giovanni testori: la carne che grida

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giovanni testori: la carne che grida
 ® Giovanni testori: la carne che grida
Di andrea galgano
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24 febbraio 2012
IL
bordo dell’abisso, il margine del dramma umano che si compie, I
la cava della luce che rinasce dallo spirito, lo struggente precipizio d’umanità, questa linea assiale di occhi conosceva Giovanni Testori. Figura potente del ‘900 che, assieme a Pier Paolo Pasolini, ha visto e guardato il tumulto della civiltà e dell’uomo, nelle sue dinamiche e nei suoi moti d’esistenza. Lì si trova la radice della sua problematica, il fiato di un tono che nella sua poesia, ora edita nell’antologia curata da Davide Rondoni, guarda all’ombra di Jacopone, al frammento di canto e accensione abissale di Clemente ®
© articolo stampato da Polo Psicodinamiche S.r.l. P.IVA 05226740487 Tutti i diritti sono riservati. Editing MusaMuta www.polopsicodinamiche.com http://polopsicodinamiche.forumattivo.com Andrea Galgano. “Giovanni Testori: la carne che grida” 24.02.2012 Rebora, come vertici di espressione e interezza, di un uomo, di un poeta, pittore, uomo di teatro, critico che, nel dramma della libertà ha saputo inginocchiarsi alla realtà che accade, a ciò che si compie, alla carità in atto. La Milano della periferia nord, quadro variegato di umanità lucente e margine di miseria (Il dio di Roserio o Il ponte della Ghisolfa, e successivamente In exitu), descritta nei suoi racconti e nei suoi romanzi con accento di vivezza, è uno sguardo di barricata, dove le miserie umane sono tenute per la mano, vivono, abitano le feritoie e i silenzi pieni di grido della carne, nel tratto della sua intelligenza interiore, rosea come il viso che si ferma sulla potenza fragile e misteriosa dell’origine della realtà: «Mia città!/ Mia serranda/ che sàri su tutto e lasci fuori. /Fuori lasci!/ Fuori! I sensa volontà./ Fuori. I sensa cervice,/ i sensa idea, i sensa sesso, i sensa speransa». Giovanni Testori è quella feritoia che sanguina, il tono medio che vive la toponomastica delle anime, la capacità di entrare in rapporto e tessere la trama di relazioni con le maglie della città e con la vertigine del peccato, dello “scandalo” della salvezza del reietto, tracciato in un marchio di inquietudine come grido d’amore, quello di Cristo: «non mi posso quietare Cristo mi ha marcato». La carne che grida. La lingua fortissima e solenne del basso che abbraccia l’arte umile e immensa del Sacro Monte di Varallo, spartiacque di orizzonte per i suoi occhi, colore della disperazione e della dannazione salvata, dell’anima che conosce il tempo del tempio, la parola del feto che diviene profezia, incarnazione, maledizione, come in Factum est: «Grazie te, Cristo re!/Parlo qui! Sento qui!/ Cuore qui, carne qui,/ batte qui, grida qui!/ Vita Cristo vive qui!/ Casa, carne, ventre, te. […]/ Grazie, Dio,/ grazie, Luce, grazie, Te. /Ora e sempre/Vive, parla, sangue, canta, carne, me». Le cronache si erano occupate di lui quando una sua opera L’Arialda, messa in scena da Luchino Visconti, era stata censurata per oscenità, in un tempo in cui la bestemmia (una preghiera dentro un grido) nascondeva l’impossibilità di esorcizzare Dio: «Credo di poter dire che non riuscissi mai a fare a meno di Dio, a fare a meno di Cristo. Anzi, tanto più cercavo di allontanarlo, tanto più me lo sentivo ricadere addosso». Una presenza che prepotentemente e dolcemente si insinua, come un tarlo di sponda, un attimo di Grazia che si impone: «Tutto quello che prima era una specie di irruenza, di ribellione, si è sciolto in un’accettazione, in una affermazione, in una testimonianza convinta e personale del significato, del destino religioso dell’uomo». ®
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Dentro il tempo e dentro il Vangelo. Scrive Davide Rondoni: “Ma c’è un fatto, invece, completamente sorprendente, e scomodo per quelle bande di curati, come le chiama Pèguy, che attestate sul fronte laico o religioso pretendono di ridurre tutto, l’uomo e anche Cristo, a pura astrazione, a idea o peggio a ideologia. E il fatto è che Testori documenta, grida, mostra a volte nel suo borborigmo o nella tenerezza dei suoi sguardi di ragazzo come a Cristo si possa guardare oggi, ora”. La parola è un atto di generosità totale, il luogo in cui l’uomo si confronta e si paragona con la realtà, e attraverso il suo mormorio, dialoga con la morte: l’ampio gesto supremo, esile, finale della vita che conosce il teatro della luce dopo il buio. Tutto viene rappresentato attraverso una lingua fortissima che spesso e volentieri si mescola a un idioma ampio, mischiato, fuso di dialetti padani e lingue straniere o antiche, che testando il rapporto dialettico tra l’io e il mondo, tra il “guazzabuglio” del cuore con le sue istanze che mordono riscrivono e mettono in continua discussione l’arte (Ambleto, Macbetto, Edipus). Nel “corpo a corpo” con Cristo c’è un atto di guerriglia dell’uomo come Giacobbe con l’Angelo, come testimonia la raccolta Nel tuo sangue, che nella lotta della dignità umana approda a un’alba nuova, a un tempio nuovo. Il centro della sua opera è la Carità, ovvero l’Amore. Ma nato negli inferi dello scandalo e della trasgressione e risuscitato continuamente. Rinascere continuamente: la donna che fu porta e senso e accoglimento della nascita è porto della rinascita. L’Avvenimento è quella vitalità che cambia, che ritrova la propria origine, la propria tradizione, il proprio luogo. Il cristianesimo di Testori ha vissuto le sue figure nei volti, attraverso un’esperienza credibile di incontro con il mistero e con le proprie domande, che prima di essere accolte, non dovevano essere censurate. Don Luigi Giussani e Giovanni Paolo II sono il cardine di una pietà ricevuta dell’uomo, come dell’intellettuale e dello scrittore che popolava d’inchiostro il Corriere della Sera, dopo Pasolini. Uno scandalo e una forza che dialoga con la morte, interroga Maria e guarda un Avvenimento, come una parola che inizia di nuovo, che si reinventa, che percorre ®
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l’indicibile del Mistero, che fa riposare i rovelli della mente e vincere l’ideologia: «Io sono qui, vivo nel dolore e ciò che accade fuori mi indigna molto di più. Come un cieco che ha sviluppato gli altri sensi». Scrive ancora Rondoni: “Lo scandalo è nell’interlocutore. È qui che Testori prende come suo interlocutore Dio. Non che il divino non fosse apparso già molte volte e chiamato in scena per ricevere preghiere, invettive, suppliche o bestemmie da parte di questo o quell’altro dei personaggi degli «scarrozzanti» nestoriani. Ma qui, definitivamente, Testori attua una cosa scandalosa nell’arte contemporanea. Prende Dio come interlocutore. Prende Dio come se Dio ci fosse. Il Dio incarnato, Cristo presente fisicamente”. Portare Dio sul piano dell’atto locutorio significa ridare alla gestualità artistica un’ampiezza estrema, far sanguinare le cose, sporgersi dall’abisso, sporgere se stesso sulla scena: «La vita è ancora più grande di come pensassi. Anzi è sempre più grande di come un uomo se la può figurare. La vita, ecco, è un filo immenso, tenerissimo e sacro anche nella sua apparente conclusione. La morte, la morte si può anche amare, amare come un altro atto, anzi come l’atto supremo della vita stessa. Non sbaglierà chi avrà voluto bene alla realtà». Nel bilico della dispersione e dell’abbraccio si fonda il suo Amore. La morte, come la maternità dell’inizio e il raggiungimento del compimento sono la fibra del suo essere, il suo dramma di segno. Nelle cromature variegate dei suoi sassi lanciati c’è la verità di un cuore e di un anelito, una dimensione d’altura o un quadro rovente super‐materico. Ha scritto giustamente Luca Doninelli: «Testori ci ha insegnato cosa sia l’assassinio della parola, il suo ingabbiamento in modo che non dica più nulla e non possa dire mai più nulla. Lui più di chiunque altro ci ricorda quale sia il compito della parola, la sua vocazione: dar voce e coscienza alla muta, e sempre più luridamente taciuta, domanda che la nostra carne e le nostre viscere racchiudono: che la vita sia giudicata: che il Signore venga, che il Verbo si faccia carne». Oltre il grigiore delle volte. Come una “sperdutezza” di una voce cara, come testimonia questo dialogo ®
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con don Giussani: «C’è un momento di sperdutezza in ogni donna e uomo che si amano; di sperdutezza e di liberazione…una goia che va oltre quella che si sa, quella che si comprende, quella che si conosce», don Giussani: «La parola sperdutezza è giusta e adeguata, perché è proprio come se accogliesse il di più di quel momento…», Testori: «Ognuno di noi nasce da un momento di amore totale, da un momento d’amore arrivato al grado di non potersi nemmeno più conoscere, se non con l’aiuto, l’intervento e la presenza di Dio.» Don Giussani risponde: «Sperdutezza! È bellissimo, perché è la parola che indica l’altra forza che compie quel fatto, che realizza quel fatto, perché è la forza di Dio, del mistero di Dio». La sillaba di questo atto inquieto è nell’attimo di slancio del cosmo verso un abbraccio. Gli fu sempre chiaro che la singolarità dell’uomo si trova nella vicinanza di una compagnia, e negli ultimi giorni della sua vita, nel 1993, in lotta con un male incurabile, scriveva: «Più sono annientato più vivo per Cristo». La sperdutezza ritorna come una carezza di Dio nel sottoscala della pelle, nella parola piena della sua voce afona di nebbia che grida l’impossibile e della luce che riflette i colori del buio. V
Dei baci la pazienza
è più profondo amore
dell’ansia e del furore;
ora che per averti
posso aspettarti giorni,
notti e sere,
quel che di te è in me
e di me in te
non ha più limiti,
frontiere.
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