Scena 3.0 – Ritrovare i dispersi. Ventiquattro ore dopo New York

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Scena 3.0 – Ritrovare i dispersi. Ventiquattro ore dopo New York
Scena 3.0 – Ritrovare i dispersi. Ventiquattro ore
dopo
New York, notte
Il carro funebre taglia sulla Newkirk, svolta sulla Nostrand e
si arresta. Leonard è arrivato all’ultima fermata: St. Jerome
Church, la casa di Dio nel cuore di Brooklyn.
Un uomo davvero semplice con una storia altrettanto lineare.
Nel tempo libero è un volontario dell’Opera di Misericordia del
Sacro Cuore, nelle ore di lavoro è un necroforo.
Il suo concetto di volontariato diventa realtà due volte a
settimana, quando ritira abiti usati dagli appositi contenitori,
con il suo Mercedes "ultimo viaggio full optional".
Ogni volontario mette a disposizione il proprio veicolo e lui
ha una grossa station wagon, adatta a contenere moltissimi dei
sacchi di vestiario.
Spesso si tratta di stracci inutilizzabili, gettati più per pulire la
coscienza dei donatori che per aiutare i bisognosi.
Leonard è giunto a destinazione ma si culla ancora per un
attimo nell’aria condizionata dell’abitacolo, cercando il coraggio
di scendere.
Non appena guadagna l’asfalto, il caldo lo aggredisce. Inizia a
sudare all’improvviso, mentre l’afa gli mozza il respiro.
Con questa arsura, l’aria cuoce anche di sera.
Posa lo sguardo sul cartello appeso al muro di mattoni: lettere
nere, sfondo bianco e cornice rossa, niente di particolare.
Un faretto da e luce fu esalta gli spazi vuoti, scolpendo la
frase nella mente di chi legge.
Contiene l’indicazione spirituale per la retta via di ogni
credente:
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«La volontà di Dio
non ti porterà
dove la grazia di Dio
non ti proteggerà.»
Per giungere a destinazione, il navigatore satellitare che capta
la fede consiglia il percorso più avverso.
La frase non lo rinfresca né lo rincuora.
Leonard ancora non lo sa ma la volontà di Dio non è sempre
piacevole e la grazia spesso ti schiaffeggia con mani di piombo.
«Ehi tu», dice Leonard, cercando di attirare l’attenzione
dell’uomo piantato come un palo, proprio davanti al bidone
giallo. «Che intenzioni hai?»
Segni particolari: quattro solchi sul viso.
Sulla guancia sinistra ha cicatrici da bruciatura. A vederle così
non sono un spettacolo rassicurante e sembrano recenti.
Mentre Leonard ripete la stessa frase alzando il volume alla
tacca ehi amico, ormai non puoi ignorarmi, alle sue spalle
sfrecciano due macchine di grossa cilindrata. Si volta.
Sono nere, non hanno targhe speciali né lampeggianti o sigle
sulle portiere. Nonostante l’aspetto ordinario, puzzano davvero
di guai.
Tutto capita in un secondo.
Lo sconosciuto gira il capo e segue la scia delle due
autovetture, poi, per un attimo, lo guarda negli occhi.
Nonostante il caldo, quelle due fessure del colore dell’abisso
congelano Leonard all’istante.
I quattro graffi sulla guancia sinistra non promettono nulla di
buono.
2
Se la volontà di Dio gli ha fatto incontrare quest’uomo, allora
la grazia gli ha anche messo alle spalle due automobili che lo
distraessero, chiamandolo per un compito più urgente.
Sulla terra la grazia non è per sempre, il predatore sfregiato
torna a fissarlo.
Il sudore freddo smette di scivolare sulla schiena di Leonard,
proprio quando lo sguardo dell’uomo torna a posarsi su di lui.
Se è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima, queste
feritoie riflettono il nulla.
La mano dello sconosciuto si muove, indica il bidone e
Leonard non sente più il contatto con la terra.
Guarda le scarpe e vede il marciapiede allontanarsi.
Sta fluttuando nell’aria, come un’idea o una buona
intenzione.
L’uomo è scomparso, nel buio della notte.
Leonard atterra davanti al bidone.
Tutto si è concluso. Lo capisce perché il sudore è tornato,
caldo, fastidioso e appiccicaticcio. L’aria è ancora irrespirabile,
proprio come l’aveva lasciata.
Leonard solleva il coperchio del contenitore e vede una
ragazza galleggiare su un letto di sacchetti.
Dall’aspetto non sembra una delle solite vagabonde. I suoi
lunghi capelli neri sono puliti ed emana una fragranza di miele.
Indossa un lungo abito a fiori, non uno straccio qualunque
rubato alla confusione del bidone. Sartoria senza badare a spese,
un vestito cucito a suon di soldi e amore.
Ha gli occhi socchiusi, un mazzo di fiori nella mano destra e
la sua pelle è candida come la neve.
Che sia morta, lo si capisce.
Sul grembo ha una lettera. Leonard non resiste alla tentazione
e la raccoglie.
3
Sulla carta ruvida c’è scritto: Vi chiedo perdono per quello
che ho fatto. Sono colpevole. Prendetevene cura e donatele un
luogo in cui riposare.
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Capitolo 3
«Ognuno supera la prova adatta per diventare quello che è.»
La Regola del Santo e del Peccatore
5
Scena 3.1 – Sbagliare mira
Tokyo, giorno
Si chiama Takeshi ed è giapponese. Passa tutto il suo tempo al
A Clockwork Orange, pungolando un iPad. Il locale gli piace
perché è una fedele riproduzione del Korova Milk Bar e sfoggia
dei tavolini a forma di manichino/puttana con genitali al vento.
Servono anche birra tedesca alla spina e non la solita
brodaglia di riso in lattina.
Il sottofondo musicale spesso è affidato ai pezzi dei Joy
Division.
‘Fanculo il sakè, il wasabi e anche il sushi.
Che si fottano lo Zen, i templi buddhisti, l’agakure, lo jujitsu,
i ninja e le donne con l’ombrellino parasole.
‘Fanculo anche le ragazzine con la minigonna, le calze spesse
e la perenne aria da pornostar. Affanculo anche Mishima, Tokyo
e tutto quello che i turisti si ostinano a scambiare per Giappone.
Lo stesso ‘fanculo vale anche per la tecnologia, le auto ibride
e i robot.
Perché Takeshi è giapponese ma pensa e vive da occidentale:
rifiuta il servilismo al dovere e la devozione all’imperatore,
predicando il totale asservimento alla volontà.
Ha sposato l’egoismo e fondato la sua causa sul nulla, come
ogni occidentale che si rispetti.
Takeshi vive così la sua venticinquesima ora.
Appena oltre le porte del locale c’è lo Shibuya: un
attraversamento pedonale intasato da troppi passanti.
Preferisce spendere l’esistenza dentro un bar per disadattati
che essere uno dei tanti Altri che infestano l’isola.
Takeshi credeva di essere uno scrittore, uno di quelli buoni.
6
Scriveva cose cruente: rapine, droga e pallottole roventi. Di
spostati psicopatici che si ammazzano tra di loro, di piani
andati a male e vendette incrociate.
La violenza raccontata era la via maestra della sua personale
ribellione alla noia.
Tutto quel dolore descritto, quelle morti alla fine dei capitoli,
quella giustizia da strada, dura e cruda, lo facevano sentire vivo.
La reale violenza, però, gli era proibita e non l’aveva mai
assaggiata.
Dopo troppi romanzi, Takeshi si era bagnato del sangue
altrui.
Basta con la carta, l’inchiostro e i pixel dell’ebook, per
ingozzarsi con quel misto di sofferenza e degrado.
Abbandonato quel surrogato, era rimasto invischiato nella
realtà e aveva assaggiato la violenza, quella D.O.C.: Deplorevole
Omicidio Cruente.
Potendo scegliere, aveva interpretato il ruolo del carnefice.
Santa potenza della noia che evoca il male per distrarsi
dall’essenza del mondo.
È tornato al A Clockwork Orange per passare una serata con
Goldie: il suo tavolino preferito con un magnifico ventre piatto.
Goldie, dice di chiamarsi Goldie ed è l’unica degna di
sorreggere la sua birra.
Voleva sussurrarle tutte le emozioni provate mentre il sangue
versato inzuppava le lenzuola. Raccontarle dell’eternità
contenuta nell’occhio che si spegne per sempre e nell’anima che
sfugge in punta di piedi, per non fare rumore.
Voleva sedersi con le spalle al muro per narrare i fasti di un
mondo tremendo in cui uccidere è sempre una soluzione
accettabile.
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Prima passava le sere a mettere in fila parole, consumare la
batteria della sigaretta elettronica e immaginare quello che
ignorava.
Non aveva abbastanza esperienza per scrivere di qualcosa che
non conosceva.
Takeshi ora è un’arancia meccanica con tutti gli ingranaggi
funzionanti.
La sua anima ha una dimensione in più, una profondità
inedita.
Sulle note di Dead Soul, con un balzo degli occhi vede ciò
che non desiderava: il tradimento di Goldie.
Quella puttana di plastica non lo ha aspettato, concedendosi
a un estraneo qualunque.
La confusione iniziale di Warsaw sottolinea il momento.
Il primo istinto è di fare ingoiare tutti i denti all’intruso.
Spingere giù per la gola di quel bastardo quella fila di
mattoncini bianchi da cui guizza una lingua pallida.
Calato dentro vestiti casual, l’estraneo ha un volto rovinato
da una bocca asimmetrica. La carne del viso è avvolta da una
pelle che ha più crateri della luna e ha un colorito troppo
giapponese.
Takeshi vorrebbe essere uno dei suoi personaggi. Sulle note di
Autosuggestion, riesce a immaginarsi in azione.
Senza dire una parola, estrae una .44 Magnum, anzi, no, una
Desert Eagle .50 e la libera dal piombo superfluo. Salva Goldie,
il tavolino perfetto, senza troppe parole o azioni.
La pulisce con un gesto dal sangue dell’estraneo e la coppia si
riforma come se nulla fosse accaduto.
Tra loro resta solo Love will tear us apart.
L’idea di avere sempre ragione premendo un grilletto lo
affascina.
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