“La Grande Hache de l`histoire”. Semantica della fama e dell`infamia

Transcript

“La Grande Hache de l`histoire”. Semantica della fama e dell`infamia
ISTITUTO SUPERIORE DI STUDI MEDIEVALI
“CECCO D'ASCOLI”
FAMA E PUBLICA VOX
NEL MEDIOEVO
a cura di Isa Lori Sanfilippo e Antonio Rigon
Atti del convegno di studio
svoltosi in occasione della XXI edizione del
Premio internazionale Ascoli Piceno
Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 3-5 dicembre 2009
ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO
ROMA 2011
III serie diretta da
Antonio Rigon
Il progetto è stato realizzato con il contributo della
Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno
Comune di Ascoli Piceno
Fondazione Cassa di
Risparmio Ascoli Piceno
Istituto storico italiano
per il medio evo
© Copyright 2011 by Istituto Superiore di Studi Medievali “Cecco d’Ascoli” - Ascoli Piceno
Coordinatore scientifico: ISA LORI SANFILIPPO
Redattore capo: ILARIA BONINCONTRO
Redazione: SILVIA GIULIANO
ISBN 978-88-89190-86-9
Stabilimento Tipografico «Pliniana» - V.le F. Nardi, 12 - Selci-Lama (Perugia) - 2011
FRANCESCO MIGLIORINO
“La Grande Hache de l’histoire”
Semantica della fama e dell’infamia
Fama e infamia hanno una lunga storia. Proveremo a leggerla alla luce
dell’instancabile traffico tra i valori e i significati di una cultura (e di una
società) e quei sistemi di veridizione che si pongono da sempre come traduzione di senso. Attivissimi a scongiurare i poteri e i pericoli che si annidano nella produzione del discorso1. Inesauribili nella loro ostinata inclinazione a classificare, significare, identificare. Uno spazio metaforico in cui
si costituisce la Verità. Anzi, un infallibile congegno grazie al quale l’inimicizia tra il vero e il falso scandisce i suoi tempi, dietro lo specchio dell’immagine sociale del sé2.
Fama e infamia hanno un che di portentoso. Si annidano negli scantinati più oscuri dell’anima dopo aver lasciato spie, emblemi e tracce nella
parte visibile dei corpi. Un fiume carsico che accompagna le epoche storiche: oltre le rivoluzioni, anzi nonostante le rivoluzioni. L’affermazione, la
rimozione o il mascheramento di fama e infamia si intrecciano seguendo
una rotta che va ben oltre i tempi di un’esperienza giuridica data, per
mostrare – anche ai nostri giorni – i segni di un’inquietante continuità3. C’è
sempre un misterioso e impenetrabile scarto tra la sicurezza con cui teologi e giuristi descrivono le varie cause d’infamia e la porosità di un’area
semantica che è portata quasi naturalmente a lasciar tracimare le più rassicuranti distinzioni, fino al punto da ospitare con amorevole cura un numero sempre maggiore di uomini infami4. Sullo sfondo e all’orizzonte, il più
1 Cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, trad. it., Torino 1972.
2 Pierre Legendre si serve della metafora lacaniana dello specchio per mostrare come
sia stato “fabbricato” il soggetto dell’ordine giuridico occidentale: cfr., soprattutto, Dieu au
miroir. Étude sur l’institution des images, Paris 1994.
3 Cfr. F. Migliorino, Fama e infamia. Problemi della società medievale nel pensiero giuridico nei secoli XII e XIII, Catania 1985, pp. 21 ss.
4 Cfr. in proposito le dense pagine di P. von Moos, Das Öffentliche und das Private im
6
FRANCESCO MIGLIORINO
radicale dei partages: da una parte la natura spirituale dell’uomo che sente
spirare il soffio della salvezza, dall’altra la misera postura del corpo che
rimane prigioniero della sua ferina carnalità. A restare impigliati sono tutti
gli uomini, non solo quelli «visibilmente crudeli»5. Con le stesse parole di
Georges Perec, potremmo dire anche noi che «L’Histoire avec sa grande
hache»6 si abbatte sugli uomini con la ferocia della sua pesante scure (grande Hache). Ne annichilisce, altresì, le singole insignificanti storie brandendo la sua pretenziosa maiuscola (grande Ache).
L’infamia è uno di quei nomi che da sempre espone e dilapida i suoi
mezzi, una metafora baroca che si spinge al punto da raccontare l’intera
vita di un uomo in due o tre scene, lasciando — sotto il clamore di un titolo — una superficie d’immagini, un brusio di voci in cui resta ammutolita
una folla di patiboli e di pirati, di mascheramenti e d’imposture. Come
nella História universal de la infamia di Borges7, anche nella Vie des hommes infames di Foucault è indicibile la distanza tra la magniloquenza del
termine e la disarmante ovvietà dei suoi abitatori. «Vite di qualche riga o
di qualche pagina», riunite in un pugno di parole da esperti botanici che
le hanno volute per sé dentro i recinti dell’ignominia. C’è da restare sgomenti per l’accanimento e l’ostinazione alla vita di un congegno che ha
abbandonato per secoli solo brandelli di esistenze oscure, un pallido riflesso di quella spaventevole grandezza con cui quelle vite maledette — nel
breve bagliore d’un lampo — si sono mostrate a chi le attorniava, per sparire subito dopo «senza mai essere state dette»8.
Verrebbe da dire, con Nietzsche, che indicibilmente più importanti
sono i nomi dati alle cose di quel che esse sono9. Con lo stesso nome si
Mittelalter. Für einen kontrollierten Anachronismus, in Das Öffentliche und Private in der
Vormoderne, cur. G. Melville - P. von Moos, Köln-Weimar-Wien 1998, p. 39.
5 Il recente libro di Giacomo Todeschini propone un avvincente scandaglio dei discorsi dell’esclusione nell’età medievale: Visibilmente crudeli. Malviventi, persone sospette e
gente qualunque dal Medioevo all’età moderna, Bologna 2007.
6 G. Perec, W ou le souvenir d’enfance, Paris 1975, p. 13. L’espressione «L’Histoire avec
sa grande hache» ricorre anche come titolo di un’intervista a Robert Bober curata da Christian
Delage e Vincent Guigueno, apparsa in Le Cinéma face à l’Histoire, «Vertigo», 16 (1997).
7 J.L. Borges, Storia universale dell’infamia, trad. it., Milano 1997.
8 M. Foucault, La vita degli uomini infami, trad. it., in Archivio Foucault, II, Poteri,
saperi, strategie, cur. A. Dal Lago, Milano 1994, pp. 245-262.
9 F. Nietzsche, La Gaia Scienza, trad. it., in Opere filosofiche, cur. S. Giametta, I, Torino
2002, p. 156: «Questo mi è costato la più grande fatica e ancora continua a costarmi la più
grande fatica: vedere che è indicibilmente più importante come le cose si chiamino che non
che cosa siano. La reputazione, il nome e l’apparenza, la considerazione, l’usuale misura e
peso di una cosa […] sono, a forza di crederci, e di crederci sempre più di generazione in
generazione, per così dire concresciuti gradualmente con e dentro la cosa e ne sono diven-
“LA GRANDE HACHE DE L’HISTOIRE”
7
sono costituiti tipi umani volta a volta diversi, sotto lo stesso nome si sono
radunate sempre nuove valutazioni e nuove verosimiglianze. Nel caso della
fama e dell’infamia non milita la consueta dialettica tra significante e significato, s’instaura piuttosto la mirabile performatività di parole che si alimentano senza sosta delle situazioni reali che esse stesse hanno contribuito a creare: un ordine sempre uguale a se stesso per gli infiniti discorsi che
le hanno chiamato e continuano a chiamarle alla vita10.
Una tela di ragno in cui l’uomo si scopre «impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto»11: è fabbricata con gli attrezzi del linguaggio, si fa forte dello scudo della norma, fa vanto delle sue categorie universali, si muove all’unisono con i pensieri che le istituzioni pensano, giorno
dopo giorno battezza, denomina e rinomina i comportamenti umani12.
Uno scenario in cui fama e infamia funzionano come una sorta di metadenominatore per pensare come intrinsecamente simili i tipi umani che esse
radunano all’interno della medesima classe, racchiusi da quei confini che
sono socialmente controllati e culturalmente costruiti13.
Fama. Non è un termine giuridico, eppure essa suscita l’interesse dei
Maestri del diritto che vi intravedono, grazie ai suoi generosi slittamenti
semantici, rilevanti possibilità di mediazione sociale14. Il diritto, infatti, è
fortemente interessato a strutturare e standardizzare le norme sociali con
alto contenuto etico, in modo tale che esse funzionino come indicatori dei
comportamenti sentiti come giusti dai membri della comunità15. È per sua
tati il corpo stesso. Fin dall’inizio, l’apparenza si è trasformata alla fine quasi sempre in
sostanza e funziona come sostanza […] non dimentichiamo neanche questo: basta creare
nuovi nomi e giudizi di valore e verosimiglianza per creare col tempo “cose” nuove».
10 Cfr. F. Migliorino, Il corpo come testo. Storie del diritto, Torino 2008, pp. 62 ss.
11 C. Geertz, Interpretazione di culture, trad. it., Bologna 1987, p. 41.
12 Cfr. Migliorino, Il corpo come testo cit., p. 9.
13 Ibid., p. 65. Per un’euristica dell’antropologia culturale nella ricerca storica, cfr. i bei
lavori di C. Wickham, Gossip and Resistance among the Medieval Peasantry, «Past and
Present», 160 (1998), pp. 407-580 e di T. Kuehn, Fama as legal status in Renaissance
Florence, in Fama. The politics of talk and reputation in medieval Europe, cur. T. Fenster D. Lord Smail, Ithaca-London 2003, pp. 27-46.
14 Per un quadro completo della varietà dei significati cfr. A. Walde - J.B. Hofmann,
Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, Heidelberg 1938, pp. 450 s.; Thesaurus Linguae
Latinae, VI/1, Lipsiae 1925, coll. 206 ss.
15 Nell’immaginario collettivo la fama è, a volte, simbolo ed esempio, serve a rappresentare il genio di un individuo eccezionale. Sul nesso tra il concetto di gloria e lo sviluppo
dell’idea di individuo alle soglie dell’età moderna, cfr. A.F. Müller, Gloria Bona Fama
Bonorum. Studien zur sittlichen Bedeutung des Ruhmes in der frühchristliche und mittelalterliche Welt, Husum 1977, pp. 7 ss.; con riferimento soprattuto all’onore, F. Zunkel, Ehre,
Reputation, in Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexicon zur politisch-sozialen
Sprache in Deutschland, II, Stuttgart, 1975, pp. 1-63.
8
FRANCESCO MIGLIORINO
natura pervasivo, invade ogni sfera del sociale, ha un tipico potere di
rispecchiamento di fenomeni altrimenti asintomatici16. Allo stesso modo
della mentalità, il diritto è una struttura «che il tempo stenta a logorare e
che porta con sé molto a lungo»17. Ordinare e strutturare è connaturato
con il fenomeno giuridico, costituisce, anzi, il fondamento stesso della
prassi umana, serve oggi allo scienziato sociale per definire «il modo
umano di essere-al-mondo»18. I giuristi del diritto comune furono in ciò
maestri impareggiabili.
Avviene così che gli interpreti assumano progressivamente il concetto
di fama all’interno del loro vocabolario per rappresentare sia la reputazione di cui ciascuno gode nell’opinione degli altri, sia una conoscenza incerta e non garantita dei fatti: da una parte dunque la fama hominis, dall’altra
la fama alterius rei inter homines existentis19.
Entrambi i significati sottintendono i concetti più ampi di opinio e di
publicum e si fondano sui processi di comunicazione attraverso la pubblica
opinione: una pubblica opinione, però, che non può intendersi per quei
secoli come attività razionale capace di giudizio critico, bensì come raffigurazione della realtà nelle opinioni di una moltitudine che si limita ad esprimere un tacito consenso attraverso abitudini di vita conformi alle norme20.
Siamo in un’età in cui prevale una sorta di cosmologia comunicazionista
«che si esprimeva variamente nella teologia, nell’alchimia, nell’astrologia e
nella “magia naturale”»21. Il simbolismo medievale, intriso di idee neoplatoniche, faceva dell’universo una mirabile Teofania e contribuiva a rappresentare le cose del Creato come un fedele signaculum di un Dio comunicativo che era insieme principio regolatore e cibernetico22. Una grandiosa e
nobile raffigurazione del mondo, una cattedrale d’idee, la più ricca espressione ritmica e polifonica di tutto il pensabile.
Quella società diffondeva e scambiava una pluralità di messaggi sia
16 M. Sbriccoli, Storia del diritto e storia della società. Questioni di metodo e problemi
di ricerca, in Storia sociale e dimensione giuridica. Strumenti d’indagine e ipotesi di lavoro,
Milano 1986 (Per la storia del pensiero giuridico moderno, 22), pp. 127-148: 141 ss.
17 F. Braudel, Storia e scienze sociali. La «lunga durata», in La storia e le altre scienze
sociali, Roma-Bari 1974, p. 162.
18 Z. Bauman, Cultura come prassi, trad. it., Bologna 1976, p. 91.
19 Cfr. Alberto Gandino, Tractatus de maleficiis, ed. H. Kantorowicz, Albertus Gandinus
und das Strafrecht der Scolastik, II, Die Lehre, Berlin-Leipzig 1926, pp. 51-75, 99-105.
20 Cfr. soprattutto J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, trad. it., RomaBari 1971.
21 Cfr. A. Wilden, Comunicazione, in Enciclopedia Einaudi, III, Torino 1978, p. 621.
22 Cfr. U. Eco, Il segno, Milano 1973, pp. 94 ss.
“LA GRANDE HACHE DE L’HISTOIRE”
9
impliciti sia espliciti23. Come avviene oggi, il pensiero e i processi cognitivi avevano il loro fondamento e la loro ragion d’essere nella sfera sociale.
Per usare una bella immagine di Mary Douglas, «la reciproca colonizzazione delle nostre menti è il prezzo che paghiamo per pensare»24.
È stato acutamente osservato che, nell’età medievale «finché ognuno
teneva volentieri il suo proprio posto, nessuno si sentiva particolarmente
colpito dalla singolarità degli altri». Quando, invece, la singolarità assumeva le forme inquietanti della malattia mentale, la diversità era vissuta e rappresentata come estraneità dal corpo sociale: il demente diventava der
Fremde, “l’esterno che sta dentro”, scompaginava col suo comportamento
l’ordine del discorso, insinuava nel prossimo il timore per una dimensione
sconosciuta dell’esistenza25. I signa furoris si sostanziavano in gesti e azioni che sono descritti con cura dalla criminalistica tardo medievale. Il folle,
fra l’altro, era riconoscibile perché tirava sassi per la strada, rideva senza
motivo, si comportava in modo sconcio, dilapidava il patrimonio come
fanno i prodighi, pronunciava parole sconnesse, non ricordava il suo stesso nome26. Ma, quel che più interessa, era folle chi come tale era rappresentato per famam nella pubblica opinione27.
La fama contribuisce dunque alla stabilità e alla coesione sociale: da una
parte, essa è uno dei modi in cui si realizza la comunicazione, dall’altro è un
efficace sistema di etichettamento. L’appartenenza ad un gruppo, ad un
ceto, ma anche ad una compagnia di malfattori doveva essere riconoscibile
a tutti. In un tempo in cui i motivi conflittuali e dinamici della società mettono in crisi continuamente gli assetti sociali e istituzionali, con l’emersione
di nuove figure professionali ed il consolidamento di repentine fortune
patrimoniali, la rappresentazione nella coscienza collettiva dello stile di vita,
dell’onorabilità, della potenza economica di un individuo serve a definire i
contorni e le peculiarità del ceto sociale di appartenenza28. Ciò vale soprat23 Per una società cetuale attenta ai simboli il vestiario è un campo semiologico privilegiato e non può ridursi ad una funzione di protezione e di ornamento: Identità cittadina
tra medioevo ed età moderna, cur. P. Prodi - M.G. Muzzarelli - S. Simonetta, Bologna 2007,
soprattutto pp. 105 ss.
24 Cfr. P.P. Giglioli, Introduzione a M. Douglas, Come pensano le istituzioni, trad. it.,
Bologna 1990, p. 11.
25 Bauman, Cultura come prassi cit., p. 204.
26 D’altronde, de-lirare evoca l’idea di uscire dal seminato (l’attraversamento della lira),
con tutte le sue connotazioni di sterilità e di eccesso: R. Bodei, Le logiche del delirio.
Ragione, affetti, follia, Roma-Bari 2000, p. 30.
27 Cfr. M. Boari, Qui venit contra iura. Il furiosus nella criminalistica dei secoli XV e
XVI, Milano 1983, pp. 60-74.
28 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 11 ss.
10
FRANCESCO MIGLIORINO
tutto per i ceti emergenti che basano la loro ascesa sociale e la conquista di
uno status più elevato sulle capacità tecniche e imprenditoriali, sul monopolio della conoscenza delle leggi, su una affidabilità riconosciuta da tutti.
Il fenomeno riguarda, però, anche i vecchi gruppi dirigenti che, «pur distinti da funzioni disparate e da diverse ideologie», tendono a ricollocarsi, nella
gerarchia sociale, all’interno dell’unico genus della nobilitas29. La nobiltà di
un personaggio si sostanziava nel suo mostrarsi nobile ed era provata dalla
«fama di una floridezza e di una connessa condizione di vita»30: per Bartolo,
poteva dirsi nobile «qui nobilis appellatur vel reputatur»31.
Alla mente medievale era estranea l’idea del “Perturbante”
(Unheimlich). Chi non godeva di una buona reputazione era assimilato
allo sradicato e al vagabondo32. Ordine e armonia, dunque, gerarchie e
status. L’ordine in quanto struttura «evoca la costanza, la fissità, l’immodificabilità, la regolarità». Il mutamento, all’opposto, mette in discussione l’assetto, è un’intollerabile «sfida nei confronti delle forme, delle
strutture consolidate ed ordinanti»33. Per l’uomo medievale non si dà
unità se non come connessione gerarchica di parti diseguali. «L’ordine
sociale è un momento di un ordine universale e ripete in se stesso la logica gerarchica della totalità». In questa visione, però, le singole parti sono
anche momenti di un’indissolubile unità; parti di un corpo che vive della
disuguaglianza, ma anche della solidarietà dei suoi componenti34. La
comunità era mantenuta in vita grazie alla capacità di rendere l’altro
familiare, di «trasformarlo in una persona compiutamente definita». Una
trasparenza «che i moderni scrittori di utopie avrebbero sognato come un
indice di società ideale», ma che a quel tempo «era una realtà quotidiana, un effetto naturale della continua e totale apertura della vita di ogni
singolo membro della comunità allo sguardo di tutti gli altri»35.
Si può ben capire, allora, perché le spregiudicate attività finanziarie e
commerciali di banchieri e mercanti ricevessero le critiche preoccupate di
29 Cfr. E. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ toscani e ai caratteri di un ceto medievale, in Scritti in memoria di Domenico Barillaro, Milano 1982, p. 23.
30 Cfr. G. Tabacco, Nobili e cavalieri a Bologna e Firenze tra XII e XIII secolo, «Studi
Medievali», ser. III, 17 (1976), p. 48.
31 Cfr. C. Donati, L’idea di nobiltà in Italia (secoli XIV-XVIII), Roma-Bari 1988, p. 6.
32 Cfr. S. Cerutti, Giustizia sommaria. Pratica e ideali di giustizia in una società di
Ancien Régime (Torino XVIII secolo), Milano 2003, p. 63.
33 Cfr. P. Costa, Ordine, mutamento, secolarizzazione: un’ipotesi interpretativa, in La
dislocazione della religione lungo l’epoca moderna, Catania 2003, p. 11.
34 Ibid., p. 14.
35 Cfr. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, trad. it.,
Torino 2007, p. 53.
“LA GRANDE HACHE DE L’HISTOIRE”
11
zelanti e ascoltati predicatori. Gli infamissimi mercatores che a causa del
loro dissesto, fuggivano dalla città portandosi appresso beni e contanti,
davano a vedere l’insanabile aporia tra la sollicitudo per il rischio che è insito nell’attività commerciale e l’idea stessa di equilibrio. Nelle fasi espansive e in quelle recessive, mercanti e banchieri sono stati le componenti
meno docili ad un disegno di stabilità e di ordine. Da parte degli altri corpi
sociali è come si sentisse che il ceto dei mercanti era il solo da cui poteva
temersi un’insidia alla gerarchia elaborata36.
La communicazione fra gli uomini che stava tanto a cuore ai mercanti
diventa ora uno strumento di regolazione sociale. I falliti vengono effigiati, infatti, con toni pesanti ed esasperati di scherno in luoghi pubblici dotati di una forte carica simbolica: il postribolo, la piazza principale, più spesso il palazzo del podestà37. Ciò dà la misura del potere comunicativo che
per lungo tempo i segni iconici hanno avuto sugli uomini: un potere
inquietante che oggi facciamo fatica a comprendere, abituati come siamo a
padroneggiare le immagini, a metterle a distanza, a valutarle nella loro
dimensione più propriamente estetica38.
Come sempre, però, l’infamia milita associata alla fama. Per l’Anonimo
Trecentista, autore di un trattatelo de mercatura, il commerciante non ha
amico «sì grande né sì carissimo» quanto la «chiara fama»; questa « spesse
volte aiuta e difende a luogho e a tenppo che l’uomo nulla ne stimerebbe»,
fino al punto che «tutte le cose che sono disotto il cielo e disopra la terra
stano e sono per lui»39. Se – come afferma Benedetto Cotrugli40 – il mercante deve essere integro «non solo in pensamento, et saldo d’animo et indubitato lo nome», va da sé che «i falliti mai più dovrebbero havere fede né credito, maxime quelli che per captività hanno fallito»: questi, anzi, «si debbono havere come persone infame et adulteratori della mercatura»41.
36
Cfr. F. Migliorino, Mysteria concursus. Itinerari premoderni del diritto commerciale,
Milano 1999, pp. 65 s.
37 Cfr. G. Ortalli, «… pingatur in Palatio…». La pittura infamante nei secoli XIII-XVI,
Roma, 1979, p. 25; S.Y. Edgerton Jr., Pictures and punishment. Art and criminal prosecution
during the florentine renaissance, Ithaca 1985, p. 64; U. Santarelli, Mercanti e società tra mercanti, Torino 1992, pp. 69 ss.
38 Cfr. V. Valeri, Rito, in Enciclopedia Einaudi, XII, Torino 1981 pp. 210-243.
39 Ed. G. Corti, Consigli sulla mercatura di un anonimo trecentista, «Archivio Storico
Italiano», 110 (1952), p. 118.
40 Singolare figura di mercante attivo negli affari e nella politica, incline alla riflessione giuridica e alle meditazioni letterarie, Benedetto Cotrugli Raguseo scrive un manuale
(1458) che è un esempio mirabile di pedagogia sociale e di etica mercantile. Si deve a Ugo
Tucci l’edizione critica dell’opera con una ricca e densa introduzione: Benedetto Cotrugli
Raguseo, Il Libro dell’Arte di Mercatura, cur. U. Tucci, Venezia 1990.
41 Ibid., p. 216.
12
FRANCESCO MIGLIORINO
Per questa via, la buona fama diventa un attributo non solo del singolo,
ma di tutta la corporazione. Serve a definire i contorni e le peculiarità del
ceto sociale di appartenenza42. Entra come strumento probatorio nel processo mercantile rendendo affidabili, pro se, le scritture del mercator bonae
conditionis et famae. Serve, soprattutto, a determinare lo stato d’imminente
decozione che tanto affaticava i giuristi in tema di azione revocatoria43.
Si resta ammirati dalla duttilità e dalla capacità di adattamento alla
prassi di una nomenclatura che, viceversa, manteneva una buona dose di
rigidità nelle opere dei giuristi medievali44. Un vero e proprio scarto che
risulta tanto più significativo nel mondo degli affari, da sempre ostile al
formalismo del diritto stretto e più propenso ad assecondare un dinamismo sostenibile, governato dai principi della sicurezza e della rapidità45.
Nel campo della dottrina di diritto comune, la fama alterius rei inter
homines existentis diventa un rilevante istituto di diritto processuale: come
strumento probatorio concorre con altre prove alla formazione della sentenza, a condizione, però, che sia confermata da testi di provata fede e
dirittura morale46.
42 Negli statuti fiorentini si dispone che il creditore debba indicare nell’istanza di fallimento l’arte di appartenenza del decotto: C. Pecorella - U. Gualazzini, Fallimento (storia),
in Enciclopedia del diritto, XVI, Milano 1967, p. 222. La riprovazione sociale colpisce l’intera corporazione quando il mercante subisce l’onta della pittura infamante o di una condanna per spergiuro: A. Sapori, La mercatura medievale, Firenze 1972, p. 23. Cfr.
Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 11 ss. Fra i requisiti richiesti per l’iscrizione nella matricola della corporazione gli statuti prevedono anche la buona fama: V. Piergiovanni, Diritto
commerciale nel diritto medievale e moderno, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione
commerciale, Torino 19894, pp. 9 s.
43 Cfr. C. Pecorella, Fides pro se (1978), ora in Studi e ricerche di storia del diritto,
Torino 1995, pp. 427 ss.; M. Fortunati, Scrittura e prova. I libri di commercio nel diritto
medievale e moderno, Roma 1996; Migliorino, Mysteria concursus cit., pp. 118 s.
44 Si pensi solo alle figurazioni labirintiche che la fama evoca in letteratura: sulla «Casa
della Fama», vedi le belle e dense pagine di P. Boitani, Letteratura europea e Medioevo volgare, Bologna 2007, pp. 175 ss.
45 Cfr. Migliorino, Mysteria concursus cit., pp. 117 ss.
46 Cfr. almeno J.Ph. Lévy, Le problème de la preuve dans les droits savants du Moyen
Âge, in Recueils de la Société Jean Bodin pour l’histoire comparative des institutions, XVII/2,
Bruxelles 1965, pp. 137-167; A. Giuliani, Il concetto di prova, Milano 1961; R.C. Van
Caenegem, La preuve au Moyen Âge occidental, in Recueils cit., XVII/2, pp. 691-753; G.
Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. La crisi del sistema tra Evo medio e moderno, Napoli
1979; R. Fraher, Conviction according to conscience. The medieval Jurists’ debate concerning
judicial discretion and the law of proof, «Law and History Review», 7 (1989), pp. 23-88; I.
Rosoni, ‘Quae singula non prosunt collecta iuvant’. La teoria della prova indiziaria nell’età
medievale e moderna, Milano 1995; M. MacNair, Vicinage and the antecedents of the jury,
«Law and History Review», 17 (1999), pp. 537-590.
“LA GRANDE HACHE DE L’HISTOIRE”
13
Ci sono avvenimenti che non sono oggetto di esperienza diretta, eppure sono conosciuti da tutti, senza che se ne sappia indicare un’origine precisa. A volte non superano la soglia della diceria e del pettegolezzo o restano confinati nell’ambito del solo vicinato, altre volte si propagano rapidamente e raccolgono il consenso della pubblica fama: la scomparsa di un
tale che si è messo in viaggio da troppo tempo induce a presumere una
morte violenta; le notizie di scontri armati tra fazioni avverse corrono di
bocca in bocca fino a diventare memoria vivente dell’intera città47. Ciò
avviene quando la comunicazione sociale si avvale di una fitta rete di relazioni intersoggettive: lo scenario è quello della città, i giochi dello scambio
riguardano non solo le merci ma anche le notizie e la conoscenza.
Si diffida, però, della naturale propensione della fama a colonizzare il
linguaggio, sfuggendo al controllo dei suoi vigili (e interessati) censori. I
giuristi, perciò, preferiscono definirne limiti e contenuti, assegnandola ad
un livello prestabilito nella gerarchia delle prove e distinguendola dai concetti simili di notorio, manifesto e pubblico. Nelle loro opere essi depurano
il termine del suo significato di diceria e conoscenza fallace, per attribuirgli
una connotazione tecnica: la fama è analizzata in rapporto alla sua origine e
diffusione, alla natura e alla rilevanza dei fatti che contribuisce a diffondere e, assunta nel processo come prova semiplena, è sottoposta a regole rigorose prima di poter produrre i suoi non secondari effetti giuridici48.
Gli effetti della fama probata sono considerevoli. In campo civile essa
opera validamente come mezzo di prova dello status personarum: la sentenza emessa in giudizio in cui compare un filius familias senza il consenso
paterno resta valida se questo è ritenuto pater familias per pubblica fama;
analogamente è valido un testamento rogato davanti a sette testi, di cui uno
era servo ma reputato libero da tutti49. Ma è nel campo criminale che la
fama facti può finalmente dispiegare liberamente le sue più autentiche incli47 Cfr. in proposito il Tractatus de fama del giurista bolognese Tommaso di Piperata, in
Tractatus criminales, ed. Giovan Battista Ziletti, Venetiis 1563, ff. 1r-14r; Tractatus Universi
Iuris, XI/1, Venetiis 1584, ff. 8r-10r.
48 Nella prima metà del secolo XII prende corpo una teoria della notorietà che avrà
come esito più rilevante la rigorosa definizione dei concetti che si richiamano alla categoria
dell’evidenza e della pubblicità. In tale processo di elaborazione dottrinaria la fama, nel
confronto col notorio ed il manifesto, appare spesso come conoscenza non garantita dei
fatti (multum fallax et facilis) e finisce per essere assegnata ai livelli più bassi della gerarchia
delle prove. Per i contributi più significativi di legisti e canonisti cfr. Migliorino, Fama e
infamia cit., pp. 49 ss. e letteratura citata.
49 Thomas de Piperata, De fama cit., ff. 7r-v. Per il collegamento, per famam, dell’immagine sociale con quella giuridica di ceto, cfr. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ cit., p.
33 s.
14
FRANCESCO MIGLIORINO
nazioni. Soprattutto, a partire dal Lateranense IV essa diventa il presupposto per l’inquisitio ex officio e finisce per soppiantare l’istituto altomedievale della testimonianza collettiva giurata50. Da una parte dà un formidabile
contributo all’assemblaggio dei materiali per la costruzione del nemico
interno, dall’altra muove e dirige il fervore di inquisitori e scomunicanti.
Nel suo significato di buona reputazione, la fama è associata di buon’ora al termine di existimatio per connotare l’inviolata capacità giuridica
di una persona. Ancor meno preciso di existimatio, il termine fama ha il
merito di esprimere una forte carica di suggestione emotiva: la riprovazione sociale, l’isolamento dalla comunità per una scarsa considerazione, colpiscono prima e spesso più duramente delle sanzioni approntate dal potere legale. La fama mantiene anche nel Corpus iuris civilis tale suo carattere
indeterminato, sicché è sempre ricondotta all’infamia e alle pene di stima,
senza rivestire mai una chiara, definita connotazione positiva. Gli interpreti medievali rilevano la somiglianza dei due termini (existimatio/fama),
usati spesso nelle fonti come sinonimi. Essi, però, si sentono attratti maggiormente dalla porosità e, forse, dai richiami simbolici di fama: la preferiscono ad existimatio, perché ha uno spettro più ampio di applicazione e
riesce, più di quella, a collegare l’infamia legale del Corpus all’infamia di
fatto regolata dalle norme sociali. Nella scuola di Irnerio la fama è associata, con evidenti echi agostiniani, a quella dignitas che fa dell’uomo la più
mirabile delle creature51. Uno status dignitatis che - come chiarisce bene
Azzone - «non ponitur in diffinitione pro honore publico ut alias sed pro
potentia cuilibet homini a natura tributa quia homo est»52. Per questa via,
grazie all’accostamento ad un ben noto frammento di Callistrato sulle
cognitiones extraordinariae (Dig. 50.13.5.1), la fama è definita in rapporto
alla capacità giuridica e alla dignitas nella sua più nobile raffigurazione:
«fama est illesae dignitatis status moribus et legibus comprobatus, cum sit
idem quod opinio et quod existimatio»53.
Dietro l’immagine riflessa della fama, però, è sempre in agguato il suo
50 Per un quadro d’insieme del fenomeno, cfr. G. Alessi, Processo penale (dir. interm.),
in Enciclopedia del diritto, XXXVI, Milano 1987, pp. 360-401; Alessi, Il processo penale.
Profilo storico, Roma-Bari 2001, pp. 23 ss.; J. Théry, Fama: l’opinion publique comme preuve judiciaire. Aperçu sur la révolution médiévale de l’inquisitoire (XIIe-XIVe siècle), in La
Preuve en justice: de l’Antiquité à nos jours, sous la direction de B. Lemesle, Rennes 2003,
pp. 119-147.
51 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 74 s.
52 Ibid., p. 78. Sulla definizione di Alberto Gandino, che accoglie una tradizione ormai
consolidata, cfr. M. Vallerani, La giustizia pubblica medievale, Bologna 2005, p. 97.
53 Ibid., p. 76.
“LA GRANDE HACHE DE L’HISTOIRE”
15
doppio. Verrebbe da dire, con Freud, il perturbante, con tutto il suo fardello di sciagure. L’infamia, ossia la mala fama, rende pubblica, visibile a tutti
la trasgressione, esige una sanzione sociale che non esclude quella prevista
dall’autorità, ma che ha efficacia e contenuti proprî. Se vi è stata offesa grave
e scandalo per la comunità, il sistema di controllo sociale comporta per l’infame la pubblica riprovazione, l’isolamento, l’emarginazione, mentre il potere legale appronta una serie di esclusioni e di incapacità giuridiche ed etichetta le turpes personae con marchi e segni esteriori riconoscibili alla vista
di tutti54. L’infamia legale, infatti, è una pena accessoria che rende più gravosa la condizione del condannato, ma può anche diventare uno stigma che
si aggiunge al disprezzo per una condotta di vita turpe e indegna.
Sull’infame ricade una serie rilevante di incapacità: perde dignità e uffici e non può rivestire incarichi onorifici; non può postulare in favore di
altri; non può promuovere un giudizio in veste di accusatore, né prestare
una valida testimonianza; perde il diritto di fare testamento; se è nominato erede, contro di lui spetta ai fratelli e alle sorelle del defunto una querela inofficiosi testamenti55.
Proviamo ad immaginare quali effetti spaventosi produca l’infamia nel
caso di individui che conducono la loro esistenza nel pieno godimento dei
diritti civili e politici, che poggiano la loro fortuna economica sulla rispettabilità, che occupano nella gerarchia sociale un ruolo di comando: ciò vale nella
realtà cittadina dove si afferma una nuova visione dei rapporti tra i privati, ma
anche nel mondo feudale, dove la tutela della propria fama è un imperativo
di vita per il signore e l’infamia è causa d’estinzione della nobiltà56.
Si può ben capire la preoccupazione di quel Raniero miles di Vico che,
per avere schernito con parole irridenti un tale che faceva bella mostra
della sua stravagante pettinatura, scoprì che alla modesta pena pecuniaria
cui era stato condannato si sarebbe accompagnata l’infamia derivante dall’actio famosa esperita dal suo avversario. Il beneficio della restituito in
integrum concesso da papa Innocenzo III serviva appunto a salvarlo da
una imprevista limitazione della sua capacità giuridica. Soprattutto, serviva a metterlo al riparo da una sciagurata degradazione sociale. In fondo, la
decisione papale — ispirata a criteri di equità — faceva salvi, insieme con
lo status di Raniero, anche la coesione sociale di un piccolo borgo feudale
del Basso Lazio57.
54
55
56
57
Cfr. U. Robert, I segni d’infamia nel Medioevo, trad. it., Soveria Mannelli 2000.
Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 139 ss.
Cfr. Cortese, Intorno agli antichi ‘iudices’ cit., p. 33.
Cfr. F. Migliorino, In terris Ecclesiae. Frammenti di ‘ius proprium’ nel ‘Liber Extra’ di
Gregorio IX, Roma 1992, pp. 177 ss.
16
FRANCESCO MIGLIORINO
L’infamia è per i ceti abbienti l’equivalente della pena di morte per gli
esclusi e i diseredati. L’eventualità di perdere la fama è per un individuo
capace di diritti l’equivalente di un imminente e funesto pericolo di morte;
a sottolinearlo è Accursio in una glossa ad un frammento di Marciano in
cui l’intervento del servo a difesa del dominus «periculo vitae infamiaeve»
diventa una giusta causa di manumissione. L’infamia, però, non appare
così dannosa per chi ha poco o nulla da perdere; il giudice comminerà la
pena dell’esilio a vita, quando il condannato è così miserabile da non temere il «damnum famae»58.
Anche l’infamia, dunque, svolge la funzione di regolatore dei rapporti
di status. Per le persone di bassa condizione, per le meretrici, i lenoni o gli
usurai la marginalità sancita dalla pubblica opinione trova una conferma
nell’intervento del potere legale; per gli appartenenti ai ceti dominanti,
l’infamia diventa una sanzione vera e propria con conseguenze disastrose,
perché li priva dei più rilevanti diritti civili.
Dalle prime elementari glosse grammaticali, gli interpreti vanno
costruendo una fitta ragnatela di classificazioni. Tentano di mettere in
sistema i luoghi più diversi (e contrastanti) del Corpus. Generazione dopo
generazione. Il risultato? L’infamia è ipso iure, per sententiam o ex genere
poenae. C’è chi è notato immediatamente, prima ancora di una pronuncia
giudiziale; chi sconta la pena accessoria dell’infamia per la condanna subita in una actio famosa; chi ancora perché subisce l’onta di una pena disonorevole59.
Si sa, i giuristi medievali dissimulano una disinvolta infedeltà al testo
romano. Nonostante lo maneggino come una “scrittura sacra”, essi guardano più volentieri alla realtà del loro tempo, sono i costruttori di un
nuovo diritto e di un nuovo ordine60. A partire da quei venerandi testi e da
quei dispersi materiali. Si può ben capire, allora, come la più innovativa e
fortunata delle loro invenzioni sia stata la dottrina dell’infamia facti. Ben
oltre il testo giustinianeo. A fondamento di questa geniale innovazione, la
comune (e visibile) condizione di svantaggio degli infami e dei turpi.
L’infamia facti resta sempre una specificazione dell’infamia legale, ma
mantiene una significativa affinità con l’ignominia sociale. Occorre, però,
58
59
60
Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., p. 140.
Sulle distinzioni dei glossatori, cfr. ibid., pp. 85 ss.
Furono soprattutto «l’entusiasmo per la ricerca di rationes, e la sempre più sfacciata infedeltà al dettato normativo» a produrre un tipo di interpretazione estremamente ‘creativa’. L’intelletto del giurista, a partire dal Duecento, «cambiò traguardo: anziché applicarsi a ‘comprendere’ le fonti antiche si mosse a ‘costruire’ su di esse»: E. Cortese, Il diritto
nella storia medievale, II, Il Basso Medioevo, Roma 1995, p. 392.
“LA GRANDE HACHE DE L’HISTOIRE”
17
distinguere: questa opera liberamente nella sfera metagiuridica, mentre
l’infamia di fatto riceve una disciplina dogmatica ed attrae a sé ipotesi che
altrimenti resterebbero soggette alla mutevole e incerta valutazione della
pubblica opinione61.
I risultati sono rilevanti. Si delimita il campo di applicazione dell’infamia di diritto, rendendone più sicura l’efficacia e, al contempo, si raccolgono – sotto la categoria dell’infamia – ipotesi, come la condictio furtiva e
l’interdictum unde vi, che per definizione sono azioni non infamanti62.
Mirabile manovra della gaia scienza del diritto: da una parte essa pone
limiti, alza barriere, proclama interdetti, predica il Vero e il Falso. Parla a
uomini lasciati bambini. Ma non basta: rende leggibile a pochi, non a tutti,
il suo ordine del discorso. Per questa via, l’infamia resta in buone mani.
Diventa un formidabile strumento di controllo sociale e di pressione verso
la conformità63.
Nel suo significato più ampio, l’infamia di fatto non è una pena vendicativa, né è necessariamente collegata con la colpa. Nella canonistica classica spesso coincide con la decoloratio famae e nelle sue fasi formative è
presupposto processuale per la purgazione canonica. Eppure, i suoi effetti sono rilevanti nella promozione agli ordini sacri, nell’esercizio degli atti
legittimi, nella facoltà di muovere un’accusa o di prestare una testimonianza. Nonostante Graziano non mostri di conoscere la distinzione tra infamia
iuris e infamia facti, nelle opere dei decretisti l’infamia di fatto assume un
ruolo crescente ed è riferita ai luoghi (moltissimi) in cui le fonti antiche
della Chiesa riferiscono di una non bona conversatio di persone che, a
causa del loro scadimento morale, sono giustamente tenute fuori dai riti
liturgici e da quelli mondani64.
Le due regole apostoliche per la promozione al reggimento della diocesi e per l’ordinazione sacerdotale erano lette con limpida consapevolezza dagli eredi della riforma gregoriana. «Oportet enim episcopum sine cri61 Per l’importante contributo dato dalla canonistica cfr. P. Landau, Die Entstehung
des kanonischen Infamiebegriffs von Gratian bis zur Glossa ordinaria, Köln-Graz 1966, pp.
17 ss.; G. May, Die Infamie im Decretum Gratiani, «Archiv für katholisches Kirchenrecht»,
129 (1960), pp. 390 s., che rileva giustamente come sull’uso non tecnico di popularis infamia e di sinister rumor si fondò il procedimento straordinario per inquisizione.
62 La condictio furtiva è un’azione intentata per il risarcimento della cosa quando non
può aver luogo la rei vindicatio. L’interdictum unde vi è un’azione tendente a far rientrare
in possesso di un bene mobile chi ne è stato spogliato con la forza. Cfr. Migliorino, Fama e
infamia cit., pp. 190 s.
63 Cfr. anche E. Peters, Wounded Names. The medieval doctrine of infamy, in Law in
Medieval Life and Thought, cur. E.B. King - S.J. Ridyard, Sewanee, Tenn. 1990, pp. 43-89.
64 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 177 ss.
18
FRANCESCO MIGLIORINO
mine esse» e «oportet autem illum et testimonium habere bonum» diventavano il fondamento della distinzione tra l’irregularitas ex culpa e quella ex
defectu famae. Nel primo caso l’impedimento derivava dalla criminalis infamia, concetto che serve da spartiacque tra il crimine e il peccato; nella
seconda ipotesi, lo scadimento della fama presso la comunità dei fedeli
impediva al pretendente di essere ordinato sacerdote65.
La maggiore attenzione prestata dai canonisti all’infamia di fatto ha
indotto a credere che questa fosse estranea alla ideazione teorica dei maestri civilisti. Il termine, invece, è già usato dalle prime generazioni di glossatori, forse dallo stesso Irnerio, ma con un’attenzione ed un significato
diversi, perché diverse erano le fonti oggetto dell’esegesi di quegli antichi
giuristi. Gli interpreti dei testi giustinianei considerano come cause dell’infamia di fatto quelle ipotesi, non previste nell’Editto del Pretore, in cui si
fa riferimento a una indeterminata indegnità morale che, di solito, è definita coi termini di turpitudo o di levis macula.
Andiamo alle fonti. Può accadere che un tale è chiamato in tribunale
non per rispondere di un reato, ma perché col suo comportamento ha dato
occasione a numerose lagnanze. Non viene pronunciata una sentenza, perché non c’è stato un processo. Il giudice, tuttavia, rimprovera duramente
l’uomo e lo esorta a cambiar vita. Il biasimo lascia il segno e, secondo i legisti, non resta senza effetti. Certo non equivale alla nota d’infamia, ma assomiglia molto al biasimo e alla maledizione del padre per il figlio diseredato.
E ancora. Un avvocato parla in difesa del cliente senza fermarsi un solo
attimo. Non prende fiato. Vomita una appresso all’altra tutte le sue parole. Impedisce al patrono dell’altra parte di addurre prove contrarie.
Peggio. Ha l’ardire di chiedere al giudice di non dare la parola all’avversario. Il giudice, paziente oltre ogni limite, alla fine lo zittisce in malo modo
e gli dà pubblicamente del sycophanta. Le severe parole del magistrato trapassano, con lo stesso acume di una punta affilata, la rispettabilità dello
sconsiderato. Tanto più, perché la censura è pronunciata in pubblico e nel
tempio mondano della giustizia66.
Un paio di casi, tra tanti, per scoprire come i civilisti riescano — per
argumenta — a interdire gli infami di fatto dalle cariche onorifiche e per
svantaggiarli, non di poco, nelle loro capacità processuali. Se, però, dietro
le teorie cerchiamo di intravedere gli uomini in carne e ossa, troviamo
65 Cfr. F. Gillmann, Zur Geschichte des Gebrauchs der Ausdrücke “irregularis” und
“irregularitas”, «Archiv für katholisches Kirchenrecht», 91 (1911), pp. 56 ss.; B. Löbmann,
Der kanonische Infamiebegriff in seiner geschichtlichen Entiwicklung, Leipzig 1956, pp. 9 ss.
66 Cfr. Migliorino, Fama e infamia cit., pp. 187 ss.
“LA GRANDE HACHE DE L’HISTOIRE”
19
quelle stesse masse umane che portano già i segni dell’esclusione nella loro
banale esistenza. In un tempo in cui gli intellettuali contribuiscono con le
loro dottrine a legittimare un sistema di gerarchie e di privilegi legali, l’infamia facti è destinata a diventare il riconoscimento giuridico di una marginalità che appare naturale e necessaria all’equilibrio sociale.
Infami di fatto, dunque, e infami di diritto. Classificazioni che funzionano al modo della galleria di anormali raccolti e ritratti negli album di
Lombroso. Rassicurano le persone rispettabili che non si riconoscono in
quei nasi deviati e in quelle fronti sfuggenti. La società bipartita fra infami
e persone dabbene conferisce un’identità a tutti, forse più a questi che ai
primi. Se non altro, perché gli uomini infami sanno bene di esserlo. Tutti
gli altri temono fortemente di diventarlo.
Siamo in presenza di una tecnologia del riconoscimento, che identifica
controllando e controlla identificando. Una macchina astratta67 che, incurante della fatica e dell’usura, s’industria senza sosta a classificare e raccogliere gli individui che concretamente sono utili al suo funzionamento. Un
portentoso congegno che delimita, incide, segna, marca, definisce quello
spazio che in tanto è disposto ad accogliere alcuni in quanto esclude tutti
gli altri68. A questo scopo, teologi e giuristi hanno prodotto – nell’età
medievale – uno straordinario investimento di sapere, per assegnare nomi,
per denominare e rinominare classi di atti. Sono stati i veri maestri dell’ordine dogmatico, gli interpreti autentici del rapporto tra la parola e le istituzioni, i gelosi custodi del discorso.
Siamo giunti ad un intrico di questioni cruciali. Come si concilia il
potere di certificare la fama e l’infamia – rimesso ad una cerchia ristretta di
intellettuali – con un regime della verità che non può non fondarsi sul consenso universale? Com’è pensabile la coesistenza di un’opinione pubblica,
sostenuta da valori positivi, e di un’opinione privata divergente e, per di
più, scandalosa? Con quali procedure si costituisce il criterio della consensualità e dell’universalità?
Il tema del consensus omnium viene discusso da filosofi e giuristi
attingendo ad una categoria della logica aristotelica, mediante cioè la
definizione di Endoxon. L’Endoxon, ossia il riconosciuto, è nella Topica
e nella Retorica ciò che sembra giusto a tutti, alla maggior parte, oppure
67 Per il concetto marxiano di astrazione reale, cfr. R. Finelli, Astrazione e dialettica dal
Romanticismo al capitalismo: saggio su Marx, Roma 1987; Finelli, Un parricidio mancato:
Hegel e il giovane Marx, Torino 2004.
68 Sul punto basta solo accennare alle pagine di E. Goffman, Asylums: le istituzioni
totali, trad. it., Torino 1961, e di Douglas, Come pensano le istituzioni cit.
20
FRANCESCO MIGLIORINO
ai sapienti69. Ed è appunto nella sfera del probabile, nell’ambito cioè
degli atti umani, che funziona il criterio della certezza sufficiente: per
dirla con Boezio, «quae videntur omnibus aut pluribus aut sapientibus»70.
L’opinione di un ceto guadagna in questo modo la dignità universale
attraverso coloro che la rappresentano, per la fama e l’onore che essi hanno
di potere dire ciò che vogliono dire71. Da qui, l’insistito richiamo delle fonti
giuridiche all’immagine di un’opinio dehonestata apud bonos et graves, per
stigmatizzare quel defectum famae che è il risultato di una vita reprensibile e che non sempre è collegata a una condotta delittuosa72. Al modo dei
testes synodales, anche i boni et graves homines rinviano agli onesti e probabiles endoxoi della logica aristotelica.
Ma se i giuristi, con le loro categorie, elaborano una critica dell’infamia, altrove è in piena attività un’analitica dell’infamia. Ingranaggi diversi
della medesima macchina: modelli discorsivi da una parte, congegni istituzionali dall’altra. Insieme, una mirabile rappresentazione bipartita della
condizione umana.
Lo ius commune definisce che cos’è l’infamia, da quali cause nasce, qual
è il suo rapporto con il reato, con la sentenza, con la pena. Detta i tempi
della sua durata e fissa le condizioni per la sua remissione. Nel momento
stesso, però, in cui essi delimitano con scrupolo le deroghe ai precetti del
diritto comune, s’industriano a lasciare incerti e sfumati i contorni dell’infamia facti, fanno di questa una sorta di grande contenitore a cui attingere,
con abili manovre ermeneutiche, nuovi tipi e nuove classificazioni.
Dalla critica all’analitica: gli iura propria si preoccupano non della definizione dell’infamia, ma del suo effettivo funzionamento. Come nella colonia penale di Kafka, una quotidiana e incisiva scrittura, che ha di mira
69 Cfr. von Moos, Das Öffentliche und das Private im Mittelalter cit., p. 33 e letteratura citata.
70 Boezio, De differentiis topicis I, in Patrologia latina, LXIV, Turnholti 1979, col.
1180C-D.
71 Cfr. J.A. Swanson, The Public and the Private in Aristotele’s Political Theory, Ithaca
1992.
72 Cfr. Landau, Die Entstehung des kanonischen Infamiebegriffs cit., p. 11 ss. L’opinio
dehonestata apud bonos et graves, equivalente ad un defectus famae, si ritrova nelle Assise di
Ruggero II, tit. 35, de mordisonibus, l. Comperit (ed. G.M. Monti, Lo Stato normanno-svevo.
Lineamenti e ricerche, Trani 1945, p. 158): «… Si vero tanti reatus non levis suspitio de eo
fuerit, vel preferite vite sue probrosus cursus extiterit, opinionemque eius apud bonos et
graves dehonestaverit, de calumpnia prius actore iurante, non ut actenus set ceteris super
hoc legibus sopiti set moribus, igniti ferri subeat iudicium…»: Migliorino, Fama e infamia
cit., pp. 183 ss.
“LA GRANDE HACHE DE L’HISTOIRE”
21
soprattutto i corpi, la loro postura, la loro disposizione nello spazio, la loro
trasparenza che mette a nudo un’anima corrotta e perversa. Questa è una
procedura in cui si distinguono, per zelo, gli ordinamenti cittadini e quelli regi, quando impongono ai condannati pene crudeli e infamanti: cavalcare un asino a ritroso stringendo la coda fra le mani; portare un sasso
appeso al collo, tenere una mitra sul capo o una sella sul dorso; restare per
lungo tempo alla berlina con la catena. E ancora: quando li marchiano a
fuoco sulla fronte, sulla spalla o sul braccio, oppure quando impongono il
sanbenito all’eretico o il copricapo con la campanella alla meretrice73.
Questi riti crudeli sono una mirabile messa in scena della derisione e del
disprezzo, sono una sorta di drammatizzazione della vergogna.
La fama, d’altra parte, non è una virtù morale, è un bene prezioso da
curare. Non riguarda tanto la propria coscienza, quanto la personale capacità di autodisciplina, quella costante vigilanza che ogni uomo deve esercitare per il bene di quanti fanno affidamento sulla sua buona reputazione.
Una sorta di strategia di autodifesa per evitare la perdita della fama, ancor
più che il peccato stesso. Si non caste tamen caute, ammoniscono i teologi
quando richiamano la necessità metamorale di scongiurare il pericolo di
uno scandalo: meglio con una condotta irreprensibile, se necessario però
anche con una moderata dissimulazione74. I peccati occulti, allora, restano
confinati nel temibile colloquio che il penitente instaura con la sua coscienza, al cospetto di un amorevole ed esperto medico dell’anima. Lontano dai
tribunali, dove rischierebbero di procurare, attraverso la comunicazione
sociale, un danno ancora maggiore nella coscienza dei più75.
Va da sé, però, che la macchina mitologica è sempre al lavoro, nella sua
ostinata pretesa di istituire alla vita gli uomini: tutti gli uomini, infami e no.
73
Cfr. A. Pertile, Storia del diritto italiano, V, Storia del diritto penale, Torino 1892, pp.
341 ss.; C. Calisse, Svolgimento storico del diritto penale in Italia. Dalle invasioni barbariche
alle riforme del secolo XVIII, Milano 1906, pp. 424 ss.
74 Cfr. J.-P. Cavaillé, Dis/simulations. Religion, morale et politique au XVIIe siècle, Paris
2002, p. 380.
75 Cfr. von Moos, Das Öffentliche und das Private im Mittelalter cit., pp. 41 ss.