La Grande Hache de l`histoire» Semantica della fama e dell`infamia

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La Grande Hache de l`histoire» Semantica della fama e dell`infamia
«La Grande Hache de l'histoire»
Semantica della fama e dell’infamia
Fama e infamia hanno una lunga storia. Proveremo a leggerla alla luce
dell’instancabile traffico tra i valori e i significati di una cultura (e di una società) e quei
sistemi di veridizione che si pongono da sempre come traduzione di senso. Attivissimi a
scongiurare i poteri e i pericoli che si annidano nella produzione del discorso. Inesauribili nella loro ostinata inclinazione a classificare, significare, identificare. Uno spazio
metaforico in cui si costituisce la Verità. Anzi, un infallibile congegno grazie al quale
l’inimicizia tra il vero e il falso scandisce i suoi tempi, dietro lo specchio dell’immagine
sociale del sé.
Fama e infamia hanno un che di portentoso. Si annidano negli scantinati più oscuri dell’anima dopo aver lasciato spie, emblemi e tracce nella parte visibile dei corpi. Un
fiume carsico che accompagna le epoche storiche: oltre le rivoluzioni, anzi nonostante
le rivoluzioni. L’affermazione, la rimozione o il mascheramento di fama e infamia si
intrecciano seguendo una rotta che va ben oltre i tempi di un’esperienza giuridica data,
per mostrare — anche ai nostri giorni — i segni di un’inquietante continuità. C’è
sempre un misterioso e impenetrabile scarto tra la sicurezza con cui teologi e giuristi
descrivono le varie cause d’infamia e la porosità di un’area semantica che è portata quasi naturalmente a lasciar tracimare le più rassicuranti distinzioni, fino al punto da ospitare con amorevole cura un numero sempre maggiore di uomini infami. Sullo sfondo e
all’orizzonte, il più radicale dei partage: da una parte la natura spirituale dell’uomo che
sente spirare il soffio della salvezza, dall’altra la misera postura del corpo che rimane
prigioniero della sua ferina carnalità. A restare impigliati sono tutti gli uomini, non solo
quelli «visibilmente crudeli». Con le stesse parole di Georges Perec, potremmo dire
anche noi che «L’Histoire avec sa grande hache» si abbatte sugli uomini con la ferocia
della sua pesante scure (grande Hache). Ne annichilisce, altresì, le singole insignificanti
storie brandendo la sua pretenziosa maiuscola (grande Ache).
L’infamia è uno di quei nomi che da sempre espone e dilapida i suoi mezzi, una
metafora baroca che si spinge al punto da raccontare l’intera vita di un uomo in due o
tre scene, lasciando — sotto il clamore di un titolo — una superficie d’immagini, un
brusio di voci in cui resta ammutolita una folla di patiboli e di pirati, di mascheramenti e
d’imposture. Come nella História universal de la infamia di Borges, anche nella Vie des
hommes infames di Foucault è indicibile la distanza tra la magniloquenza del termine e
la disarmante ovvietà dei suoi abitatori. «Vite di qualche riga o di qualche pagina», riunite in un pugno di parole da esperti botanici che le hanno volute per sé dentro i recinti
dell’ignominia. C’è da restare sgomenti per l’accanimento e l’ostinazione alla vita di un
congegno che ha abbandonato per secoli solo brandelli di esistenze oscure, un pallido
riflesso di quella spaventevole grandezza con cui quelle vite maledette — nel breve bagliore d’un lampo — si sono mostrate a chi le attorniava, per sparire subito dopo «senza
mai essere state dette».
Verrebbe da dire, con Nietzsche, che indicibilmente più importanti sono i nomi
dati alle cose di quel che esse sono. Con lo stesso nome si sono costituiti tipi umani volta a volta diversi, sotto lo stesso nome si sono radunati sempre nuove valutazioni e nuove verosimiglianze. Nel caso della fama e dell’infamia non milita la consueta dialettica
tra significante e significato, s’instaura piuttosto la mirabile performatività di parole che
si alimentano senza sosta delle situazioni reali che esse stesse hanno contribuito a creare: un ordine sempre uguale a se stesso per gli infiniti discorsi che le hanno chiamato e
continuano a chiamarle alla vita.
Una tela di ragno in cui l’uomo si scopre «impigliato nelle reti di significati che
egli stesso ha tessuto»: è fabbricata con gli attrezzi del linguaggio, si fa forte dello scudo della norma, fa vanto delle sue categorie universali, si muove all’unisono con i pensieri che le istituzioni pensano, giorno dopo giorno battezza, denomina e rinomina i
comportamenti umani. Uno scenario in cui fama e infamia funzionano come una sorta di
metadenominatore per pensare come intrinsecamente simili i tipi umani che esse radunano all’interno della medesima classe, racchiusi da quei confini che sono socialmente
controllati e culturalmente costruiti.
Fama. Non è un termine giuridico, eppure essa suscita l’interesse dei Maestri del diritto che vi intravedono, grazie ai sui generosi slittamenti semantici, rilevanti possibilità
di mediazione sociale. Il diritto, infatti, è fortemente interessato a strutturare e standardizzare le norme sociali con alto contenuto etico, in modo tale che esse funzionino come
indicatori dei comportamenti sentiti come giusti dai membri della comunità. È per sua
natura pervasivo, invade ogni sfera del sociale, ha un tipico potere di rispecchiamento di
fenomeni altrimenti asintomatici. Allo stesso modo della mentalità, il diritto è una struttura «che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo». Ordinare e strutturare è connaturato con il fenomeno giuridico, costituisce, anzi, il fondamento stesso
della prassi umana, serve oggi allo scienziato sociale per definire «il modo umano di
essere-al-mondo». I giuristi del diritto comune furono in ciò maestri impareggiabili.
Avviene così che gli interpreti assumano progressivamente il concetto di fama
all’interno del loro vocabolario per rappresentare sia la reputazione di cui ciascuno gode
nell’opinione degli altri, sia una conoscenza incerta e non garantita dei fatti: da una parte dunque la fama hominis, dall’altra la fama alterius rei inter homines existentis.
Entrambi i significati sottintendono i concetti più ampi di opinio e di publicum e si
fondano sui processi di comunicazione attraverso la pubblica opinione: una pubblica
opinione, però, che non può intendersi per quei secoli come attività razionale capace di
giudizio critico, bensì come raffigurazione della realtà nelle opinioni di una moltitudine
che si limita ad esprimere un tacito consenso attraverso abitudini di vita conformi alle
norme.
Siamo in un’età in cui prevale una sorta di cosmologia comunicazionista «che si esprimeva variamente nella teologia, nell’alchimia, nell’astrologia e nella “magia naturale”». Il simbolismo medievale, intriso di idee neoplatoniche, faceva dell’universo una
mirabile Teofania e contribuiva a rappresentare le cose del Creato come un fedele signaculum di un Dio comunicativo che era insieme principio regolatore e cibernetico.
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Una grandiosa e nobile raffigurazione del mondo, una cattedrale d’idee, la più ricca
espressione ritmica e polifonica di tutto il pensabile.
Quella società diffondeva e scambiava una pluralità di messaggi sia impliciti sia
espliciti. Come avviene oggi, il pensiero e i processi cognitivi avevano il loro fondamento e la loro ragion d’essere nella sfera sociale. Per usare una bella immagine di
Mary Douglas, «la reciproca colonizzazione delle nostre menti è il prezzo che paghiamo
per pensare».
È stato acutamente osservato che, nell’età medievale «finché ognuno teneva volentieri il suo proprio posto, nessuno si sentiva particolarmente colpito dalla singolarità
degli altri». Quando, invece, la singolarità assumeva le forme inquietanti della malattia
mentale, la diversità era vissuta e rappresentata come estraneità dal corpo sociale: il demente diventava der Fremde, “l’esterno che sta dentro”, scompaginava col suo comportamento l’ordine del discorso, insinuava nel prossimo il timore per una dimensione sconosciuta dell’esistenza. I signa furoris si sostanziavano in gesti e azioni che sono descritti con cura dalla criminalistica tardo medievale. Il folle, fra l’altro, era riconoscibile
perché tirava sassi per la strada, rideva senza motivo, si comportava in modo sconcio,
dilapidava il patrimonio come fanno i prodighi, pronunciava parole sconnesse, non ricordava il suo stesso nome. Ma, quel che più interessa, era folle chi come tale era rappresentato per famam nella pubblica opinione.
La fama contribuisce dunque alla stabilità e alla coesione sociale: da una parte, essa è uno dei modi in cui si realizza la comunicazione, dall’altro è un efficace sistema di
etichettamento. L’appartenenza ad un gruppo, ad un ceto, ma anche ad una compagnia
di malfattori doveva essere riconoscibile a tutti. In un tempo in cui i motivi conflittuali e
dinamici della società mettono in crisi continuamente gli assetti sociali ed istituzionali,
con l’emersione di nuove figure professionali ed il consolidamento di repentine fortune
patrimoniali, la rappresentazione nella coscienza collettiva dello stile di vita,
dell’onorabilità, della potenza economica di un individuo serve a definire i contorni e le
peculiarità del ceto sociale di appartenenza. Ciò vale soprattutto per i ceti emergenti che
basano la loro ascesa sociale e la conquista di uno status più elevato sulle capacità tecniche ed imprenditoriali, sul monopolio della conoscenza delle leggi, su una affidabilità
riconosciuta da tutti. Il fenomeno riguarda, però, anche i vecchi gruppi dirigenti che,
«pur distinti da funzioni disparate e da diverse ideologie», tendono a ricollocarsi, nella
gerarchia sociale, all’interno dell’unico genus della nobilitas. La nobiltà di un personaggio si sostanziava nel suo mostrarsi nobile ed era provata dalla «fama di una floridezza e
di una connessa condizione di vita»: per Bartolo, poteva dirsi nobile «qui nobilis appellatur vel reputatur».
Alla mente medievale era estranea l’idea del “Perturbante” (Unheimlich). Chi non
godeva di una buona reputazione era assimilato allo sradicato e al vagabondo. Ordine e
armonia, dunque, gerarchie e status. L’ordine in quanto struttura «evoca la costanza, la
fissità, l’immodificabilità, la regolarità». Il mutamento, all’opposto, mette in discussione
l’assetto, è un’intollerabile «sfida nei confronti delle forme, delle strutture consolidate
ed ordinanti». Per l’uomo medievale non si dà unità se non come connessione gerarchica di parti diseguali. «L’ordine sociale è un momento di un ordine universale e ripete in
se stesso la logica gerarchica della totalità». In questa visione, però, le singole parti sono
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anche momenti di un’indissolubile unità; parti di un corpo che vive della disuguaglianza, ma anche della solidarietà dei suoi componenti. La comunità era mantenuta in vita
grazie alla capacità di rendere l’altro familiare, di «trasformarlo in una persona compiutamente definita». Una trasparenza «che i moderni scrittori di utopie avrebbero sognato
come un indice di società ideale», ma che a quel tempo «era una realtà quotidiana, un
effetto naturale della continua e totale apertura della vita di ogni singolo membro della
comunità allo sguardo di tutti gli altri».
Si può ben capire, allora, perché le spregiudicate attività finanziarie e commerciali
di banchieri e mercanti ricevessero le critiche preoccupate di zelanti e ascoltati predicatori. Gli infamissimi mercatores che a causa del loro dissesto, fuggivano dalla città portandosi appresso beni e contanti, davano a vedere l’insanabile aporia tra la sollecitudo
per il rischio che è insito nell’attività commerciale e l’idea stessa di equilibri. Nelle fasi
espansive e in quelle recessive, mercanti e banchieri sono stati le componenti meno docili ad un disegno di stabilità e di ordine. Da parte degli altri corpi sociali è come si sentisse che il ceto dei mercanti era il solo da cui poteva temersi un’insidia alla gerarchia
elaborata.
La communicazione fra gli uomini che stava tanto a cuore ai mercanti diventa ora
uno strumento di regolazione sociale. I falliti vengono effigiati, infatti, con toni pesanti
ed esasperati di scherno in luoghi pubblici dotati di una forte carica simbolica: il postribolo, la piazza principale, più spesso il palazzo del podestà. Ciò dà la misura del potere
comunicativo che per lungo tempo i segni iconici hanno avuto sugli uomini: un potere
inquietante che oggi facciamo fatica a comprendere, abituati come siamo a padroneggiare le immagini, a metterle a distanza, a valutarle nella loro dimensione più propriamente
estetica.
Come sempre, però, l’infamia milita associata alla fama. Per l’Anonimo Trecentista, autore di un trattatelo de mercatura, il commerciante non ha amico «sì grande né
sì carissimo» quanto la «chiara fama»; questa « spesse volte aiuta e difende a luogho e a
tenppo che l’uomo nulla ne stimerebbe», fino al punto che «tutte le cose che sono disotto il cielo e disopra la terra stano e sono per lui». Se — come afferma Benedetto
Cotrugli — il mercante deve essere integro «non solo in pensamento, et saldo d’animo
et indubitato lo nome», va da sé che «i falliti mai più dovrebbero havere fede né credito,
maxime quelli che per captività hanno fallito»: questi, anzi, «si debbono havere come
persone infame et adulteratori della mercatura».
Per questa via, la buona fama diventa un attributo non solo del singolo, ma di tutta
la corporazione. Serve a definire i contorni e le peculiarità del ceto sociale di appartenenza. Entra come strumento probatorio nel processo mercantile rendendo affidabili,
pro se, le scritture del mercator bonae conditionis et famae. Serve, soprattutto, a determinare lo stato d’imminente decozione che tanto affaticava i giuristi in tema di azione
revocatoria.
Si resta ammirati dalla duttilità e dalla capacità di adattamento alla prassi di una
nomenclatura che, viceversa, manteneva una buona dose di rigidità nelle opere dei giuristi medievali. Un vero e proprio scarto che risulta tanto più significativo nel mondo
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degli affari, da sempre ostile al formalismo del diritto stretto e più propenso ad assecondare un dinamismo sostenibile, governato dai principi della sicurezza e della rapidità.
Nel campo della dottrina di diritto comune, la fama alterius rei inter homines existentis diventa un rilevante istituto di diritto processuale: come strumento probatorio
concorre con altre prove alla formazione della sentenza, a condizione, però, che sia confermata da testi di provata fede e dirittura morale.
Ci sono avvenimenti che non sono oggetto di esperienza diretta, eppure sono conosciuti da tutti, senza che se ne sappia indicare un’origine precisa. A volte non superano la soglia della diceria e del pettegolezzo o restano confinati nell’ambito del solo vicinato, altre volte si propagano rapidamente e raccolgono il consenso della pubblica fama:
la scomparsa di un tale che si è messo in viaggio da troppo tempo induce a presumere
una morte violenta; le notizie di scontri armati tra fazioni avverse corrono di bocca in
bocca fino a diventare memoria vivente dell’intera città. Ciò avviene quando la comunicazione sociale si avvale di una fitta rete di relazioni intersoggettive: lo scenario è quello della città, i giochi dello scambio riguardano non solo le merci ma anche le notizie e
la conoscenza.
Si diffida, però, della naturale propensione della fama a colonizzare il linguaggio,
sfuggendo al controllo dei suoi vigili (e interessati) censori. I giuristi, perciò, preferiscono definirne limiti e contenuti, assegnandola ad un livello prestabilito nella gerarchia
delle prove e distinguendola dai concetti simili di notorio, manifesto e pubblico. Nelle
loro opere essi depurano il termine del suo significato di diceria e conoscenza fallace,
per attribuirgli una connotazione tecnica: la fama è analizzata in rapporto alla sua origine e diffusione, alla natura e alla rilevanza dei fatti che contribuisce a diffondere e, assunta nel processo come prova semiplena, è sottoposta a regole rigorose prima di poter
produrre i suoi non secondari effetti giuridici.
Gli effetti della fama probata sono considerevoli. In campo civile essa opera validamente come mezzo di prova dello status personarum: la sentenza emessa in giudizio
in cui compare un filius familias senza il consenso paterno resta valida se questo è ritenuto pater familias per pubblica fama; analogamente è valido un testamento rogato davanti a sette testi, di cui uno era servo ma reputato libero da tutti. Ma è nel campo criminale che la fama facti può finalmente dispiegare liberamente le sue più autentiche
inclinazioni. Soprattutto, a partire dal Lateranse IV essa diventa il presupposto per
l’inquisitio ex officio e finisce per soppiantare l’istituto altomedievale della testimonianza collettiva giurata. Da una parte dà un formidabile contributo all’assemblaggio dei
materiali per la costruzione del nemico interno, dall’altra muove e dirige il fervore di
inquisitori e scomunicanti.
Nel suo significato di buona reputazione, la fama è associata di buon’ora al termine di existimatio per connotare l’inviolata capacità giuridica di una persona. Ancor meno preciso di existimatio, il termine fama ha il merito di esprimere una forte carica di
suggestione emotiva: la riprovazione sociale, l’isolamento dalla comunità per una scarsa
considerazione, colpiscono prima e spesso più duramente delle sanzioni approntate dal
potere legale. La fama mantiene anche nel Corpus iuris civilis tale suo carattere indeterminato, sicché è sempre ricondotta all’infamia e alle pene di stima, senza rivestire
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mai una chiara, definita connotazione positiva. Gli interpreti medievali rilevano la somiglianza dei due termini (existimatio/fama), usati spesso nelle fonti come sinonimi.
Essi, però, si sentono attratti maggiormente dalla porosità e, forse, dai richiami simbolici di fama: la preferiscono ad existimatio, perché ha uno spettro più amplio di applicazione e riesce, più di quella, a collegare l’infamia legale del Corpus all’infamia di fatto
regolata dalle norme sociali. Nella scuola di Irnerio la fama è associata, con evidenti
echi agostiniani, a quella dignitas che fa dell’uomo la più mirabile delle creature. Uno
status dignitatis che ─ come chiarisce bene Azzone ─ «non ponitur in diffinitione pro
honore publico ut alias sed pro potentia cuilibet homini a natura tributa quia homo est».
Per questa via, grazie all’accostamento ad un ben noto frammento di Callistrato sulle
cognitiones extraordinariae (Dig. 50.13.5.1), la fama è definita in rapporto alla capacità
giuridica e alla dignitas nella sua più nobile raffigurazione: «fama est illesae dignitatis
status moribus et legibus comprobatus, cum sit idem quod opinio et quod existimatio».
Dietro l’immagine riflessa della fama, però, è sempre in agguato il suo doppio.
Verrebbe da dire, con Freud, il perturbante, con tutto il suo fardello di sciagure.
L’infamia, ossia la mala fama, rende pubblica, visibile a tutti la trasgressione, esige una
sanzione sociale che non esclude quella prevista dall’autorità, ma che ha efficacia e contenuti proprî. Se vi è stata offesa grave e scandalo per la comunità, il sistema di controllo sociale comporta per l’infame la pubblica riprovazione, l’isolamento,
l’emarginazione, mentre il potere legale appronta una serie di esclusioni e di incapacità
giuridiche ed etichetta le turpes personae con marchi e segni esteriori riconoscibili alla
vista di tutti. L’infamia legale, infatti, è una pena accessoria che rende più gravosa la
condizione del condannato, ma può anche diventare uno stigma che si aggiunge al
disprezzo per una condotta di vita turpe e indegna.
Sull’infame ricade una serie rilevante di incapacità: perde dignità e uffici e non può
rivestire incarichi onorifici; non può postulare in favore di altri; non può promuovere un
giudizio in veste di accusatore, né prestare una valida testimonianza; perde il diritto di
fare testamento; se è nominato erede, contro di lui spetta ai fratelli e alle sorelle del defunto una querela inofficiosi testamenti.
Proviamo ad immaginare quali effetti spaventosi produca l’infamia nel caso di individui che conducono la loro esistenza nel pieno godimento dei diritti civili e politici, che
poggiano la loro fortuna economica sulla rispettabilità, che occupano nella gerarchia
sociale un ruolo di comando: ciò vale nella realtà cittadina dove si afferma una nuova
visione dei rapporti tra i privati, ma anche nel mondo feudale, dove la tutela della
propria fama è un imperativo di vita per il signore e l’infamia è causa d’estinzione della
nobiltà.
Si può ben capire la preoccupazione di quel Raniero miles di Vico che, per avere
schernito con parole irridenti un tale che faceva bella mostra della sua stravagante pettinatura, scoprì che alla modesta pena pecuniaria a cui era stato condannato si sarebbe
accompagnata l’infamia derivante dall’actio famosa esperita dal suo avversario. Il beneficio della restituito in integrum concesso da papa Innocenzo III serviva appunto a salvarlo da una imprevista limitazione della sua capacità giuridica. Soprattutto, serviva a
metterlo al riparo da una sciagurata degradazione sociale. In fondo, la decisione papale
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— ispirata a criteri di equità — faceva salvi, insieme con lo status di Raniero, anche la
coesione sociale di un piccolo borgo feudale del Basso Lazio.
L’infamia è per i ceti abbienti l’equivalente della pena di morte per gli esclusi e i diseredati. L’eventualità di perdere la fama è per un individuo capace di diritti l’equivalente di un imminente e funesto pericolo di morte; a sottolinearlo è Accursio in una
glossa ad un frammento di Marciano in cui l’intervento del servo a difesa del dominus
«periculo vitae infamiaeve» diventa una giusta causa di manumissione. L’infamia, però,
non appare così dannosa per chi ha poco o nulla da perdere; il giudice comminerà la
pena dell’esilio a vita quando il condannato è così miserabile da non temere il «damnum
famae».
Anche l’infamia, dunque, svolge la funzione di regolatore dei rapporti di status. Per
le persone di bassa condizione, per le meretrici, i lenoni o gli usurai la marginalità sancita dalla pubblica opinione trova una conferma nell’intervento del potere legale; per gli
appartenenti ai ceti dominanti, l’infamia diventa una sanzione vera e propria con conseguenze disastrose, perché li priva dei più rilevanti diritti civili.
Dalle prime elementari glosse grammaticali, gli interpreti vanno costruendo una
fitta ragnatela di classificazioni. Tentano di mettere in sistema i luoghi più diversi (e
contrastanti) del Corpus. Generazione dopo generazione. Il risultato? L’infamia è ipso
iure, per sententiam o ex genere poenae. C’è chi è notato immediatamente, prima ancora di una pronuncia giudiziale; chi sconta la pena accessoria dell’infamia per la condanna subita in una actio famosa; chi ancora perché subisce l’onta di una pena disonorevole.
Si sa, i giuristi medievali dissimulano una disinvolta infedeltà al testo romano.
Nonostante lo maneggino come una “scrittura sacra”, essi guardano più volentieri alla
realtà del loro tempo, sono i costruttori di un nuovo diritto e di un nuovo ordine. A partire da quei venerandi testi e da quei dispersi materiali. Si può ben capire, allora, come
la più innovativa e fortunata delle loro invenzioni sia stata la dottrina dell’infamia facti.
Ben oltre il testo giustinianeo. A fondamento di questa geniale innovazione, la comune
(e visibile) condizione di svantaggio degli infami e dei turpi.
L’infamia facti resta sempre una specificazione dell’infamia legale, ma mantiene una
significativa affinità con l’ignominia sociale. Occorre, però, distinguere: questa opera
liberamente nella sfera metagiuridica, mentre l’infamia di fatto riceve una disciplina
dogmatica ed attrae a sé ipotesi che altrimenti resterebbero soggette alla mutevole e
incerta valutazione della pubblica opinione.
I risultati sono rilevanti. Si delimita il campo di applicazione dell’infamia di diritto, rendendone più sicura l’efficacia e, al contempo, si raccolgono — sotto la categoria
dell’infamia — ipotesi, come la condictio furtiva e l’interdictum unde vi, che per definizione sono azioni non infamanti. Mirabile manovra della gaia scienza del diritto: da una
parte essa pone limiti, alza barriere, proclama interdetti, predica il Vero e il Falso. Parla
a uomini lasciati bambini. Ma non basta: rende leggibile a pochi, non a tutti, il suo ordine del discorso. Per questa via, l’infamia resta in buone mani. Diventa un formidabile
strumento di controllo sociale e di pressione verso la conformità.
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Nel suo significato più ampio, l’infamia di fatto non è una pena vendicativa, né è
necessariamente collegata con la colpa. Nella canonistica classica spesso coincide con la
decoloratio famae e nelle sue fasi formative è presupposto processuale per la purgazione canonica. Eppure, i suoi effetti sono rilevanti nella promozione agli ordini sacri,
nell’esercizio degli atti legittimi, nella facoltà di muovere un’accusa o di prestare una
testimonianza. Nonostante Graziano non mostri di conoscere la distinzione tra infamia
iuris e infamia facti, nelle opere dei decretisti l’infamia di fatto assume un ruolo crescente, ed è riferita ai luoghi (moltissimi) in cui le fonti antiche della Chiesa riferiscono
di una non bona conversatio di persone che, a causa del loro scadimento morale, sono
giustamente tenute fuori dai riti liturgici e da quelli mondani.
Le due regole apostoliche per la promozione al reggimento della diocesi e per
l’ordinazione sacerdotale erano lette con limpida consapevolezza dagli eredi della riforma gregoriana. Oportet enim episcopum sine crimine esse e oportet autem illum et
testimonium habere bonum diventavano il fondamento della distinzione tra
l’irregularitas ex culpa e quella ex defectu famae. Nel primo caso l’impedimento derivava dalla criminalis infamia, concetto che serve da spartiacque tra il crimine e il peccato; nella seconda ipotesi, lo scadimento della fama presso la comunità dei fedeli impediva al pretendente di essere ordinato sacerdote.
La maggiore attenzione prestata dai canonisti all’infamia di fatto ha indotto a credere che questa fosse estranea alla ideazione teorica dei maestri civilisti. Il termine, invece, è già usato dalle prime generazioni di glossatori, forse dallo stesso Irnerio, ma con
un’attenzione ed un significato diversi, perché diverse erano le fonti oggetto dell’esegesi
di quegli antichi giuristi. Gli interpreti dei testi giustinianei considerano come cause
dell’infamia di fatto quelle ipotesi, non previste nell’Editto del Pretore, in cui si fa riferimento a una indeterminata indegnità morale che, di solito, è definita coi termini di
turpitudo o di levis macula.
Andiamo alle fonti. Può accadere che un tale è chiamato in tribunale non per rispondere di un reato, ma perché col suo comportamento ha dato occasione a numerose
lagnanze. Non viene pronunciata una sentenza, perché non c’è stato un processo. Il giudice, tuttavia, rimprovera duramente l’uomo e lo esorta a cambiar vita. Il biasimo lascia
il segno e, secondo i legisti, non resta senza effetti. Certo non equivale alla nota
d’infamia, ma assomiglia molto al biasimo e alla maledizione del padre per il figlio diseredato.
E ancora. Un avvocato parla in difesa del cliente senza fermarsi un solo attimo.
Non prende fiato. Vomita una appresso all’altra tutte le sue parole. Impedisce al patrono
dell’altra parte di addurre prove contrarie. Peggio. Ha l’ardire di chiedere al giudice di
non dare la parola all’avversario. Il giudice, paziente ogni oltre limite, alla fine lo zittisce in malo modo e gli dà pubblicamente del sycophanta. Le severe parole del magistrato trapassano, con lo stesso acume di una punta affilata, la rispettabilità dello sconsiderato. Tanto più, perché la censura è pronunciata in pubblico e nel tempio mondano della
giustizia.
Un paio di casi, tra tanti, per scoprire come i civilisti riescano — per argumenta
— a interdire gli infami di fatto dalle cariche onorifiche e per svantaggiarli, non di po-
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co, nelle loro capacità processuali. Se, però, dietro le teorie cerchiamo di intravedere gli
uomini in carne e ossa, troviamo quelle stesse masse umane che portano già i segni
dell’esclusione nella loro banale esistenza. In un tempo in cui gli intellettuali contribuiscono con le loro dottrine a legittimare un sistema di gerarchie e di privilegi legali,
l’infamia facti è destinata a diventare il riconoscimento giuridico di una marginalità che
appare naturale e necessaria all’equilibrio sociale.
Infami di fatto, dunque, e infami di diritto. Classificazioni che funzionano al modo
della galleria di anormali raccolti e ritratti negli album di Lombroso. Rassicurano le
persone rispettabili che non si riconoscono in quei nasi deviati e in quelle fronti sfuggenti. La società bipartita fra infami e persone dabbene conferisce un’identità a tutti,
forse più a questi che ai primi. Se non altro, perché gli uomini infami sanno bene di esserlo. Tutti gli altri temono fortemente di diventarlo.
Siamo in presenza di una tecnologia del riconoscimento, che identifica controllando e controlla identificando. Una macchina astratta che, incurante della fatica e
dell’usura, s’industria senza sosta a classificare e raccogliere gli individui che concretamente sono utili al suo funzionamento. Un portentoso congegno che delimita, incide,
segna, marca, definisce quello spazio che in tanto è disposto ad accogliere alcuni in
quanto esclude tutti gli altri. A questo scopo, teologi e giuristi hanno prodotto —
nell’età medievale — uno straordinario investimento di sapere, per assegnare nomi, per
denominare e rinominare classi di atti. Sono stati i veri maestri dell’ordine dogmatico,
gli interpreti autentici del rapporto tra la parola e le istituzioni, i gelosi custodi del discorso.
Siamo giunti ad un intrico di questioni cruciali. Come si concilia il potere di certificare la fama e l’infamia ― rimesso ad una cerchia ristretta di intellettuali — con un
regime della verità che non può non fondarsi sul consenso universale? Com’è pensabile
la coesistenza di un’opinione pubblica, sostenuta da valori positivi, e di un’opinione
privata divergente e, per di più, scandalosa? Con quali procedure si costituisce il criterio
della consensualità e dell’universalità?
Il tema del consensus omnium viene discusso da filosofi e giuristi attingendo ad una
categoria della logica aristotelica, mediante cioè la definizione di Endoxon. L’Endoxon,
ossia il riconosciuto, è nella Topica e nella Retorica ciò che sembra giusto a tutti, alla
maggior parte, oppure ai sapienti. Ed è appunto nella sfera del probabile, nell’ambito
cioè degli atti umani, che funziona il criterio della certezza sufficiente: per dirla con
Boezio, quae videntur omnibus aut pluribus aut sapientibus.
L’opinione di un ceto guadagna in questo modo la dignità universale attraverso coloro che la rappresentano, per la fama e l’onore che essi hanno di potere dire ciò che vogliono dire. Da qui, l’insistito richiamo delle fonti giuridiche all’immagine di un’opinio
dehonestata apud bonos et graves, per stigmatizzare quel defectum famae che è il risultato di una vita reprensibile e che non sempre è collegata a una condotta delittuosa. Al
modo dei testes synodales, anche i boni et graves homines rinviano agli onesti e probabiles endoxoi della logica aristotelica.
Ma se i giuristi, con le loro categorie, elaborano una critica dell’infamia, altrove è in
piena attività un’analitica dell’infamia. Ingranaggi diversi della medesima macchina:
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modelli discorsivi da una parte, congegni istituzionali dall’altra. Insieme, una mirabile
rappresentazione bipartita della condizione umana.
Il ius commune definisce che cos’è l’infamia, da quali cause nasca, qual è il suo rapporto con il reato, con la sentenza, con la pena. Detta i tempi della sua durata e fissa le
condizioni per la sua remissione. Nel momento stesso, però, in cui essi delimitano con
scrupolo le deroghe ai precetti del diritto comune, s’industriano a lasciare incerti e sfumati i contorni dell’infamia facti, fanno di questa una sorta di grande contenitore a cui
attingere, con abili manovre ermeneutiche, nuovi tipi e nuove classificazioni.
Dalla critica all’analitica: gli iura propria si preoccupano non della definizione
dell’infamia, ma del suo effettivo funzionamento. Come nella colonia penale di Kafka,
una quotidiana e incisiva scrittura, che ha di mira soprattutto i corpi, la loro postura, la
loro disposizione nello spazio, la loro trasparenza che mette a nudo un’anima corrotta e
perversa. Questa è una procedura in cui si distinguono, per zelo, gli ordinamenti cittadini e quelli regi, quando impongono ai condannati pene crudeli e infamanti: cavalcare un
asino a ritroso stringendo la coda fra le mani; portare un sasso appeso al collo, tenere
una mitra sul capo o una sella sul dorso; restare per lungo tempo alla berlina con la catena. E ancora: quando li marchiano a fuoco sulla fronte, sulla spalla o sul braccio, oppure quando impongono il sanbenito all’eretico o il copricapo con la campanella alla
meretrice. Questi riti crudeli sono una mirabile messa in scena della derisione e del disprezzo, sono una sorta di drammatizzazione della vergogna.
La fama, d’altra parte, non è una virtù morale, è un bene prezioso da curare. Non riguarda tanto la propria coscienza, quanto la personale capacità di autodisciplina, quella
costante vigilanza che ogni uomo deve esercitare per il bene di quanti fanno affidamento sulla sua buona reputazione. Una sorta di strategia di autodifesa per evitare la perdita
della fama, ancor più che il peccato stesso. Si non caste tamen caute, ammoniscono i
teologi quando richiamano la necessità metamorale di scongiurare il pericolo di uno
scandalo: meglio con una condotta irreprensibile, se necessario però anche con una moderata dissimulazione. I peccati occulti, allora, restano confinati nel temibile colloquio
che il penitente instaura con la sua coscienza, al cospetto di un amorevole ed esperto
medico dell’anima. Lontano dai tribunali, dove rischierebbero di procurare, attraverso la
comunicazione sociale, un danno ancora maggiore nella coscienza dei più.
Va da sé, però, che la macchina mitologica è sempre al lavoro, nella sua ostinata pretesa di istituire alla vita gli uomini: tutti gli uomini, infami e no.
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