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Sulla Maestrale
a caccia di pirati
SOMALIA
In diretta sulla nave italiana che dà la caccia ai pirati sulle rotte commerciali più battute del
Ma per sconfiggere la pirateria occorrerebbe risolverne le cause profonde.
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L’im-
poverimento dei somali è stato provocato anche dalla pesca illegale e dai rifiuti tossici.
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L’am-
mondo.
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biente marino è stato devastato dai pescherecci illegali, provenienti da quei Paesi che
oggi pattugliano le stesse acque.
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testo e foto di Emiliano Bos
a quassù, la Maestrale sembra un giocattolino
quando compare inquadrata all’improvviso nello
schermo a infrarossi dell’elicottero. Il pilota Dario
Cerisola punta verso il mare aperto. La fregata italiana sta
incrociando a qualche chilometro di distanza, al di là
della barriera di nuvoloni grigi che scendono come un
sipario a chiudere la stagione dei monsoni. Dal portellone aperto si vede lo zig zag della costa. Le spiagge del Kenya scompaiono dalla vista insieme al porto di Mombasa dopo il decollo. Il volo dura una manciata di minuti.
Ora l’AB-212 della Marina militare volteggia intorno alla nave. L’atterraggio sulla fregata – mentre il mare viene
tagliato da onde lunghe – è un esercizio di precisione. Bisogna cogliere la coincidenza perfetta tra la velocità della nave e l’intensità del vento. L’elicottero s’appoggia solo per qualche minuto. Poi riparte dal ponte della Maestrale con a bordo gli incursori del reggimento San Marco. S’imbarcano in cinque, armati di tutto punto. Dopo
pochi minuti si calano dal velivolo che resta fermo in volo a una ventina di metri d’altezza. Scivolano con gesti
rapidi lungo il cosiddetto “barbettone”, una corda molto spessa usata in questo tipo di incursioni. Oggi però
non è giorno di caccia ai pirati, ma solo una simulazione
a vantaggio del giornalista salito a bordo della Maestra-
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le. È l’unica nave della Marina italiana impegnata nella
missione europea Atalanta, dal nome dell’instancabile
ninfa cacciatrice della mitologia greca. Per la prima volta l’Unione europea ha schierato in campo – anzi, in mare – una decina di imbarcazioni da guerra e alcuni arerei. L’obiettivo è contrastare i pirati somali che infestano
le acque del Golfo di Aden e dell’Oceano Indiano. E che
nel 2009 hanno compiuto quasi 150 assalti.
Caccia al bucaniere
242 uomini d’equipaggio della Maestrale sono
comandati dal capitano di fregata Angelo Virdis.
Per sei mesi – percorrendo oltre 25mila miglia –
hanno inseguito i moderni filibustieri, effettuato pattugliamenti nell’ambito dell’operazione europea e scortato le navi-cargo del Programma alimentare dell’Onu dirette a Mogadiscio con cibo e aiuti umanitari.
I
Alla fine di maggio – all’inizio della loro missione – gli
italiani hanno anche acciuffato un gruppo di pirati somali grazie al rapido intervento dell’elicottero. «Si è reso necessario un inseguimento per poter poi eseguire gli
arresti», spiega il comandante, un sardo di 41 anni. Non
lo dice, ma per la prima volta dal dopoguerra la Marina
ha aperto il fuoco contro un “obiettivo nemico”. Uno
skiff, la tipica imbarcazione veloce usata dai filibustieri
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del Corno d’Africa. Mantenendosi a distanza di sicurezza dalla barca, su cui viaggiavano uomini armati di kalashnikov e lanciarazzi, i “nostri” hanno sparato colpi di
avvertimento. I nove aggressori sono stati successivamente portati a bordo della nave prima di essere consegnati alle autorità locali. «Alcuni erano ragazzi giovani,
con lo sguardo smarrito e tanta fame. Un paio davano
l’impressione di essere più aggressivi», si lascia sfuggire
uno dei marinai della Maestrale che li ha avuti in custodia. In un’altra circostanza, è stato sufficiente l’invio dell’elicottero a sventare un arrembaggio contro la Neverland, imbarcazione italiana adibita al trasporto di gas.
Nella “centrale operativa di combattimento” della Maestrale i radar sono attivi 24 ore su 24. Tre addetti monitorano senza sosta due schermi che riducono in pixel un
ampio tratto di mare. «Qui è rappresentata una parte dell’area coinvolta dall’Operazione Atalanta», dice ancora
il capitano Virdis. Lungo i 450 chilometri di corridoio
raccomandato, le navi europee cercano di garantire la sicurezza dei mercantili. «La zona di mare toccata dal fenomeno della pirateria – sostiene il comandante ? è estremamente vasta». Da qui la necessità di creare una sorta
di “corsia preferenziale” per le navi commerciali.
La Fregata Maestrale al largo delle coste di Mombasa.
L’autostrada del mare
più affollato di quanto si possa immaginare questo tratto di oceano. Oltre 17mila cargo provenienti da Oriente s’infilano nel pertugio marittimo tra la penisola arabica e lo spigolo orientale dell’Africa. Là, oltre il Mar Rosso, le chiuse del Canale di Suez si
spalancano poi sul Mediterraneo. «Ma i pirati si sono già
spostati anche verso l’Oceano Indiano», si lamenta Peer
Gullestrup, presidente della gruppo danese Clipper. Una
delle sue navi, la Future, venne sequestrata nel 2008 e
liberata due mesi più tardi dopo il pagamento di un riscatto di 1,7 milioni di dollari. Da quattro a otto cargo al
mese della Clipper transitano nel Golfo di Aden, perciò
la compagnia ha fatto installare filo spinato a bordo per
prevenire arrembaggi dei Capitan Uncino del XXI secolo. «Nella zona delle Seychelles – ha sottolineato Giles
Noakes, capo della sicurezza marittima della società
Bimco a Londra – diventa difficile trovare corridoi di sicurezza e i pirati sono sempre più aggressivi». Lo sanno
anche molti armatori italiani.
È
Il rimorchiatore Buccaneer (con a bordo dieci connazionali) è stato tenuto per quattro mesi sotto sequestro lungo la costa a nord di Mogadiscio. Gli ultimi attacchi conUn elicottero si sta preparando a un’incursione anti-pirateria.
tro gli italiani risalgono a fine ottobre: due mercantili
della compagnia Ignazio Messina di Genova scampati all’aggressione. Secondo il contrammiraglio Fabio Caffio,
dal Corno d'Africa transitano 1500 navi l'anno con interessi italiani. “Dall'ottobre 2008 – ha detto in un recente convegno a Lerici, tracciando un bilancio dell’impegno della Marina Militare ? abbiamo fatto 2800 ore di
moto con 200 interventi e 400 mercantili scortati, 20
operazioni di contrasto e nove pirati arrestati”.
Geopolitica degli oceani
on solo scelgono nuove rotte i pirati, ma utilizzano anche nuovi strumenti. I moderni filibustieri
ormai infestano anche le acque a sud della Somalia, spingendosi verso Kenya, Tanzania e Seychelles. Navigano col Gps e hanno imbarcazioni d’altura in appoggio ai rapidi barchini usati negli arrembaggi. Per questo
non può bastare la missione Atalanta, lanciata a fine 2008
e già prorogata a tutto il 2010 dal Consiglio d’Europa. A
dicembre il comando delle operazioni verrà assunto dall’Italia, che nelle acque del Golfo di Aden ha inviato anche la fregata Libeccio, questa volta sotto le insegne di
un’analoga operazione antipirateria della Nato.
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I pirati somali sono riusciti ad attirare quello che la quasi ventennale guerra civile nel loro Paese non ha mai ot-
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tenuto: l’attenzione planetaria. In quest’angolo d’Oceano – oltre a Ue e Nato – sono presenti navi da guerra di
Russia, Cina, India e Corea del Sud. Un’inedita coalizione contro la pirateria. Una nuova geopolitica dei mari. E
laddove non arrivano le fregate militari, ci pensano i contractor. Le grandi società corrono ai ripari affidandosi a
compagnie di sicurezza private. I “mercenari” vengono
inviati a bordo dei mercantili, pronti a intervenire in caso d’assalto.
Così il business dei pirati – che già vantano solidi network criminali con sedi a Parigi, Londra e Dubai – finisce paradossalmente per rimpinguare anche le casse delle agenzie di sicurezza specializzate. Come la HollowPoint Protective Services, che offre “protezione marittima” al largo dello Yemen e corsi di formazione anti-pirati per i marinai. Il governo spagnolo, per esempio, ha
appena autorizzato i suoi pescherecci in navigazione
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nell’Oceano Indiano a imbarcare guardie di sicurezza
private.
L’alternativa è il cambio di rotta: circumnavigazione dell’Africa invece della scorciatoia attraverso il Mar Rosso.
«Questo provoca un aumento dei costi, a partire dalle assicurazioni», ci spiega nel suo ufficio Haji Malemo, portavoce dell’autorità portuale del Kenya nello scalo di
Mombasa, dove lavorano 7mila persone. «I sovraccarichi vanno da 100 a 200 dollari per container. Ogni nave
ne porta almeno un migliaio, alcune fino a duemila».
Dalle finestre si vedono gigantesche gru, i cui bracci meccanici sembrano sollevare con leggerezza i container metallici in arrivo e partenza. E i conti sono presto fatti. «Le
spese di trasporto sono cresciute del 30%. Ora l’aumento rischia di ripercuotersi sui consumatori», osserva Jerome Ntibarekewa, segretario dell’Associazione dei gestori portuali dell’Africa orientale e australe.
Non solo mercantili
hi invece non ha alternativa alle scorte militari è
il World Food Programme (Wfp), il Programma
alimentare mondiale dell’Onu. Per portare gli
aiuti umanitari in Somalia è indispensabile l’assistenza
di navi da guerra targate Atalanta. «Ne siamo sicuri: senza questa presenza armata non avremmo mai consegnato ingenti quantità di aiuti alla popolazione somala», ci
spiega il responsabile del Wfp a Mombasa, Jemma Lembere. Lo incontriamo nel porto della città keniana, dove
si trova uno dei depositi di scorte alimentari dell’Onu
più grandi al mondo. Da questi enormi capannoni nel
2008 sono passate 675mila tonnellate di cibo: come se si
mettessero in fila oltre 15mila camion. «Questi sacchi da
25 chili contengono farina di mais destinata ai centri nutrizionali in Somalia», aggiunge il coordinatore Onu,
mentre gli addetti preparano il prossimo carico di sacchi
C
bianchi con la scritta Wfp e il logo dell’agenzia Onu. Gli
alimenti in partenza da qui sono destinati a quasi metà
della popolazione somala, circa 3 milioni di persone
compresi bambini e anziani. Queste montagne di cibo
partono via mare per la Somalia, ma anche via terra per
la regione africana dei Grandi Laghi, Etiopia, Tanzania e
lo stesso Kenya. Si lavora 24 ore al giorno. Alla banchina del porto, poco distante, sono in corso le operazioni
di carico della motonave Victoria Aqaba, in partenza per
Mogadiscio.
Una gru deposita i bancali di sacchi nel ventre d’acciaio
del mercantile. «Solo la pace in Somalia potrebbe riportare stabilità e fermare il fenomeno della pirateria», dice
ancora il segretario dell’Associazione dei gestori portuali dell’Africa orientale e australe. La pensa così anche il
colonnello Victor Garnor, consigliere militare dell’Uffi-
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cio politico Onu per la Somalia, che ha sede a Nairobi.
«L’insicurezza delle acque somale è la dimostrazione
dell’insicurezza interna. I giovani non hanno lavoro né
guadagno. La cosa più facile per sopravvivere è darsi alla pirateria».
on tutti però credono che la missione europea
Atalanta – o comunque la reazione militare ? sia
la risposta più adeguata. Andrew Mwangura coordina a Mombasa l’East African Seafarers Assistance
Programme, un osservatorio indipendente sulla sicurezza dei marittimi. «Una forte presenza militare sulle coste africane può essere utile, ma non è la soluzione. La
causa della criminalità in questa regione è la povertà, che
non si combatte con le armi», spiega posando sul tavolo
una cartelletta piena di documenti. La sua organizzazione, sottolinea subito, non ha uffici in città e non riceve
contributi: «Ci autofinanziamo». Le navi da guerra, dice,
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«stanno solo proteggendo i loro interessi. Per sconfiggere la pirateria occorre invece risolverne le cause profonde». L’impoverimento dei somali, secondo Mwangura,
«è stato provocato anche dalla pesca illegale e dai rifiuti
tossici. L’ambiente marino è stato devastato dai pescherecci illegali, provenienti da quei Paesi che oggi pattugliano le stesse acque». Hollywood vuole fare un film su
questo ingegnere ed ex capo macchine keniano, che
adesso viene invitato in mezzo mondo a parlare di pirateria. Mwangura ha iniziato a occuparsi di sicurezza marittima nel 1986 e conosce perfettamente lo scenario in
cui si muovono i filibustieri di Aden. La pesca illegale,
SOPRA il deposito di aiuti destinati alla Somalia,
uno dei più grandi centri di distribuzione al mondo.
QUI A SINISTRA il comandante della Maestrale,
il capitano di fregata Angelo Virdis.
afferma, «in Somalia vale 400 milioni di dollari l’anno,
molto più della decina di milioni che riescono a ottenere i pirati con i riscatti dei mercantili sequestrati».
Senza la presenza delle navi da guerra, sostiene invece
il portavoce dell’autorità portuale di Mombasa, forse gli
skiff dei pirati si spingerebbero ancora più vicini al porto. Ma tra i dock di Mombasa, per ora di bucanieri non se
ne vedono. Però c’è qualcosa che assomiglia al loro covo. È il Bar dei Pirati. Lo gestisce una ragazza di trent’anni, Susan Muthoni.
Quando lo ha rilevato cinque anni fa, il locale aveva già
questo nome. «Ho pensato di cambiare insegne, perché
la questione dei pirati in Somalia stava diventando una
faccenda seria». Costi elevati e troppa burocrazia lo hanno impedito. E visto che i clienti non le mancano, Susan
non intende rinunciare al marchio dei pirati. Qui funziona sempre.
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