Francisco Soriano FRA METOPE E CALICANTI Poesie d`amore e

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Francisco Soriano FRA METOPE E CALICANTI Poesie d`amore e
Francisco Soriano
FRA METOPE E CALICANTI
Poesie d’amore e altri disordini
LietoColle
Libriccini da collezione
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Melancholia cogitans
Ho conosciuto Francisco Soriano a Tehran nel 2001, quando era
dirigente presso la Scuola italiana. Da allora conservo la sua
amicizia e il piacere della lettura delle sue composizioni poetiche.
“Fra metope e calicanti” è una raccolta che segna indubbiamente
una svolta nella sua produzione. Molte le vicende personali che
ne hanno accompagnato la stesura contribuendo per canali e
forme diverse, direi in maniera considerevole, ad una sorta di
accelerazione evolutiva nel trattamento dei testi e nel montaggio
delle immagini. Dal sottotitolo: “Poesie d’amore e altri disordini”, se
ne intuiscono traiettorie e turbolenze, mentre nel contempo si
rileva, non senza qualche soddisfazione, il rapporto diretto fra le
ingiurie del tempo e il perfezionamento dei mezzi espressivi. Le crisi
esistenziali assumono spesso il compito di levatrici di opere
complesse. Mi viene in mente una battuta letta recentemente in
un romanzo giallo: “Se vuole il consiglio di un vecchio, ringrazi la notte,
che ci permette di immaginare...”
Di quest’ultima fatica di Francisco Soriano mi ha colpito la vivida
e incalzante articolazione delle immagini, quasi una sequenza di
flashback organizzati secondo l’attitudine che tutti abbiamo nel
percepire il mondo attraverso una visione molteplice. È un
viaggio all’interno della memoria, qui giustamente considerata
unico vero strumento (e giacimento) della conoscenza.
Come afferma Calvino: “La scrittura, è metafora della sostanza
pulviscolare di cui è fatto il mondo”. La poesia, come tutta l’Arte, è
ricerca della leggerezza in quanto necessità antropologica di
rispondere alla precarietà e alle durezze dell’esistenza. La poesia
di Francisco Soriano ricerca perciò il nesso tra una leggerezza
desiderata e le sciagure della vita, innescando in questo modo i
meccanismi della creatività e producendo un viaggio davvero
stupefacente nel regno del molteplice. La collaborazione fra
memoria e immaginazione realizza in quest’opera quella visione
delle cose che solitamente definiamo “essenziale”.
Molteplicità quindi, perché si avverte costantemente il piacere di
richiami e analogie che abbracciano epoche e culture lontane,
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riaffermando il più vero concetto di “contemporaneità”, in base al
quale stabiliamo una comunicazione costante fra tutte le nostre
conoscenze prescindendo da ogni recinto cronologico. Una
percezione lineare o parziale della storia sarebbe per ogni artista,
a prescindere dal suo campo disciplinare, una sorta di morbo
incurabile, la condanna ad una sterilità differita.
Posso allora dire che in ogni componimento del volume, e
perfino nella medesima strofa, ho potuto avvertire richiami e
consonanze diverse: dalla densità delle parole profondamente
vissute di Alda Merini, al nitore di Alceo e Archiloco, dalla
dimensione totale del linguaggio di Montale o Zanzotto alla
leggerezza con la quale Callimaco definisce e percorre le cose e la
vita stessa.
Pur cogliendo la presenza di entità mostruose che so essere causa
del suo più intimo dolore, osservo che egli non indugia nella
rappresentazione di amarezze. Costantemente preferisce
significare la grazia dell’amore trovato, un amore intenso e
globale, dove la vita, la donna, l’arte e le armonie del quotidiano
appaiono inscindibili.
E anche la malinconia della Persia, che rilevo per una intensa
affinità di sentimenti, non è mai afflizione o disperazione, ma
fonte inesauribile di dolcezza. Una “melancholia cogitans”, che non
confonde mai il piacere di viaggiare nella memoria con il dolore.
Pur nascendo dalla sofferenza degli eventi si alimenta di progetti
di speranza, evocando quel profumo ambiguo e struggente delle
rose che nel mondo persiano è presente ovunque, dalla poesia ai
dolci.
Nella molteplicità risiede la magnificenza di questa poesia. Ad
onta di una cultura occidentale piegata al pensiero “dialettico” e alla
nocività di ideologie antagoniste, le quali impongono schemi
logici violenti e tesi contrapposte in luogo dello scambio e delle
conoscenze condivise.
“Fra metope e calicanti” schiva ogni oppressione lineare, siano esse
rappresentate da griglie classificatorie, da gabbie cronologiche o
ideologiche, per coinvolgerci in una complessità che altrimenti
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sfuggirebbe alla nostra pur fervida attenzione. Tale visione
molteplice fa di essa un’opera degna della massima stima, una
fertile esperienza estetica e una indimenticabile avventura della
conoscenza.
Antonio Poce
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a Stefania Di Dio,
gioia ritrovata
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Parte Prima
Gota che taglia la notte ricciuta
come lampo di luna piena.
Dita di scriba sul volto col calamo.
Abu Nuwas
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Sei tu il fiore d’inverno,
sguardo unico sul tronco secco:
gioisce il calicanto
dal petalo ceroso!
Cerco l’idea smarrita
nel vortice della speranza stropicciata,
foglia che cede
nel fragore di una veglia.
Combatto il mostro
che non s’appaga,
che da ogni via di fuga
disvela lo stretto della strada.
Divento parola e oscuro senso:
è l’apparenza che disegna
l’immagine vaga di una chimera.
Con questo enigma lenisco il tempo.
Vigile, mi accompagno alla memoria
del tuo girovagare insensato.
L’accidia non mi spaventa, se gioca
ad alimentare il silenzio.
Sei il riflesso incauto della fiamma
che in questo limbo schiarisce.
La tua assenza è la ruggine di ogni lama
che disunisce gli equilibri.
Sul muro diroccato, pietroso
appena eretto di fronte,
si dipana l’arbusto sbocciato
in forma di tormento.
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La vita non ci sfugge né tra le dita
né in rigagnoli d’acqua.
È piuttosto una consapevolezza
che fortifica al vespro di una spianata.
Siamo altro,
oggi, nell’arsura della terra malferma.
Ora fiore tra efferati venti freddi,
ancora foglia nella primavera vivida.
Il segno si manifesta:
dalle labbra scompare il tacere.
Sveli in gemme
tra le insolite rughe.
Il disegno mi è finalmente noto:
non sbigottisce il vuoto, l’assente,
bensì il remoto,
il giorno non vissuto.
Mi placo del mio senso di colpa
solo nel tuo amore delicato,
nel disabitato ieri,
nel mondo mai sperato.
Sono pronto all’abbandono,
al deforme orizzonte striato di nubi,
al sovrumano gesto dell’onda
che muta in grani di sabbia le scogliere.
Senza passi, nelle stanze
dissennate dell’errore,
vago tra cocci e vetri
riversi in bella mostra.
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Sei giunta, Stefania,
gioiosa epifania,
con il tuo carico di doni alchimici:
Musa, in mille notti divampi poesia.
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