò il fucile contro l’uomo e sparò. Lo fece quasi d’istinto, poi si rese conto di
cosa avesse fatto e si allontanò, con lo stomaco contratto e le mani tremanti. Una lacrima
gli sgorgò dal ciglio e gli rotolò sulla guancia, tracciando una striscia tremula e lucida sul
suo volto coperto dalla polvere. Doveva smetterla di piangere. Se era un vero uomo, non
doveva piangere.
Osservò il villaggio devastato dinanzi ai suoi occhi, il villaggio che lui stesso aveva
contribuito a devastare. Le capanne erano bruciate, le strade piene zeppe di cadaveri o
uomini in fin di vita. Forse quella era la guerra. Che ci potevano fare, loro? Dei ragazzi di
cui non importava niente a nessuno. Quella cosa era troppo grande per essere fermata.
Non poteva essere fermata. Non sarebbe stata fermata mai.
***
Jack si chiese come mai il destino fosse stato così crudele con lui. E come mai c’erano
persone più fortunate di altre. Persone ricche, sane, belle, e persone povere, malate e
brutte. Lui non era né ricco, né sano, né tantomeno bello. O almeno, nessuno gli aveva
mai fatto un complimento sul suo aspetto. La sua pelle era davvero troppo chiara,
veramente strana. E poi, chi potrebbe mai essere bello, senza le mani?
Un’infermiera entrò nella stanza con un piatto colmo di insalata tra le mani. Aiutò Jack a
mangiarla, anche se a lui non era mai piaciuta, perché gli sembrava di mangiare
dell’erba. La ingoiò di malavoglia, poi chiese, esitante:
«Secondo te esiste, il destino?»
L’infermiera lo osservò con un misto di curiosità e sconcerto, ma non rispose.
«Allora?» la incalzò Jack.
«Il destino lo costruiamo noi con le nostre scelte. Nessuno ha deciso niente per noi. È
questa la cosa più bella: noi siamo i padroni del nostro futuro, e a seconda della strada
che imbocchiamo, raggiungeremo posti diversi. Spetta a noi stessi definire il nostro
destino, altrimenti non saremmo liberi. Dipende tutto da ciò che scegliamo» spiegò
l’infermiera con dolcezza.
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«Io non ho scelto di nascere senza mani» eccepì Jack con un filo di voce.
L’infermiera lo guardò gravemente, poi si alzò:
«Devo andare, c’è tanto lavoro da fare» bofonchiò, e uscì dalla stanza a passo affrettato
lasciando Jack di nuovo solo.
***
Più vivida di brace incandescente, l’immagine di quel villaggio in fiamme dardeggiava
nella mente di Tupac. Quante persone erano morte, quante persone di cui nessuno
avrebbe ricordato il nome! Era forse quella la cosa giusta? Era per quello che le mani
erano state create? Per ammazzare? Forse no, pensò Tupac, forse no. Erano le persone
che avevano deciso di usarle in questo modo. Sarebbe stato meglio se gli uomini non
avessero avuto la possibilità di scegliere. Almeno non ci sarebbe stata mai nessuna
guerra. Però in questo caso, forse chiamarli uomini non sarebbe stato appropriato.
A Tupac furono rudemente bendati gli occhi, e gli fu consegnato il fucile.
«È arrivato il momento dell’ultima prova» disse il capitano. «Sarà sufficiente che spari, e
l’avrai superata. Ovviamente, se colpirai il bersaglio» soggiunse, sghignazzando.
Tupac annuì e strinse la sua arma.
«Uno, due... TRE!»
Tupac sparò, come se fosse stato una macchina che rispondeva ai comandi. Una
macchina da guerra.
Seguì un applauso, e una pacca sulla spalla. Quando a Tupac fu sfilata la benda, il
ragazzo vide dinanzi a sé un uomo disteso a terra, col le braccia spalancate e il volto
imbavagliato. Al centro del petto, una chiazza di sangue scuro si espandeva sulla maglia.
Tupac ebbe un tuffo al cuore, e si avvicinò di corsa all’uomo per smentire i suoi sospetti.
Era arrivato a pochi metri da lui, quando vide la sua faccia.
L’uomo era suo padre.
Tupac si sentì travolgere da un vortice scuro come la morte, dentro di lui il dolore
esplose come una bomba, la rabbia cieca e incontrollabile gli fece scoppiare la testa. Sentì
ogni cosa abbandonarlo, poi tutto fu un buio senza fine.
Tupac tossì e si mise a sedere sul letto. All’improvviso, gli avvenimenti di poco tempo
prima lo investirono con una violenza pazzesca, come una valanga che precipita da una
montagna impervia trascinando con sé tutto ciò che trova sul suo cammino. Tupac si
sentì svenire di nuovo, poi urlò, un urlo che lacerò l’aria, acuto e disperato. Tupac si
gettò a terra, e scoppiò in singhiozzi incontrollati, colpendo tutto ciò che gli capitava a
tiro. Iniziò a prendere a pugni il materasso, cercando di distruggerlo, di ridurlo in
polvere, poi si scagliò contro le pareti colpendole con calci feroci. Sentiva un dolore
lancinante alle dita, ogni volta che sbattevano contro il muro, ma non gli importava. Non
gli importava più niente. Continuò a urlare a squarciagola, mentre le lacrime sgorgavano
copiose dai suoi occhi, inzuppandogli i vestiti e cadendo con suoni impercettibili sul
pavimento.
Non seppe mai per quanto tempo continuò a gridare e a piangere, gli sembrava di essere
in un incubo, e si prese a pugni in testa per svegliarsi. Ma non si svegliò, perché quello
non era un sogno. Quella era la vita, suo padre era morto. E lui l’aveva ucciso. Tupac non
riusciva a credere a quello che stava succedendo, forse non se ne rendeva neppure conto.
Non era possibile, ciò che era successo non era possibile.
Tupac urlò ancora, con tutto il fiato che aveva in gola.
Poi sentì un dolore tremendo alla nuca, e sprofondò di nuovo nell’oblio.
Era passato un anno da quando Tupac aveva sparato a suo padre. Un anno di guerra, di
sangue, di distruzione. Lui era un soldato, e non aveva scelta. Doveva combattere,
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combattere per qualcosa che ancora non sapeva. La libertà? Il proprio paese? Nessuna di
queste cose, secondo Tupac. Scegliere degli alti valori per cui lottare era un espediente
per persuadere gli uomini stupidi o ingenui che la guerra fosse giusta, fosse necessaria.
Tupac combatteva perché era costretto. Nulla di più. E giorno dopo giorno si abituava
sempre più a quella vita, uccideva e bruciava, ma non provava più nulla. Non sentiva più
dolore alla stomaco per ciò che faceva. Non si chiedeva se fosse giusto o meno. Obbediva
e basta, perché non c’era altro che potesse fare. Era in quello che l’avevano trasformato:
in una macchina. Avevano distrutto i suoi sentimenti, e anche la sua umanità. Avevano
distrutto Tupac. Il ragazzo che era non esisteva più, era stato spazzato via come cenere al
vento, era come se fosse morto. In effetti, Tupac sentiva di essere morto da quando aveva
smesso di piangere per le persone che uccideva.
Quella sera mangiò in silenzio la sua zuppa, quasi meccanicamente, mentre si osservava
le mani piene di graffi. Si chiese come mai da un lato fossero scurissime, dall’altro più
chiare, quasi come quelle dei bianchi. Forse, se fosse andato a scuola, lo avrebbe
scoperto. Ma la parola scuola gli suonava lontana anni luce, come se appartenesse a un
altro universo. Per i soldati non c’era la scuola, esisteva solo la guerra, tutto il resto non
aveva importanza.
Tupac correva più veloce che poteva, mentre colpi di armi da fuoco e grida disperate
erano gli unici rumori che si potessero udire. Correva, senza sapere verso che cosa. Le
sue gambe si muovevano celeri, il suo cuore batteva come un tamburo da battaglia.
Dietro di lui, un incendio divampava divorando tutto ciò che incontrava sul proprio
cammino. Le case del villaggio erano in fiamme, e le lingue di fuoco rosseggiavano
incontrollate.
«Correte!» urlò Zuri, poi cadde a terra di punto in bianco. Tupac si voltò di scatto, e restò
immobile per qualche secondo, indeciso sul da farsi.
Doveva aiutare Zuri, oppure salvarsi. Il ragazzo era disteso prono, e un proiettile gli
aveva perforato la schiena.
Tupac lo guardò negli occhi l’ultima volta, poi riprese a scappare, aggrappato a quella
vita che forse non temeva di perdere. Le gambe gli dolevano per lo sforzo, ma non aveva
scelta. Dietro di lui altri spari, grida e morte.
A un certo punto, sentì un dolore lacerante alla gamba, e cadde a terra. L’avevano
colpito, sul polpaccio. Provò ad alzarsi, stringendo i denti, ma poi capì che non sarebbe
più riuscito a correre. Provò ad arrancare col le mani, piantando le unghie nel terreno e
spingendosi avanti con la forza delle braccia. Ma era inutile. Vedeva i suoi compagni che
lo superavano, senza neppure accorgersi di lui, senza curarsi minimamente della sua vita.
Ma dopotutto, anche lui aveva fatto lo stesso con Zuri. Nessuno si voltava a guardarlo,
neppure uno dei suoi amici, con cui aveva combattuto per lunghi mesi. Uno di loro, un
ragazzotto grosso e nerboruto, gli sferrò per sbaglio un potente calcio.
Tupac sentì che i sensi lo lasciavano, prima di finire disteso tra la polvere, la bocca
socchiusa e la ferita al polpaccio da cui sgorgava sangue caldo.
***
«Questo qui è ancora vivo» disse l’uomo, appoggiando due dita sul polso del ragazzino.
«Sento i battiti del cuore».
«Questo qui invece è morto. Un proiettile sulla schiena e uno sulla testa» disse un altro
uomo, osservando con occhio clinico un giovane che giaceva nella polvere.
«Ci sono altri sopravvissuti?» domandò il secondo uomo.
«No. Solo uno. Facciamo presto, prima che muoia anche lui» disse il primo uomo.
***
Quando Tupac si svegliò, si rese conto di trovarsi in un letto dalle coperte candide, in una
stanza sconosciuta. Trasalì quando notò un ragazzo nel letto di fianco a lui, che lo
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osservava con malcelata curiosità. Era un ragazzo bianco, doveva avere circa la sua età.
«Chi sei? Dove sono? Sono morto? Tu sei morto?» chiese Tupac tutto d’un fiato. Il
ragazzo rise.
«Tranquillo» disse. «Nessuno di noi due è morto. Sei all’ospedale. Era da un po’ di ore che
ti guardavo, aspettando che ti svegliassi».
«Da quant’è che sono qui?» domandò Tupac, mettendosi a sedere sul letto.
Quando si mosse, avvertì un dolore acuto alla gamba. La scoprì e notò una fasciatura che
partiva dalla caviglia.
«Da stamattina. Ti hanno fasciato la gamba e ti hanno medicato la fronte, perché mi sa
che hai preso una brutta botta. Adesso non ti devi preoccupare, sei al sicuro» garantì il
ragazzo. «Chi sei?» ripeté Tupac.
«Il mio nome è Jack. Il cognome, non l’ho mai saputo» si presentò il ragazzo. «Io sono
Tupac» disse lui, e i suoi occhi studiarono Jack con interesse.
Quando raggiunsero le mani, Tupac ebbe un sussulto. Il ragazzo non aveva le mani.
«Sono nato così» chiarì Jack, precedendo la sua domanda. «Non so proprio perché». «Sai
dove sono i miei compagni?»
Jack scosse la testa.
Tupac sospirò.
«Chi sono i tuoi compagni?» chiese Jack con interesse. «Intendo dire, sono tuoi compagni
di scuola o qualcosa?
Questa volta fu Tupac a ridere.
«Io sono un soldato. Non sono mai andato a scuola, e mai ci andrò. Beh, la mia storia è
abbastanza triste, non credo ti interessi» disse Tupac.
«Mi interessa invece» replicò Jack, rivolgendogli un sorriso che disegnò due piccoli solchi
sulle sue guance bianche.
Tupac tacque, e guardò quello strano ragazzo per un tempo che parve infinito.
«Ti racconterò la mia storia, se prima tu mi racconterai la tua» dichiarò, rompendo il
ghiaccio.
«Molto bene» disse Jack. «Ma ti avverto: non c’è proprio niente di interessante nella mia
storia».
Il ragazzo tacque, ma Tupac, certo che stesse mentendo, attese che Jack iniziasse.
«E va bene…» si arrese il ragazzo. «Io sono sempre vissuto in questo ospedale, da quando
mi ricordo. Mi ricordo che c’era un’infermiera, Ginevra, che si prendeva cura di me. Una
donna adorabile. Ma poi si è trasferita in un altro ospedale, e io non l’ho vista mai più».
«Vuoi dire che non sei mai uscito da queste mura?!» esclamò Tupac, incredulo.
Jack fece un segno di diniego.
«Mai» disse. «Non so cosa ci sia là fuori. Non so com’è il mondo. Tutto ciò che so, l’ho
sentito dai racconti delle persone che dividevano con me questa stanza».
Tupac rimase a bocca aperta. Non riusciva a concepire una cosa del genere. Come si
poteva stare chiusi per sempre in un luogo, non aver mai visto il mondo?
«Perché non esci?» fu la prima domanda che gli venne in mente.
«Non posso» spiegò Jack con semplicità. «Sono malato, non potrò mai uscire».
«Non vorresti uscire?» chiese Tupac.
Un sorriso triste increspò le labbra di Jack.
«Se lo vorrei? Ogni giorno immagino di uscire. Immagino di non essere malato, di avere
le mani, di essere un ragazzo come tutti gli altri. A volte immaginare le cose è l’unico
modo per viverle, anche se solo in piccola parte. È il mio sogno: poter vivere. E con
vivere non intendo restare in vita. Intendo avere una vita, una vita in cui scegliere, in cui
viaggiare, in cui correre, in cui amare. Questo intendo. Ma senza mani, che vita si potrà
mai avere?»
Tupac osservò le proprie mani. Non si era mai reso conto di essere fortunato ad averle,
non ci aveva mai pensato. Gli sembrava una cosa così scontata, così naturale, che non la
considerava una fortuna. Non immaginava delle persone che ne fossero sprovviste. Forse
anche le persone ricche ragionavano così. Nate nell’oro, non si rendevano conto che
c’erano persone, come la sua famiglia, senza neanche un soldo.
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«La mia storia è tutta uguale» proseguì Jack. «E sarà sempre uguale. Il sogno resterà solo
un sogno, diviso dalla vita da una barriera invalicabile».
«Non hai dei genitori?» chiese Tupac, ma poi pensò che sarebbe stato meglio non
rivolgergli quella domanda.
«Mi hanno abbandonato» tagliò corto Jack. «E se ne sono andati chissà dove. Beh,
dopotutto, chi mai potrebbe desiderare un figlio come me?»
Tupac aprì la bocca per parlare, ma poi capì che non c’era niente di confortante che
potesse dire, così la richiuse.
«Anche avere dei genitori è il mio sogno. Un altro sogno che non può realizzarsi. Però io
lo immagino sempre. A volte penso che quando moriremo, se andremo in paradiso, lì
avremo tutto ciò che ci è mancato in vita» disse Jack.
«Paradiso?» disse Tupac. «Io ho smesso di crederei da tanto tempo».
«E perché?» chiese Jack.
«Tu credi davvero che Dio esista?»
«Ma certo! Insomma, non ho mai pensato che potrebbe non esistere» disse Jack.
«Non c’è nessuno che si cura degli uomini. Nessuno a cui importa di noi. E quando
moriamo poi di noi non resta che polvere che viene spazzata via dal vento».
«Io non penso che sia così» replicò Jack. «Io credo che ci sia il paradiso, ma che sia
diverso per ognuno di noi».
Tupac tacque, e osservò quel ragazzo in silenzio. Non capiva come mai lui, che viveva
così da tutta la vita, non avesse ancora perso la speranza.
«Come fai a sapere che Dio esiste?» domandò Tupac, scettico.
«Non si può sapere, si può solo credere» rispose Jack sorridendo.
Cadde il silenzio, un silenzio pieno di pensieri.
«Tocca a te a raccontare» gli ricordò Jack dopo un po’.
«Bene» esordì Tupac. «Io vivevo in una famiglia molto povera, in una casa molto povera,
in un villaggio molto povero. Ma non potevo definirmi infelice. Perché avevo una
famiglia, e ci prendevamo cura l’uno dell’altro. Eravamo otto: mia mamma, mio papà e
sei figli. Lavoravamo nei campi e tutti i giorni erano uguali. Poi un giorno è cambiato
tutto. Sono arrivati dei soldati e hanno messo il villaggio a ferro e fuoco. Mentre
scappavamo, io sono rimasto indietro e mi hanno catturato. E da quel giorno in poi sono
diventato un soldato. O meglio, sono stato costretto a diventare un soldato».
Tupac raccontò com’era la sua vita, cosa accadeva ogni giorno.
«E poi» disse, ma si fermò.
Sentì un vuoto alla stomaco, la testa vorticare.
«Poi?» lo incalzò Jack.
«Poi un giorno mi hanno detto che avrei dovuto superare l’ultima prova. Mi hanno
coperto gli occhi con una benda e mi hanno detto di sparare. Io ho eseguito l’ordine e ho
sparato».
Silenzio. Il silenzio invase la stanza.
«Ho ucciso mio padre» disse Tupac, e un singhiozzo lo costrinse a farlo girare dall’altra
parte.
Non voleva che Jack lo vedesse piangere. Nessuno doveva vederlo piangere.
«Ecco a cosa sono servite le mie mani!» esclamò Tupac, soffocando il pianto. «Sarei stato
io a dover nascerne senza! Le mie mani sono stato strumento di morte. Le mani sono
cattive, non dovrebbero proprio esistere!»
Jack lo guardò gravemente, gli occhi azzurri lucidi di lacrime.
«Le mani non sono buone o cattive: sono solo strumenti, tocca a noi scegliere come
usarle» disse.
«Io non ho scelto: io sono stato costretto a uccidere» spiegò Tupac, cercano di convincere
più se stesso che Jack della propria innocenza.
«Questo perché con le mani si possono controllare altre mani» disse Jack.
«Io non volevo che tutto questo succedesse! Non volevo questa guerra! Ma è successo, e
Dio non ha fatto niente per fermarla!» disse Tupac, ricominciando a piangere, come
quando era ancora un bambino.
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«Se Dio avesse fatto qualcosa, non potrebbe neppure esistere il paradiso» eccepì Jack.
«Cosa c’entra?» replicò Tupac.
«Il paradiso esiste per quelli che lo meritano. Ma come si può premiare qualcuno, se non
ha scelto lui di meritarlo? Se Dio intervenisse, non saremmo noi a scegliere, e quindi non
avrebbe senso essere ricompensati per qualcosa di buono che non abbiamo scelto di fare.
Come non avrebbe senso punire qualcuno per qualcosa di sbagliato che non ha scelto di
fare. Tu non hai scelto di uccidere tuo padre, lo dovevi fare per forza» disse Jack.
«Mi hanno detto di combattere per la libertà e per il mio paese. Non so neanche se la
vinceremo, questa guerra» disse Tupac.
«Il vincitore di tutte le guerre è sempre lo stesso, è sempre stato lo stesso da quando le
guerre esistono» disse Jack.
«E chi sarebbe?» chiese Tupac, perplesso.
«La morte» disse Jack. «È sempre la morte a vincere le guerre».
«Forse hai ragione» ammise Tupac.
Intanto era scesa la sera, e la stanza si era fatta buia. A un certo punto entrò
un’infermiera e diede a entrambi la cena. Tupac si ricordò di avere una gran fame, e
ingollò il pasto con avidità. Invece Jack fu imboccato, e poi l’infermiera augurò loro la
buonanotte e spense la luce. Tupac si rese conto di avere sonno, abbassò le palpebre e
viaggiò fino al mondo dei sogni, in cui il confine tra possibile e impossibile non esisterà
mai.
Jack aprì i suoi occhi azzurri mentre i raggi del sole si allungavano sul pavimento della
sua stanza.
Accanto a lui, Tupac era sveglio, e osservava il soffitto.
«Buona giornata» disse Jack.
Tupac voltò la testa verso di lui e gli sorrise.
«Da quanto sei sveglio?» domandò Jack.
«Più di tre ore» rispose Tupac.
«Non ti sei annoiato?»
«Pensavo. Pensavo che le mie mani, io le ho usate per uccidere. Ma ciò non vuol dire che
non le possa usare anche per qualcosa di buono. In fondo, credo che prima di andarmene
ci sarà ancora un po’ di vita da vivere. Una parte di storia che non ho ancora letto. Forse
dovrei avere il coraggio di ricominciare da zero. Di voltare pagina e di iniziare una
nuova, una migliore».
«Quando uscirai dall’ospedale, dovrai decidere cosa fare della tua vita. E sarai tu a
scegliere» disse Jack. «Sono certo che farai qualcosa di bello, nelle pagine che
seguiranno. Sono sicuro che ci riuscirai».
«Io sono cambiato molto in questi ultimi tempi. Dopo aver ucciso mio padre, sono
diventato quasi... insensibile alla morte, e al male. Sono diventato... è come se fossi
morto. Io non so se riuscirò a tornare come prima» spiegò Tupac, mesto.
«Forse non morto, forse è come se fossi svenuto. Ma sai, dallo svenimento ci si può
riprendere, anzi, ci si deve riprendere. Sei cambiato molto, certo, ma tutti cambiamo.
Ogni cosa che ci succede, per quanto piccola, ci cambia la vita. Non devi tornare come
prima, perché torneresti indietro. Ma devi andare avanti. E l’unico modo per farlo, è
credere di poterlo fare» disse Jack. «Costruisci un sogno, e poi realizzalo. Fare qualcosa
di buono mi sembra un’ottima base per scegliere un sogno».
«Non è detto che i sogni si possano realizzare, l’hai detto tu stesso» obiettò Tupac.
«Sì, è vero. Non è detto. Ma lascia che ti dica una cosa, una cosa che credo da sempre: il
motivo per cui sono così poche le persone che realizzano i propri sogni, e la causa
maggiore di fallimento, è che queste persone non provano a realizzarli. Ma se tu credi
che le tue mani possano fare qualcosa di bello, allora distruggi ogni timore, ogni paura di
perdere, perché senza combatterla, una battaglia non si può vincere» spiegò Jack.
Tupac quella sera ricevette la notizia che sarebbe stato dimesso tre giorni dopo. Non
aveva dove andare, non aveva niente con sé, se non delle mani per realizzare un sogno.
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Quelle mani da un lato scure e dall’altro chiare, chissà mai perché.
Il giorno dell’addio arrivò. Tupac si alzò quando il sole era già alto, e nella stanza faceva
un gran caldo. Jack era sveglio, lì nel suo letto, pensoso. Prima di andarsene, Tupac uscì
all’esterno dell’ospedale e raggiunse un albero. Ne staccò un rametto verde vivo e tornò
nella sua stanza. Forse era una cosa stupida, ma chi se ne importava.
«Pensavo che te ne fossi andato senza salutarmi, ma poi ho visto che hai lasciato qui la
tua roba... » disse Jack sorridendo.
«Ti ho portato qui un pezzo di mondo» disse Tupac, appoggiando il rametto sul
comodino di Jack. «Così, se tu non andrai dal mondo, il mondo verrà da te».
Detto ciò, il ragazzo si sedette sul letto accanto all’amico. L’unico amico che aveva, e che
stava per lasciare.
«Addio» disse Jack, facendo trasparire tutta la sua malinconia.
«Arrivederci» disse Tupac.
«Io... non so se ci rivedremo ancora» disse Jack, tristemente.
«Ci rivedremo» dichiarò Tupac.
«Come fai a saperlo?» chiese Jack.
«Non posso saperlo, posso solo crederlo» disse Tupac, semplicemente. «Ci rivedremo. In
paradiso, forse, o in un’altra vita, chi lo sa».
Jack sorrise, il sorriso più bello e vero del mondo, e strinse Tupac in un abbraccio.
Sebbene non avesse mani, con le sue braccia lo tenne accanto a sé.
«Sono sicuro che anche tu farai qualcosa di bello, Jack» disse Tupac. «Anzi, l’hai già fatto.
Mi hai salvato la vita».
«E come?» domandò Jack.
«Ero svenuto» spiegò Tupac. «E tu mi hai risvegliato e mi hai regalato un sogno”.
Dopo un tempo indeterminato, i due ragazzi sciolsero l’abbraccio. Tupac si alzò e sorrise,
poi volse le spalle e se ne andò, diretto verso il futuro.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
Premio Speciale Giuria
“QUADRO PARIGINO”
di Lara Gallarati - 5a G
Lisa scriveva sulle pagine del quaderno con una calligrafia fitta e ordinata,
rapida. Pareva che la penna stessa scrivesse le parole.
Le era infatti passata, fuggevole, per la mente un assaggio, un’ispirazione;
doveva scriverla, o se ne sarebbe tornata nei meandri della sua mente, da dove
era arrivata. Si sa: scripta manent.
Contemporaneamente, dall’altra parte della città... che città potrei scegliere? Ma
sì,dai, esageriamo: Parigi. (Billie Holiday e Woody Allen hanno i loro effetti
sull’inventiva). Ecco, a Parigi, nello stesso momento, Olivier strimpellava il suo
pianoforte. Le sue dita si muovevano lentamente sulla tastiera, assaporando
quasi le note che suonava.
Fuori pioveva, e lui pensava che il jazz era decisamente la sua vita. (Oltre che la
sua unica fonte di reddito, da cui la necessità che fosse la sua vita). Si gustava la
vista della Tour Eiffel dalla porta finestra che dava sul terrazzo.
Bene, date queste premesse, passiamo alla parte interessante.
Siamo in un piovoso pomeriggio parigino, quartiere di Saint Germain (non
potevo scegliere un contesto più iperglicemico per un incontro romantico).
Lisa, con un enorme e colorato ombrello sulla testa, cammina velocemente.
Ascoltando la musica, tiene lo sguardo fisso davanti a sé: sembra profondamente
concentrata. Chissà a cosa starà pensando? Ormai non inciampa più sul
ciottolato: conosce a menadito ogni buca, ogni gradino di quelle vie, perché ci
passa tutti i giorni.
Al contrario di Olivier: nonostante il passo lento e cadenzato, lo si vede
imprecante ogni due per tre contro quei poveri sassi per terra.
Lui rischierà anche di cadere, ma non ci pensa a loro? Calpestati, urtati, sporcati,
infangati, sputacchiati nei casi più disperati, dalla mattina alla sera, tutto il
giorno, tutti i giorni, da qui all’eternità! Eh, certe persone sono davvero
insensibili.
Stanno andando nella stessa direzione. Se viaggiano parallelamente non si
incontreranno mai, lo dice anche la geometria; è un peccato, due personalità così
diametralmente opposte! Che fare?
Il cellulare di Lisa squilla. Sì, Juliet, incontriamoci, che ti accompagno! Dove sei?
Ah, okay, allora ti vengo incontro! - Imbocca una trasversale alla strada che sta
percorrendo Olivier.
Olivier, intanto, guarda l’orologio: le 16.30. Già che non ha nulla da fare, passerà
per il supermercato lì vicino a comprare qualcosa per la cena: il frigorifero,
quella mattina, era un abisso di nulla, una specie di buco nero senza fondo. Il
vuoto, cioè; come il suo stomaco.
Ottimo, ora sono coordinati.
Lisa entra dalla via principale e Olivier dal retro, nello stesso momento.
Lui scorre, esitante, lo scaffale dei surgelati; le due amiche quello degli yogurt. Si
avvicinano. Ah, Juliet dimenticava: deve prendere un’insalata, di quelle già
pronte, perché il giorno dopo non avrebbe pranzato a casa. D’accordo, ci
troviamo all’uscita!
23
Olivier è ormai allo stesso corridoio di Lisa.
Lei è decisa, sa già quello che vuole, e con un gesto sicuro e scattante si avvicina
ad una mozzarella; ma guarda che strana coincidenza: la stessa che Olivier ha
puntato, dopo un’attenta analisi di tutto lo scaffale.
Ancora non si notano (che forse io, McFato in persona, abbia sbagliato i
soggetti?), e allungano le mani verso il latticino...
Pam!
Oh, chiedo scusa... - Ma di che? Mi scusi lei... - Oh, no, mi scusi lei! - Prenda, la
prenda pure... - No, no, non è necessario, insomma... era solo... uno sfizio, ecco;
ho tante altre cose... - Insisto! - Ah, beh, se è così... la ringrazio, davvero! - Ma
niente, ma si figuri...
“Quando le persone abbassano la guardia, sono così universalmente simili”:
niente di più vero. La mano di Lisa non è più volitiva, quella di Olivier è molto
semplicemente immobile; entrambe, ferme, si sfiorano.
Bene, datovi questo scorcio di umanità in mezzo all’eternità di questo universo,
vi lascio il beneficio del finale aperto.
24
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“LASCIA CHE IO SCRIVA DI TE”
di Valeria Agostini - 4a A
Tu mi guardi e non parli,
ma io vedo le tue mani,
e loro mi raccontano di te,
col loro modo frenetico
di stringersi l’un l’altra,
nascoste da maniche sempre troppo lunghe.
Le tue dita viaggiano silenziose
Su profili di muri, oggetti, pensieri,
rivelando una curiosità a stento trattenuta.
Le fai scrocchiare spesso, rumorosamente,
ma è un attimo, con distrazione,
non sembri accorgertene nemmeno tu.
Cerchi di non lasciar trasparire nulla,
ma il loro tocco leggero,
i loro movimenti apparentemente impacciati,
le loro unghie pulite e curate,
tutto di loro mi parla di te.
25
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“”
di Chiara Bosisio - 5a A
Quante volte mi hai sollevato fino a toccare il cielo.
Quante mi hai rubato il naso per farmi divertire.
Poi mi sono persa nel frastuono della vita e cercavo incessantemente un appiglio a cui
aggrapparmi.
Le tue mani erano tese verso di me, ma quando mi sono voltata sorridente per afferrarle era
già troppo tardi.
Quanto spesso diamo per scontate, come scolpite nel marmo, tutte le sicurezze che abbiamo
attorno? L’eternità non appartiene a questo mondo se non nel ricordo.
E noi più che scultori siamo come fragili vasai di malleabili e precarie esistenze, che in un
attimo di disattenzione cambiano per sempre.
Tu, da abile artigiano, avevi modellato il mio mondo in modo che nessuna scheggia mi
colpisse, ed é proprio in tuo onore che ora devo mantenere ciò che tu mi avevi consegnato.
Ma quanto è difficile — ti direi questo se tu fossi ancora qui — non farsi trascinare via da
questa vita formata da maree discontinue di errori e di sogni che si infrangono a riva sugli
scogli.
Il ricordo delle tue mani, che raddrizzavano ogni cosa, è ciò che tutt’ora mi dimostra che c’è
una cura.
26
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“PECCATI”
di Daniele Angioletti - 5a E
Rosee e calde il dì che v’era,
con dolcezza sfioravano il mio viso,
candide e lisce come cera,
nel mio cor vocavano amorevol riso.
Sì scherzose e assai furbette
lor violavan quelle soglie,
ben settanta volte sette
le saziaron le sue voglie.
Ma l’amor spirò lontano,
prone a terra le trovai,
ogni aiuto le fu vano,
era troppo tardi ormai.
Grigie e fredde come roccia
giacean al suolo ancor socchiuse,
tristemente intrise di ogni goccia
del nero sangue che da lei profuse.
Ora immobili sono e aride,
i lor progetti son già vani,
la lama è al petto e il volto ride,
ti sei uccisa con le tue mani!
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“”
di Camilla Mrad - 2a D
Le mani,
macchine piene di ingranaggi
che funzionano solo grazie all’anima,
si, perché senza anima nessun umano sarebbe umano
un briciolo di magia, l’anima.
Una piccola e indescrivibile parte di noi,
la nostra esistenza.
Le mani,
a volte rigide, dure come le convinzioni di questo mondo
così strano;
a volte aperte verso gli altri altri
per costruire, per creare, per aiutare e per amare.
Solo la nostra anima può decidere,
come usarle.
28
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“PIANISTA IN CONCERTO – LE MANI”
di Antonio Scannella - 5a H
Danzano e si rincorrono,
Scivolano sul liscio legno,
Avanti e indietro,
Un passo sul bianco, uno sul nero.
Morbida ed elegante lei si avvicina,
Lui la cerca teso e nervoso;
Il silenzioso passo è dolce armonia.
Dominano la scena,
Soli, tra la folla che li ammira,
Diversi i movimenti,
Armonica la danza.
Lui, ritmico, dà il tempo,
Lei, virtuosa e frizzante, incanta il pubblico
Attonito nel mirar tanta eleganza e passione.
Una pausa, un respiro
E d’improvviso una strana frenesia...
Si muovono veloci,
Ma ogni passo è preciso e ponderato.
Ecco, quasi si sfiorano!
La febbrile attesa è finita,
Ma il tempo è poco:
Uno sguardo, un rapido accordo
E poi... di nuovo distanti,
Consapevoli di potersi presto rincontrare.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“SOGNO DI UNA VITA”
di Enya Cavallini - 3a E
Erano sedici anni che lo stavo aspettando,
quel gesto così semplice
quel gesto così profondo
che tutte le notti sognavo di ricevere,
che ancora come una mamma mi cullava,
mi stringeva, mi soffocava,
ormai era entrato in me,
nei miei pensieri più belli, nel mio cuore.
È per me il più bel gesto
che l’uomo avesse mai inventato per sentirsi amato,
per sentirsi nel mondo,
che ci appare così piccolo e così profondo,
ma che quel gesto sono sicura,
racchiude fino in fondo.
E quando quel gesto mi sfiorò,
la sensazione che provai, la sola che si può descrivere,
mi riportò per la frazione di un solo secondo
al momento in cui vidi la luce per la prima volta,
gridai per la prima volta,
piansi per la prima volta,
al momento in cui mia mamma mi mise al mondo.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“LE TUE MANI ETERNE”
di Camilla Poloni - 3a A
Liceo Classico Zucchi
CLACK.
Lo odiava. Sorrido. Mi sento in colpa per aver sorriso. Non puoi sorridere
davanti alla bara di tua madre, però è vero. Lo odiava. Storta tutte le dita.
CLACK!
Come se mi potesse dire qualcosa, arrabbiarsi. Sta lì, silenziosa. E’ davvero
un po’ più storto di prima? Sì, l’indice forse... Avevi ragione. Come sempre.
Come sono belle le tue, di mani, mamma. Forse ti guardo quelle per non
guardarti in volto, perché quello non lo riconosco, non sei tu, così fredda,
così bianca, ma le mani...
Guarda che stupida, mi do una carezza, mi passo le mani tra i capelli, mi
ricordo di quando eri tu a farlo, e sto bene. Ed ora quelle mani così calde
sono gelate, ma bellissime, sembrano di porcellana, di marmo, le tue mani
eterne.
E sì che te le sei tagliate un mucchio di volte, vero? Ti ricordi di quella
volta che ti sei ferita tagliando il burro (il burro mamma, il burro!) ed hai
perso tutto quel sangue e sei dovuta andare al pronto soccorso? La
cicatrice, ce l’hai ancora? Non la si vede più. Sai che forse è la prima volta
che le vedo ferme? Mai rimasta con le mani in mano. Hai aspettato tanto,
per riposarti... Ed è anche la prima volta che mi lasci da sola a sorridere di
una mia freddura, non ti è piaciuta? Riposarti...
No, non era un gran che.
Scusami se non ti guardo in viso, però non mi stai guardando neanche tu.
Vorrei non lasciarti mai.
Vorrei stringerti la mano, ma la mia è ruvida; è inverno e lo sai, odio
mettere la crema per la pelle. È viscida. Sì, lo so che lo sai. Tutte le volte
che hai tuonato, minacciato, previsto future dermatiti... Però sbagliavi, la
crema non l’ho mai messa e di dermatiti neanche l’ombra. Ti ho fatto
arrabbiare per cinquant’anni con questa storia delle dermatiti che non
c’erano.
CLACK!
E anche con quest’altra dello schiocco.
Suona il campanello, mamma. Vengono a chiuderti.
No! Sì? Non dici niente.
Aspetta, adesso li faccio entrare; un momento solo, dammi ancora un
istante da sole.
Ti prendo la mano, mettimela sul cuore, così. Sei fredda, mamma, sei
31
gelata. Spero che il mio amore ti scaldi. Ciao. Addio?
NOTA AL TESTO
La mia mamma è viva e vegeta e sta benissimo. Questa riflessione è un
regalo per lei, per mostrarle quei momenti che nessuno può vedere con
occhi fIsici ed in cui emerge veramente quanto si ami una persona. E per
dirle che quelle sue mani, screpolate e rovinate, sono quelle che amo di
più al mondo.
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“PETALI DI ROSA”
di Davide Poloni - 2a C
Dalle pagine del mio diario ...
10 aprile 2010
Mannaggia... mi ha fregato la giornata! Ho la sorella più perfida del mondo... mi ha
fatto promettere che domani andrò a sentirla cantare col suo coro al Conservatorio a
Milano.
E’ in programma una rassegna corale nella quale i migliori cori del nord Italia danno un
saggio della loro bravura conquistata negli anni con tanto impegno e fatica.
Non ho proprio voglia di andarci, ma ormai mi sono impegnato. Una promessa è una
promessa... Mi porterò dietro qualcosa da leggere, così non mi annoio.
11 aprile 2010
Caro diario, ascoltami. Ti devo raccontare. Quella che si prospettava una giornata
noiosa ha dato una svolta alla mia vita.
Beh, innanzitutto Cami e il suo coro sono stati molto bravi, ma non è di chi cantava che
ti voglio raccontare, ma di chi suonava.
Io stavo leggendo un libro che mi ero portato da casa quando alle mie orecchie è
arrivata una melodia dolcissima. Ho alzato la testa e mi sono accorto che sul palco si
stava esibendo al pianoforte (iniziava così il brano di un coro) una ragazza molto
giovane, aveva circa la mia età.
La mia attenzione è stata subito catturata dalle sue mani. Dieci dita, petali di rosa mossi
dal vento, che danzavano con leggerezza e velocità sui tasti, traendone suoni ora dolci
e leggeri, ora cupi e solenni. Quelle mani sembrava non avessero fatto altro: dita
lunghe e sottili che si muovevano con una sicurezza e decisione impressionanti.
Guardavo le sue mani e guardavo le mie... Vinto da quell’eleganza e da quella magia,
ho preso la decisione di suonare anch’io il pianoforte... Che sarà mai... Dieci minuti al
giorno e anche le mie mani sapranno suonare melodie meravigliose! Due mani uguali,
le mie e le sue: carpo, metacarpo e falangi sia per me che per lei... posso fare anch’io le
stesse cose che fa lei!
30 maggio 2011
Caro diario,
Ti ricordi, un anno fa, la questione del pianoforte e delle mani di quella ragazza? Beh,
poco tempo dopo mi sono messo a studiare anch’io pianoforte. L’ho fatto sul serio (e lo
sai che non è molto da me... ). Sai, sbagliavo pensando che ci sarebbe voluto poco per
imparare. Non è assolutamente facile come sembrava. Tra scale, arpeggi, giri di do e
solfeggi c’è davvero molto da studiare e non è solo questione di mani che si muovono
leggere. Però non mollo. Sono ancora lontano dalla leggerezza della ragazza del
Conservatorio, ma le mie mani non si arrendono e con pazienza conquistano tutte le
settimane un po’ più di leggerezza e velocità. Ancora non volteggiano, hanno bisogno di
imparare a farlo; ma un giorno, lo prometto, qualcun altro guarderà le mie mani su un
pianoforte e penserà a petali di rosa.
33
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“LA DISTANZA PIÙ GRANDE”
di Emanuele Malpezzi - 5a H
Mio padre era lì davanti a me. Lo ricordo benissimo. Le sue rughe di felicità contornavano i
suoi occhi marroni chiaro che componevano un’espressione di vaga e stupida euforia, così
come succede a tutti gli adulti che si rivolgono ad un bambino di circa di due anni per giocare
con lui. Ricordo che ad un certo punto tese la sua mano verso di me, e la aprì. Era
grandissima, sembrava quella di un mostro o di un gigante, ma c’era qualcosa nel mio piccolo
cuore che mi diceva che quella enorme mano mi avrebbe sempre protetto e non mi avrebbe
mai fatto cadere; quella mano conosceva già la strada, e me l’avrebbe indicata, e niente
sarebbe andato storto; così mi venne naturale avvicinare la mia piccola manina, ed io non
potei fare a meno di sorridere quando le mie dita incontrarono quel palmo ricoperto di calli e
di solchi. Pareva che da un momento all’altro la mia mano sarebbe stata inghiottita da quella
di mio padre, molto più scura e ruvida.
Sono felice che questo sia il mio primo ricordo, non vidi mai più mio padre sorridere così.
Ricordo ancora la sua mano, questa volta rossa e pulsante, quasi come dipinta sul mio volto.
Per non piangere fissavo lo sguardo in un punto fisso tra le pareti scure della mia camera, ma
c’era una lacrima più ostinata che riuscì a scendere sulla mia guancia e mentre si posava sulla
mia bocca faceva più male dello schiaffo. Era successo qualcosa, sicuramente di poco
importante e che non aveva minimamente a che fare con me, che aveva mandato su tutte le
furie mio padre; tutta la rabbia che aveva accumulato durante il giorno venne in un attimo
scaricata, prima su mia madre, con parole orrende, veramente dolorose da ascoltare, e poi
verso di me, che avevo cercato come potevo di fermare questo scempio mettendomi ad urlare
provando a sovrastare le loro grida. Per un attimo nella casa ci fu il silenzio, poi un
improvviso scatto, e la sua faccia, non c’era più espressione, solo rabbia. L’alcol e il lavoro lo
avevano trasformato in un vero e proprio mostro, e come tutti i mostri non esitò ad attaccare
il più debole. Ero troppo impegnato a cercare di contenere il mio dolore per ascoltare le
parole che quell’uomo urlava all’aria come se si rivolgesse a qualcuno che ormai non c’era più,
come la sua anima. Ricordo solo queste parole: «Sbaglio più grande» , credo che si riferisse
proprio a me, o comunque al fatto di aver messo su una famiglia; ogni volta che ripenso a
questo episodio, mi sembra che il segno della sua mano ricominci a pulsare sotto la mia pelle.
L’unica mia forma di evasione da quel mondo buio e violento che era casa mia che mi era
concessa era la scuola; diversamente da tutti gli altri bambini, ogni giorno non vedevo l’ora di
varcare quei cancelli verdi e di cominciare le lezioni; ascoltare nuove lezioni, leggere nuovi
libri e far amicizia con altri bambini erano tutte cose che mi rendevano felice come non lo ero
mai stato.
C’era però una cosa che non riuscivo a sopportare: venivo completamente dominato dallo
sconforto quando si doveva scrivere.
Imparare fu per me difficilissimo, e i risultati furono alquanto scarsi, ricordo che già alla fine
del secondo anno tutti i miei compagni possedevano una calligrafia più o meno decente, io
invece fui l’unico a rimanere indietro: il mio quaderno era pieno di scarabocchi indecifrabili al
posto delle S e delle R ed era impossibile riconoscere una D da una O. Non che io non mi
impegnassi, proprio non ne ero capace, ma le mie maestre, due zitelle cinquantenni
insoddisfatte della loro vita, questo non lo capirono mai.
Ogni volta che provavo ad impugnare la penna mettevo tutto me stesso nel tentativo di
descrivere curve e linee in maniera passabile per formare delle lettere, che nella mia testa
erano perfette, uguali a quelle che trovavo scritte nei libri, ma che non riuscivo a riportare
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come volevo nel foglio perché ogni volta un movimento sbagliato rovinava la mia
composizione.
Soffrii molto per questo; spesso mi chiedevo cosa avesse Giulio, il mio compagno di banco, più
di me, lui sì che era bravo! Aveva una calligrafia stupenda e conosceva sempre tutte risposte.
Per quanto gli volessi bene (era l’unico con cui condividevo la merenda) non c’è stato un
giorno in cui io non lo invidiassi, volevo essere come lui, o almeno, non così inferiore.
Dall’esterno la scuola di chitarra non mi pareva così diversa da quella “normale”: le pareti una
volta bianche erano così sporche che sembravano essere state verniciate volontariamente in
quel modo e le inferriate alle finestre erano in contrasto con l’ambiente giocoso e colorato che
mi aspettavo di vedere, essendo questa “scuola primaria di Musica” gestita, appunto, da
musicisti. Quando arrivammo proprio davanti al cancello, mia madre era di gran lunga più
entusiasta di me, era stata lei ad obbligarmi a seguire questo corso; giustificava questo fatto
affermando che lei avrebbe voluto tanto diventare una chitarrista ma non le era mai stata data
questa opportunità, così era convinta che l’unico modo per riscattare il suo desiderio fosse
quello di inculcare le stesse sue ispirazioni anche al proprio figlio, non curandosi
minimamente se ciò che piaceva a lei poteva interessare anche a me. Una volta entrati, mia
madre mi accompagnò per mano, tirandomi un pochino, verso l’aula del mio insegnante.
Nella stanza eravamo solo io, il maestro, che non aveva un’aria molto sveglia, e mia madre
eccitata come non mai, al punto che rispondeva per me a tutte le domande che mi venivano
rivolte; io me ne stavo zitto, osservando i poster di chitarristi e attestati di concorsi appesi alle
pareti, ogni tanto approvavo ciò che mia madre diceva con un cenno del capo. Dopodiché
senza sprecare troppe parole il barbuto insegnante si sedette, appoggiò con estrema eleganza
la chitarra sulle sue gambe e cominciò a suonare. Rimasi completamente folgorato: era la
musica più bella che avessi mai ascoltato! Ogni nota mi entrava nel cuore con una potenza
tale da farmi perdere ogni riferimento, per tre o quattro minuti non ci fu più niente: i poster,
gli attestati, la vernice gialla sulle pareti, mia madre, tutto era scomparso, solo la Bellezza
rimase, ed essa bastava per riempire lo spazio attorno a me.
Uscimmo dalla stanza, ed io, nonostante fossi ancora inebetito dalla magnificenza di quella
melodia, ero sicuro che quella sarebbe stata la strada che dovevo intraprendere: volevo
diventare un musicista ed essere il veicolo con cui la Bellezza giunge su questa terra, volevo
emozionare ed emozionarmi, volevo che tutti mi facessero i complimenti per la mia bravura e
perciò che ero riuscito a comunicare loro. Ero consapevole, e questo il maestro l’aveva
ripetuto più volte nel corso della “lezione introduttiva”, che la musica avrebbe richiesto tutto il
mio impegno e la mia dedizione, ma per la prima volta in vita mia, ero sicuro che avrei messo
tutto me stesso per farcela.
Le lezioni successive furono un disastro. Ero riuscito a convincere mia madre a farmi
comprare la chitarra classica più bella di tutto il negozio di strumenti vicino a casa nostra, il
commesso me la porse con la stessa delicatezza che avrebbe avuto Bigfoot, senza neanche la
custodia, che comprai a parte. Ero convinto che grazie a quello splendore a sei corde sarei
riuscito più facilmente ad emulare quel magnifico suono che avevo sentito qualche giorno
prima in quella piccolissima aula. Mi sbagliavo di grosso. Cominciai le lezioni, e per circa
quattro sedute non riuscii a tirare fuori un singolo suono che non fosse simile ad una specie di
lieve e soffocato lamento, la mia mano sinistra non riusciva a schiacciare i tasti nel modo
giusto e non si coordinava con la destra. E ogni singola volta le guardavo intensamente, quelle
mani, come per ordinare loro di fare quello che io volevo, non c’era verso. Entravo pieno di
entusiasmo, uscivo con le lacrime agli occhi. Anche quando la mia tecnica migliorò, c’era
sempre qualche cosa che non andava nel mio modo di suonare, e non ne ero minimamente
soddisfatto. Più facevo scorrere le mani sulla tastiera, più si radicava in me la convinzione che
non sarei riuscito ad impressionare nessuno, nemmeno me stesso.
E quella melodia è sempre nella mia testa.
Dopo due anni di fatica sprecata su quelle corde mollai la scuola di musica, anche se di tanto
in tanto capitava che mi trovassi a strimpellare qualcosa, magari durante quelle fresche serate
estive, piene di alcool e di amici.
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Gli anni passarono. Ero ormai un uomo (o almeno pensavo di esserlo). Tutti gli interessi che
avevo avuto nel corso della mia adolescenza cominciarono a svanire e la mia personalità
divenne sempre più arida. Solo una cosa riusciva a scatenare la mia vitalità: le donne. Quello
che mi piaceva di più era ingannarle, far finta che io fossi innamorato di loro, mi riusciva
bene: prima le attiravo a me con dolci e false parole, le carezze sul viso poi facevano il resto,
era sorprendente vedere come fosse facile ammaliare una persona con dei semplici gesti che,
almeno per me, non significavano nulla. Che importanza poteva avere un abbraccio, un bacio
passionale, una tenera mano fatta scivolare leggera sulla pelle?
Una volta esaurita l’attrazione fisica, una relazione non aveva più senso, perciò non provavo
nemmeno un briciolo di risentimento quando abbandonavo un paio di occhi in lacrime, così,
di punto in bianco, senza dare loro alcun segnale; non provavo neanche a fingere del
dispiacere. E dopo un breve (di solito) periodo di solitudine, ecco un’altra preda: una donna,
un viso, un corpo da cui trarre soddisfazione.
Poi arrivò lei, Clara.
La conobbi nella più banale delle occasioni, ad una festa; aveva l’aria di essere molto spaesata,
o meglio, si vedeva che era pentita di aver fatto la scelta sbagliata, si capiva dalla sua
espressione che avrebbe voluto volentieri andarsene e rifugiarsi in un pub con qualche amica,
a parlare di tutto e di niente, ma qualcosa di inspiegabile le impediva di uscire da quella
porta, e fare finalmente ciò che voleva.
Indubbiamente era una ragazza carina, ma non più di tante altre, i suoi grandi occhi verdi non
mi fecero molto effetto quando i nostri sguardi si incrociarono per un paio di volte, di
sfuggita, quasi per sbaglio. Ad un certo punto, la musica nel locale divenne sempre più forte,
così come l’euforia dei partecipanti. Ballavano, come se non avessero altro modo per
esprimersi, le loro braccia si alzavano al cielo mentre si disponevano in cerchio, lasciando il
centro della pista vuoto, come se stessero per cominciare un rito magico o qualcosa di simile.
D’improvviso la “festeggiata”, visibilmente ubriaca, mi prese e mi condusse fuori, Lei era lì, tra
le sue dita brillava la luce di una sigaretta.
« Lei è Clara , Clara ti presento un mio amico»
Non so perché la “festeggiata” ci avesse voluto far conoscere, nessuno di noi due aveva
dimostrato interesse per l’altro, perciò Clara si trovò spiazzata per un secondo, poi
accennando un debole sorriso, mi porse la mano.
Fu lì che capii che Lei era diversa da tutte le altre. Non so bene come spiegarlo: durante
questo banale e istantaneo gesto di presentazione, riuscii a percepire chiaramente ogni
ricordo, sentimento o dolore di questa giovane donna dai grandi occhi verdi, non mi era mai
capitata prima una cosa del genere, non ero mai stato bravo a comprendere le persone e
certamente non avevo mai pensato che dietro ad ogni gesto si potesse nascondere un
significato più profondo, un’emozione, una storia che la parola non avrebbe mai raccontato.
Fu così che in poco tempo mi ritrovai completamente innamorato di lei, del suo viso, dei suoi
grandi occhi verdi, di quel tocco così delicato, di ogni sua sensibilità e di ogni suo sbalzo
d’umore. Lei fu la prima persona capace di prendermi per mano e farmi scoprire il senso di
ogni cosa, il mondo era in armonia così come le nostre dita quando si incontravano, ogni volta
che il mio sguardo incrociava quei due bellissimi occhi verdi scaturiva in me un’emozione
simile a quella che avevo provato quando per la prima volta avevo sentito il mio maestro
suonare quella magnifica melodia che ancora riecheggia nella mia testa: niente aveva più
alcuna importanza se non il suo viso e la Bellezza dei suoi gesti, Clara.
Dopo due anni decidemmo di andare a vivere assieme, in una casa di periferia, dove viviamo
tutt’ora. Quando lo comprai, non so ancora bene il motivo, mi presi la briga di ammobiliare
l’appartamento, cercai in tutti i modi di arredarlo secondo un gusto particolarmente originale
e particolare, ma il risultato non mi soddisfò granché: ogni elemento che poteva essere
all’apparenza interessante, nell’insieme, si trasformava in un oggetto inutile e banale; ma
questo mi importava poco perché Clara era ed è entusiasta di stare con me in questa povera
casa con una orrenda moquette verde alle pareti.
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Ed ora sono qui, sotto lo scroscio dell’acqua della doccia, ogni tanto fa bene fermarsi e
riflettere su ciò che si è fatto nella vita: onestamente, non posso dire di avere combinato
molto, non sono mai stato un uomo intelligente, i miei pensieri sono di solito banali e
sconnessi, è difficile per me persino mettere a nudo i miei ricordi (come voi avrete notato) e i
miei sentimenti; avevo molti sogni, ma non ne ho realizzato nessuno, le mie grandi speranze
si sono scontrate con la realtà, e inevitabilmente si sono sgretolate; non ho mai avuto la forza
di portare a termine i miei progetti. Ma la cosa più importante è che per fortuna ho una
persona su cui posso contare e che è sempre accanto a me, Clara, lei mi dice sempre che io
sono una persona “brillante”, non ho mai capito come abbia fatto a formulare tale giudizio,
ma questa parola ogni volta mi consola.
E mi sta bene così. Esco. Sono stato fin troppo qui, Clara mi starà aspettando.
«Amore!, hanno chiamato quelli dell’agenzia, han detto che prima dell’assunzione bisogna
fare un test attitudinale, è soltanto a scopo informativo (così mi hanno detto), non ci sarà
alcun problema per il posto, devi presentarti tra due settimane lì in ditta»
« Mh... si... ok»
« Non sei molto convinto, vero? »
« Clara, sinceramente, non credo che quel posto faccia al caso mio, pensandoci bene, non mi
interessa molto lavorare lì, so già che non ne sarei soddisfatto... poi questa storia del test...
farei sicuramente una brutta figura... non sono capace di fare certe cose... »
« Come tutto, del resto»
« Come scusa?! »
« No niente, lascia stare... »
« Stai dicendo che io sono un incapace?! »
« Ascoltami, hai 27 anni e ancora non hai un lavoro, e non ti dai neanche più di tanto da fare
per trovane uno, solo i soldi di mio padre ci danno la possibilità di vivere qui... »
«Amore, te l’ho già detto tante volte, sto cercando in tutti i modi di prendere in gestione quel
chiosco sulla spiaggia, quella dove andiamo sempre noi d’estate, ricordi? sarebbe un sogno per
me riuscirci. Mi ha detto Sergio che è disposto ad entrare in società con me! »
« Ma piantala! Sappiamo benissimo tutti e due che questo progetto sarà fallimentare come
tutti gli altri! Per una volta cerca di essere più concreto! Se una persona ha dei sogni, delle
aspirazioni, si impegna in tutti i modi per realizzarle, ma tu sei sempre stato superficiale e
svogliato, non hai mai portato a termine le tue idee! A volte penso che tu non ne abbia
proprio. Ma non pensi mai al futuro? Probabilmente presto avremo una famiglia, e quindi
maggiori responsabilità, e tu stai ancora a fare castelli in aria?? »
« Ma Clara, mi hai sempre detto che queste cose sul futuro non ti interessano! »
« Lo so, lo so! Ma la questione è un’altra... io non ce la faccio più... ho sempre pensato che tu
fossi una persona brillante, molto creativa e intelligente, ed io ho cercato in tutti i modi di
aiutarti a esternare le tue potenzialità standoti vicino il più possibile, sostenendoti anche
quando credevo non fosse giusto, ma ora, arrivati a questo punto, non so più che fare, e sono
stanca, veramente stanca»
« Clara... Amore mio... »
« La verità è che non sei capace a fare nulla»
La verità fa male, e al dolore rispondo con il dolore.
La mia mano ora è rossa e pulsante, quasi dipinta sul suo bel volto. Non mi dice niente. Mi
guarda intensamente con i suoi grandi occhi verdi. Prende una valigia che era già pronta per
essere usata (evidentemente le cose non andavano così tanto bene) e senza una parola ecco
che se n’è già andata, giù per le scale, per un’altra strada, per un’altra vita. Queste pareti verdi
mi opprimono, è proprio vero che l’amore più profondo si percepisce solo al momento del
distacco. Clara è sempre più lontana da me, ma c’è un’altra distanza che non riuscirò mai a
colmare: quella tra me e le mie mani, lo strumento dell’anima.
37
Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“CONSIDERAZIONI DI UN ORGANISTA”
di Giuseppe Galbiati- 4a F
Una musica insolita per l’ora avvolgeva la città, poco prima del sorgere del sole. Soave si
andava a sommare ai tipici rumori che la accompagnavano al suo risveglio: quelli provocati
dai panificatori che si preparavano al lavoro, quelli provenienti dalle botteghe dei più
mattinieri artigiani e quelli dei motori dei primi vaporetti che si mettevano in navigazione.
La giornata presagiva di essere uggiosa. Il sole, che intanto si era levato, faticava a penetrare
la fitta nebbia, che immergeva l’intera Venezia.
Lasciandosi catturare e trasportare dalla melodia, si sarebbe giunti, percorsa l’intera Giudecca,
alla foce del Canal Grande, per poi arrivare a piazza San Marco, dove non si sarebbe stati in
grado di scorgere la parte superiore del campanile celata allo sguardo dalle nubi, che così
sembrava slanciarsi infinitamente verso il cielo. Ma le note non trovavano ostacoli e
giungevano chiare all’orecchio dell’ascoltatore. Proseguendo si sarebbe entrati nella basilica,
completamente buia e vuota a prima vista, ma volgendo lo sguardo alla sinistra del presbiterio
si sarebbe scorto tra le ombre un uomo, sulla trentina, seduto in fronte a un magnifico organo
a canne, era Francesco Mocenigo, maestro di cappella, intento a far danzare le proprie dita
sulla doppia tastiera. Ma avvicinandosi a quest’uomo si sarebbe subito scorto il suo
turbamento:
“Cosa accomuna - si chiedeva - una caverna situata nella provincia argentina di Santa Cruz, in
un luogo isolato, a circa 200 chilometri dal centro abitato più vicino, con un capolavoro
artistico senza precedenti, l’affresco della volta della Cappella Sistina, dipinto da Michelangelo
in pieno Rinascimento, raffigurante la creazione di Adamo? Non c’è dubbio, elemento centrale
in entrambi è la presenza della mano. Figura che, dalle incisioni rupestri di popolazioni
vissute 13.000 anni fa fino ai giorni nostri, è stata il simbolo distintivo della presenza umana e
lo sarà per sempre.
Questo particolare genere di rappresentazioni, inoltre, è sempre accompagnato da un preciso
significato simbolico. Esse potevano essere propiziatorie nei confronti delle divinità per
quanto riguarda i nostri antenati; per diventare simbolo dell’eterno patto d’amore suggellato
tra Dio e l’uomo nell’opera michelangiolesca; fino ad arrivare, in epoca contemporanea, al
dito di Cattelan preteso simbolo di polemica nei confronti di una società attuale sempre più
priva di valori.
Sono certo che anche questa impronta su pergamena, debba avere un significato preciso e che
intendo scoprire.”
Sulla pergamena che Francesco aveva davanti agli occhi, di fianco allo spartito, era raffigurata
l’impronta di una mano umana. Essa era stata realizzata con ogni probabilità poggiando prima
la mano su di una spugna imbevuta di china nera per poi essere poggiata sulla cartapecora.
Questa era in buono stato, ben distinguibile nelle forme e fattezze, nonostante una data
riportata sul retro indicasse l’anno 156...
Francesco l’aveva trovata per caso da circa tre mesi, quando, nella biblioteca marciana, stava
spulciando degli antichi manuali di musica sacra e d’orchestra. Così, riponendo i madrigali
spirituali di Giovanni Pierluigi da Palestrina, avendo notato un doppio fondo nel prezioso
rivestimento foderato del libro e subito apertolo per verificare cosa contenesse, si era ritrovato
tra le mani quella strana pergamena. Era accompagnata da una nota, sul retro, quasi
illeggibile, che la indicava come appartenente all’allora maestro di cappella e da lui stesso
realizzata.
Francesco, ragazzo di carattere curioso e intraprendente, si era subito appassionato all’idea di
svelarne il significato, sebbene in un primo momento gli apparisse totalmente oscuro. Ma
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sapeva al contempo che non poteva esserne priva.
Dopo settimane di ricerca negli archivi di biblioteche veneziane pubbliche e private, indagini
nelle varie chiese e cappelle della città, aveva scoperto che il maestro di cappella in carica
negli anni intorno al 1565 era Bartolomeo Trevisan. Più precisamente egli fu organista dal
1548 al 1571, anno della sua misteriosa sparizione. Le notizie su questa strana personalità
non finivano qui, alcuni storici veneziani, infatti, gli avevano raccontato che intorno alla figura
di Trevisan, già prima della sua sparizione, circolavano numerose leggende, e che in seguito
ad essa si erano moltiplicate. Riconosciuto da tutti come genio rinascimentale, fu un grande
musicista e compositore, ma al tempo stesso anche uomo eclettico, si occupò di scrittura,
poesia, matematica. A queste sue pratiche la tradizione ne aggiungeva altre quali l’astrologia e
la negromanzia. Ed è proprio a causa della sua ampia conoscenza nell’ambito di materie
oscure che si arrivò a pensare che la sua sparizione fosse dovuta a una sua perdizione eterna
dell’anima, a un suo rapimento da parte del diavolo. Tali leggende non erano assolutamente
insolite in quei secoli, in cui la potenza della Chiesa era ancora ampia e faceva spesso leva
sull’immaginazione dei fedeli.
Fu così che da quel momento in poi la sua figura cadde sempre più nel dimenticatoio, perché
considerato un uomo da non imitare. Anche le sue fantastiche sinfonie, che da allora furono
considerate dettategli dal diavolo in persona per impossessarsi del cuore di chiunque ne
udisse le travolgenti note, vennero totalmente bandite dalle cattedrali. Cadde nell’oblio.
Ma i suoi pentagrammi non erano andati totalmente perduti. Francesco, visitando la
biblioteca di casa Loredan, aveva reperito un piccolo diario scritto in prima persona dal
grande maestro. In esso oltre a una breve sintesi della propria carriera e interessi, erano
riportate alcune sue opere. Ciò che di esse più catturò l’attenzione del giovane fu un fatto
inconsueto, cioè che Bartolomeo Trevisan, non usasse firmare i propri componimenti, ma che
accanto alla data di realizzazione di ciascuno, apponesse l’impronta di un suo dito, il tutto
seguendo un ordine apparentemente casuale.
Oltre a ciò apprese dal diario che il popolo in effetti non aveva completamente torto. Il
maestro stesso descriveva con minuziosa attenzione alcuni esperimenti di alchimia,
aggiungendo che essi venivano tenuti nel suo studio privato, una stanzetta di piccole
dimensioni all’interno della basilica di San Marco stessa. Questo dettaglio incuriosì parecchio
il giovane che suonando ormai da parecchio tempo in San Marco, credeva di conoscerne ogni
centimetro quadrato, ma non aveva mai sentito parlare di uno studio personale. La faccenda,
venuta alla luce da un altro manoscritto, aveva interessato anche numerosi archeologi
veneziani dei secoli passati, ma nonostante le accurate ricerche tale luogo non fu mai scoperto
e si finì coll’archiviare il caso, considerandolo come frutto della creativa fantasia del Trevisan.
Francesco però non era di quel parere e aveva da subito intuito che quella strana pergamena
lo avrebbe portato alla risoluzione del mistero. E allora, dopo varie e attente considerazioni,
era giunto alla sua conclusione: quell’impronta su cartapecora non doveva essere nient’altro
che una mappa in codice, lasciata ai posteri, che portasse allo studio segreto di Bartolomeo
Trevisan, non rimaneva altro che scoprirlo. Con una tale scoperta poi si sarebbe finalmente
potuto far luce sulle sorti dell’ambiguo personaggio.
Così quel giorno d’inverno Francesco Mocenigo, alzandosi dallo sgabello dell’organo, l’animo
ristorato dalla sua musica, la pergamena impugnata nella sinistra, intendeva entrare nella
stanza segreta.
Erano due settimane che con l’aiuto del parroco, messo al corrente delle sue intenzioni,
cercava di trovare la chiave di lettura dell’impronta, ma sempre senza risultati soddisfacenti,
cosicché il vecchio prelato era andato vicino nel convincerlo a desistere dall’impresa.
La notte precedente però era finalmente giunta l’illuminazione: aveva trovato il modo per
decifrare la mappa e svelarne il significato. Al di sopra dell’impronta erano riportate cinque
lettere, più precisamente una per ogni dito, che lette insieme andavano a comporre la parola
necso, con la “s” cerchiata di rosso.
A questa, apparentemente priva di qualsiasi significato, non si era fino ad allora riusciti a dare
un senso.
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La soluzione era giunta a Francesco per una pura casualità, quando, prima di addormentarsi,
aveva letto sul gazzettino di Venezia la notizia che da lì a un anno il comune avrebbe
stanziato dei fondi per il restauro della cupola ovest della basilica.
Ora, pensando alle cupole di San Marco, gli era venuto in mente che queste in totale erano
cinque. Disegnando poi la mappa della basilica su un foglio, si notava come una ne occupasse
la posizione centrale. Sovrapponendo quindi la mappa e la pergamena e osservando contro
luce, si poteva scorgere una corrispondenza tra le cupole e le dita della mano. In effetti il dito
medio era leggermente arretrato rispetto alla posizione che avrebbe dovuto assumere
naturalmente e ciò lo portava a collocarsi al di sopra della lettera “c”, proprio al centro della
basilica. Le altre quattro lettere, con il pollice e il mignolo allineati al di sotto dell’impronta
del medio e l’indice e l’anulare allineati al di sopra. si andavano a sovrapporre alle restanti
cupole disposte intorno alla principale seguendo l’ordine cardinale nord-est-sud-ovest.
La lettera evidenziata dal vecchio organista era la s, il che non poteva che significare altro se
non che lo studio del Trevisan fosse situato nei pressi della cupola rivolta a sud, quella di San
Leonardo.
Francesco si diresse così, nella più assoluta solitudine, verso la parte meridionale della chiesa,
ne osservò le pareti, i soffitti decorati con splendidi mosaici, il pavimento, sempre alla ricerca
di qualche anomalia, ma tutto sembrava essere nella norma. L’operazione continuò per
qualche ora. Il luogo, nel frattempo, si andava animando delle prime vecchiette che pie
andavano a rivolgere le loro preghiere al Padre.
Anche don Carlo, il parroco, era entrato in chiesa. Si stava preparando per la celebrazione
della funzione mattutina, quando vedendo Francesco che camminava avanti e indietro senza
sosta, gli si era avvicinato incuriosito. Il giovane gli aveva spiegato entusiasta il nuovo
presunto significato della mappa, ma il prete, divenuto ormai pessimista, non mostrava più
alcun particolare interesse.
“Arrenditi, Francesco, — gli aveva detto — per anni, lo sai anche tu, storici, archeologi, preti e
frati, incuriositi dalle voci che circolavano su Bartolomeo Trevisan, si sono messi alla ricerca
della stanza segreta, ma tutti sprecando inutilmente forze e tempo. Non fare il loro stesso
errore. Non seguire le follie altrui, ma impiega il tuo tempo in modo fruttuoso. Costruisciti
una vita felice. Il tempo è il più grande dono che il Signore ci abbia offerto, non lo dobbiamo
bruciare, bensì sfruttare per produrre il progresso e il bene degli individui.”
“Forse hai ragione tu, mi sono lasciato troppo prendere dal desiderio della scoperta. Sono
giorni che mi affatico senza arrivare a risultati soddisfacenti e anche quest’ultima
interpretazione della pergamena mi sembra ora eccessivamente forzata. Inoltre non ho
trovato alcun segno in tutta questa zona che ho perlustrato che possa essere testimonianza
della presenza di quel maledetto studio!”
E preso dallo sconforto si lasciò cadere sulla panca di un vecchio confessionale ormai in disuso
da parecchi anni e diventato ambita preda dei tarli.
Don Carlo se ne era andato e Francesco era rimasto lì seduto per qualche tempo a meditare su
quanto fosse stato sciocco a credere a tutte quelle favole. In realtà quello che cercava di fare
era di convincere se stesso ad abbandonare l’impresa, ma più si ripeteva questo proposito, più
la volontà di continuare faceva sentire la sua voce. Nelle profondità dell’animo era ancora vivo
il desiderio di risolvere il mistero. Sapeva bene che i suoi ritrovamenti, i dati riportati dalle
indagini, non potevano essere frutto di combinazioni casuali, qualcosa doveva pur esistere. E
così travagliato da questa dicotomia interiore, incapace di scegliere tra la rinuncia e la
prosecuzione, si stava alzando, per andare a consolarsi e cercare consiglio nella sua amata
musica.
Era proprio quando stava seduto davanti all’organo che e sentiva le mani e le esili dita che si
muovevano agili lungo le due tastiere del grande organo, che Francesco provava un piacevole
sentimento di pace, che viaggiava e sognava accompagnato dalle melodie.
E allora si rendeva conto di come le mani fossero fondamentali per un musicista, in
particolare per un organista quale lui era. Comprendeva che esse erano il mezzo
fondamentale per esplicitare l’arte. E questo non valeva esclusivamente per la sua di arte, ma
per qualsiasi altro genere venisse considerato, che si trattasse di poesia, scultura o pittura. Lo
intuiva guardandosi intorno. Quante braccia di muratori, pensava, avevano, nel medioevo,
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contribuito alla costruzione di quella fantastica basilica, e, prima ancora, la sua pianta a croce
greca era stata sì ideata dalla mente di un abile architetto, ma disegnata servendosi delle sue
mani. Lo stesso poteva dirsi per tutte le statue che ornavano il luogo e per il battistero,
entrambi frutto del certosino lavoro degli scultori. Ancora una volta, infine, alzando gli occhi e
osservando i mosaici dorati, si accorgeva dell’importanza, oggi troppo spesso data per
scontata, della mano e del ruolo che essa riveste nella manifestazione del pensiero umano.
Non trovò nulla di errato nell’affermare che la mano traduca in atto ciò che il cervello
concepisce in potenza.
Fu proprio nel momento in cui Francesco si stava allontanando dal vecchio confessionale, che
da esso si staccò una colonnina che aveva la semplice funzione di abbellimento. Questa
cadendo andò a sbattere contro la parete e un suono inatteso giunse alle orecchie del giovane.
Era stato una sorta di rimbombo, il quale non lasciò dubbi: dietro la parete si celava uno
spazio vuoto.
Subito l’organista si voltò nella direzione di provenienza del suono e accanto ad esso si
riaccese la speranza. Dapprima bussò con le nocche della mano contro la parete, ma il rumore
che ne risultava era pieno. Si mise allora in ginocchio e riprovò. Ora il muro risuonava vuoto,
a un’altezza di circa mezzo metro da terra.
Perlustrò nuovamente la zona, ma ancora una volta non fu trovato alcun genere di passaggio.
L’unica soluzione rimasta era che la via si estendesse dietro al confessionale. Decise di
scostarlo e sulla pavimentazione apparve una figura dalla forma quadrata, con al centro una
maniglia. Era una botola. Non senza faticare, Francesco riuscì a sollevarla e davanti ai suoi
occhi si presentò una scaletta stretta stretta che si tuffava nei sotterranei della basilica per
qualche metro. La percorse con il cuore in gola. Era evidente che nessun essere umano fosse
più passato di lì da parecchi anni, perché questa era divenuta albergo di ragni e topi che
scappando di qua e di là rivelavano la presenza di acqua nella zona più bassa. E fu proprio
l’acqua che ridestò Francesco dal sogno che stava vivendo, quando, scostate le numerose
ragnatele, scese l’ultimo gradino trovandosi le scarpe completamente immerse. Ma questo non
gli importava, adesso per lui ciò che contava era entrare nello studio segreto, portarne
testimonianza. Oramai la sola cosa che lo separa da esso era una piccola porta il legno
malandata, in parte marcia, sicuramente a causa dell’umidità. La spinse, ma non si aprì, provò
una seconda volta mettendoci più energia, ma ancora niente, tentò una terza forzando la
serratura arrugginita, ma ottenendo ancora lo stesso risultato. Optare per sfondarla fu l’ultima
opzione rimasta e date le condizioni non fu difficile spaccare a calci le vecchie travi che la
componevano.
Gli occhi del giovane intanto si erano abituati all’oscurità. Questa era attenuata da un
fiammifero che teneva nella destra. Era infatti sua abitudine averne sempre una scatola nella
tasca della giacca.
Varcata la soglia, facendo attenzione a non ferirsi con qualche scheggia, la veduta che gli si
presentò lo lasciò smarrito. “Non può finire così! —pensò— Questa stanzetta non può essere
lo studio di Bartolomeo. E’ talmente piccola che non ci starebbero neppure una scrivania con
la rispettiva sedia.” E lasciandosi prendere dallo sconforto: “Questa mia pazzia diede fin dagli
inizi segni di poter essere un fallimento e in effetti tale ne è stato l’esito! Eccomi qui, bagnato,
sporco, in questo angusto locale, con i topi che mi corrono fra i piedi! Basta; non ne voglio più
sapere, tornerò su per rivelare l’amara verità!”
Si era ormai rassegnato. Stava per abbandonare il luogo quando, nel momento di uscire, vide
che sullo stipite erano state incise delle parole. Provò a leggere. La scritta era ridotta in
pessime condizioni, ma Francesco riuscì comunque a intenderne il significato. Essa recitava
così:
Nil tam difficile est quin qaerendo investigari possiet.
Francesco non ebbe problemi a tradurre dal latino, fin da bambino il nonno lo aveva educato
secondo la cultura classica e aveva terminato i suoi studi laureandosi a pieni voti in
archeologia. La passione per la musica lo aveva poi portato a ricoprire l’ambito ruolo di
maestro di cappella in San Marco. Così fece suonare in italiano la massima di Terenzio:
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“Non vi è nulla che a forza di ricerche non si possa penetrare.”
Il suo animo, già messo duramente alla prova nelle ore precedenti, subì un ulteriore
sconvolgimento: nuovamente la speranza aveva preso il posto dello sconforto.
Decise di perlustrare quella sorta di anticamera in cui si trovava, per vedere se vi fosse un
ulteriore passaggio che permettesse l’accesso all’agognato studiolo.
Fu la parete nord a catturare la sua attenzione. Essa era quella più lontana dall’ingresso,
totalmente avvolta nell’oscurità al punto che senza avvicinarsi se ne riuscivano appena a
scorgere le fattezze. Come le altre era realizzata in pietra, un materiale abbastanza comune a
Venezia, ma, a differenza delle sorelle, le sue pietre erano nettamente più grandi. Esse, nella
zona centrale, camuffavano un secondo uscio del loro stesso colore, che sarebbe passato
inosservato a un osservatore poco accorto. E in effetti quella forma stava per sfuggire anche al
nostro organista se non fosse stato attratto da una seconda scritta. Era più leggibile della
prima e diceva:
Numquam invenietur si contenti fuerimus inventi.
Questa frase, che ricordò appartenere a un’epistola di Seneca, la intese come: “Mai nulla si
scoprirebbe, se ci ritenessimo paghi delle cose scoperte.”
Ora la fiducia in se stesso era tornata ad animare il giovane. Credeva nei suoi propositi e in
tutto ciò in cui si era impegnato e aveva impiegato energie.
Oltre quella seconda porta avrebbe raggiunto il proprio obiettivo e con esso anche la
riconoscenza da parte dell’intera Venezia, ma aprirla, ancora una volta, non fu un’operazione
semplice. Anni di desuetudine, cui si aggiunse l’ingente mole, costarono a Francesco uno
sforzo fisico immenso. Per mezz’ora le sue spalle forzarono quella porta, innumerevoli volte le
sue ginocchia e i gomiti si piegarono per reclutare il massimo delle forze possibile da scaricare
sulle pietre; fino a quando si udì uno stridore, tipico di bandelle che raramente girano sui
cardini.
Entrando, ancora avvolto dal buio, comprese di trovarsi in una stanza di dimensioni maggiori
della precedente, poiché non riusciva a vederne la fine.
Fece qualche passo in avanti e giunse a un grosso tavolo in legno. Sopra di esso era situato un
elegante lampadario a olio in vetro. Francesco gli si avvicinò con l’intenzione di provare ad
accenderlo per illuminare il luogo, ma non appena gli accostò uno dei suoi fiammiferi, gli si
presentò allo sguardo uno spettacolo meraviglioso. Il grosso lampadario infatti era collegato,
per mezzo di un ingegnoso sistema ancora funzionante, a una serie di lampade secondarie che
si accesero insieme ad esso illuminando a un tempo l’intera stanza.
Inizialmente il giovane rimase abbagliato da quella improvvisa ondata di luce, poi pian piano
gli occhi si abituarono.
Osservando tutto intorno a sé ebbe la certezza di essere finalmente all’interno dello studio
segreto del suo predecessore rinascimentale Bartolomeo Trevisan. Il locale era di grandi
dimensioni, al centro, oltre al tavolo, c’erano due pilastri e più in là una piccola scrivania. Ma
ciò che lì era veramente mirabile era la biblioteca. Essa era totalmente ricavata nel muro.
Grosse nicchie accoglievano migliaia di libri riparati da bellissime vetrate colorate che al
tempo stesso li preservavano dall’umidità, che anche in quel luogo era abbondante. Francesco
ne aprì una prima, conteneva testi di filosofia classica greca e latina. Alcuni di essi erano di
grande valore storico e artistico, come una versione in edizione limitata del Timeo di Platone
pubblicata dal celebre editore Aldo Manuzio.
Proseguendo trovò raccolte di poesie, di musica, testi di matematica, geografia e sulle teorie
astrali. Infine nella zona più remota dello studio, come se Bartolomeo avesse voluto tenerli
lontani da occhi indiscreti, in una profonda teca, protetta da un vetro completamente
oscurato, avevano sede i testi che il giovane esploratore andava cercando con maggior
desiderio, quelli che col tempo avevano dato origine al lato sinistro della figura del Trevisan, i
libri di magia e alchimia.
Il cuore gli batteva forte in petto, una veccia lanterna ad olio illuminava soffusamente la zona,
creando un’atmosfera dai tratti fiabeschi.
Francesco aprì la teca. Il vetro muovendosi scricchiolò un poco, facendogli salire un brivido,
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per l’emozione, lungo la schiena. Per primo si trovò di fronte un librone dal colore marrone
scuro, ben rilegato, e con decorazioni in oro che rappresentavano un tralcio che si
avviticchiava su se stesso in una danza elegante e raffinata. Prese in mano il volume:
“Quanto pesa!” fu il suo primo pensiero. In effetti teneva fra le braccia uno dei pilastri della
tradizione alchemica europea e con esso tutto il suo peso culturale. Lesse il titolo dell’opera:
De la trasmutatione
de metalli
di M. Antonio Allegretti
E nel silenzio assoluto, con una mossa lenta, quasi teatrale, tenendo il libro con entrambe le
mani lo aprì e iniziò a leggere.
Un quarto d’ora più tardi riapriva nuovamente l’antina nera, questa volta rividero la luce
parecchi volumi e manoscritti fra cui i preziosi trattati di Janus Cornarius, Jacobus Zeglerus,
Otho Brunfelsius e l’opera omnia di Paracelsus, di Henricus Cornelius Agrippa e Desiderius
Erasmus.
“Quanta ricchezza artistica è qui raccolta e nascosta.” Su questo Francesco stava meditando,
quando alla meraviglia si sovrapposero nuove considerazioni sulla natura dell’arte in relazione
al suo singolare rapporto con la mano umana. “Bartolomeo è stato costretto a riparare qui
sotto il suo sapere, perché lo sapeva essere a rischio. Sapeva di non avere alcuna possibilità di
essere compreso dalla società del suo tempo. Non ebbe altra scelta che custodire in un luogo
sicuro i suoi libri e lì continuare in tranquillità gli studi, lontano da tutti. Tutto questo si rese
necessario, perché in quel periodo gli anni erano segnati dal clima inquisitorio della
controriforma. Nel 1559 venne istituito, per volere della Chiesa, il primo Index librorum
prohibitorum, nel quale figurano parecchi titoli qui custoditi, a partire dal De Monarchia di
Dante, per giungere ai testi di magia. Venezia, ahimè, non ebbe altra scelta che aderire ai
dettami tridentini. Versava infatti in un periodo di crisi dovuto alla costante minaccia
ottomana. Solo in questo modo poté entrare a far parte della Lega Santa che nel 1571 inflisse
un dura sconfitta presso Lepanto alla flotta turca, permettendole di tirare un profondo sospiro
di sollievo.
Allo stesso tempo, però, tutto ciò comportò l’inizio di un’epoca di forte censura alla libertà di
stampa e lettura. Tutti coloro che erano trovati in possesso di un volume proibito, o anche
solo sospettati di possederne uno, rischiavano di ritrovarsi presso il tribunale del Sant’Uffizio
per essere condannati a molti anni di prigione. E anche qui, per opera dei savi, non
mancarono grandi falò nelle principali piazze della città, che erano alimentati dalle
biblioteche ritenute più pericolose. Non si salvò nemmeno San Marco. Quello stesso
strumento che mi si era mostrato tanto abile nel generare arte, lo vedo ora capace, con una
paurosa, troppa, facilità di crearne la distruzione e desiderarne la morte eterna.
Allargando lo sguardo, a partire da questi libri, mi rendo conto di come la mano umana con la
sua falce sia stata spesso causa della rovina di ciò che di bello essa stessa aveva creato, per
volere di uomini privi di valori morali. Essa, nel novecento, gettando bombe, ha creato
desolazione, abbattuto città, abitazioni e ciò che è peggio distrutto la vita di milioni di esseri
umani. Come ha potuto l’uomo perpetrare un terribile eccidio quale quello compiuto ad opera
dei Nazisti ai danni degli Ebrei; dov’era rivolta in quegli anni la mano di Dio della volta della
Sistina?
Le nostre mani, inoltre, non distruggono semplicemente i manufatti, ma anche ciò che ci è
stato donato, che noi abbiamo trovato e che dovremmo assumerci il compito di preservare
invece che annientare. Il pianeta terra sta andando allo sfacelo, troppi uomini vedono in esso
una semplice miniera d’oro. Lo sfruttano per un mero tornaconto personale, senza rendersi
conto che così facendo non si porta nient’altro se non la morte. Il primo esempio che mi viene
in mente è la percentuale di tumori che nel nostro paese, secondo le ultime statistiche, è
aumentata del 10%. Tra le cause, accanto a tabagismo e scorretta alimentazione, spiccano le
cattive condizioni ambientali. Nelle grandi metropoli si vive a stretto contatto con aria il cui
tasso di inquinamento supera la soglia di sicurezza, ci si ammala e si muore. Qualche anno fa
negli Stati Uniti moriva di cancro il presidente di una delle più potenti multinazionali nel
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campo dei legnami. In vita fu un uomo che promosse l’abbattimento di ampie porzioni della
foresta Amazzonica, il cosiddetto polmone verde del pianeta. Egli, solo trovandosi sul letto
d’ospedale, comprendendo le cause prime del suo male, si rese conto di essersi dato lui stesso
la morte. Fu così che pochi giorni prima di lasciare i suoi cari, espresse il desiderio di volere
un cambiamento e investì circa trenta milioni di dollari per finanziare opere di
rimboschimento in America latina.
Bisogna giungere a tanto per capire? Alla situazione attuale pare proprio di sì. Ma nulla è
definitivamente perduto. Ciò che conta è saper riportare la mano al suo compito primario,
quello di cui facevano uso i nostri antenati argentini. Conta saper creare una tecnologia atta al
bene della società e che miri a un miglioramento della condizione umana e, perché no, che sia
anche al contempo in grado di meravigliare con il sublime.”
Un suono, cui fino allora non aveva badato, distrasse Francesco. Poco dopo gli si aggiunse la
sensazione di essere bagnato. Nel frattempo infatti si erano create delle cascatelle che
scendevano lungo i muri dello studio e per questo motivo al suo interno il livello d’acqua
cresceva di continuo e, quel che era peggio, pure celermente. La causa era semplice da intuire,
si trattava della ben nota acqua alta, che invade frequentemente Venezia. Il luogo era poi
maggiormente esposto al rischio allagamento, proprio perché si trovava, anche se di pochi
metri, al di sotto del livello stradale. E poiché l’acqua non risparmia nemmeno la basilica, in
tali casi lo studio veniva quasi completamente sommerso, fatto che poteva essere confermato
da un’accurata osservazione delle pareti, che ne riportavano i segni.
Così, riposti i libri, dopo pochi minuti, Francesco si ritrovò immerso fino al ginocchio. Per
uscire si diresse all’ingresso, ma qui trovò ad attenderlo una spiacevole sorpresa. La porta nel
frattempo si era chiusa e ora risultava impossibile da aprire a causa della forza che l’acqua vi
esercitava sopra.
Dopo un primo periodo di panico la ragione tornò in suo aiuto e gli mostrò quanto fosse
probabile che Bartolomeo Trevisan, il quale doveva sicuramente essere al corrente di tale
eventualità, avesse pensato a una via alternativa di uscita.
Si mise a cercarla. Il livello dell’acqua aveva intanto raggiunto la vita. Muoversi iniziò a
risultare difficoltoso e a ciò non tardò ad aggiungersi il freddo. Anche la visibilità andava
diminuendo, poiché l’acqua discendente dai muri aveva già spento parecchie lampade a olio.
Fortunatamente il grosso lampadario centrale rimaneva ancora acceso.
Giunto nella zona dello studio in cui erano custoditi i libri di astrologia, Francesco notò sul
soffitto una botola. Doveva essere l’uscita da utilizzare nei casi d’emergenza. Spostò allora non
senza fatica il tavolo di legno in modo da poterla raggiungere con maggiore facilità.
L’acqua alta intanto gli stava mostrando un particolare veramente interessante circa la
genialità del suo predecessore. Il sistema di vetri e teche adottato e ideato dal Trevisan
permetteva infatti di mantenere i libri assolutamente al sicuro da qualsiasi infiltrazione,
poiché il vetro, aderendo alla struttura, garantiva il completo isolamento.
Una volta raggiunta la via di scampo, Francesco si trovò davanti all’ennesima difficoltà. Sul
fronte della botola campeggiava la rappresentazione in rilievo di una grossa mano ai cui
polpastrelli erano stati praticati dei fori, tutti delle medesime dimensioni. Di fianco a questa
notò che era appeso un sacchetto in cuoio che conteneva esattamente cinque pietroline di
forma sferica. Era evidente che Bartolomeo volesse impedire che un possibile infiltrato,
entrato nel suo studio, potesse abbandonarlo agevolmente, per poi presentarsi davanti al
Consiglio dei Dieci con l’intenzione di accusarlo di eresia. E così aveva inventato una chiave
più sicura di qualsiasi altra, che non è materiale, ma che può essere trovata esclusivamente
facendo uso delle proprie abilità mentali.
Francesco non aveva atteso un attimo per mettersi al lavoro. La fortuna in questo caso fu dalla
sua parte. Anche se in piedi sul tavolo, l’acqua aveva ormai raggiunto le tasche della sua
giacca, e nel tentativo di mettere in salvo i fiammiferi, si ricordò di aver portato con sé il
piccolo diario del Trevisan, sul quale erano riportate le sue cinque opere più apprezzate e con
esse, in ordine cronologico di composizione, le impronte digitali delle diverse dita della mano.
L’associazione fu immediata e, dato che non si poteva più aspettare, questa si presentò come
l’unica soluzione.
Francesco inserì nelle cavità della botola le cinque pietroline seguendo l’ordine che trovava
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scritto. L’operazione fu piuttosto complessa a causa della forza di gravità, ma una volta
inserite quelle rimanevano incastrate nel loro dito. E così, una volta terminato, un
meccanismo si mise in movimento, segno che Francesco aveva interpretato correttamente il
funzionamento del marchingegno. Una possente molla fece quindi scattare la botola dal lato
sinistro aprendo il passaggio. Un cunicolo verticale, lungo all’incirca tre metri, riportava in
superficie. Ad esso era agganciata una scala a pioli in ferro della stessa lunghezza. Saltando
Francesco afferrò il primo gradino e facendo appello a tutte le sue forze si tirò su di braccia,
finché non vi poté poggiare sopra anche i piedi. Di qui la salita non fu difficoltosa, se non per
il fastidio delle gocce che di quando in quando, colpendolo negli occhi, gli impedivano la
vista.
Terminata la scalata, Francesco sì ritrovò all’interno di una delle due vere da pozzo collocate
nel cortile di palazzo ducale. Essendosi ormai fatto l’imbrunire, nessuno si accorse di quella
sua strana apparizione.
Carico di entusiasmo si diresse immediatamente alla contigua basilica, per rendere don Carlo
partecipe della sua stessa gioia, derivante dalla recente e sensazionale scoperta. Passò a testa
bassa sotto i quattro cavalli bronzei, bottino veneziano della IV crociata, posti al di sopra
dell’ingresso a strombatura, sfilò rapidamente per la navata centrale, diretto alla sagrestia,
dalla cui porta aperta si vedeva il parroco intento nella lettura dei salmi.
Proprio nel momento di entrare il suo sguardo fu catturato da un mosaico che fino ad allora
non aveva mai notato, forse per semplice sbadataggine o forse perché la rappresentazione fu
distorta della sua immaginazione, alla quale la mente stanca e piena di passioni non impediva
di viaggiare. Ciò che vide fu la distruzione del tempio di Gerusalemme, la seconda, quella
voluta dall’imperatore romano Tito. La scena aveva sembianze tanto reali che iniziò a
prendere vita. Ed ecco i legionari che coi pugnali stretti in mano fanno strage di ebrei, senza
provare pietà nemmeno verso i più giovani che si erano recati lì per pregare. Guardando
all’interno attraverso le finestre si scorgono altri soldati che, le torce nella sinistra, danno alle
fiamme tutto ciò che incontrano: panche, tendaggi e persino i lunghi e preziosi rotoli della
thorah. Tutto viene letteralmente divorato dal fuoco per poi sparire per sempre.
Contemporaneamente, dal di fuori, immense macchine belliche scagliano possenti pietre,
sotto i cui colpi le mura rovinano al suolo come costruite di sabbia, sotterrando vite umane di
entrambi gli schieramenti. Le urla della folla fanno da sfondo sonoro alla terribile scena e il
panico è dipinto sul volto dei sopraffatti. Ovunque l’uomo ha portato distruzione e dolore.
Improvvisamente una voce, levatasi dal silenzio, lo distolse dalla scena. “Allora stai bene,
Francesco! Ti ho cercato tutto il pomeriggio, ma non trovandoti iniziavo ad essere
preoccupato. Temevo ti fosse successo qualcosa. Ma dimmi, dove sei stato in questo tempo?”
Dall’altra parte rispose il silenzio, accompagnato da uno sguardo intenso.
“Non ti senti forse bene, ragazzo? Ti vedo stanco; siediti qui e raccontami cosa ti è capitato.”
Francesco, che in effetti era spossato, si sedette volentieri sulla morbida poltrona indicatagli
da don Carlo, quindi iniziò la narrazione della sua scoperta.
“Penso che dove ci sia una grande volontà non possano esserci grandi difficoltà. Più volte hai
tentato di aprirmi gli occhi, facendomi capire che mi stavo cimentando in un’impresa
fallimentare; più volte hai tentato di convincermi a desistere. Ci sei andato vicino, lo confesso.
Ma non ci sei riuscito. Dentro di me sapevo che quella mappa mi avrebbe portato da qualche
parte e ho continuato instancabile a cercare.”
A questo punto si fermò. Chiese un bicchiere d’acqua fresca, la gola era secca e le parole erano
articolate a fatica. Riprese.
“Non ho scoperto niente. Ho vissuto in un sogno, ho fatto della realtà stessa un sogno. E un
sogno, in quanto tale, è effimero e destinato a svanire al comparire delle prime luci. E una
volta svegli si può percepire l’angoscia della propria condizione, perché ci si rende conto di
trovarsi in una realtà differente da quella ideale. Questo è quello che mi è capitato. Tutto ciò
che ho scoperto non è stato altro che un angusto e umido stanzino. In quella oscurità la luce
mi ha destato, mi sono liberato dalle catene, sono finalmente riuscito a uscire dalla caverna.
Insomma mi sono reso conto della mia miopia, dei miei utopici progetti. Non è stato altro che
un completo insuccesso.”
“Non ti abbattere, Francesco, tutti possiamo commettere degli errori. Non sei tu il primo a
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fallire in questo genere di ricerche. Bisogna essere capaci di accettare anche la sconfitta, da
utilizzare come fondamento per future vittorie.”
Don Carlo non aveva capito nulla. Non era stato in grado di afferrare gli effettivi sentimenti e
pensieri di Francesco:
“La giornata di oggi mi ha offerto svariati spunti di riflessione. Posso dire di essere giunto alla
conclusione che le mani per l’uomo siano ciò che lo rendono veramente tale. Anche sotto un
aspetto meramente biologico il genere homo nasce grazie allo sviluppo delle abilità manuali.
Ed ecco che due milioni e mezzo di anni fa si passò dall’Australopithecus all’Homo habilis. E
che segno indelebile esse hanno lasciato durante questi lunghi anni, nel bene e nel male. Ma i
fatti mostrano che nella società odierna l’uomo se ne stia servendo sempre più per
distruggere, non per costruire, non per preservare.
Uomo, non sei ancora pronto per accogliere nuovi doni. E allora simbolicamente quei libri
rimarranno dove sono sempre stati per tutto questo tempo, al sicuro dai tuoi artigli. Ma non
sarà così per sempre. Arriverà anche per noi l’età dell’oro, i tempi saranno maturi, e allora essi
ti verranno restituiti.
Prima o poi ci renderemo finalmente conto e sentiremo che ognuno di noi è il proprietario di
una piccola porzione di quel tempio in cui viviamo, che deve essere custodita amorevolmente.
Non è infatti speranza del rabbino che il proprio tempio crolli da un momento all’altro. E se
finora siamo stati negligenti, non rassegnamoci, perché non tutto è perduto. I lavori di
ristrutturazione saranno lunghi e faticosi, ma queste mani saranno ancora in grado di
regalarci frutti stupendi. Ricordando di essere gli Ebrei, che amano il loro luogo di culto, e
non i Romani, come purtroppo spesso capita, che lo vogliono distruggere, solo così ci si
prospetterà un futuro migliore. E questo dovrà essere il punto di partenza per una società più
giusta, nella quale ciascun individuo sia rispettato per quello che è, un essere umano.”
E chi sa mai che Cattelan con la sua arte provocatoria non voglia risvegliare in noi proprio
questo sentimento?
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Premio Letterario “Federico Ghibaudo”
anno 2013 - 19a edizione
“IL VOLO”
di Clara Rossi - 5a A
Una stanza: vuota.
In un angolo scorgi del materiale: oggetti di dimensione e composizione diversa.
Ti avvicini: osservi: tocchi. Soppesi ogni corpo; li sposti, li sovrapponi.
Le tue mani non stanno compiendo nulla di nuovo, tutte azioni già fatte e rifatte. E allora
muovi, avvicini, separi, spezzi.
Quasi non ti accorgi di ciò che stai facendo.
E il tempo passa.
La stanza non è più vuota.
Lì, al centro, sta la tua creatura. Immensa.
La guardi e non realizzi: non è con gli occhi che la conosci.
Ti avvicini: la tocchi. Riscopri tutti i vari pezzi. Ripercorri tutto il lavoro fatto.
Sì, è la tua.
Stupenda.
E la vedi volare, la vedi prendere vita.
Non c’era nulla: l’hai creata.
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