9Linguaggi speciali

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9Linguaggi speciali
9 Linguaggi
speciali
Antologia 3
Teatro e cinema
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LABORATORIO TEATRALE
FACCIAMO TEATRO
Dall’idea, al canovaccio, al testo
p. 1
Prime azioni teatrali: le improvvisazioni
p. 6
BIBLIOTECA DI TESTI TEATRALI
leggiamo il TEATRO
Aristofane
Plauto
La pace
Anfitrione
L. Pirandello
p. 14
Romeo e Giulietta
p. 22
Una domanda di matrimonio
p. 31
W. Shakespeare
A. Čechov
p. 9
La patente
p. 38
laboratorio teatralE
Antologia 3
9. Linguaggi speciali
facciamo teatro
Dall’idea, al canovaccio, al testo
COME TR ASPORRE UN’IDEA
IN UN CANOVACCIO
1
Quando non c’ è nessun testo narrativo
da cui partire, ma soltanto una traccia o
un’ idea, come si fa per scriverne uno?
Leggi il percorso seguente, che descrive i
diversi passaggi svolti per giungere al testo
teatrale Arlecchino e lo stomaco brontolone.
A
Arlecchino è il servo, continuamente affamato e senza denari, di Pantalone,
un vecchio, ricco e avaro mercante di Venezia. Arlecchino scopre le provviste
L’idea
di Pantalone e vuole mangiarsele, ma il vecchio, richiamato dal brontolìo
dello stomaco vuoto di Arlecchino, lo sorprende e lo caccia di casa. Disperato, Arlecchino
incontra Brighella, servo della marchesa Rasponi, una vecchia, bruttissima e ricchissima zitella. La marchesa deve inviare un suo ritratto a uno spasimante lontano che la vorrebbe sposare. I due servi, allora, inventano una truffa ai danni della marchesa: Arlecchino, travestito,
si fingerà pittore e si farà pagare in anticipo dalla marchesa, poi i due malandrini divideranno
il bottino. Il raggiro sembra riuscire, ma, sul più bello, Pantalone giunge inaspettato a casa
della marchesa e, udendo il brontolìo dello stomaco vuoto di Arlecchino, riconosce nel pittore
il suo servo e smaschera l’imbroglio. Allora…
1
B
Dall’idea si può elaborare una traccia più articolata e completa che,
nel linguaggio teatrale, si chiama «canovaccio».
Il canovaccio
Il canovaccio è un particolare testo teatrale che riassume il racconto e
lo divide in scene di cui indica i personaggi e i fatti, ma non le battute.
Le battute, infatti, sono improvvisate dagli attori direttamente sulla scena, quindi possono
variare di volta in volta. Questo modo di recitare, molto diffuso nel XVI e XVII secolo e tipico
di un genere teatrale detto «Commedia dell’Arte», richiedeva che gli attori fossero molto
bravi e affiatati.
Ecco come il canovaccio descrive le prime due scene tratte dall’idea.
Scena prima
Rientrando in casa di Pantalone, Arlecchino sente brontolare il suo stomaco vuoto
e prende a lamentarsi della propria fame e del proprio padrone avarissimo, che
non gli dà di che vivere. Pantalone sembra essere uscito, ma in realtà, richiamato
dal brontolìo, spia il servo di nascosto. Arlecchino decide di rubare il cibo dalla
dispensa del suo padrone. Vi trova salsicce, formaggi, vino e pane, ma Pantalone,
armato di un nodoso randello, bastona il servo ladro e lo caccia di casa.
Facciamo teatro
Scena seconda
Sulla strada, Arlecchino malconcio incontra Brighella e si lamenta con lui della sua
sfortuna. Brighella gli propone di truffare la marchesa Rasponi, sua padrona, che
deve spedire il proprio ritratto a un capitano, suo lontano spasimante. Brighella
propone ad Arlecchino di travestirsi da pittore: lui lo presenterà alla marchesa
dalla quale, dopo aver finto di abbozzare il ritratto, Arlecchino si farà dare un
anticipo di cinquanta scudi d’argento. Uscito dal palazzo, il «pittore» sparirà e i
due si divideranno la somma. I due si danno appuntamento presso il palazzo della
marchesa.
C
La trasformazione
in testo teatrale
Poiché recitare un canovaccio improvvisando le battute richiede una grande abilità, si può trasformare un canovaccio
in un vero e proprio testo teatrale.
Per mettere in atto questa trasformazione occorre:
definire in modo preciso le situazioni indicate dal canovaccio e arricchirle di particolari;
inventare e scrivere i dialoghi;
precisare nelle note d’inquadramento i luoghi e gli elementi scenici;
precisare, nelle note per gli attori, le azioni, gli spostamenti e i modi di recitare.
Adesso, leggendo il testo teatrale definitivo, potrai verificare i vari passaggi svolti.
Ti accorgerai che i personaggi usano un linguaggio particolare, che mescola alla lingua italiana alcune espressioni del dialetto veneziano.
Ciò accade perché Arlecchino, Pantalone e Brighella sono personaggi veneziani che appartengono alla tradizione teatrale della Commedia dell’Arte.
1. quinta: lo
spazio, posto ai lati
del palcoscenico
e invisibile agli
spettatori, dove gli
attori attendono di
entrare in scena.
2. brontolìo: il
brontolìo può
essere prodotto
«a vista» da un
rumorista, posto
di lato ai piedi
della scena,
che percuote un
timpano o aziona
una «macchina del
tuono» teatrale,
composta da un
ARLECCHINO E LO STOMACO BRONTOLONE
Atto primo
Scena prima
Scena: la casa di Pantalone. Una cassapanca da un lato e un piccolo armadio sul
fondo. Entra Arlecchino curvo sotto il peso di un grosso sacco.
ArlecchinoOh finalmente son arivà. (scarica il sacco e ci si siede sopra, ansimante)
Sior Pantalon! Sior Pantalon, g’ho portà il saco de carbon per la stufa!
(nessuno risponde) Sior Pantalon? (attende risposta, che non arriva)
Ostrega, il sior Pantalon è uscito… Strano però, la porta non era
chiusa a ciave. (alle sue spalle, dalla quinta1, fa capolino Pantalone, che
mostra di assistere alla scena di soppiatto; si sente un brontolìo 2 sordo,
Arlecchino sobbalza) Perbacco, che tuono, forse piove! (fa l’atto di
Il
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pia
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guardare il cielo dalla finestra, verso il pubblico) Ma… Xe tutto sereno!
(si risiede sul sacco, il brontolìo si ripete più forte e Arlecchino sobbalza
portando le mani al ventre) Ahi, ahi, che mal de panza! No xe il tuono:
xe il mio stomego che se lamenta! Ahi che fame terribile! (il brontolìo
si ripete e Arlecchino si contorce) Ahi, ahi, tuta colpa de quel tirchio
del sior Pantalon, che non me da niente da magnar! (è colto da un’idea
improvvisa) Ma… xe l’occasion che aspetavo: il sior Pantalon xe uscito e
io posso servirme a la dispensa… e anche cercar qualche ducato per
andar all’osteria! (si guarda attorno furtivo, poi apre la cassapanca, vi
caccia dentro la testa e incomincia a rovistare, si raddrizza) Varda quanta
bona roba! (torna con la testa nella cassapanca)
Pantalone(entra in punta di piedi con un nodoso bastone in mano e si piazza
sogghignando dietro Arlecchino, in attesa)
Arlecchino(emerge dalla cassapanca con una fila di salsicce) Ostrega che belle
salsicce! Le voleva magnar tute da solo, quel vecio ingordo! Gli
andasse tuto de traverso! (posa a terra le salsicce, mentre si sente il
cupo brontolìo del suo stomaco) Ehilà, calma stomego! (si accarezza il
ventre) Ora arrivano le leccornie! (si rituffa nella cassapanca)
Pantalone(prende le salsicce, le ripone silenziosamente nell’armadio e ritorna in
posizione di attesa)
A rlecchino(emerge con alcune forme di cacio legate tra loro) Mira che bele
provole! E a mi niente, quel vecio bavoso! Potesse venirgli l’orticaria, la
pellagra e la dissenteria! (posa il cacio; brontolìo dello stomaco) Ancora
un momento, stomego, un po’ di pazienza, ciò! (torna a capofitto nella
cassapanca)
Pantalone(ripete, con il cacio, l’azione precedente)
Arlecchino(riemerge) Ecco, ecco: una bela forma de pan e una bottiglia de buon
vin! Ah, che meravegia! (posa pane e vino) Ora me farò una magnada
memorabile, a la barba del vecio spilorcio, che gli prenda lo scorbuto!
(estrae dalla casacca una tovaglietta, un piatto e un paio di posate e si
prepara come per un picnic)
Pantalone(nel frattempo fa sparire pane e vino, come in precedenza cacio e
salsicce)
Arlecchino(finisce di preparare la «tavola») Ecco qua, e ora… (si volta per
prendere il cibo, che è scomparso) Ma, dove xe finio? (guarda sotto
la tovaglietta, nella cassapanca, si alza in piedi e rovista nelle tasche)
Ma che stregoneria xe questa? Li avevo posati proprio qui (si volta e
vede Pantalone che in quel momento si è posizionato al posto del cibo
e brandisce il bastone) dove ora c’è il sior Pantalon. (resta un attimo
perplesso, poi realizza la situazione) Il sior Pantalon! Aaaaaah! Aiuto!
(scappa correndo in tondo sulla scena inseguito da Pantalone)
PantaloneTe g’ho ciapà3, ladro! Fiol d’un can! Assassino di salsicce! (molla
fendenti all’aria)
ArlecchinoNo! Aiuto! Mi uccide! Pietà, paron, pietà!
I due compiono due giri della scena urlando.
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telaio al quale è
appeso, con due
corde, un foglio di
lamiera metallica,
che viene scosso
per mezzo di
maniglie di corda
poste nella sua
parte inferiore.
3. Te g’ho ciapà:
Ti ho preso.
Il
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pia
Pantalone(affaticato, capisce che non riuscirà a raggiungere Arlecchino, allora si
ferma ansimando e ne attende il passaggio con il bastone levato)
A rlecchino(non si è accorto della manovra e continua a correre in cerchio) Perdono!
No xe colpa mia! Xe il mio stomego che mi ha costretto!
Pantalone(cala il bastone al passaggio di Arlecchino mancando il bersaglio, allora
si concentra per un secondo colpo)
Arlecchino(continua a girare urlando) Pietà, el mi stomego xe come un putin4!
Quando el g’ha fame non intende ragioni!
PantaloneIl tuo stomego non intende ragioni, ma il tuo cranio intende ’sta
sventola! (cala il bastone sulla testa di Arlecchino)
A rlecchino(stramazza al suolo tenendosi il capo, mentre Pantalone lo colpisce
ripetutamente) Ahi! Ahia! Pietà! Mercede!
Pantalone(assestando bastonate) Questo per lo scorbuto, questo per l’orticaria
e la pellagra e questo per la dissenteria (con una pedata fa rotolare
Arlecchino giù, o fuori, dalla scena, verso gli spettatori) E non farte più
veder in casa mia, mangiapane a tradimento! (si ricompone soddisfatto
di sé) E ora, a tavola! (esce)
Scena seconda
Scena: la strada davanti alla casa di Pantalone. Non occorrono cambi di scena, basta
recitare sul proscenio.
A rlecchino(si rialza e si siede sul bordo del palcoscenico) Ohi, poareto mi!
Sansa niente da magnar, sansa sghéi 5, sansa casa e pieno di lividi!
(piagnucola)
Entra Brighella.
4. putin: bimbetto.
5. sghéi: quattrini.
BrighellaEhilà Arlechin, cossa te capita? Hai mal di pancia?
ArlecchinoMale, malissimo caro Brighela! G’ho la panza vuota e il sior Pantalon mi
ha bastonato e cacciato di casa!
BrighellaLa questione è seria!
A rlecchinoSeria? Xe tragica! Se no me viene un’idea per trovar da magnar, ’sta
sera sarò morto per la fame, consumato, evaporato!
BrighellaEh via, non xe mica il caso de fare la tragedia… (pensa) Io, però,
un’idea ce l’avrei…
A rlecchinoUn’idea, un’idea per magnar?
BrighellaSicuro, ma dovrai aspetar fino a questa sera e sbrigar un lavoreto.
ArlecchinoL avorare? Lo sapevo che c’era la fregatura. Ti xe proprio un bel amico!
BrighellaMa no, no xe proprio un lavoro… La mia parona, la marchesa Rasponi,
xe vecia e bruta come la morte, ma xe vedova, ricca da far paura e
cerca un marito…
Arlecchino(salta in piedi indispettito e prende Brighella per il bavero) Lo vedi che
sei una bestia! Me voresti far sposar una vecia mummia solo per poder
magnar!
BrighellaMa ascolta…
Arlecchino(con rabbia) E la mia Colombina che xe giovane e bela a chi la doverìa
lassar? A una bestia come ti?
Il
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pia
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righellaMa no! No ti g’ha capìo niente! Tu devi solo far finta d’esser un pittore!
B
Arlecchino(sorpreso) Un pittore? Ma mi non so nemmeno colorar de nero una
gondola nera!
BrighellaMa non fa nulla! Ascolta: la Marchesa g’ha un’amica spagnola con un
fratello, capitano nel Messico, scapolo e babbeo. Questa amica g’ha
scritto al capitan e lo g’ha quasi convinto a sposare la Marchesa con un
matrimonio «per procura»…
ArlecchinoE che cosa gli procura?
BrighellaMa niente gli procura! «Per procura» vuol dir che i due se sposano
a distanza, senza conoscersi prima del matrimonio! Poi la sposa
raggiungerà lo sposo!
ArlecchinoMa allora questo capitan xe proprio un gran babeo!
BrighellaE la sorela xe una furba, che vuole metter le mani sui soldi della
Marchesa! Ma il capitan, per accettare il matrimonio, vuole prima
vedere un ritratto della Marchesa… xe qui che arrivi tu, per farle il
ritratto!
ArlecchinoSì, la Marchesa xe già orribile, se poi il ritratto lo fasso mi, il capitan
preferirà sposarse con un’orca marina!
BrighellaMa dai, stolto! No xe necessario fare il ritratto: tu vieni dalla Marchesa
vestito a modo e io ti presento come grande pittore; tu dici alla
Marchesa parole di miele, le fai grandi complimenti e poi la fai sedere
in posa; infine le dici che, per non affaticarla, farai solo uno schizzo,
che terminerai nel tuo studio. Naturalmente chiedi cinquanta scudi
d’argento come anticipo per le spese e poi sparisci. Il gioco xe fatto!
ArlecchinoCinquanta scudi d’argento? Ma xe una cifra enorme!
BrighellaPer la riccastra no xe nulla! Oh, naturalmente, il giorno dopo se
vedemo e tu me dai la mia parte!
Arlecchino(sognante) Sì, che meravegia! Sai che magnade con cinquanta scudi!
BrighellaVai allora, procurati il travestimento; ti aspetto tra due ore al palazzo
della Marchesa! (esce)
Arlecchino(agitatissimo) Vado, vado! Cinquanta scudi d’argento! Potrò magnar
fino a morire! (si sente un brontolìo fortissimo, Arlecchino sussulta e
si rivolge al suo stomaco) Ancora poche ore de pasiensa, stomego, e
poi avrai ogni ben de Dio! Cinquanta scudi d’argento, ostrega! (esce
accompagnato da un altro brontolìo)
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Intermezzo musicale
Alcuni musici posti ai piedi e a lato della
scena suonano un brano mentre, in silenzio
e con attenzione, il cambio della scena
viene svolto «a vista» da attrezzisti in
costume.
V. Bastita, Altri orizzonti, Edizioni il capitello
Il
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laboratorio teatralE
Antologia 3
9. Linguaggi speciali
facciamo teatro
Prime azioni teatrali: le improvvisazioni
Reagire con prontez z a
di riflessi alle
situa zioni inattese
Eccoci nuovamente all’appuntamento con
l’ improvvisazione teatrale!
Ora il gioco si fa difficile… devi mostrare
tutta la prontezza di riflessi di cui sei capace!
Con i tuoi compagni, leggi con attenzione le proposte; prendetevi un po’ di tempo per concentrarvi sulle situazioni e immedesimarvi nei personaggi in modo da poter reagire con prontezza di riflessi anche a situazioni
inattese.
Il primo gioco presenta un vero e proprio intreccio narrativo abbastanza strutturato e complesso:
il protagonista, un giovane studente (il «Lettore»), rimane in scena tutto il tempo con altri cinque o
sei attori. Utilizzate gli sguardi, i gesti e anche le parole (potete anche usare cadenze diverse); state
sempre rivolti verso il pubblico, parlando con un volume adeguato.
1
La scena
si svolge
all’interno
di una casa,
nel soggiorno
o nella camera
dello studente.
LE TRIBOLAZIONI DI UN GIOVANE LETTORE
Il Lettore rientra a casa dopo una brutta mattinata di scuola e, parlando tra sé e sé,
manifesta il desiderio di finire la lettura di un libro giallo che lo sta appassionando.
Prima si prepara un bel panino con il cioccolato e un bicchiere di latte, quindi si sdraia
sul divano (con espressione beata) con la merenda e il libro giallo.
Ma… uffa, suona il campanello!
un amico che gli chiede la bicicletta in prestito, raccontandogli però una lunga
È
storia su come il giorno prima ha forato la gomma della sua bici. Il Lettore risponde
gentilmente e consegna all’amico le chiavi del lucchetto della sua bicicletta.
Appena iniziata la lettura del giallo, suona nuovamente il campanello: è un’amica di
sua madre che gli chiede il favore di portare a passeggio il suo cagnolino, lei non può
perché ha l’influenza. Il Lettore inventa una scusa e rifiuta.
I l Lettore riprende la lettura, ma suona nuovamente il campanello! È una vicina di
casa, indaffarata e frettolosa, che gli chiede il favore di tenergli il bambino per poco
tempo perché deve fare una commissione. Il Lettore, anche se di malavoglia, accetta.
Il piccolo ha un anno: comincia a gattonare per tutta la stanza, afferrando oggetti
e facendo gridolini di gioia. Il Lettore tenta di leggere, ma deve continuamente
interrompersi per occuparsi del piccolo che a un certo punto si mette a piangere a
dirotto perché vuole la mamma.
A questo punto suona il telefono. Il Lettore, tra le urla del bambino, risponde: è la
signorina di un call-center che gli propone di abbonarsi a una pay-tv che offre
programmi di sport, musica e intrattenimenti vari per ragazzi. Il Lettore, esasperato,
risponde in malo modo!
Finalmente ritorna la madre a riprendersi il bimbo. S’intrattiene a lungo parlando
diffusamente della commissione fatta e ringraziando esageratamente il ragazzo.
Quando infine si avvia verso la porta, vede il libro giallo buttato sul divano: anche lei
lo ha letto, ma, gli dice, non avrebbe mai pensato che l’assassino fosse il cuoco…
A questo punto il Lettore ha una crisi di nervi, caccia la vicina (con il bimbo che
ricomincia a urlare) e le dice di non chiedergli mai più alcun favore!
Facciamo teatro
6
2
I partecipanti a questo gioco ricevono un libro e hanno l’incarico di studiare con molta attenzione
il risvolto o il retro della copertina, dove in poche frasi vengono riassunti gli argomenti o gli
avvenimenti narrati.
Viene dato un tempo di preparazione
di circa 15 minuti, trascorso il quale
ciascuno, a turno, entra nello spazio
scenico, preferibilmente senza il libro, e, con il tono di voce di un appassionato lettore, tenta di invogliare
il pubblico alla lettura del suo volume
(tempo: non più di 2 minuti). Osserva
l’esempio qui a lato.
3
UN LIBRO IN UN MINUTO
Siamo nel 1138, tra le mura di un’abbazia benedettina
inglese. Fratello Cadfael riceve l’ordine di dare
sepoltura ai prigionieri uccisi per ordine di re Stefano.
I conti, però, non tornano: i giustiziati sono stati 94,
mentre i cadaveri da seppellire 95. Chi sarà il
«cadavere di troppo» ? E chi lo avrà ucciso?
Sul fitto mistero indaga Fratello Cadfael, in un giallo
avvincente, ricco di imprevisti e colpi di scena. Non
perdetevi Un cadavere di troppo, di Ellis Peters,
Edizioni il capitello!
I partecipanti a questo
gioco sono disposti in
cerchio, molto vicini uno
all’altro.
A L a prima parte del gioco consiste nel far passare i libri da
un partecipante all’altro. L’insegnante scandirà un ritmo
battendo lentamente le mani
e, a un tratto, interromperà
l’azione
gridando
«stop».
B A
questo punto ogni partecipante si troverà in possesso
di un libro e avrà inizio la seconda fase dell’esercizio.
C A
turno, seguendo l’ordine
del cerchio in senso orario
o antiorario, ciascuno dovrà
improvvisare una frase con
il seguente inizio: «Questo
libro mi piace perché…».
D La
frase improvvisata dovrà
essere suggerita da uno degli aspetti del libro (copertina, peso, titolo, argomento,
nome dell’autore, ecc.).
E Q
uando tutti avranno pronunciato la loro frase, si riprenderà il passaggio dei libri. Al
nuovo «stop» dell’animatore,
si ricomincerà con le frasi,
ma questa volta la frase inizierà così: «Questo libro non
mi piace perché…».
Il
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pia
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Scrivere brevi
testi per l a
messa in scena
Noi ti diamo qualche idea, tu devi arrivare
a mettere in scena almeno uno spunto,
passando per le varie tappe.
Trasforma gli spunti che ti proponiamo prima in un
canovaccio, poi, aggiungendovi le battute, le note di
4
inquadramento e le note per gli attori, in un copione
pronto per la messa in scena.
I commessi e i loro clienti
Gli attori lavorano a coppie (commesso/cliente) in una delle seguenti scene.
I l commesso di un negozio di scarpe è un tifoso di calcio che in
negozio sta seguendo la partita della sua squadra alla tv. Entra
un cliente incontentabile che sta cercando un paio di stivali.
Si assiste a un divertente scontro: da una parte un personaggio indeciso, pignolo, che calza dozzine di stivali senza riuscire a decidersi, dall’altra il commesso impaziente
che per liberarsi dello scomodo cliente alla fine gli fa uno
sconto enorme.
L a commessa di una libreria è una
fanatica del suo lavoro. È appassionata di libri, li spolvera e li allinea in
modo maniacale, li ha letti praticamente tutti. Travolge il cliente ingenuo, che le ha solo chiesto qualche consiglio, con un fiume di parole,
raccontando la trama di ogni libro per filo e per segno (compresi i finali dei gialli), immedesimandosi nelle vicende al punto da scoppiare
a piangere o a ridere a seconda del genere.
Il cliente, spazientito, esce dalla libreria senza comprare nulla e la
commessa sconsolata si chiede il perché.
adatt. da S. Michieli - S. Papi, Libri in scena. Giochi e attività teatrali con i libri, Erickson
Il
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biblioteca di testi teatrali
Antologia 3
9. Linguaggi speciali
leggiamo il teatro
La pace
Aristofane
Trigeo, un contadino ateniese arruffone e geniale, stanco della guerra che si
trascina da dieci anni e manda in rovina i suoi affari, decide di risolvere lui
la contesa salendo in cielo, fino all’Olimpo, per cercare lassù la dea Pace e
ricondurla finalmente sulla terra. Per un simile viaggio, alleva uno scarabeo
stercorario che fa ingrassare dai suoi servi con abbondanti porzioni di sterco;
quando l’insetto è divenuto forte abbastanza per sostenerlo, sale al cielo e libera
la Pace che riporta a terra in mezzo alla gioia generale. In premio avrà una
sposa celeste, Opora, simbolo della stagione estiva in cui maturano i frutti e
dell’abbondanza ritornata sulla terra.
Prologo
Due servi di Trigeo stanno lavorando intorno a un mastello di
letame.
Primo servo
Svelto, passami una focaccia per lo scarabeo1.
Secondo servo (porgendogliela) Pronto, dalla a quella maledetta
Primo servo
bestia! E che non possa mai mangiar di meglio!
(la prende, la porta nella stalla e ritorna quasi
subito) Dammene un’altra, di merda d’asino.
Il famoso
commediografo
Aristofane visse in
Grecia tra il V e il IV
secolo a.C. Temi
ricorrenti nelle sue
opere – di cui ci sono
pervenute undici
commedie complete
oltre a un migliaio di
frammenti – sono la
rovina della città di
Atene e il sarcasmo
nei confronti di coloro
che ne sono la causa.
La commedia La pace,
di cui ti presentiamo il
Prologo, si svolge
durante la prima
guerra del
Peloponneso contro
Sparta.
1. scarabeo: questo insetto
è detto «stercorario» perché
si nutre di escrementi che
appallottola. La sua grandezza
supera raramente i due o tre
centimetri, ma questo non fa
ostacolo ad Aristofane e alla
sua fantasia.
Il
piacere
di
leg g er e
9
Secondo servo (che continua a impastare) Eccotene un’altra. Ma
dov’è andata a finire quella che gli hai portata
adesso? Non l’ha voluta?
Primo servo
Per Giove, se l’è ghermita e inghiottita tutta inte­
ra, dopo essersela appallottata fra le gambe. Pre­
sto, preparane altre che siano ben sode.
(ritorna alla stalla)
Secondo servo (rivolgendosi al pubblico) In nome degli dèi, o
svuotabottini2, datemi voi una mano, se non vo­
lete vedermi asfissiato.
Primo servo
(ritornando di corsa) Un’altra dammene, un’altra
ancora; dice che la vuole ben trita.
Secondo servo Eccola! (agli spettatori) Di un’accusa, gente mia,
credo di poter andar assolto: nessuno avrà il co­
raggio di affermare che mangio mentre impa­
sto3.
Primo servo
Accidenti! Dammene un’altra, un’altra, e poi
un’altra, e preparane ancora.
Secondo servo Ah, no, per Apollo, proprio no! Non ce la faccio
più a sopportare questa porcheria!
Primo servo
Allora gliela porto tutta in una volta! (afferra il
mastello ed entra con quello nella stalla)
Secondo servo Portagliela, alla malora, per Giove, e mettiti­
ci dentro pure te! (agli spettatori) Qualcuno di
voi mi dica, se lo sa, dove potrei comprare un
naso senza narici. Non c’è niente di più disgu­
stoso che mescolare pietanze ad uno scarabeo. Il
porco o il cane, quando tu gliel’hai preparata, ci
si buttano sopra senza tante cerimonie; lui inve­
ce fa lo schizzinoso e non si degna di mangia­
re se non gliela presento dopo avergliela impa­
stata4 una giornata intera, neppure si trattasse
di una signora! Ma voglio dare un’occhiata dalla
fessura dell’uscio, per vedere se ha finito di man­
giare. (guarda dentro) E dàgli! Mangia, mangia
pure. Chissà che tu non scoppi, senza neanche
accorgertene. Come mangia quel maledetto, a te­
sta bassa, come un lottatore, arrotando i molari
e muovendo in giro la testa e le zampe. Che ani­
male schifoso, puzzolente e vorace! Da quale dio
ci viene questo malanno, non lo so. Da Afrodite
non mi pare e tanto meno dalle Grazie5!
Primo servo
(ritornando) Da chi, allora?
Secondo servo Non c’è dubbio: è un prodigio di Giove Fulmina­
sterco6.
2. o svuota­bot­tini:
rivolgendosi al pubblico
(espediente usato in tutti i
tempi e da tutti i comici per
coinvolgerne maggior­mente
l’interesse e farselo complice) il
servo cerca tra gli spettatori un
addetto alle latrine, uno di quei
raccoglitori di sterco incaricati
dai magistrati cittadini di
trasportare gli escrementi fuori
delle mura, perché gli dia una
mano. «Bottino» qui significa
«pozzo nero».
3. … mentre impasto:
una delle preoc­cupazioni dei
padroni era che i loro servi,
mentre impastavano la farina,
non ne mangiassero qualche
boccone. Avevano inventato
persino un collare apposito,
che impediva allo schiavo di
portare le mani alla bocca.
4. impastata: come s’è
detto, lo scarabeo è solito
impastare con cura lo sterco
per ridurlo in pallottole e farlo
rotolare nella cavità del terreno
che gli fa da nido.
5. Afrodite… Grazie: la
dea dell’amore e le dee della
bellezza, simboli di leg­gia­drìa
che hanno poco a che vedere
con uno scarabeo, stercorario
per giunta.
6. Fulmina­sterco: uno
degli epiteti di Giove era quello
di Diòs Kataibàtu, il «dio che
fulmina dall’alto». Premettendo
una «S» (Skataibàtu), l’epiteto
cambia di significato e diventa
il «dio che manda sterco
dall’alto».
Il
piacere
di
leg g er e
10
Primo servo
cco che qualcuno degli spettatori, magari un
E
giovane saputello, già comincia a dire: «Ma che
affare è questo? Che c’entra lo scarabeo?» E uno
della Ionia7, che gli sta seduto vicino, attacca an­
che lui: «Direi che si allude a Cleone8: mangia
sterco senza ritegno». Ma sarà meglio che vada a
dargli da bere9. (entra nella stalla)
Secondo servo (al pubblico) Intanto io voglio spiegare la cosa ai
ragazzini, ai giovincelli, agli uomini e ai supe­
ruomini, anzi, soprattutto ai superuomini. Il mio
padrone è preso da una strana mania, una ma­
nia assolutamente nuova. Se ne sta tutto il gior­
no a guardare il cielo, così, a bocca aperta; e si
lamenta con Giove e dice: «O Giove, ma che ti sal­
ta in mente? Metti giù quella scopa: non vorrai
ramazzare tutta l’Ellade!». Ma un momento; fate
silenzio. Mi sembra di udire una voce.
Trigeo
(dal di dentro) O Giove, che farai del nostro popo­
lo? Non t’accorgi che ci stai svuotando le città10?
Primo servo
Questo è il malanno di cui parlavo; adesso avete
gustato solo un saggio delle sue manìe. Ora sa­
prete quel che diceva quando lo colse il primo ac­
cesso di bile. Diceva fra sé e sé: «Come potrei ar­
rivare direttamente da Giove?». E così, costruitesi
certe scalette sottili, s’ingegnava di arrampicarsi
per dar la scalata al cielo, finché è capitombola­
to giù e si è spaccato la testa. Ieri poi, dopo tutto
questo, andatosene alla malora non so dove, s’è
portato a casa un enorme scarabeo, e mi ha or­
dinato di strigliarlo, mentre lui se lo accarezza
quasi fosse un puledro. «O nobile alato della stir­
pe di Pegaso, prendimi su di te e portami drit­
to a Giove!11». Ma ora voglio sbirciare, per vedere
che cosa fa. (si china a guardare e subito si riti­
ra indietro, urlando esterrefatto) Povero me! Ac­
correte, vicini, accorrete! Il padrone si alza a volo
nell’aria, per salire in cielo, a cavallo dello scara­
beo! (appare sul tetto Trigeo, a cavalcioni di un
enorme scarabeo alato)
Trigeo
Calma, calma, frenati, o mio somarello12. Non mi
correre troppo impetuoso, fin da principio, fidan­
do nella tua baldanza, prima di aver fatto sudare
e sciogliere, col battito veloce delle ali, i muscoli
delle membra. E non soffiarmi sulla faccia que­
sto fetore, accidenti! Se hai intenzione di far così,
7. uno… Ionia: gli Ioni, che
abitavano le coste dell’Asia
Minore, erano stati ostili alla
politica guerraf­ondaia di
Cleone, nominato subito dopo.
8. Cleone: era stato tra i
più accaniti sostenitori della
guerra contro Sparta, nella
quale morì (422 a.C.).
Aristofane nelle sue com­me­
die lo tratta sempre con molta
durezza, come fa anche qui
accusandolo di «mangiare
sterco», al­lu­dendo ai suoi
affari sporchi.
9. a dargli da bere:
sappiamo come lo scarabeo
mangia e possiamo
immaginare come beve. È
probabile che l’attore mimasse
la battuta con qualche gesto a
proposito.
10. svuotando le città: per
i numerosi morti in guerra.
11. O nobile alato…
a Giove!: verso solenne
ripreso dal tragico Euripide
che Aristofane prende spesso
in giro nelle sue commedie.
Pegaso è il famoso cavallo
alato del mito.
12. somarello: in greco
somaro si dice kànthon e
scarabeo kàntharos; da cui il
gioco di parole.
Il
piacere
di
leg g er e
11
Secondo servo
Trigeo
Secondo servo
Trigeo
Secondo servo
Trigeo
Secondo servo
Trigeo
Secondo
Trigeo
Secondo
Trigeo
Secondo
Trigeo
Secondo
Figlia
Trigeo
Figlia
Trigeo
Figlia
servo
servo
servo
servo
preferisco che te ne rimanga a casa.
O padrone, o signore, tu deliri!
Taci tu, stai zitto!
Perché sbatter l’aria in questo modo? Non serve
a niente!
È per il bene di tutti gli Elleni che mi alzo in
volo! Sto macchinando un’impresa mai vista.
Volando? Ma è una pazzia inutile!
Zitto! Non blaterare! Dovresti innalzare un gio­
ioso augurio! E di’ a tutti di tacere, di turare la­
trine e cloache con nuovi mattoni, di tapparsi il
sedere!
Come faccio a star zitto, se tu non mi dici dove
vuoi volare?
E dove pensi si possa volare se non in cielo, da
Giove?
Che intenzioni hai?
Di chiedergli che vuol fare di tutti gli Elleni.
E se non ti dà soddisfazione?
L’accuserò di tradire gli Elleni per i Persiani13.
Questo no, per Dioniso, finché sarò vivo!
Già; ma non si può far altro.
(volgendosi verso l’interno della casa) Ehi, ehi,
ehi, ragazze! Vostro padre se ne va in cielo di na­
scosto, vi lascia sole! Poverette voi, supplicatelo!
(escono le due figlie di Trigeo)
O padre, o padre, era dunque vera la voce, giun­
ta in questa casa14, che tu, a cavallo di chissà
quali uccelli, mi avresti abbandonata e te ne sa­
resti andato coi corvi alla malora sulle ali del
vento? Che c’è di vero? Rispondi, o padre, se mi
vuoi bene.
(con solennità) La verità, o figlie, potete immagi­
narla. È da molto tempo che ce l’ho con voi: da
quando mi chiedete pane chiamandomi paparuc­
cio, e in casa non c’è il becco d’un quattrino. Ma
se questa va bene e riesco a riportare indietro la
pelle, avrete a suo tempo una bella focaccia e un
po’ di botte per companatico15.
Con quale mezzo affronterai il tuo viaggio? Cer­
to non sarà una nave quella che ti porterà per
un tale cammino!
Non una nave, ma un destriero alato!
Ma che idea ti è venuta, o paparino, di aggiogare
uno scarabeo per salire dagli dèi?
12
13. per i Persiani: era
un’accusa di tradimento molto
frequente in Atene durante
la guerra e usata spesso per
scopi politici, sicché il pubblico
doveva riderne.
14. O padre… casa: è
un altro verso di Euripide,
come le altre battute che
seguono poste tra virgolette;
il pubblico doveva cogliere al
volo questi versi solenni nelle
scene comiche, e divertirsi del
contrasto.
15. botte per
companatico: anche qui c’è
un gioco di parole tra kòndylos,
pugno, e kàndylos, un piatto
ateniese.
Il
piacere
di
leg g er e
Trigeo
Figlia
Trigeo
Figlia
Trigeo
Figlia
Trigeo
nelle favole di Esopo16, che questo è l’unico vo­
È
latile giunto fino ai numi.
Ma è incredibile quello che tu dici, o padre, che
un animale tanto puzzolente sia potuto arrivare
agli dèi.
Ci è arrivato una volta, in odio all’aquila, e, per
vendetta, fece rotolar giù, a precipizio, le sue
uova.
Dovevi aggiogare un qualche Pegaso alato, per
apparire più tragico al cospetto dei numi!
Ma, mio tesoro, mi ci sarebbe voluto il doppio di
vettovaglie: ora, invece, con quel che mangio io,
ci nutro anche la bestia.
Guardati almeno di non scivolare e cadere a pre­
cipizio di lassù, perché poi, azzoppato, non debba
fornire argomento ad Euripide17 e ne esca una
tragedia!
Sarà affar mio. Statemi bene. (le figlie se ne van­
no; rivolgendosi agli spettatori) E voi, per cui af­
fronto quest’impresa, mi raccomando, per tre
giorni almeno, niente bisogni, altrimenti que­
sto, se sente l’odore, piomba giù a gozzoviglia­
re e io mi rompo la testa. (cantando, allo scara­
beo) Coraggio, Pegaso, avanza lieto, scuotendo,
con le tue splendenti orecchie, gli aurei freni.
Che fai? Che fai? Perché punti il naso alle latri­
ne? Su, coraggio, alzati a volo, distendi le tue ali
veloci, punta diritto alla dimora di Giove! E tor­
ci quel tuo naso dallo sterco e dai cibi mortali!
(lo scarabeo si dirige al basso) Ehi, tu, laggiù, al
Pireo18, che ti svuoti, vicino ai lupanari! Mi vuoi
far morire? Macchinista, stacci attento!19 Sento
soffiare un vento di colica sotto all’ombelico. Se
non ci stai attento, scodello la cena allo scara­
beo! Eppure mi sembra di essere vicino agli dèi.
Ecco, ecco la dimora di Giove.
Aristofane,
16. nelle favole di Esopo:
quella precisamente dell’aquila
e dello scarabeo che vola fin
nel grembo di Giove per farne
rotolare le uova che l’aquila vi
aveva deposte.
17. Euripide: la solita presa
in giro del grande tragico che
aveva osato portare sulla
scena anche uomini veri e
infelici, e magari zoppi, come
Tèlefo, il guerriero di Troia
ferito da Achille.
18. Pireo: il porto di Atene.
19. ­­Mac­chini­sta, stacci
attento!: l’appello è rivolto al
macchinista di scena, perché
non lo faccia cadere. L’illusione
scenica è così spezzata, con
comica disinvoltura, come
accade spesso in Aristofane e
nei comici in genere.
La pace, traduzione di S. Bellati, Rizzoli
Il
piacere
di
leg g er e
13
biblioteca di testi teatrali
Antologia 3
9. Linguaggi speciali
leggiamo il teatro
Anfitrione
Tito Maccio Plauto
Tito Maccio Plauto
Tito Maccio Plauto, forse il più popolare tra i commediografi latini, nacque in
Umbria verso la metà del III secolo e vi morì nel 184 a.C. Nelle sue numerosissime
opere una folla di personaggi minori ruota spesso intorno alla figura centrale di
un servo scaltro e truffaldino. Questo accade anche nell’Anfitrione, la commedia di
cui ti presentiamo, dopo un breve riassunto, un brano tratto dal Primo atto.
Atto primo
SosiaNon avrei mai immaginato, e così nessuno dei citta­
dini di Tebe: invece, eccoci di ritorno sani e salvi a
casa nostra. Le legioni rientrano in patria vittoriose
dopo la vittoria sui nemici, la conclusione di un duel­
lo immane e lo sterminio dell’avversario. Han finito
d’infliggere lutti acerbi al popolo tebano: la cittadella
nemica giace vinta ed espugnata dal vigore e dal va­
lore dei nostri soldati, ma soprattutto dalla strategia
e dalla fortuna del mio padrone Anfitrione. Ha pro­
curato ai suoi concittadini bottino, territori, fama, e
al re di Tebe, Creonte, ha consolidato il trono. Me, mi
ha mandato avanti dal porto in casa sua per riferire
alla moglie come ha retto le sorti dello stato sotto la
propria guida, il proprio comando, la propria fortu­
na. Ora un momento di riflessione: come le parlerò,
al mio arrivo? Mentire è una mia abitudine, è nel mio
carattere. Mentre gli altri erano nel vivo della batta­
glia, io ero nel vivo della fuga; tuttavia fingerò di es­
servi stato presente e riferirò ciò che ho sentito dire.
Avanti ora: raggiungiamo la casa ed eseguiamo l’or­
dine del padrone.
Mercurio(c. s.)1 Ah ah, quest’uomo vuol venire qui: gli vado
incontro io. Mai, oggi, costui si avvicinerà a questa
casa, non lo permetterò. Ho assunto il suo aspetto e
sono ben deciso a giocarlo. E invero, se ne ho preso
su di me la forma e la statura, conviene che ne abbia
pure le maniere e un carattere uguale. Ossia devo es­
Giove, innamoratosi di
Alcmena, ha assunto
l’aspetto di suo marito
Anfitrione, generale dei
Tebani, mentre questi
sta combattendo
contro i Teleboi nemici
del suo paese; lo
assiste Mercurio nelle
vesti del servo Sosia,
che ha seguito il suo
padrone in guerra.
Entrambi i
travestimenti
ingannano Alcmena e
le persone di casa.
Nel Primo atto,
riportato qui di seguito,
il servo di Anfitrione,
che sta tornando a
casa dopo la vittoria
sui Teleboi e che ha
mandato avanti Sosia
per dare l’annuncio alla
moglie Alcmena, trova
la porta sbarrata da un
uomo identico a lui che
altri non è se non
Mercurio, posto lì di
guardia da Giove,
1. (c. s.): «come sopra», cioè
parlando tra sé e sé.
Il
piacere
di
leg g er e
14
sere malvagio, furbo, astuto quanto lui, per respin­
gerlo dal portone con la sua stessa arma, la malizia.
Ma che gli prende adesso? Guarda fisso al cielo. Os­
serviamo cosa fa.
SosiaLo giuro: io non credo e non so nient’altro così certo
come credo che questa notte il dio Notturno si è co­
ricato sbronzo. Le sette stelle dell’Orsa non si sposta­
no di un dito in cielo, non procede di un dito la luna
dal punto ov’è sorta, e Orione, Vespero, le Pleiadi non
tramontano. Fisse dove stanno le stelle, la notte che
non cede di un dito al giorno.
Mercurio(c. s.) Continua, o Notte, come hai cominciato, asse­
conda mio padre. Meglio non puoi prestare un mi­
glior servizio al migliore, è un prestito ben prestato il
tuo.
SosiaNotte più lunga di questa io credo di non averla mai
vista: forse solo quando mi frustarono e rimasi ap­
peso dalla sera alla mattina. Ma questa qui, acciden­
ti, batte anche quella, e di molto, tanto è lunga. Cre­
do proprio che il Sole abbia fatto una bella bevuta per
dormire così; non c’è altra spiegazione: ha fatto un
po’ di baldoria a cena.
Mercurio(c. s.) Cosa dici, canaglia? Credi che gli dèi ti somi­
glino? Furfante, malfattore, ti ripagherò io di queste
tue insolenze. Fa’ tanto di arrivare qui, e ti trovi un
accidente.
SosiaSu, andiamo a riferire ad Alcmena l’ambasciata del
padrone. (scorgendo ora Mercurio) Ma chi è l’uomo
che vedo davanti al palazzo, a quest’ora di notte? Non
mi va la faccenda.
Mercurio(ancora a parte) Mai visto un fifone simile.
SosiaMi par di capire: costui oggi mi vuol ritessere il man­
tello2.
Mercurio(c. s.) Ha paura l’amico. Voglio divertirmi alle sue
spalle.
SosiaUna disgrazia: i denti mi prudono3. Costui mi pre­
para certamente, come arrivo, un’accoglienza pugne­
sca. Dev’essere un cuore pietoso: il mio signore mi ha
costretto a star sveglio, e lui oggi mi addormenterà
coi suoi pugni. È finita, è finita per me. Mio dio, che
grande, e che robusto!
Mercurio(c. s.) Adesso gli parlo chiaro, da vicino, che senta
cosa dico. Così gli crescerà la paura in corpo. (ad alta
voce, volto verso Sosia) Forza, miei pugni: è un pezzo
che non procurate vitto al ventre. Sembra sia passato
mentre il sommo dio si
trova con l’innamorata.
Quando giunge
Anfitrione, incredulo e
frastornato dal
racconto di Sosia,
Alcmena, anch’essa
vittima dell’equivoco, lo
accoglie freddamente.
Seguono battibecchi e
risse fra moglie e
marito; i due rivali si
accusano l’un l’altro;
Blefarone, preso come
arbitro, non sa
distinguere il vero
Anfitrione.
Alla fine tutta la
faccenda si chiarisce
quando Giove placa le
ire di Anfitrione
rivelandogli la verità e
annunciandogli la
nascita di un figlio
glorioso: Ercole.
2. ritessere il mantello:
una delle tante metafore per
indicare «mi vuol dare un bel
po’ di botte».
3. i denti mi prudono:
Sosia ha il presen­timento di
pugni imminenti.
Il
piacere
di
leg g er e
15
un secolo da quando, ieri, avete spogliato e mes­
so a nanna quei quattro.
Sosia(a parte) Temo forte che qui cambierò di nome:
da Sosia divento Quinto. Pretende di aver messo
a dormire quattro galantuomini: temo di dover­
ne aumentare il numero.
MercurioÈ ben ora, dico io. (si mette in guardia)
Sosia
(c. s.) Rimbocca la tunica: si sta preparando di
certo.
Mercurio Ne busca tante, che non resisterà.
Sosia
(c. s.) Chissà chi.
Mercurio Chiunque vien qui, certo ne ingoierà di pugni.
Sosia(c. s.) Ah no, non mi garba mangiare a quest’ora
di notte: ho appena cenato. Va’ a offrire questa
cena a un affamato, che è meglio.
Mercurio Pesa mica male questo pugno.
Sosia
(c. s.) Sono finito: sta pesando i pugni.
Mercurio Perché non dargli una carezza che l’addormenti?
Sosia(c. s.) Mi salveresti la vita: sono tre notti filate, con
questa, che non chiudo occhio.
MercurioVa malissimo, è uno schifo: la mia destra non sa far
male a una mascella. (parlando alla mano) Deve cam­
biare d’aspetto chi ti prende in faccia.
Sosia(c. s.) Costui è un falsario: vuol cambiarmi i connota­
ti.
Mercurio(c. s.) Devi disfargli la faccia, se colpisci qualcuno al
posto giusto.
Sosia(c. s.) Sarebbe strano se non si preparasse a liberarmi
delle ossa come una murena4. Tienti lontano da que­
sto disossatore di uomini: sei finito, se ti vede.
Mercurio C’è puzza d’uomo: mal per lui.
Sosia
(c. s.) Che, avrei fatto un peto?
MercurioNon dev’essere nemmeno lontano, anche se viene da
lontano.
Sosia
(c. s.) È un negromante!
Mercurio(agitandosi e tirando pugni all’aria sempre di
più) Prudono i miei pugni.
Sosia(c. s.) Se vuoi esercitarli su di me, ti prego di calmarli
prima contro un muro.
Mercurio Una voce è volata fino alle mie orecchie.
Sosia(c. s.) Vedi se non sono stato un disgraziato a non
spennarmi le ascelle: adesso ho la voce pennuta.
MercurioQuest’uomo vuol portar via da me del malanno, con
la soma a sue spese.
Sosia
(c. s.) Ma io non ho nessun somaro.
16
4. liberarmi… murena:
la murena era uno dei cibi
preferiti dai Romani, che
l’allevavano in piscine. Animale
molto vorace, ripuliva fino
all’osso le prede.
Il
piacere
di
leg g er e
Mercurio Bisogna caricarlo ben bene di pugni.
Sosia(c. s.) Sono sfinito dalla traversata per mare! Sento
ancora il capogiro, avanzo a stento senza pesi: come
potrei camminare con un carico?
Mercurio Certo qui c’è qualcuno che parla.
Sosia(c. s.) Sono salvo, non mi vede. Dice che parla Qualcu­
no mentre il mio nome senza dubbio è Sosia5.
MercurioEcco, da destra, una voce sembra percuotere le mie
orecchie.
Sosia(c. s.) Temo di prenderle io, oggi, per la voce che per­
cuote lui.
Mercurio (a parte) Benissimo, arriva.
Sosia(c. s.) (a parte) Che paura! Sono rigido da capo a piedi.
Se qualcuno mi chiedesse in che parte del mondo mi
trovo adesso, non saprei proprio rispondere. Povero
me, non riesco a muovere un solo passo dallo spaven­
to. È fatta, gli ordini del padrone son persi, e Sosia
con loro. Ma no, bisogna parlargli francamente, fac­
cia a faccia: forse, a mostrarmi forte, non oserà toc­
carmi.
MercurioDove stai andando, tu, che porti Vulcano racchiuso
in un corno6?
SosiaPerché me lo chiedi, tu, che disfi la faccia della gente
coi pugni?
Mercurio Sei uno schiavo o un cittadino libero?
Sosia
Sono quale vuole il mio ingegno.
Mercurio Dici davvero?
Sosia
Dico davvero sì.
Mercurio Flagello7!
Sosia
Tu menti, per ora.
Mercurio Ma presto ti farò dire che dico davvero.
Sosia
È proprio necessario?
MercurioSi può sapere dove sei diretto, di chi sei schiavo e per­
ché sei venuto?
SosiaQui vengo e sono schiavo del mio padrone. Adesso
cosa ne sai di più?
Mercurio Cosa fai intorno a questo palazzo?
Sosia
Cosa fai tu piuttosto.
Mercurio Il re Creonte8 ci mette una sentinella tutte le notti.
SosiaBen fatto: con noi lontani, si doveva proteggere la
casa. Ma adesso va’ pure, digli che i suoi familiari
sono arrivati.
MercurioNon so tu fino a che punto sei dei loro, ma se non
te ne vai via subito, mio caro familiare, ti farò avere
un’accoglienza poco familiare, parola mia.
17
5. parla Qualcuno…
Sosia: viene in mente Ulisse,
che nell’Odissea inganna
Polifemo dicendo di chiamarsi
«Nessuno».
6. Vulcano racchiuso
in un corno: una fiamma
(Vulcano è il dio del fuoco)
accesa dentro una lanterna
dalle pareti trasparenti di
corno. Metafora elegante
e derisoria da parte del dio
Mercurio.
7. Flagello: disastro; qui
anche canaglia.
8. Creonte: re di Tebe, figlio
di Menezio e padre di Giocasta
moglie di Edipo.
Il
piacere
di
leg g er e
Sosia
Ma se io abito qui! Sono il servitore di questi signori.
MercurioMa sai? Se non te ne vai via, oggi t’innalzo a una po­
sizione elevata.
SosiaCome?
MercurioPortato fuori a spalla, non coi tuoi piedi, se pongo
mano al bastone.
SosiaEppure sono di famiglia in questa famiglia: io prote­
sto.
MercurioVedi piuttosto di non buscarle, stando qui ancora un
po’.
SosiaTorno a casa da una guerra, e tu pretendi di non far­
mi entrare in casa.
Mercurio È questa la tua casa?
Sosia
Sì ti dico.
Mercurio Chi è dunque il tuo padrone?
SosiaAnfitrione, attualmente a capo delle legioni tebane,
marito di Alcmena.
Mercurio Dici davvero? E il tuo nome qual è?
Sosia
Sosia mi chiamano i Tebani, discendente da mio pa­
dre Davo9.
MercurioSfrontatissimo uomo, tu oggi sei venuto qui per tua
disgrazia con questo ricamo di menzogne cucite in­
sieme da inganni.
SosiaMacché! Vengo qui con cucita la camicia, e non gl’in­
ganni!
MercurioTu continui a mentire: vieni coi piedi, e non con la
camicia.
Sosia
Questo sì.
Mercurio Adesso sì le buschi per le tue menzogne.
Sosia
Ma io no che non le voglio.
MercurioInvece sì le buscherai, anche controvoglia. (comincia
a picchiarlo) Ecco un «sì» ben sicuro, indiscutibile.
Sosia
Pietà, ti supplico!
Mercurio Tu osi dire di essere Sosia, mentre Sosia sono io?
Sosia
Per me è finita.
MercurioTroppo poco, per ciò che ha da venire. Di chi sei
schiavo adesso?
SosiaTuo, ne hai preso possesso coi pugni. Aiuto, cittadini
di Tebe!
Mercurio Gridi ancora, boia? Di’ piuttosto: perché sei venuto?
Sosia
Per offrirti qualcuno da tempestare di pugni.
Mercurio A chi appartieni?
Sosia
Ad Anfitrione ti dico: sono Sosia.
MercurioRacconta queste frottole e ne buscherai di più. Io
sono Sosia, non tu.
18
9. Sosia… Davo: giro
di parole che suona come
presa in giro degli eroi epici
e tragici. Sosia è nome greco
(che significa «soccor­ri­tore»,
«aiutante») di uno schiavo
in un’opera del comme­
diografo greco Aristofane.
Davo è invece un tipico nome
di schiavo nella commedia
romana. Si noti che agli
schiavi non era riconosciuto
legalmente un padre.
Il
piacere
di
leg g er e
Sosia(a parte) Volesse il cielo che fossi tu, e fossi io a darte­
le!
Mercurio Brontoli ancora?
Sosia
Ora taccio.
Mercurio Chi è il tuo padrone?
Sosia
Chi vuoi tu.
Mercurio Ebbene, ora come ti chiami?
Sosia
Proprio come comandi tu.
Mercurio Dicevi di essere schiavo di Anfitrione, e Sosia.
Sosia
Mi sono sbagliato: volevo dire «socio» di Anfitrione.
MercurioLo sapevo bene che tra noi lo schiavo Sosia sono solo
io. Eri fuori strada.
Sosia
Ci fossero andati anche i tuoi pugni!
Mercurio Sono io il Sosia che poco fa tu pretendevi di essere.
SosiaTi prego, lasciami parlare in pace, senza ricevere
percosse.
Mercurio No: ci sia un breve armistizio, se vuoi dire qualcosa.
SosiaNon dirò niente se non fatta la pace: a pugni sei più
forte tu.
Mercurio Parla liberamente, non ti farò del male.
Sosia
Ho la tua parola?
Mercurio Sì certo.
Sosia
E se m’inganni?
Mercurio Allora si scateni su Sosia l’ira di Mercurio.
SosiaAttento! Ora posso dire francamente ciò che voglio.
Io sono il servitore di Anfitrione, Sosia.
Mercurio Insisti?
SosiaC’è una pace, c’è un patto che ho firmato. Dico la ve­
rità.
Mercurio Prendi su questo. (gli sferra un pugno)
SosiaFa’ come vuoi ciò che vuoi, a pugni sei più forte. Però,
qualunque cosa fai, io no, questo non lo tacerò di
certo.
MercurioOggi tu da vivo non riuscirai mai a fare di me che
non sia Sosia.
SosiaMa neppure tu di sicuro non mi farai essere di un
altro; e noi oltre me non abbiamo nessun altro servo
Sosia. Io partii di qui con Anfitrione per andare in
guerra.
Mercurio Quest’uomo è pazzo.
SosiaLo dici a me, ma il pazzo sei tu. Maledizione, come
non sarei il servitore di Anfitrione, Sosia? La nostra
nave non è giunta qui dal porto Persico10 questa not­
te, e io non ero a bordo? Non mi ha mandato qui il
mio padrone? Io adesso non mi trovo davanti al no­
19
10. Persico: nome proba­
bilmente inventato da Plauto.
Il
piacere
di
leg g er e
stro palazzo, non reggo una lanterna in mano? Non
parlo, non sono sveglio? Quest’uomo non mi ha am­
maccato or ora di pugni? Se l’ha fatto! Mi duole anco­
ra la mascella, povero me. Perché dunque ho dei dub­
bi e non entro in casa nostra?
Mercurio Che casa vostra?
Sosia
Proprio così.
MercurioMa se quanto hai detto finora sono tutte fandonie!
Sosia, il servitore di Anfitrione, sono io. Questa not­
te la nostra nave salpò dal porto Persico, il regno del
re Pterela è ora una città espugnata da noi, abbiamo
catturato in battaglia le legioni dei Teleboi, e Anfi­
trione ha accoppato di propria mano il re Pterela in
duello.
Sosia(a parte) Non credo a me stesso quando gli sento rac­
contare queste cose. Senza dubbio ricorda a memo­
ria le nostre imprese laggiù. (a Mercurio) Ma di’: che
dono han fatto ad Anfitrione i Teleboi?
MercurioLa coppa d’oro che il re Pterela usava abitualmente
per bere.
Sosia
(a parte) L’ha detto! (a Mercurio) Dov’è ora la coppa?
Mercurio In un cestello sigillato col sigillo di Anfitrione.
Sosia
Il sigillo com’è, dimmi.
MercurioIl Sole nascente, con la quadriga11. Perché cerchi di
cogliermi in fallo, boia?
Sosia(a parte) Le prove convincono, debbo cercarmi un al­
tro nome. Chissà da dove ha visto tutto questo. Ma
ora lo prendo io in trappola. Una cosa che ho fatto
solo soletto, senza testimoni, nella tenda, questa al­
meno non potrà ridirla, adesso. (a Mercurio) Se tu sei
Sosia, al sommo dello scontro fra le legioni cosa face­
vi nella tenda? Mi arrendo, se lo dici.
MercurioC’era un barilotto di vino: ne ho riempito una botti­
glia.
Sosia
(a parte) Incomincia bene.
MercurioE com’era uscito da sua madre mi sono scolato quel
vino, puro puro.
Sosia(a parte) Proprio così è capitato: ho scolato una bot­
tiglia di vino puro. Non ci sarebbe da meravigliarsi
che fosse dentro alla bottiglia.
MercurioEbbene, le mie prove ti hanno convinto che non sei
Sosia?
Sosia
Tu dici che non lo sono?
Mercurio Come potrei non dirlo, se sono io?
Sosia
Giuro per Giove di esserlo io e di non mentire.
20
11. quadriga: carro su cui
il dio Sole (Giove) compiva il
suo giro nel­l’immagi­nazione
dei poeti.
Il
piacere
di
leg g er e
MercurioMa io ti giuro per Mercurio che Giove non ti crede.
So per certo che crede più a me senza giuramenti,
che a tutti i tuoi.
Sosia
Chi sono allora io, se non sono Sosia? A te lo chiedo.
MercurioQuando io non vorrò essere più Sosia, potrai esser­
lo tu. Adesso che sono io, guai a te se non te ne vai,
uomo innominato!
Sosia(a parte) Accidenti, quando l’osservo e rammento la
mia figura, come sono fatto io – tante volte mi sono
visto nello specchio –, certo mi assomiglia fin troppo.
Ha lo stesso cappello, lo stesso vestito; mi assomiglia
come mi assomiglio io. Le gambe, i piedi, la statura,
il taglio dei capelli, e occhi, naso, labbra, mascella,
mento, barba, collo: tutto dico, e che altro? Se ha an­
che la schiena coperta di cicatrici, non esiste somi­
glianza più simile. Ma, a pensarci, è anche certo che
io sono sempre lo stesso di prima. Conosco il mio pa­
drone, conosco il nostro palazzo, ho sano il senno e
sono in sentimento. Non diamo retta a ciò che dice,
bussiamo alla porta. (si avvicina)
MercurioDove ti rechi?
Sosia
In casa.
MercurioNeppure montando sulla quadriga di Giove per fug­
gire di qui eviteresti facilmente un infortunio.
SosiaNon mi è lecito riferire alla mia signora l’ambasciata
del mio signore?
MercurioAlla tua signora puoi riferire tutto ciò che vuoi; alla
nostra qui non ti lascio avvicinare. Non farmi ar­
rabbiare, altrimenti oggi ti porti a casa le reni fra­
cassate.
SosiaPreferisco andarmene. O dèi immortali, mi appel­
lo alla vostra lealtà: dove mi sono perduto? Dove mi
sono mutato? Dove ho perso la mia figura? Mi sa­
rei lasciato laggiù, senza ricordarmene? Perché co­
stui possiede davvero tutte le fattezze che prima era­
no mie. Mi tocca da vivo ciò che non mi toccherà di
certo dopo morto12. Andrò al porto, a raccontare per
filo e per segno tutto l’accaduto al mio padrone. A
meno che anche lui non mi riconosca. Se oggi Giove
lassù mi fa questa grazia, io mi rado la testa e da cal­
vo mi metto il berretto13. (esce da destra)
Plauto,
21
12. Mi tocca da vivo…
morto: nei funerali dei nobili
sfilavano figure di cera del
defunto e dei suoi antenati.
Sosia si vede davanti già da
vivo la propria immagine.
13. Io mi rado… berretto:
gli schiavi liberati, dopo aver
rasato i capelli, li sostituivano
con un berretto a cono di
colore naturale.
Anfitrione, traduzione di C. Carena, Einaudi
Il
piacere
di
leg g er e
biblioteca di testi teatrali
Antologia 3
9. Linguaggi speciali
leggiamo il teatro
Romeo e Giulietta
William Shakespeare
Di William Shakespeare (Stratford-upon-Avon, Gran Bretagna 1564-1616), il più
illustre drammaturgo inglese, sono scarse le notizie biografiche. Fu anche poeta
– ci restano Sonetti e due poemetti – ma la sua fama è legata alle molte opere
teatrali, di straordinaria ricchezza e complessità di temi, che vanno dai drammi
storici alle tragedie, alle commedie. Per farti conoscere questo autore, abbiamo
scelto una delle tragedie più note, Romeo e Giulietta.
GiuliettaO Romeo, Romeo! Perché sei Romeo? Rinnega tuo pa­
dre e rifiuta il tuo nome; o, se non vuoi far questo,
giura solo di essere il mio amore, ed io non sarò più
una Capuleti.
Romeo(tra sé) Debbo ascoltare ancora o debbo rispondere a
questo?
GiuliettaÈ solo il tuo nome che è mio nemico. Tu saresti te stes­
so anche se non fossi un Montecchi. Oh, prendi qual­
che altro nome! Che cos’è Montecchi? Non è la mano,
né il piede, il braccio, il viso, né alcuna altra parte
di un uomo. Che cosa c’è in un nome? Quel fiore che
chiamiamo rosa, con un altro nome avrebbe un profu­
mo altrettanto dolce. E così Romeo, anche non fosse
chiamato Romeo, conserverebbe quella preziosa perfe­
zione che egli possiede, senza tal nome. Romeo, da’ via
il tuo nome e in cambio del tuo nome, che non è parte
di te, prendi me, intera.
William
Shakespeare
Nella Verona dei Della
Scala (XIII secolo) un
antico odio regna tra le
due nobili famiglie dei
Montecchi e dei
Capuleti che si
logorano in scontri e
vendette personali.
Romeo Montecchi
partecipa mascherato
a una festa data dai
Capuleti; conosce
Giulietta, figlia del
padrone di casa, e si
innamora
perdutamente di lei. Di
notte entra nel suo
giardino e scopre che
la fanciulla corrisponde
al suo amore.
Nella scena che qui
per prima proponiamo,
Giulietta si affaccia al
balcone della sua casa
e confida alla notte il
suo innamoramento
mentre Romeo, che
non riesce ad
allontanarsi da
Giulietta, è nascosto in
giardino.
Il
piacere
di
leg g er e
22
RomeoTi prendo sulla parola. Chiamami soltanto amore, e
io accetterò il nuovo battesimo. D’ora in avanti io non
sarò più Romeo.
GiuliettaChi sei tu che, così nascosto dalla notte, sorprendi il
mio segreto?
RomeoNon so con quale nome dirti chi sono. Il mio nome,
santa cara, è odioso a me stesso perché è nemico tuo.
Se lo portassi scritto, lo strapperei.
GiuliettaI miei orecchi non hanno bevuto cento parole pronun­
ciate dalla tua bocca, eppure io ne conosco il suono.
Non sei tu Romeo e un Montecchi?
RomeoNé l’uno né l’altro, bella fanciulla, se l’uno o l’altro ti
dispiace.
GiuliettaCome sei entrato, dimmi, e perché? Il muro dell’orto è
alto e difficile a scalare, e il luogo significa morte per
te, considerato chi sei, se alcuno dei miei parenti ti
scopre qui.
RomeoCon le ali leggere dell’amore ho superato il muro; per­
ché i limiti di pietra non possono tener lontano l’amo­
re, e ciò che l’amore può, l’amore osa: perciò i tuoi pa­
renti non sono un ostacolo per me.
GiuliettaSe ti vedono, ti uccidono.
RomeoAhimè, c’è più pericolo nei tuoi occhi che in venti delle
loro spade. Un solo tuo dolce sguardo mi rende invul­
nerabile alla loro inimicizia.
GiuliettaNon vorrei per tutto il mondo che ti vedessero qui.
RomeoHo il mantello della notte per nascondermi ai loro oc­
chi, e se solo tu mi ami, mi trovino pure: meglio la
vita finita dal loro odio che la morte rinviata se mi
manca il tuo amore.
GiuliettaChi ti ha guidato a scoprire questo posto?
RomeoL’amore, che per primo mi suggerì di cercare. Egli mi
diede i suoi consigli ed io gli prestai i miei occhi. Non
sono un pilota; pure, se anche tu fossi lontana come il
lido bagnato dal più lontano mare, laggiù mi avventu­
rerei per conquistare un tale bene.
GiuliettaTu sai che la maschera della notte è sul mio viso, al­
trimenti un rossore di fanciulla dipingerebbe la mia
guancia per ciò che tu mi hai udito dire questa not­
te. Volentieri salverei la forma; ancor più volentieri
rinnegherei ciò che ho detto; ma addio cerimonie! Mi
ami tu? So che dirai di sì, ed io ti crederò sulla paro­
la. Pure, anche giurando, potresti essere falso. Degli
spergiuri degli amanti dicono che Giove rida. O genti­
le Romeo, se tu ami, dillo sinceramente. O, se tu pen­
23
Il
piacere
di
leg g er e
si che io mi sia lasciata conquistare troppo facilmen­
te, mi acciglierò e sarò perversa e ti dirò di no perché
tu mi corteggi; altrimenti non direi di no per tutto il
mondo. In verità, bel Montecchi, sono troppo innamo­
rata, perciò tu puoi giudicare leggera la mia condot­
ta; ma fidati di me, mio signore, io sarò più fedele di
quelle che hanno più astuzia e sanno fare le preziose.
Sarei dovuta essere più schiva, debbo confessarlo, ma
tu hai colto di sorpresa, prima che io mi fossi accor­
ta di te, il mio sincero amore. Perciò perdonami, e non
imputare questa arrendevolezza ad amor troppo leg­
gero, che l’oscura notte ti ha così rivelato.
RomeoSignora mia, giuro per quella benedetta luna che pic­
chietta d’argento tutte le cime di questi alberi…
GiuliettaOh, non giurare per la luna, l’incostante luna che
ogni mese muta nel cerchio della sua orbita, perché il
tuo amore non si riveli altrettanto incostante.
RomeoPer che cosa vuoi che giuri?
GiuliettaNon giurare affatto; oppure, se vuoi, giura per la tua
bella persona, che è il dio della mia idolatria, ed io ti
crederò.
RomeoSe il puro amore del mio cuore…
GiuliettaEbbene, non giurare. Sebbene tu sia la mia gioia, non
ne traggo alcuna da questo nostro patto, questa notte:
è troppo sconsiderato, troppo inatteso, troppo improv­
viso, troppo simile al lampo che cessa di esistere pri­
ma che si sia finito di dire «lampeggia». Amore, buo­
na notte; e questo bocciolo d’amore, maturando al sof­
fio dell’estate, potrà divenire un magnifico fiore per
l’ora del nostro prossimo incontro. Buona notte! Scen­
dano nel tuo cuore lo stesso dolce riposo e la stessa
pace che sono nel mio petto. Odo un rumore in casa.
Amore caro, addio.
La nutrice chiama dall’interno.
GiuliettaAncora tre parole, Romeo caro, e poi buona notte dav­
vero. Se il tuo intento d’amore è onorevole, se il tuo
proposito è il matrimonio, mandami a dire domani
per mezzo di qualcuno che procurerò di farti giunge­
re, dove e quando vorrai celebrare il rito nuziale; ed
io porrò tutte le mie fortune ai tuoi piedi e ti seguirò,
mio signore, dovunque.
Nutrice (dall’interno) Madonna!
GiuliettaVengo subito. – Ma se tu non hai buone intenzioni, ti
24
Il
piacere
di
leg g er e
supplico…
Nutrice (dall’interno) Madonna!
GiuliettaVengo subito. – … di non corteggiarmi più e di la­
sciarmi al mio dolore. Manderò domani.
Romeo
Così sia salva l’anima mia!
Giulietta Mille volte buona notte! (ella si ritira)
Poiché l’amore che unisce i due giovani è sincero, frate Lorenzo decide di aiutarli e
li sposa in segreto. Ma la faida tra le due famiglie continua e Romeo, per vendicare
un amico ucciso dai Capuleti, uccide a sua volta Tebaldo, cugino di Giulietta; egli
viene perciò bandito da Verona.
Per evitare che Giulietta vada sposa a un nobile veronese che il padre ha scelto per
lei, frate Lorenzo le fa bere una pozione che la farà sembrare morta per 48 ore.
Il frate ha ideato uno stratagemma per aiutare i due innamorati: Giulietta, creduta
da tutti morta, verrà portata nella tomba di famiglia dove la raggiungerà di nascosto
Romeo per condurla via con sé lontano da Verona. Ma il messaggero, inviato da
frate Lorenzo per informare Romeo del piano, non giunge in tempo e il giovane,
saputo della morte di Giulietta, parte immediatamente per Verona. Quando giunge
alla tomba, crede che Giulietta sia ormai perduta per sempre.
RomeoAmore mio, sposa mia! La morte che ha aspirato il
tuo dolce fiato, nessun potere ha avuto sulla tua bel­
lezza: non ti ha conquistata. La morte non ha anco­
ra issata su te la sua pallida bandiera e l’insegna del­
la tua bellezza è ancora vermiglia sulle tue labbra e
sulle tue guance. Tebaldo, giaci costì nel tuo lenzuo­
lo insanguinato? Che cosa posso farti di più gradito
che uccidere, con la mano che spezzò la tua gioventù,
quello che fu il tuo nemico? Perdonami, cugino! Giu­
lietta mia, perché sei ancora tanto bella? Devo credere
che la spettrale morte possa essere innamorata di te e
che ti custodisca qui, al buio, per farti la sua amante.
Per tema di questo, rimango qui con te. Non lasce­
rò mai più la buia notte di questo palazzo: rimarrò
qui dove i vermi sono le tue ancelle; qui troverò ripo­
so e potrò scrollare da questo stanco corpo il giogo
delle avverse stelle. Occhi, guardatela per l’ultima vol­
ta! Braccia, godetevi il vostro ultimo amplesso! E voi,
labbra, custodi del respiro, suggellate con un bacio il
vostro contratto senza fine con la padrona morte. Vie­
ni, amaro tutore; vieni, disgustosa guida. Tu, pilota
disperato, scàgliati subito contro le rocce che mande­
ranno in frantumi la tua stanca e afflitta barca. Of­
fro questo al mio amore! (beve) O fidato speziale! Le
tue droghe van leste. Ecco, in un bacio, muoio. (muo­
re. Entra, dall’altro lato del camposanto, frate Lorenzo
con una lanterna, una leva e un badile)
25
Il
piacere
di
leg g er e
Frate LorenzoSan Francesco, proteggimi! Quante volte,
stanotte, i miei vecchi piedi hanno inciampa­
to nelle tombe! Chi sei?
BaldassarreUn amico, che ti conosce bene.
Frate LorenzoSalute a voi! Ditemi, che è quella torcia che
invano fa lume ai vermi e ai ciechi teschi? Se
vedo bene, arde nel monumento dei Capuleti.
BaldassarreSì, buon padre. E c’è il mio padrone, che vi è
caro.
Frate Lorenzo
Chi è?
Baldassarre
Romeo.
Frate Lorenzo
Da quanto tempo è arrivato?
Baldassarre
Da più di mezz’ora.
Frate Lorenzo
Accompagnami.
BaldassarreNon oso, messere. Il mio padrone crede che io
me ne sia andato e ha minacciato di uccider­
mi se fossi rimasto a guardare.
Frate LorenzoAspettami, allora. Ci vado da solo. Temo una
grande sciagura.
BaldassarreMentre dormivo sotto questo tasso ho sogna­
to che il mio padrone si era battuto e che ave­
va ammazzato l’avversario.
Frate Lorenzo(andando avanti) Romeo! Ahimè, di chi è il
sangue che macchia questa soglia di pietra?
Perché queste spade insanguinate, abbando­
nate in luogo di pace? (entra nella tomba) Ro­
meo! Com’è pallido! E chi altro? Come, anche
Paride1 intriso di sangue? Atroce momento!
Atrocissimo caso! Madonna si muove.
Giulietta(svegliandosi) O padre, conforto mio! Dov’è il
mio signore? Ricordo bene dove dovevo esse­
re, e ci sono. Ma dov’è il mio Romeo? (si ode
un rumore, da dentro)
Frate LorenzoChe rumore è questo? Giulietta, esci da que­
sto nido di morte e di contagio. Un ostaco­
lo più forte di noi ha spezzato il nostro pro­
getto. Vieni, vieni via: tuo marito giace costì,
morto, sul tuo petto; e anche Paride. Vieni, ti
affiderò a pie sorelle; non stare a discutere
perché viene la guardia; vieni, andiamo; Giu­
lietta mia, non oso restare più a lungo.
GiuliettaVai, vai via, io non vengo. (esce Frate Loren­
zo) Che c’è, una fiala, nella mano del mio fede­
le amore? Il veleno è stato la sua fine. Avaro!
L’hai bevuto tutto e non ne hai lasciata una
26
1. Paride: sfidato da Romeo,
è stato ucciso­­­.
Il
piacere
di
leg g er e
sola goccia che mi aiutasse! Bacerò le tue lab­
bra; forse v’è ancora tanto veleno che mi risto­
ri e mi faccia morire. (lo bacia) Le tue labbra
son calde.
Prima guardia(da dentro) Guidaci, ragazzo: da che parte si
va?
GiuliettaUna voce? Ho da far presto. O pugnale bene­
detto! (afferra il pugnale di Romeo) Ecco il
tuo fodero. (si ferisce) Questa sia la tua rug­
gine e la mia morte. (cade sul corpo di Romeo
e muore. Entrano le guardie col paggio di Pa­
ride)
PaggioEcco, guardate là, dove arde la torcia.
Prima guardiaV’è sangue in terra; cercate nel camposanto;
andate e arrestate chi trovate. (escono alcu­
ne guardie) Pietoso spettacolo! Qui c’è il con­
te, assassinato, e Giulietta, sepolta qui da due
giorni, è insanguinata, calda e appena mor­
ta. Andate, ditelo al principe, correte dai Ca­
puleti, destate i Montecchi, cercate altra gen­
te. (escono altre guardie) Vediamo il luogo
dove giacciono questi sventurati, ma non po­
tremo scoprire la vera ragione di queste sven­
ture se non conosceremo le circostanze. (en­
tra una guardia, con Baldassarre)
Seconda guardiaEcco il servo di Romeo. Lo abbiamo trovato
all’ingresso del camposanto.
Prima guardiaTenetelo al sicuro, finché non viene il princi­
pe. (entra frate Lorenzo, con un’altra guardia)
Terza guardiaEcco un frate che trema, sospira e piange.
Usciva dal camposanto con questo piccone e
questa vanga.
Prima guardiaTrattenete anche il frate. È molto sospetto.
(entra il principe col seguito)
PrincipePer quale sventura dobbiamo abbandonare
tanto presto il nostro riposo? (entrano Capu­
leto e madonna Capuleti)
Capuleto
Che cos’è che fa urlare tutti così?
Madonna CapuletiPer la strada la gente grida; chi urla «Ro­
meo!», chi «Giulietta!», chi «Paride!» e tutti
corrono urlando verso questa cripta.
PrincipeChe cos’è lo spavento che mi fa trasalire?
Prima guardia
Principe, qui giace, assassinato, il conte Pari­
de; e Romeo è morto; e Giulietta, che già era
morta, è appena uccisa.
27
Il
piacere
di
leg g er e
PrincipeCercate, scovate e scoprite com’è avvenuto
questo orrendo massacro.
Prima guardiaQui c’è un frate e il servo dell’ucciso Romeo.
Hanno gli strumenti necessari ad aprire que­
ste tombe.
CapuletoO cielo! O moglie, guarda come sanguina la
nostra figliola! Questo pugnale ha colpito
male perché il suo fodero è vuoto, là, addos­
so al Montecchi, ed esso s’è ficcato nel seno di
mia figlia.
Madonna CapuletiAhimè! Questo spettacolo di morte è come
una campana che convoca la mia vecchiaia al
suo sepolcro. (entra Montecchio)
PrincipeVieni, Montecchio; se tu sei stato sollecito nel
levarti, il tuo figliolo ed erede lo è stato anche
più nel cadere.
MontecchioAhimè, la mia compagna, mia moglie è spi­
rata stanotte; il dolore per l’esilio del nostro
figliolo le ha fermato il cuore. Quale nuova
sciagura attenta alla mia tarda età?
PrincipeVieni e guarda.
MontecchioO figliol mio senza creanza! Che maniera è
questa di passare avanti a tuo padre per rag­
giungere la tomba?
PrincipeFermate per un istante la violenza delle pa­
role, e aspettate che si chiarisca ogni dubbio,
che se ne conosca il movente, il capo e la pro­
venienza; allora io stesso comanderò al vostro
dolore e vi condurrò magari alla morte. Ma
adesso fermatevi e lasciate che la sventura
sia schiava della pazienza. Fate venire avanti
i capi sospetti.
Frate LorenzoIo ne sono il maggiore, sebbene il più inabile,
perché il luogo e l’ora mi fanno essere sospet­
to di questo crudele delitto; eccomi qua, con­
dannato e assolto, ad accusare e ad assolvere
me stesso.
PrincipeAllora dicci subito quello che sai.
Frate LorenzoSarò breve perché il mio povero fiato non è
lungo quanto un racconto tedioso. Romeo,
che giace qui morto, era marito a Giulietta;
e lei, che vedete lì, morta, era la fedele mo­
glie di Romeo: li ho sposati io; e il giorno del
loro matrimonio clandestino è stato il fune­
sto giorno di Tebaldo, la cui immatura mor­
28
Il
piacere
di
leg g er e
te ha esiliato il novello sposo da Verona. Giu­
lietta piangeva Romeo, non Tebaldo. Voi, per
toglierle quella pena, l’avete fidanzata e vole­
vate sposarla, per forza, al conte Paride. Al­
lora è venuta da me e, tutta sconvolta, mi ha
ordinato di trovare il mezzo di liberarla da
questo secondo matrimonio se non volevo
che si uccidesse, lì, nella mia stessa cella. Col
soccorso della scienza le ho dato un sonni­
fero che ha avuto l’effetto desiderato, dando­
le, cioè, l’apparenza della morte. Intanto ho
scritto a Romeo che, in questa orrenda notte,
venisse a toglierla dalla sua provvisoria tom­
ba appena fosse cessato l’effetto della pozione.
Ma il mio messo, frate Giovanni, è stato fer­
mato da un incidente e stanotte mi ha ripor­
tato la lettera. E così, da solo, all’ora prefissa
pel risveglio di Giulietta sono venuto a pren­
derla sotto la volta del suo monumento, per
custodirla segretamente nella mia cella fin­
ché non fossi riuscito a far tornare Romeo.
Ma quando sono arrivato, pochi minuti pri­
ma del risveglio di Giulietta, ho trovato stesi
per terra, morti avanti tempo, il nobile Pari­
de e il fedele Romeo. Quando lei s’è svegliata
l’ho pregata di seguirmi e di sopportare con
pazienza la volontà del cielo; ma un rumore
mi ha spaventato e mi ha fatto uscire dalla
tomba che essa, troppo disperata, non vole­
va abbandonare. Adesso, come vedo, ha fat­
to violenza contro se stessa. Ecco quanto io
so; anche la Nutrice sa del matrimonio: ma
se v’è qualcosa di cui io sia colpevole, lasciate
che la mia vecchia vita sia sacrificata qual­
che ora prima del suo tempo dal rigore della
legge più severa.
PrincipeNoi ti abbiamo sempre considerato un sant’uo­
mo. Dov’è il servo di Romeo? Che cosa dice?
BaldassarreHo portato al mio padrone la notizia della
morte di Giulietta ed egli, di volo, è corso da
Mantova a qui. Mi ha ordinato di dare questa
lettera a suo padre e, entrando nella tomba,
m’ha minacciato di morte se non me ne fossi
andato e non lo avessi lasciato qui solo.
PrincipeDammi la lettera. Voglio vederla. Dov’è il pag­
29
Il
piacere
di
leg g er e
gio del conte, quello che ha avvertito la guar­
dia? Ragazzo, che cosa faceva il tuo padrone?
PaggioEra venuto a cospargere di fiori la tomba di
madonna Giulietta e m’aveva ordinato di stare
discosto. Così ho fatto. Poco dopo è venuto un
uomo con un lume ed ha aperto il sepolcro. Il
mio padrone gli si è fatto vicino e lo ha sfida­
to; allora sono scappato a chiamare la guar­
dia.
PrincipeQuesta lettera conferma le parole del frate, il
corso del loro amore e le notizie della morte
di lei. Romeo scrive che ha comprato il vele­
no da un povero speziale e che se l’è portato
in questa tomba per berlo qui e per morire vi­
cino a Giulietta. Dove sono questi nemici? Ca­
puleto! Montecchio! Guardate quale punizio­
ne colpisce il vostro odio. Il cielo trova il mez­
zo di uccidere la vostra gioia con l’amore e io,
per troppa indulgenza verso la vostra discor­
dia, ho perso due parenti. Siamo puniti tutti.
CapuletoFratello Montecchio, stringi questa mano. In
questa stretta è la dote di mia figlia, ché io
non ho più niente da chiedere.
MontecchioMa io posso darti di più: le erigerò una statua
d’oro puro perché, fino a quando durerà Vero­
na, nessun’altra memoria sia tenuta in tanto
pregio quanto la leale e fedele Giulietta.
CapuletoIn veste altrettanto ricca Romeo giacerà vici­
no alla sua sposa; povere vittime dell’odio no­
stro.
PrincipeQuesta mattina ci reca una buia pace, e il
sole, in segno di lutto, non si affaccerà. Al­
cuni saranno perdonati, altri puniti. Mai una
storia è stata di tanto dolore quanto questa di
Giulietta e del suo Romeo. (escono)
W. Shakespeare,
30
Romeo e Giulietta, traduzione di A. Meo, Garzanti
Il
piacere
di
leg g er e
biblioteca di testi teatrali
Antologia 3
9. Linguaggi speciali
leggiamo il teatro
Una domanda di matrimonio
Anton Čechov
Anton Pavlovič Čechov (Taganrog, Russia 1860 - Badenweiler, Germania 1904),
narratore russo, fu anche insigne drammaturgo e seppe anticipare motivi
fondamentali del teatro moderno.
Prima scena
Čubukov e Lomov che entra in frac e guanti bianchi.
Čubukov(andandogli incontro) Ma guarda chi si vede! Ivan
Vasil’evič, carissimo! Che piacere! (gli stringe la ma­
no) Già, che bella sorpresa!… Come sta, tesoro?
Lomov
Molto gentile. E lei piuttosto come sta?
ČubukovTiriamo avanti, angelo mio, grazie al cielo, eccetera.
Si accomodi, per cortesia… Già, non sta bene dimen­
ticare i vicini, tesoro mio. Carissimo, ma perché tutte
queste formalità? Il frac, i guanti, eccetera. Va in visi­
ta da qualcuno, amico mio?
LomovNo, sono venuto soltanto da lei, egregio Stepan
Stepanovič.
ČubukovMa allora perché in frac, anima mia? Mica siamo agli
auguri di capodanno!
LomovAdesso le spiego. (lo prende sotto braccio) Sono qui a
disturbarla, egregio Stepan Stepanovič, perché avrei
un favore da chiederle. Non è la prima volta che ho
l’onore di rivolgermi a lei per aiuto e sempre lei, per
così dire… ma, scusi, sono nervoso. Berrei un po’
d’acqua, egregio Stepan Stepanovič. ( beve)
Čubukov(a parte) È venuto a chiedere dei soldi. Niente da fare!
(a lui) Di che si tratta, bello mio?
LomovDunque, Egregio Stepanovič… scusi, Stepan Egre­
giovič… sono terribilmente nervoso, come non man­
cherà di vedere… Insomma, lei è l’unica persona che
può aiutarmi, anche se, naturalmente, non sono de­
gno e… non ho il diritto di contare sul suo aiuto…
Čubukov Ma quanti complimenti, tesoro! Dica, dica! Coraggio.
LomovAdesso… Subito. Il fatto è che sono venuto a chiedere
Anton Čechov
Nelle pagine che ti
presentiamo, tratte dal
suo atto unico Una
domanda di
matrimonio, potrai
notare l’acuta
descrizione dei dettagli
psicologici, che
contribuisce a creare
un’atmosfera di
crescente tensione e
irritazione. Per Lomov,
di 35 anni, è giunta
l’ora di sposarsi:
«l’importante è
decidersi». Per questo
chiede la mano di
Natal’ja Stepanovna al
padre di lei, signor
Čubukov.
Ma una serie di
equivoci e un discorso
sulla proprietà di alcuni
terreni fa sorgere un
litigio tra Lomov e la
futura sposa, ignara di
essere stata chiesta in
moglie…
Il
piacere
di
leg g er e
31
la mano di sua figlia Natal’ja Stepanovna.
Čubukov(con gioia) Ivan Vasil’evič! Tesoro caro! Ripeta ancora
una volta, non ho sentito bene!
Lomov
Ho l’onore di chiedere…
Čubukov(interrompendolo) Carissimo… Come sono contento,
eccetera… già, proprio così. (lo abbraccia e lo bacia)
Non desidero altro. L’ho sempre desiderato. (fa cadere
qualche lacrima) A lei, angelo mio, ho sempre voluto
bene come a un figlio. Che Dio vi benedica, eccetera,
io non desidero altro… Ma perché me ne sto qui im­
palato? Ho proprio perso la testa dalla gioia! Oh, con
tutto il cuore… Vado a chiamare Nataša, eccetera.
Lomov(commosso) Egregio Stepan Stepanovič, cosa pensa?
Posso contare sul consenso di sua figlia?
ČubukovMa via, un bell’uomo come lei e… Nataša non dovreb­
be acconsentire? Sarà innamorata come una gatta,
eccetera… Torno subito! (esce)
Seconda scena
Lomov solo.
LomovChe freddo. Tremo tutto, come prima di un esame.
L’importante è decidersi. Se si pensa troppo, se si è
indecisi, se si perde il tempo in chiacchiere e se si
aspetta l’ideale o il vero amore, non ci si sposa mai…
Brrr!… Che freddo! Natal’ja Stepanovna è bravissima
ad amministrare la casa, non è brutta e ha una cul­
tura… Che cosa posso desiderare di più? Ma per il
nervoso mi cominciano a ronzare le orecchie. (beve
dell’acqua) D’altra parte, non posso non sposarmi…
Prima di tutto, ho già trentacinque anni, età, per così
dire, critica. In secondo luogo, ho bisogno di una vita
ordinata e regolare… Ho un vizio al cuore e continue
palpitazioni, perdo facilmente la pazienza e mi in­
nervosisco sempre terribilmente… Adesso, ad esem­
pio, mi tremano le labbra e ho un tic alla palpebra de­
stra… Ma il mio punto più debole è il sonno. Appena
sono a letto e comincio ad addormentarmi, nel fianco
sinistro ho un sussulto e poi un contraccolpo nella
spalla e nella testa… Salto in piedi, come impazzito,
faccio qualche passo e mi corico di nuovo, ma appe­
na comincio ad addormentarmi, al fianco ho un altro
sussulto! E così una ventina di volte…
32
Il
piacere
di
leg g er e
Terza scena
Natal’ja Stepanovna e Lomov.
Natal’ja(entrando) Oh bella! È lei! Papà mi ha detto che era
venuto uno per far un contratto. Buongiorno, Ivan
Vasil’evič!
Lomov
Buongiorno, egregia Natal’ja Stepanovna!
Natal’jaScusi se sono in grembiule e négligé… Stiamo sgra­
nando i piselli per metterli a seccare. Come mai non
si è fatto vivo per tanto tempo? Si accomodi… (si sie­
dono) Vuol fare colazione?
Lomov
No grazie, ho già mangiato.
Natal’jaFumi pure… Ecco i fiammiferi… Oggi è una giorna­
ta splendida, ieri invece è piovuto tanto che i brac­
cianti sono stati tutto il giorno senza far niente. Da
lei quanti mucchi di fieno hanno già fatto? Io, caro
lei, ho voluto strafare e ho fatto falciare tutto il pra­
to, ma adesso me ne pento e ho paura che il mio fieno
marcisca. Sarebbe stato meglio aspettare. Ma come?
Lei è in frac? Bella questa! Va a una festa da ballo? A
proposito, lo sa che lei oggi è proprio bello?… Sul se­
rio, a che cosa si deve tanta eleganza?
Lomov(nervoso) Dunque, egregia Natal’ja Stepanovna… Il
fatto è che mi sono deciso a chiederle di ascoltarmi…
Naturalmente, lei si meraviglierà e addirittura si ar­
rabbierà, ma io… (a parte) Che freddo terribile!
Natal’ja
Di che si tratta? (pausa) Dica!
LomovCercherò di essere breve. Lei sa, egregia Natal’ja Ste­
panovna, che da molto tempo ormai, fin dall’infanzia,
ho l’onore di conoscere la sua famiglia. La mia pove­
ra zia e suo marito, dai quali, come certamente saprà,
ho ereditato le mie terre, hanno sempre avuto una
profonda stima per suo papà e la sua povera mam­
ma. Tra la famiglia dei Lomov e quella dei Čubukov
ci sono sempre stati rapporti di amicizia e direi per­
sino di parentela. Inoltre, come certamente saprà, le
mie terre confinano con le vostre. Come certamente
ricorderà, il mio Prato del bove confina col vostro bo­
sco di betulle.
Natal’jaScusi se la interrompo. Ha detto «il mio Prato del
bove»… Ma è sicuro che è suo?
Lomov
Sissignore che è mio…
Natal’ja
Questa poi! Il Prato del bove è nostro, non suo!
Lomov
Nossignore, è mio, egregia Natal’ja Stepanovna.
Natal’ja
Ma senti che novità! Come fa ad essere suo?
33
Il
piacere
di
leg g er e
LomovCome fa? Io sto parlando del Prato del bove che entra
a cuneo tra il vostro bosco di betulle e la Palude bru­
ciata.
Natal’jaSì, sì, proprio quello… È nostro…
Lomov
No, si sbaglia, egregia Natal’ja Stepanovna, è mio.
Natal’jaSiamo seri, Ivan Vasil’evič! Da quando è diventato
suo?
LomovCome da quando? Fin da quando mi ricordo, è sem­
pre stato nostro.
Natal’ja
Questa è proprio grossa!
LomovI documenti parlano chiaro, egregia Natal’ja Stepano­
vna. È vero, un tempo il Prato del bove è stato in con­
testazione; ma adesso tutti sanno che è mio. È fuori
discussione. Mi spiego: la nonna di mia zia diede que­
sto Prato in usufrutto gratuito per una durata illimi­
tata ai contadini del nonno di suo papà perché essi fa­
cevano i mattoni per lei. I contadini del nonno di suo
papà hanno usufruito gratuitamente del Prato del
bove per circa quarant’anni e si sono abituati a consi­
derarlo loro proprietà, ma poi quando c’è stata la leg­
ge di riforma1…
Natal’jaLe cose non stanno affatto così! Mio nonno e il mio
bisnonno consideravano le terre fino alla Palude bru­
ciata loro proprietà, quindi il Prato del bove era no­
stro. Non capisco che cosa ci sia qui da discutere. È
persino seccante!
Lomov
Le mostrerò i documenti, Natal’ja Stepanovna!
Natal’jaNo, lei sta scherzando oppure vuole prendermi in
giro… Fantastico! Possediamo questa terra da quasi
trecento anni, e un bel giorno ci vengono a dire che
non è nostra! Ivan Vasil’evič, scusi tanto, ma mi rifiu­
to di credere alle mie orecchie… Non che mi importi
di quel Prato. Sono cinque ettari in tutto e valgono sì
e no trecento rubli, ma quel che mi indigna è l’ingiu­
stizia. Dica quello che vuole, ma l’ingiustizia io non la
posso soffrire.
LomovMi ascolti, la scongiuro! I contadini del nonno di suo
papà, come ho già avuto l’onore di dirle, facevano i
mattoni per la nonna di mia zia. La nonna di mia zia,
per fare loro cosa gradita…
Natal’jaNonno, nonna, zia… Non ci capisco un accidente! Il
Prato è nostro, punto e basta.
Lomov
Nossignore, è mio!
Natal’jaÈ nostro! Può parlare per due giorni di seguito, può
mettersi anche quindici frac, ma il Prato è nostro, no­
34
Il
piacere
di
leg g er e
stro, nostro!… Quel che è suo non lo voglio, e quel
che è mio me lo voglio tenere… Si arrangi!
LomovIl Prato, Natal’ja Stepanovna, non mi interessa, ma è
una questione di principio. Potrei benissimo regalar­
glielo.
Natal’jaSono io che posso regalarlo a lei, perché è mio!… Tut­
to ciò è per lo meno strano, Ivan Vasil’evič! L’abbia­
mo sempre creduto un buon vicino, un amico, l’anno
scorso le abbiamo prestato la nostra trebbiatrice, per
cui noi altri abbiamo dovuto finire la trebbiatura a
novembre, e lei adesso ci tratta da zingari. Mi regala
la mia terra. Scusi tanto, ma tra vicini non ci si com­
porta così! Direi che questo è addirittura un affronto,
se permette…
LomovDunque, secondo lei, io sarei un usurpatore? Signori­
na, io non mi sono mai appropriato delle terre altrui,
e non permetto a nessuno di farmi simili accuse… (va
in fretta verso la caraffa e beve dell’acqua) Il Prato del
bove è mio!
Natal’jaNon è vero, è nostro.
Lomov
È mio!
Natal’jaNon è vero. Glielo dimostrerò. Oggi stesso manderò i
miei uomini a falciarlo!
Lomov
Cosa?
Natal’ja
Oggi stesso là ci saranno i miei uomini!
Lomov
E io li caccerò a pedate!
Natal’ja
Come osa?
Lomov(si porta una mano al cuore) Il Prato del bove è mio!
Chiaro? Mio!
Natal’jaNon gridi, per favore! Può gridare di rabbia fin quan­
to le basta la voce a casa sua, ma qui la prego di com­
portarsi in modo corretto.
LomovSignorina, se non fosse per questa tremenda, atro­
ce palpitazione di cuore, se il sangue non mi battesse
alle tempie, parlerei con lei in ben altro modo! (grida)
Il Prato del bove è mio!
Natal’ja
È nostro!
Lomov
È mio!
Natal’ja
È nostro!
Lomov
È mio!
Lomov viene cacciato in malo modo. Ma quando la ra­
gazza viene a sapere di essere stata chiesta in moglie,
cambia completamente atteggiamento e desidera che
il fidanzato torni al più presto!
ČubukovCanaglia! Buffone!
35
Il
piacere
di
leg g er e
Natal’jaBrutta bestia! Si è appropriato della terra altrui e osa
anche fare scenate.
ČubukovE questo aborto di natura, dunque, questo cervello di
gallina ha il coraggio anche di venire a fare una do­
manda eccetera! Bella cosa! Una domanda!
Natal’ja
Quale domanda?
ČubukovMa sicuro! Era venuto per farti la domanda di matri­
monio.
Natal’jaLa domanda di matrimonio? A me? E perché non me
l’ha detto prima?
Čubukov Per questo era in frac, quel pollastro! Che citrullo!
Natal’jaA me? La domanda di matrimonio? (cade su una pol­
trona e geme) Fatelo tornare! Ah! Fatelo tornare!
Čubukov Far tornar chi?
Natal’jaPresto, presto! Sto male! Fatelo tornare! (è in preda
ad un attacco isterico)
ČubukovChe vuole dire? Che cos’hai? (si prende la testa fra le
mani) Sono proprio digraziato! Mi sparo! Mi impicco!
Non ne posso più!
Natal’ja
Muoio! Fatelo tornare!
ČubukovAccidenti! Un momento! Smettila di piangere! (esce di
corsa)
Natal’ja(sola, gemendo) Che abbiamo fatto! Fatelo tornare. Fa­
telo tornare!
Ritornato Lomov, i tre riprendono però a litigare fu­
riosamente, questa volta su quale dei loro rispettivi
cani (Azzecca e Acchiappa) sia migliore. Nella foga
della discussione vengono via via colpiti da malesse­
ri sempre più gravi. Il litigio si placa con la promessa
del matrimonio: è l’inizio della «felicità domestica»…
Čubukov Sto male!… Mi manca il respiro!… Aria!
Natal’jaÈ morto! (scuote Lomov per una manica) Ivan Va­si­
l’evič! Cosa abbiamo fatto! È morto! (cade su una pol­
trona) Un dottore, un dottore! (ha un attacco isterico)
Čubukov Oh!… Cosa c’è? Cos’hai?
Natal’ja
(gemendo) È morto!… È morto!
ČubukovChi è morto? (guarda Lomov) È morto davvero! San­
to cielo! Dell’acqua! Un dottore! (porta alla bocca di
Lomov un bicchiere) Beva!… No, non beve… Allora è
morto eccetera… Come sono disgraziato! Perché non
mi tiro un colpo? Perché non mi sono ancora accop­
pato? Che cosa aspetto? Datemi un coltello! Datemi
una pistola! (Lomov accenna un movimento) Ritorna
in vita, sembra… Beva un po’ d’acqua!… Ecco, così!…
Lomov
La mia vista… è tutto nebbia… dove sono?
36
Il
piacere
di
leg g er e
ČubukovSposatevi al più presto e andate al diavolo! Lei è d’ac­
cordo! (congiunge le mani di Lomov e della figlia) Lei
è d’accordo eccetera. Vi benedico, eccetera. Ma lascia­
temi in pace!
Lomov
Eh? Cosa? (alzandosi) Chi?
ČubukovLei è d’accordo. Ebbene? Baciatevi e… e facciamola fi­
nita!
Natal’ja
(gemendo) È vivo… Sì, sì, sono d’accordo…
Čubukov Baciatevi!
LomovEh? Chi? (bacia Natal’ja Stepanovna) Molto lieto…
Scusi, di che si tratta? Ah, sì, capisco… Il cuore… La
vista… Sono felice, Natal’ja Stepanovna… (le bacia la
mano) non sento più la gamba…
Natal’ja
Anch’io… sono felice…
Čubukov Che peso mi son tolto di dosso… Uffa!
Natal’jaMa… lo ammetta almeno adesso: Azzecca è peggio di
Acchiappa.
Lomov
È meglio!
Natal’ja
È peggio!
Čubukov Ecco, comincia la felicità domestica! Champagne!
Lomov
È meglio!
Natal’ja
È peggio! Peggio! Peggio!
Čubukov(cercando di gridare più forte) Champagne! Champa­
gne!
37
(Sipario)
A. Čechov,
Atti unici, Einaudi
Il
piacere
di
leg g er e
biblioteca di testi teatrali
Antologia 3
9. Linguaggi speciali
leggiamo il teatro
La patente
Luigi Pirandello
Luigi Pirandello
Luigi Pirandello (Agrigento 1867 - Ro­ma 1936), premio Nobel per la letteratura
nel 1934, è una delle figure più significative della drammaturgia europea del
Novecento. Le sue opere teatrali, piuttosto difficili per ragazzi della tua età,
portano sulla scena gli aspetti più complessi della personalità umana, racchiusa
in una società dominata dalle apparenze, da false regole, dal pregiudizio, dalla
superstizione. In questo mondo, a loro così ostile, i personaggi di Pirandello sono
alla vana ricerca di un più autentico modo di comunicare con i propri simili. Ne
escono sconfitti, quindi sempre più soli.
Atto unico
La scena rappresenta la squallida
stanza di un giudice istruttore: uno
scaffale ingombro di incartamenti,
una scrivania piena di fascicoli, un
seggiolone di cuoio per il magistrato.
Una porta sulla destra e poltrone an­
tiche addossate alla parete di fondo.
A un lato un trespolo con una gab­
bia grande appesa.
Voce fuori campoQuella che vi proponiamo è davvero una vi­
cenda assurda e allucinante: l’impiegato
Chiàrchiaro, a cui la voce popolare ha attri­
buito fama di potente iettatore, perde il posto,
ed è ridotto con la famiglia a vivere un’esi­
stenza insopportabile.
Che fare? A situazione incredibile rimedio in­
credibile: poiché tutti sono convinti della in­
fluenza malefica da lui emanata, egli è per
questo costretto a cambiare condizione di vita
e a chiedere alla giustizia l’attestato ufficiale
di iettatore patentato dal tribunale.
Così i concittadini, per evitare i danni del suo
Il testo che segue è la
versione teatrale fatta
da due scrittori, De
Maestri e Tartara, di
una celebre novella di
Pirandello. La vicenda
è presentata in chiave
comica, ma dal suo
svolgersi emerge tutta
la tragicità della
situazione, nella quale
i personaggi si
dibattono, prigionieri in
una gabbia di falsità le
cui sbarre sono il
pregiudizio, la
superstizione, la
credulità nelle
apparenze.
Dentro questa gabbia
l’uomo non ha scampo,
muore, come il povero
cardellino del giudice
D’Andrea. La
commedia si compone
di un unico breve atto.
Nella riduzione di De
Maestri e Tartara
compare, all’inizio, un
elemento particolare:
la voce fuori campo. È
un elemento teatrale
interessante, che viene
a volte utilizzato per far
conoscere allo
spettatore l’antefatto,
Il
piacere
di
leg g er e
38
malaugurio e del malocchio, saranno costretti
a pagarlo per difendere la loro salute e perché
egli distolga da loro il suo malefico influsso.
Purtroppo, spesso le convinzioni grottesche
e paradossali della pubblica opinione creano
drammi umani amaramente umoristici!
Il giudice D’Andrea entra per la comune1 col cappello in capo e
il soprabito. Reca in mano una gabbiola poco più grossa d’un
pugno. Va davanti alla gabbia grande sul quadricello, ne apre
lo sportello, poi apre lo sportellino della gabbiola e fa passare da
questa nella gabbia grande un cardellino.
cioè i fatti che si sono
svolti prima della
vicenda rappresentata
in scena.
D’AndreaVia, dentro! E su, pigrone. Oh! finalmente…
Zitto adesso, al solito, e lasciami amministra­
re la giustizia a questi poveri piccoli uomini
feroci.
Si leva il soprabito e lo appende insieme col cappello all’attacca­
panni. Siede sulla scrivania: prende il fascicolo del processo che
deve istruire, lo scuote in aria con impazienza, sbuffa.
D’Andrea
Benedett’uomo!
39
Resta un po’ assorto a pensare, poi suona il campanello
e dalla comune si presenta l’usciere Marranca.
Marranca
Comandi, signor cavaliere!
D’AndreaEcco, Marranca: andate al vicolo del Forno,
qua vicino; a casa del Chiàrchiaro.
Marranca(con un balzo indietro, facendo le corna) Per
amor di Dio, non lo nomini, signor cavaliere!
D’Andrea(irritatissimo, dando un pugno sulla scriva­
nia) Basta, perdio! Vi proibisco di manifesta­
re così, davanti a me, la vostra bestialità, a
danno d’un pover’uomo. E sia detto una volta
per sempre.
MarrancaMi scusi, signor cavaliere. L’ho detto anche
per il suo bene!
D’Andrea
Ah, seguitate?
MarrancaNon parlo più. Che vuole che vada a fare in
casa di… di questo… di questo galantuomo?
D’AndreaGli direte che il giudice istruttore ha da par­
largli, e lo introdurrete subito da me.
MarrancaSubito, va bene, signor cavaliere. Ha altri co­
1. comune: porta che
rappresenta l’ingresso
dall’esterno verso la stanza in
cui si svolge la scena.
Il
piacere
di
leg g er e
mandi?
D’AndreaNient’altro. Andate.
Marranca esce, tenendo la porta per dar passo ai tre Giudici col­
leghi, che entrano con le toghe e i tocchi2 in capo e si scambiano
i saluti col D’Andrea; poi vanno tutti e tre a guardare il cardelli­
no nella gabbia.
I GiudiceMa sai che sei davvero curioso con codesto
cardellino che ti porti appresso?
III Giudice
Tutto il paese ti chiama: il Giudice Cardello.
I Giudice
Dov’è, dov’è la gabbiolina con cui te lo porti?
II Giudice(prendendola dalla scrivania a cui s’è accosta­
to) Eccola qua! Signori miei, guardate; cose
da bambini! Un uomo serio…
D’AndreaAh, io, cose da bambini, per codesta gabbiola?
E voi, allora, parati così?
III Giudice
Ohè, ohè, rispettiamo la toga!
D’AndreaMa andate là, non scherziamo! Siamo in ca­
mera caritatis3. Ragazzo, giocavo coi miei
compagni «al tribunale». Uno faceva da impu­
tato; uno da presidente; poi, altri da giudici,
da avvocati… Ci avrete giocato anche voi. Vi
assicuro che eravamo più serii allora!
I Giudice
Eh, altri tempi!
II Giudice
Finiva sempre a legnate!
III Giudice(mostrando una vecchia cicatrice alla fronte)
Ecco qua: cicatrice d’una pietrata che mi tirò
un avvocato difensore mentre fungevo da re­
gio procuratore!
D’AndreaTutto il bello era nella toga con cui ci parava­
mo. Nella toga era la grandezza, e dentro di
essa noi eravamo bambini. Ora è al contrario:
noi, grandi, e la toga, il giuoco di quand’era­
vamo bambini. Ci vuole un gran coraggio a
prenderla sul serio! Ecco qua, signori miei
(prende dalla scrivania il fascicolo del pro­
cesso Chiàrchiaro), io debbo istruire questo
processo. Niente di più iniquo di questo pro­
cesso. Iniquo, perché include la più spieta­
ta ingiustizia contro alla quale un pover’uo­
mo tenta disperatamente di ribellarsi, senza
nessuna probabilità di scampo. C’è una vitti­
ma qua, che non può prendersela con nessu­
no! Ha voluto, in questo processo, prenderse­
40
2. tocchi: cappelli rotondi
senza falde, indossati assieme
alla toga da giudici, avvocati e
professori universitari.
3. in camera caritatis: in
ambiente intimo e familiare,
dove sono consentite le
confidenze.
Il
piacere
di
leg g er e
I Giudice
D’Andrea
la con due, coi primi due che gli sono capitati
sotto mano, e – sissignori – la giustizia deve
dargli torto, torto, torto, senza remissione, ri­
badendo così, ferocemente, la iniquità di cui
questo pover’uomo è vittima.
Ma che processo è?
Quello intentato da Rosario Chiàrchiaro.
Subito, al nome, i tre Giudici, come già Marranca,
danno un balzo indietro,
facendo scongiuri, atti di spavento, e gridando.
Tutti e trePer la Madonna Santissima! – Tocca ferro! –
Ti vuoi star zitto?
D’AndreaEcco, vedete? E dovreste proprio voi rendere
giustizia a questo pover’uomo!
I Giudice
Ma che giustizia! È un pazzo!
D’Andrea
Un disgraziato!
II GiudiceSarà magari un disgraziato! Ma scusa, è
pure un pazzo! Ha sporto querela per diffa­
mazione contro il figlio del sindaco, niente­
meno, e anche…
D’Andrea
… contro l’assessore Fazio.
III Giudice
Per diffamazione?
I GiudiceGià, capisci? Perché, dice, li sorprese nell’atto
che facevano gli scongiuri al suo passaggio.
II GiudiceMa che diffamazione se in tutto il paese, da
almeno due anni, è diffusissima la sua fama
di jettatore?
D’AndreaE innumerevoli testimonii possono venire in
tribunale a giurare che in tante e tante occa­
sioni ha dato segno di conoscere questa sua
fama, ribellandosi con proteste violente!
I Giudice
Ah, vedi? Lo dici tu stesso!
II GiudiceCome condannare, in coscienza, il figliuolo
del sindaco e l’assessore Fazio quali diffama­
tori per aver fatto, vedendolo passare, il gesto
che da tempo sogliono fare apertamente tutti?
D’Andrea
E primi fra tutti vojaltri?
Tutti e treMa certo! – È terribile, sai? – Dio ne liberi e
scampi!
D’AndreaE poi voi fate meraviglia, amici miei, che io
mi porti qua il cardellino… Eppure, me lo
porto – voi lo sapete – perché sono rimasto
solo da un anno. Era di mia madre quel car­
41
Il
piacere
di
leg g er e
dellino; e per me è il ricordo vivo di lei: non
me ne so staccare. Gli parlo, imitando, così,
col fischio, il suo verso, e lui mi risponde. Io
non so che gli dico; ma lui, se mi risponde, è
segno che coglie qualche senso nei suoni che
gli faccio. Tale e quale come noi, amici miei,
quando crediamo che la natura ci parli con
la poesia dei suoi fiori, o con le stelle del cie­
lo, mentre la natura forse non sa neppure che
noi esistiamo.
I GiudiceSeguita, seguita, mio caro, con codesta filoso­
fia, e vedrai come finirai contento!
Si sente picchiare alla comune e, poco dopo,
Marranca sporge il capo.
Marranca
Permesso?
D’Andrea
Avanti, Marranca.
MarrancaLui in casa non c’era, signor cavaliere. Ho la­
sciato detto a una delle figliuole che, appena
arriva, lo mandino qua…
I GiudiceNoi ce n’andiamo. A rivederci, D’Andrea!
42
Scambio di saluti: e i tre Giudici vanno via.
Si sente di nuovo picchiare alla comune.
D’Andrea
Chi è? Avanti.
Marranca(tutto tremante) Eccolo, signor cavaliere!
Che… che debbo fare?…
D’Andrea
Introducetelo.
Marranca(tenendo aperta quanto più può la comune
per tenersi discosto) Avanti, avanti… introdu­
cetevi…
E come Chiàrchiaro entra, va via di furia. Rosario Chiàrchiaro
s’è combinata una faccia da jettatore che è una meraviglia a ve­
dere. S’è lasciato crescere su le cave gote gialle una barbaccia
ispida e cespugliuta, s’è insellato sul naso un paio di grossi oc­
chiali cerchiati d’osso che gli danno l’aspetto d’un barbagianni;
ha poi indossato un abito lustro, sorcigno4, che gli sgonfia5 da
tutte le parti, e tiene una canna d’India in mano con manico di
corno. Entra a passo di marcia funebre, battendo a terra la can­
na a ogni passo, e si para davanti al giudice.
4. sorcigno: color grigio
sorcio, topo.
5. gli sgonfia: gli cade
addosso da tutte le parti
perché troppo grande.
Il
piacere
di
leg g er e
D’Andrea(con uno scatto violento d’irritazione, buttan­
do via le carte del processo) Ma fatemi il pia­
cere! Che storie son queste! Vergognatevi!
Chiàrchiaro(senza scomporsi minimamente allo scatto
del giudice, digrigna i denti gialli e dice sot­
tovoce) Lei dunque non ci crede?
D’AndreaV’ho detto di farmi il piacere! Non facciamo
scherzi, via, caro Chiàrchiaro! Sedete, sedete
qua! (gli s’accosta e fa per posargli una mano
sulla spalla)
Chiàrchiaro(subito, tirandosi indietro e fremendo) Non mi
s’accosti! Se ne guardi bene! Vuol perdere la
vista degli occhi?
D’Andrea(lo guarda freddamente, poi dice) Seguitate…
Quando sarete comodo… Vi ho mandato a
chiamare per il vostro bene. Là c’è una sedia:
sedete.
Chiàrchiaro(prende la seggiola, siede, guarda il giudice,
poi si mette a far rotolare con le mani su le
gambe la canna d’India come un matterello
e tentenna a lungo il capo. Alla fine mastica)
Per il mio bene… Per il mio bene, lei dice…
Ha il coraggio di dire per il mio bene! E lei si
figura di fare il mio bene, signor giudice, di­
cendo che non crede alla jettatura?
D’Andrea(sedendo anche lui) Volete che vi dica che ci
credo? Vi dirò che ci credo! Va bene?
Chiàrchiaro(recisamente, col tono di chi non ammet­
te scherzi) Nossignore! Lei ci ha da credere
sul serio, sul se-ri-o! Non solo, ma deve dimo­
strarlo istruendo il processo.
D’Andrea
Ah, vedete: questo sarà un po’ difficile.
Chiàrchiaro(alzandosi e facendo per avviarsi) E allora me
ne vado.
D’Andrea
Eh, via! Sedete! V’ho detto di non fare storie!
ChiàrchiaroIo, storie? Non mi cimenti, o ne farà una tale
esperienza… Si tocchi, si tocchi!
D’Andrea
Ma io non mi tocco niente.
ChiàrchiaroSi tocchi, le dico! Sono terribile, sa?
D’Andrea(severo) Basta, Chiàrchiaro! Non mi secca­
te. Sedete e vediamo d’intenderci. Vi ho fatto
chiamare per dimostrarvi che la via che ave­
te preso non è propriamente quella che possa
condurvi a buon porto.
[…]
43
Il
piacere
di
leg g er e
ChiàrchiaroIo mi sono querelato perché voglio il ricono­
scimento ufficiale della mia potenza. Non ca­
pisce ancora? Voglio che sia ufficialmente ri­
conosciuta questa mia potenza terribile, che è
ormai l’unico mio capitale, signor giudice!
D’Andrea(facendo per abbracciarlo, commosso) Ah, po­
vero Chiàrchiaro, povero Chiàrchiaro mio,
ora capisco! Bel capitale, povero Chiàrchiaro!
E che te ne fai?
ChiàrchiaroChe me ne faccio? Come, che me ne faccio?
Lei, caro signore, per esercitare codesta pro­
fessione di giudice – anche così male come la
esercita – mi dica un po’, non ha dovuto pren­
dere la laurea?
D’Andrea
Eh sì, la laurea…
ChiàrchiaroE dunque! Voglio anch’io la mia patente. La
patente di jettatore. Con tanto di bollo. Bollo
legale. Jettatore patentato dal regio tribunale.
D’Andrea
E poi? Che te ne farai?
ChiàrchiaroChe me ne farò? Ma dunque è proprio defi­
ciente lei? Me lo metterò come titolo nei bi­
glietti da visita! Ah, le par poco? La patente!
Sarà la mia professione! Io sono stato assas­
sinato, signor giudice! Sono un povero padre
di famiglia. Lavoravo onestamente. Mi han­
no cacciato via e buttato in mezzo a una stra­
da, perché jettatore! In mezzo a una strada,
con la moglie paralitica, da tre anni in un
fondo di letto! E con due ragazze, che se lei
le vede, signor giudice, le strappano il cuore
dalla pena che le fanno: belline tutte e due;
ma nessuno vorrà più saperne, perché figlie
mie, capisce? E lo sa di che campiamo ades­
so tutt’e quattro? Del pane che si leva di bocca
il mio figliuolo, che ha pure la sua famiglia,
tre bambini! E le pare che possa far ancora a
lungo, povero figlio mio, questo sacrificio per
me? Signor giudice, non mi resta altro che di
mettermi a fare la professione di jettatore!
D’Andrea
Ma che ci guadagnerete?
ChiàrchiaroChe ci guadagnerò? Ora glielo spiego. Intan­
to, mi vede: mi sono combinato con questo ve­
stito. Faccio spavento! Questa barba… questi
occhiali… Appena lei mi fa ottenere la paten­
te, entro in campo! Lei dice, come? Me lo do­
44
Il
piacere
di
leg g er e
manda – ripeto – perché è mio nemico!
D’Andrea
Io? Ma vi pare?
ChiàrchiaroSissignore, lei! Perché s’ostina a non credere
alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono
gli altri, sa? Tutti, ci credono! Questa è la mia
fortuna! Ci sono tante case da giuoco nel no­
stro paese! Basterà che io mi presenti. Non ci
sarà bisogno di dir niente. Il tenutario della
casa, i giocatori, mi pagheranno sottomano,
per non avermi accanto e per farmene andar
via! Mi metterò a ronzare come un moscone
attorno a tutte le fabbriche; andrò a impostar­
mi ora davanti a una bottega, ora davanti a
un’altra. Là c’è un giojelliere? Davanti alla
vetrina di quel giojelliere: mi pianto lì (ese­
guisce), mi metto a squadrare la gente così,
(eseguisce) e chi vuole che entri più a com­
prare in quella bottega una gioja, o a guar­
dare a quella vetrina? Verrà fuori il padrone,
e mi metterà in mano tre, cinque lire per far­
mi scostare e impostare da sentinella davanti
alla bottega del suo rivale. Capisce? Sarà una
specie di tassa che io d’ora in poi mi metterò
a esigere!
D’Andrea
La tassa dell’ignoranza!
ChiàrchiaroDell’ignoranza? Ma no, caro lei! La tassa del­
la salute! Perché ho accumulato tanta bile e
tanto odio, io, contro tutta questa schifosa
umanità, che veramente credo, signor giudi­
ce, d’avere qua, in questi occhi, la potenza di
far crollare dalle fondamenta un’intera città!
Si tocchi! Si tocchi, perdio! Non vede? Lei è ri­
masto come una statua di sale!
D’Andrea, compreso di profonda pietà,
è rimasto veramente come un balordo a mirarlo.
ChiàrchiaroSi alzi, via! E si metta a istruire questo pro­
cesso che farà epoca, in modo che i due im­
putati siano assolti per inesistenza di reato;
questo vorrà dire per me il riconoscimento
ufficiale della mia professione di jettatore!
D’Andrea
(alzandosi) La patente?
Chiàrchiaro(impostandosi grottescamente e battendo la
canna) La patente, sissignore!
45
Il
piacere
di
leg g er e
Non ha finito di dir così, che la vetrata della finestra si apre
pian piano, come mossa dal vento, urta contro il quadricello e la
gabbia, e li fa cadere con fracasso.
D’Andrea(con un grido, accorrendo) Ah, Dio! Il cardel­
lino! Il cardellino! Ah, Dio! È morto… è mor­
to… L’unico ricordo di mia madre… Morto…
morto…
Alle grida, si spalanca la comune e accorrono
i tre Giudici e Marranca, che subito si trattengono allibiti
alla vista di Chiàrchiaro.
TuttiChe è stato? Che è stato?
D’AndreaIl vento… la vetrata… il cardellino…
Chiàrchiaro(con un grido di trionfo) Ma che vento! Che
vetrata! Sono stato io! Non voleva crederci e
gliene ho dato la prova! Io! Io! E come è morto
quel cardellino… (subito, gli atti di terrore de­
gli astanti, che si scostano da lui) così, a uno
a uno, morirete tutti!
Tutti(protestando, imprecando, supplicando in
coro) Per l’anima vostra! Ti caschi la lingua!
Dio, ajutaci! Sono un padre di famiglia!
Chiàrchiaro(imperioso, protendendo una mano) E allora
qua, subito, pagate la tassa! Tutti!
I tre Giudici(facendo atto di cavar danari dalla tasca) Sì,
subito! Ecco qua! Purché ve n’andiate! Per ca­
rità di Dio!
Chiàrchiaro(esultante, rivolgendosi al giudice D’Andrea,
sempre con la mano protesa) Ha visto? E non
ho ancora la patente! Istruisca il processo!
Sono ricco! Sono ricco!
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(Tela)
L. Pirandello,
Maschere nude, Mondadori
Il
piacere
di
leg g er e