Neuropsichiatria delle demenze

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Neuropsichiatria delle demenze
Neuropsichiatria
delle demenze
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Giuseppe Bruno, Sebastiano Lorusso
Introduzione
Cluster neuropsichiatrici nelle demenze
Aggressività e agitazione
Disturbi dell’attività psicomotoria
Irritabilità e ansia
Disinibizione
Apatia, consapevolezza e alterazioni di personalità
Disturbi dell’umore
Disturbi psicotici: deliri, allucinazioni
Alterazioni neurovegetative
Compromissione cognitiva lieve
Demenze degenerative e vascolari
Malattia di Alzheimer
Demenza fronto-temporale
Demenza vascolare
Demenze degenerative extrapiramidali
Demenza a corpi di Lewy, malattia di Parkinson
con demenza e atrofie multisistemiche
Paralisi sopranucleare progressiva e degenerazione
cortico-basale
Corea di Huntington
Demenze secondarie
Demenze potenzialmente reversibili
Demenze potenzialmente trattabili
Demenza da HIV
Demenze “a esordio giovanile”
Scale di valutazione dei disturbi neuropsichiatrici
INTRODUZIONE
Le demenze costituiscono l’esempio forse più rappresentativo di
patologia neuropsichiatrica. I dati epidemiologici indicano come
la prevalenza di queste malattie sia molto elevata così come i
loro costi sociali, costituendo pertanto una vera emergenza sanitaria. Le demenze sono caratterizzate da disturbi cognitivi che si
intrecciano quasi invariabilmente con la presenza di disturbi a
carico della sfera psichica/comportamentale e neurologica, a
conferma di come il funzionamento di questi sistemi debba essere considerato nel loro insieme piuttosto che singolarmente.
Per convenzione, la trattazione dei disturbi cognitivi è separata da quella dei disturbi neuropsichiatrici intesi in senso
lato, ovvero non cognitivi (comportamento, funzioni neurovegetative, funzioni psichiche propriamente dette). Un inquadramento che ha raccolto numerosi consensi è stato quello
proposto da Finkel e Burns (2000) che hanno introdotto il
termine Behavioral and Psychological Symptoms of Dementia (BPSD, tradotto in italiano con “sintomi psicologici e
comportamentali della demenza”). L’inquadramento di questi
aspetti ha suscitato ampio interesse anche in considerazione
del fatto che queste manifestazioni cliniche sono quelle che
più contribuiscono alle difficoltà di gestione della malattia da
parte del medico, dei familiari e delle strutture sanitarie. Inoltre, costituiscono la voce di maggiore impatto economico relativamente ai costi sociali della malattia. Infine, non appare
affatto superfluo ricordare come la paziente Augustine D. di
51 anni, descritta da Alois Alzheimer come primo caso della
demenza che da lui prese poi il nome, avesse precocemente
manifestato disturbi del comportamento sotto forma di depressione e deliri di tipo paranoideo ai quali poi seguirono i
tipici disturbi cognitivi.
I disturbi neuropsichiatrici sono un’espressione importante e
molto frequente dei diversi quadri sindromici di demenza, spesso sono sintomi d’esordio antecedenti a quelli cognitivi e, analogamente a essi, sono la diretta conseguenza delle eterogenee
alterazioni neuropatologiche e neurochimiche presenti nelle
diverse forme (Cummings, 2003). Oltre ai fattori eziopatogenetici di tipo neurobiologico, è necessario ricordare che questi
disturbi sono molto influenzati e, come avanti vedremo, spesso
attivati, da fattori ambientali, in particolare dalla qualità della
relazione del paziente con le persone che lo accudiscono, ambiti in cui è possibile ottenere sicuri margini di miglioramento.
A differenza dei disturbi cognitivi, anche di quelli funzionali, presenti nelle demenze per definizione e aventi un andamento generalmente lineare nel tempo (progressivo), i disturbi
neuropsichiatrici compaiono in modo non sempre prevedibile,
non sono necessariamente obbligatori, anche se quasi sempre
presenti, hanno un andamento con fluttuazioni e tendenza a
ripresentarsi con modalità e contenuti non sempre simili ai
precedenti. I disturbi neuropsichiatrici non devono essere considerati un epifenomeno, ma aspetti sempre legati alla presenza
di uno specifico coinvolgimento di vie e centri nervosi, analogamente a quanto avviene per l’ambito cognitivo.
Appare pertanto indispensabile non solo identificare gli
specifici pattern cognitivi che caratterizzano le varie malattie
dementigene ma anche utilizzare sistematicamente la semeiotica neuropsichiatrica per distinguere cluster di sintomi, talora
vere e proprie subsindromi, con i loro tempi e modi di espres- 343
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sione, a volte anche più informativi per la diagnosi differenziale degli stessi pattern di disfunzione cognitiva. Inoltre, lo
studio approfondito dei disturbi neuropsichiatrici e la loro
correlazione con aspetti di neuroimaging morfologico e funzionale, neurofisiologia, neuropatologia e neurochimica, oltre
ovviamente alla neuropsicologia, che nelle demenze è preminente, porta un contributo alla comprensione della fisiopatologia del cervello e della mente.
Sul piano pratico è opportuno ricordare che la demenza non
va considerata, nemmeno in fase avanzata, un contenitore
generico in cui far rientrare qualsiasi disturbo cognitivo-comportamentale progressivo; è necessario operare distinzioni
sulla base della diagnostica differenziale da cui non si può
prescindere, anche per poter indirizzare al meglio i trattamenti farmacologici e non farmacologici. Questa visione più sistematica dell’intervento specialistico migliora anchel’aspetto
“empatico” dell’attività del medico, così necessario in questo
ambito tanto problematico.
CLUSTER NEUROPSICHIATRICI
NELLE DEMENZE
Nella descrizione che segue, verranno presi in considerazione
i vari cluster sintomatologici neuropsichiatrici riscontrabili
nelle demenze, sottolineandone le peculiarità utili per la diagnosi differenziale delle varie forme di demenza e i rapporti
con gli altri aspetti clinici e con i sintomi cognitivi. Molte
delle alterazioni comportamentali descritte non sono correlate
al grado di compromissione cognitiva e fluttuano, in modo
diverso, a seconda del tipo di disturbo e di demenza.
AGGRESSIVITÀ E AGITAZIONE
Sono i disturbi più problematici per i pazienti e per i loro caregiver e spesso, purtroppo, sono causa dell’istituzionalizzazione, anche precoce, nel corso della malattia dementigena, se
non affrontati in modo corretto.
L’aggressività può consistere solo in un atteggiamento di
ostilità evidente oppure essere di tipo verbale o fisico (di solito nelle fasi avanzate di malattia) (cfr. Capitolo 13). Spesso si
tratta di manifestazioni improvvise (magari in un contesto di
“paziente placido” per la maggior parte del tempo), di solito
reattive (per esempio, alla richiesta da parte del caregiver di
fare qualcosa, spesso attinente alla cura della persona) oppure
comunque scatenate da interventi di altre persone (vissute
come invadenti). Talora i comportamenti aggressivi e l’agitazione sono secondari a deliri o allucinazioni, specialmente in
soggetti moderatamente deteriorati; anche malesseri fisici o
semplici necessità fisiologiche possono dare luogo a questi
sintomi. Sono peraltro frequenti nei pazienti con malattia di
Alzheimer (MA) (circa il 60% dei casi; Mega et al, 1996).
In questa patologia l’agitazione si correla con la disfunzione
esecutiva e con una più severa compromissione funzionale,
cioè dell’autonomia nelle attività quotidiane (Chen et al, 1998).
Aggressività e agitazione sono associate a un ipometabolismo,
evidente al neuroimaging dinamico, nei lobi frontali e temporali (Hirono et al, 2000; Sultzer et al, 1997). Dal punto di vista
neuropatologico sono state trovate correlazioni dirette tra aggressività/agitazione e numero di neuroni nella sostanza nera
(Victoroff et al, 1996) e nella parte rostrale del locus coeruleus;
344 inoltre è stato riscontrato un aumento del carico di grovigli
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neurofibrillari nelle regioni frontali di malati con MA agitati
rispetto a quelli non agitati (Tekin et al, 2001).
Sul piano neurochimico, una review molto recente supporta
l’ipotesi che questo cluster di disturbi, insieme con quello
dell’apatia e dei disturbi psicotici (vedi oltre), possa rappresentare nella MA una specifica sindrome da deficit colinergico
centrale (Pinto et al, 2011). Questo dato trova riscontro clinico negli effetti positivi dei farmaci anticolinesterasici su questi sintomi neuropsichiatrici (Wynn e Cummings, 2004).
DISTURBI DELL’ATTIVITÀ PSICOMOTORIA
Questa serie di disturbi è molto frequente: in molte demenze
e soprattutto nella MA, in fase avanzata (Mega et al, 1996) si
ha spesso iperattività motoria in senso lato. Sono sintomi peculiari:
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il cosiddetto vagabondaggio, da intendere come necessità
dei pazienti di spostarsi e andare da qualche parte, cosa che
talora viene verbalizzata (per esempio, nella vecchia casa,
che spesso non esiste più);
l’attività afinalistica ripetitiva (affaccendamenti) come il ripiegare più volte su se stesso un pezzo di stoffa, o aprire e
chiudere in continuazione cassetti o armadi, toccare o accarezzare ripetutamente cose, animali o persone (intrusività),
oppure compiere semplici movimenti stereotipati delle mani.
Alcuni di questi aspetti possono rientrare in tratti ossessivocompulsivi, sintomatici della malattia cerebrale sottostante
(cfr. Capitolo 12), oppure essere l’espressione di un’acatisia
(cfr. Capitolo 11). Talora può manifestarsi iperverbosità, che
può essere espressa anche con brani di canto, cantilene o urli.
Pur non essendo chiara la patogenesi dei disturbi di questa
area, i cui confini non sono tanto netti, la disfunzione noradrenergica sembra svolgere un ruolo rilevante e giustificare
quindi la risposta favorevole ai beta-bloccanti (Weiler et al,
1988). Talora possono esservi componenti iatrogene (per esempio, acatisia da neurolettici).
Il comportamento motorio aberrante nella MA è stato associato, insieme con la sintomatologia delirante e la maggiore
incidenza di disturbi neuropsichiatrici, alla presenza dell’allele epsilon 4 del genotipo APOE (Del Prete et al, 2009).
L’iperattività in genere, come pure la sintomatologia delirante, nella MA sono influenzati dall’atteggiamento del caregiver di riferimento (Riello et al, 2002), che ovviamente ha un
ruolo cardine nell’assistenza quotidiana del malato (vedi Capitolo 18). Pur non essendo chiara la patogenesi di questa serie di disturbi, pare implicata la disfunzione noradrenergica,
da cui la risposta favorevole ai beta-bloccanti (Weiler et al,
1988). Talora possono esservi componenti iatrogene (per
esempio, acatisia da neurolettici).
IRRITABILITÀ E ANSIA
L’irritabilità è distinta dall’agitazione: si può definire come
una rapida fluttuazione emotiva caratterizzata da un esordio
brusco ed estrinsecazione rapida d’impazienza e rabbia, di
solito scatenate da qualcosa nell’ambiente; non sempre ci sono
cause evidenziabili (cfr. Capitolo13). Anche l’ansia è comune
soprattutto nella fase iniziale della MA o in soggetti con mild
cognitive impairment (MCI). Può essere, spesso, la manifestazione di un disturbo d’ansia generalizzato (GAD), di
un’acatisia (per esempio, in pazienti trattati con neurolettici o
SSRI) o di altri disturbi dello spettro panico-ansia-agorafobia
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(cfr. Capitolo 11), anche se generalmente solo un numero limitato di pazienti presenta i criteri diagnostici tipici per i disturbi
d’ansia.
Irritabilità e ansia insieme sono presenti in circa la metà
(48%) dei pazienti affetti da MA (Mega et al, 1996), prevalentemente in fase precoce o intermedia, e sono frequenti in molte altre demenze, specie quelle sottocorticali (Albert, 1978) in
cui sono presenti sia nelle forme degenerative sia in quelle
vascolari (vedi oltre). Sono spesso presenti congiuntamente
preoccupazioni, timori e lamentele somatiche; non è infrequente la sindrome di Godot (ansia per ciò che dovrà accadere). Una situazione di comune osservazione è quella di pazienti che si preparano varie ore prima per un appuntamento e
i cui familiari non sanno come impedire loro di arrivare molto
in anticipo (per esempio, alla visita medica, con i problemi
che conseguono se l’attesa diviene lunga: per gli operatori
sanitari è richiesto uno sforzo in più per essere con questi pazienti sempre puntuali!).
All’inizio della malattia dementigena, l’ansia può essere
reattiva, dovuta alla consapevolezza della diminuzione delle
facoltà cognitive e all’imbarazzo che ciò può causare in pubblico; su questi sintomi, a volte, non sono efficaci le rassicurazioni perché vengono presto dimenticate in presenza di
amnesia. L’irritabilità e l’ansia, che talvolta sono collegate ai
disturbi psicotici (vedi oltre), possono facilmente virare in
agitazione e aggressività. Non rara nei pazienti con MA è la
reazione catastrofica (che può verificarsi anche nelle sedute
testistiche), da considerare come un improvviso acting out in
cui i sintomi sopracitati “montano”, con crisi di pianto, aggressività e talora agitazione psicomotoria.
DISINIBIZIONE
Con tale termine si indicano comportamenti socialmente inaccettabili, per lo più per luoghi e tempi inappropriati (per esempio, spogliarsi in pubblico): sono di solito determinati da
scarsa critica, attenzione concentrata solo sulla propria persona e impulsività. Si associa a essi pressoché costantemente un
comportamento invasivo (per esempio, porre domande dirette
di tipo privato al personale sanitario). Questo cluster sintomatologico, pur non essendo raro nella MA, è molto frequente
nelle demenze fronto-temporali (DFT) variante frontale, in
cui è stata osservata una correlazione con un’ipoperfusione
orbito-frontale posteriore (Peters et al, 2006; Scharre et al,
1996), dato peraltro riscontrato pure nei soggetti affetti da
DFT con apatia, a sottolineare il ruolo fisiologicamente strategico dell’area per la processazione delle emozioni (cfr. Capitolo 2 e Capitolo 6). Anche nella demenza a corpi di Lewy
(DLB) è stata riportata un’alta prevalenza di disinibizione
(65% dei casi), attribuita alla disfunzione fronto-sottocorticale propria della patologia.
APATIA, CONSAPEVOLEZZA
E ALTERAZIONI DI PERSONALITÀ
I cambiamenti dei tratti personologici e del carattere dei soggetti sono tra i primi sintomi di molte demenze. L’abulia e
l’apatia sono in realtà i disturbi comportamentali più frequenti nelle demenze sia corticali sia sottocorticali (Mega et al,
1996) anche se, spesso, sono trascurate nelle descrizioni dei
pazienti o misconosciute. Nella MA l’apatia (riportata in letteratura in percentuali assai variabili, fino al 70% dei casi) è
più frequente della depressione, alla quale peraltro spesso è
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associata, pur appartendendo a dimensioni comportamentali
diverse (presente nel 70% dei casi), si manifesta già nelle fasi
iniziali della malattia e tende ad aggravarsi con il peggioramento dei deficit cognitivi. Starkstein e collaboratori (2001)
hanno formulato criteri diagnostici per l’apatia nella MA (cfr.
Capitolo 10). In altre demenze corticali (come la demenza
fronto-temporale) e/o sottocorticali (paralisi sopranucleare
progressiva, demenza a corpi di Lewy, encefalopatia di Binswanger ecc.) l’apatia costituisce un nucleo sintomatologico
prominente e prototipico.
L’apatia, da intendersi appunto come forte riduzione di motivazione “interna” che comporta diminuzione dell’interesse e
partecipazione in varie attività, concorre fortemente a determinare il ritiro sociale, insieme al disturbo cognitivo globale
proprio di tutte le patologie dementigene, accentuando la progressione negativa del quadro. Talora il paziente apatico è descritto come depresso dai familiari, oppure il sintomo viene
sottovalutato perché apparentemente meno problematico di
altri da “gestire”. Tale sintomo può essere, peraltro, difficile
da valutare anche con le scale di valutazione più in uso (come
la Neuropsychiatric Inventory, NPI) o anche strumenti creati
ad hoc come l’Apathy Inventory (Robert et al, 2002).
Vi sono studi che hanno riscontrato correlazioni nella MA
in fase iniziale tra l’apatia e le prestazioni ai test neuropsicologici di attenzione divisa (Robert et al, 2001) e anche con
l’alterata risposta dei P3 ai potenziali evento-correlati (Daffner et al, 2001).
L’“indifferenza emotiva”, che è per certi versi antitetica alla
depressione, è uno degli indicatori clinici più efficaci, a nostro
avviso, e anche precoci per il sospetto di demenza. L’apatia
nella MA non è quasi mai un sintomo isolato, di solito si accompagna ad altri disturbi neuropsichaitrici, specie dell’umore.
La consapevolezza, intesa come capacità di percepire il sé
e la coscienza di malattia, è alterata nella maggior parte delle
forme, in modo precoce e preminente nella demenza frontotemporale (Gustafson, 1993). In questa forma di demenza
l’apatia è correlata al neuroimaging funzionale (SPECT) con
un’ipoperfusione della corteccia dorsolaterale (Scharre et al,
1996). Invece nella MA ci sono evidenze al neuroimaging dinamico di associazione tra il livello di apatia e l’ipoperfusione
del giro cingolato anteriore (Craig et al, 1996; Migneco et al,
2001), della corteccia orbito-frontale e anche del talamo mediale (Marshall et al, 2007) indipendentemente dalla severità
della compromissione cognitiva. Questi ultimi recenti dati
indicherebbero una disfunzione del circuito fronto-mediale
sottocorticale, probabilmente da ridotto tono colinergico.
Queste e altre osservazioni potrebbero suggerire che uno
stesso cluster sintomatologico comportamentale, come l’apatia in questo caso, in due diverse patologie neurodegenerative
può essere sostenuto sul piano anatomofunzionale dalla disfunzione di aree cerebrali diverse e forse di sistemi neurochimici differenti.
DISTURBI DELL’UMORE
I rapporti tra depressione e demenza sono complessi dal punto
di vista patogenetico e clinico, e non completamente compresi.
Infatti, alcuni meccanismi fisiopatologici e diverse manifestazioni cliniche sono comuni a entrambi i disordini, contribuendo alla confusione diagnostica con molte condizioni di sovrapposizione tra i due disturbi. Espressioni sintomatologiche dello
spettro depressivo sono molto frequenti nella maggior parte 345
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PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
delle demenze, spesso anche riferite dai familiari, ma si deve
rilevare che, in queste malattie, perdita di peso, agitazione,
insonnia e altre alterazioni vegetative (che rientrano anche nei
criteri della depressione maggiore) sono comuni, anche laddove non vi è umore depresso (cfr. Capitolo 14). Vi può essere, dunque, una “pseudodepressione” demenziale, così com’è
noto da vecchia data il quadro della cosiddetta pseudodemenza
depressiva (Kiloh, 1961; Wells, 1979; cfr. anche il paragrafo
Demenze potenzialmente reversibili, più avanti nel capitolo),
quando il disturbo affettivo primario simula una demenza (soprattutto per il rallentamento ideativo e i disturbi dell’attenzione e della memoria di lavoro, che sono aspetti cognitivi comuni nella depressione; Gallassi et al, 2001). Spesso peraltro le
due condizioni morbose, depressione e demenza, coesistono e
si potenziano a vicenda; secondo alcuni autori, la depressione
sarebbe di per sé un fattore di rischio per la demenza (Devanand et al, 1996); vi sarebbe, secondo quest’ottica condivisa
da vari autori, specialmente nordamericani, uno spettro continuo, frequente nella terza età, con depressione e demenza ai
due estremi e in mezzo vari stadi misti di deterioramento e disturbo dell’umore (Emery e Oxman, 1992; Folstein e McHugh,
1978). In sintesi, secondo questi autori, all’interno del continuum depressione-demenza si possono diagnosticare cinque
diverse categorie:
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depressione maggiore senza demenza;
demenza depressiva;
demenza degenerativa senza depressione;
depressione da iniziale demenza degenerativa;
associazione di depressione e demenza degenerativa.
La sindrome della demenza da depressione colpisce i pazienti anziani con
una storia per lo più di depressione maggiore ed è caratterizzata da un
modello di compromissione cognitiva di tipo sottocorticale. Deficit di
memoria, disturbi dell’attenzione e della concentrazione, rallentamento
psicomotorio e apatia, difficoltà nella programmazione e nella scelta
delle strategie più appropriate per raggiungere un obiettivo, impoverimento delle capacità di astrazione sono i sintomi caratteristici di questa
sindrome (Caine, 1981; Wells, 1979). Criteri per distinguere la demenza
da depressione da quella di tipo alzheimeriano sono una storia di episodi
depressivi precedenti, un esordio generalmente acuto con una rapida progressione dei sintomi, una correlazione dell’entità dei deficit cognitivi
con la gravità della depressione (Wells, 1979). A differenza dei pazienti
con MA, che di solito si lamentano poco e in maniera vaga dei propri disturbi cognitivi, i pazienti con pseudodemenza depressiva generalmente
enfatizzano molto le proprie difficoltà cognitive, tendono a sottolineare i
loro insuccessi e spesso rifiutano di svolgere compiti anche semplici, affermando fin dall’inizio di non essere in grado di trovare le risposte corrette (Wells, 1979). Il profilo neuropsicologico dei pazienti con MA evidenzia deficit ben strutturati delle funzioni strumentali mentre, nella
demenza da depressione, la compromissione riguarda soprattutto i compiti attentivi, le prove di ragionamento astratto, i test di memoria. I pazienti depressi frequentemente si lamentano di una riduzione delle capacità mnesiche ma, rispetto ai pazienti con una vera sindrome amnestica,
questi soggetti si mostrano molto preoccupati per i loro deficit e nei test
specifici per la memoria hanno prestazioni più basse nelle fasi di acquisizione e registrazione delle informazioni, rifiutando spesso di impegnarsi
per cercare di apprendere una quantità maggiore di dati.
Le caratteristiche cliniche della depressione associata a demenza possono variare da quadri di tipo distimico a quadri che
ricordano le forme di depressione maggiore. Nel decorso clinico delle demenze, la depressione è più frequente negli stadi
precoci, in particolare questo è comune nella MA (Petry e
346 Cummings, 1989) prevalente nel genere femminile e correlata
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a personalità premorbosa di tipo nevrotico (Aalten et al, 2001):
le alterazioni dell’umore in senso depressivo nei pazienti con
demenza tendono in genere a essere più lievi, brevi e ricorrenti rispetto a quelle che caratterizzano la depressione primaria.
Nella MA è presente depressione maggiore verosimilmente
nel l0-20% dei casi (Zubenko e Moossy, 1988) se si applicano
i criteri standard del DSM-IV (pur considerando che questi
sono verosimilmente poco idonei a definire la depressione nella MA; cfr. Olin et al, 2002 che hanno elaborato dei criteri diagnostici specifici per la depressione nella MA). In letteratura
sono state peraltro riportate percentuali molto varie (2-85%,
Cummings, 1995), evidentemente per disomogeneità dei metodi di rilevazione e di definizione; mentre la depressione minore
o distimia è stata riportata in modo meno difforme (25-50%,
Cummings, 1995), probabilmente per via della sua più facile
diagnosticabilità. L’alterazione timica in senso depressivo può
precedere l’insorgenza della MA (Devanand et al, 1996) ed
essere un sintomo prominente anche della compromissione cognitiva lieve; è comune soprattutto in pazienti anziani e molto
scolarizzati (Spalletta e Caltagirone, 2002); è, secondo alcuni,
più marcata nei casi a esordio precoce (Lawlor et al, 1994) e
compare con maggiore probabilità nei casi con anamnesi familiare positiva per disturbo affettivo (Pearlson et al, 1990), pur
essendo le due entità indipendenti dal punto di vista genetico.
Peraltro la depressione nella MA, spesso abbinata all’ansia, è
di fatto meglio trattabile dei BPSD, non è persistente nella storia naturale della malattia e, diversamente da irritabilità e apatia
(Starkstein et al, 2006), di solito si dilegua in fase medio-avanzata lasciando luogo prevalentemente ai disturbi psicotici e all’agitazione. Sul piano cognitivo sono state riportate differenze
notevoli per quanto riguarda i compiti esecutivi, significativamente più compromessi in pazienti con MA depressi rispetto a
quelli non depressi. La maggior parte dei pazienti con MA depressi tende ad avere anche altri disturbi comportamentali
come agitazione o psicosi (Levy et al, 1996).
La depressione è molto comune anche nelle forme sottocorticali degenerative come la corea di Huntington, la malattia
di Parkinson e in quelle vascolari (encefalopatia di Binswanger, stato lacunare, arteriopatia cerebrale autosomica dominante con infarti sottocorticali e leucoencefalopatia – CADASIL)
e nell’idrocefalo normoteso: in queste ultime è patogenicamente rilevante il danno alla sostanza bianca sottocorticale, ai
gangli della base, alla sostanza nera, con disfunzione dei circuiti fronto-sottocorticali.
La maggior parte degli studi di neuroimaging funzionale
mostra una correlazione tra depressione nella MA e ipometabolismo nella corteccia frontale (giro superiore e del cingolo;
Hirono et al, 1998); un riscontro anatomofunzionale di questo
tipo si ritrova anche nella depressione primaria o secondaria ad
altre patologie neurologiche, tra cui la malattia di Parkinson
(Ring et al, 1994). Nei pazienti affetti da MA con depressione
sono state stata riscontrate perdita neuronale nel locus coeruleus e riduzione dei siti di ricaptazione della serotonina, in
modo significativo rispetto ai non depressi (Chen et al, 1996).
È molto importante trattare la depressione nelle demenze (i
farmaci serotoninergici sono spesso efficaci specie nella MA),
dal momento che spesso si migliora drammaticamente l’aspetto funzionale dei pazienti e la loro qualità di vita insieme a
quella dei caregiver.
La disforia, intesa come umore instabile, è più frequente
nella MA che non in patologie associate a “disfunzione frontale” come la DFT, la paralisi sopranucleare progressiva o anche
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la corea di Huntington (Mega et al, 1996); in queste forme,
invece, sono più frequenti disinibizione e apatia (spesso presenti insieme).
Labilità emotiva, “incontinenza emotiva”, “pianto senza contenuto di pensiero” (Ritchie e Lovestone, 2002) caratterizzano
invece le encefalopatie vascolari sottocorticali e la paralisi sopranucleare progressiva (che talora hanno presentazioni cliniche similari) e spesso accompagnano gli altri sintomi e segni
cosiddetti “pseudobulbari” (disfagia, marcia a passi strascicati, lievi segni piramidali bilaterali), secondari a un’ischemia
cronica di strutture sottocorticali.
Euforia e mania sono rare nella MA (2% dei casi in letteratura; Mendez, 2000), mentre la mania secondaria non è rara
come sintomo di lesioni cerebrali focali che coinvolgono le
zone limbiche e quelle a esse collegate (cfr. Capitolo 14).
DISTURBI PSICOTICI:
DELIRI, ALLUCINAZIONI
I deliri (intesi come false credenze fisse) sono molto frequenti nelle demenze, soprattutto nella MA, dove sono stati riportati in letteratura con incidenza molto varia, che arriva fino al
70% (Wragg e Jeste, 1989). Di solito sono meno strutturati e
più “concreti” rispetto a quelli delle psicosi primarie (cfr. Capitolo 15). I deliri più frequenti si riferiscono a persone che
rubano cose, a visitatori indesiderati, al coniuge che è visto
come un impostore (sindrome di Capgras) oppure è infedele;
altre volte consistono in una falsa attribuzione di identità a
persone familiari, personaggi della televisione che diventano
reali, o anche in un’impossibilità di riconoscere la propria
immagine allo specchio. Qualche autore, sottolineando l’eterogeneità della sintomatologia delirante nella MA, ha operato
una differenziazione tra il raggruppamento dei falsi riconoscimenti deliranti e quello delle idee paranoidi (Cook et al,
2003), in quanto solo il primo è correlato con lo status neuropsicologico (Quaranta et al, 2007).
I deliri nella MA sono stati associati ad atrofia fronto-temporale prevalente a destra, al neuroimaging morfologico (Forstl
et al, 1994) e ad aumento dell’attività lenta (theta e delta) all’EEG, indipendentemente dalla severità della demenza (Lopez et al, 1991). I pazienti con MA deliranti possono, peraltro,
avere un declino cognitivo più accelerato rispetto a quelli senza
deliri (Drevets e Rubin, 1989). I criteri diagnostici per la psicosi nella MA sono stati elaborati da Jeste e Finkel (2000).
Le allucinazioni nelle demenze sono prevalentemente di tipo
visivo anziché uditivo (come nelle psicosi primarie); sono più
frequenti e caratteristiche nella forma a corpi di Lewy, dove
hanno un aspetto peculiare (di tipo visivo, ben delineate, “grafiche”; cfr. oltre) e costituiscono un criterio diagnostico primario
(McKeith et al, 1996), insieme con il decorso cognitivo fluttuante e i segni extrapiramidali. In questa malattia le allucinazioni e anche i deliri sono più frequenti rispetto alla MA, spesso
associati a disinibizione, in aumento con la progressione della
malattia e correlati alla disfunzione sottocortico-frontale.
Nella MA le allucinazioni sono meno frequenti dei deliri,
essendo presenti in circa il 15% dei casi (Assal e Cummings,
2002); la loro incidenza diminuisce nei pazienti cognitivamente più compromessi. Il cluster dei disturbi psicotici nella MA,
non direttamente correlato al quadro cognitivo, è stato riscontrato in associazione con le lesioni neuropatologiche tipiche,
soprattutto grovigli neurofibrillari e depopolazione neuronale,
nelle sedi temporo-mediali, con conseguente disfunzione del
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sistema limbico (Mendez et al, 2008), finalizzato a legare la
percezione agli stati emotivi. La sintomatologia di tipo psicotico nella MA è considerata da alcuni predittiva di declino
cognitivo e funzionale, essendo stata riscontrata in associazione con istituzionalizzazione e mortalità (Scarmeas et al,
2005).
I deliri sono presenti anche nella DFT (Mendez et al, 2008),
pur se con incidenza più bassa rispetto alla MA e alla DLB: in
questa condizione patologica insorgono precocemente, sono
prominenti e persistenti, di diversa fenomenologia, più frequenti quelli paranoidei e somatici; la loro presenza è prevalente nella variante comportamentale associata ad atrofia
frontale destra (Omar et al, 2009); (vedi anche oltre). La sintomatologia delirante nelle DFT (usualmente senza allucinazioni) va distinta dai più frequenti comportamenti bizzarri, e
va considerato anche il possibile ruolo farmacologico, alla
luce della frequente ipersensibilità da neurolettici in questa
patologia.
Disturbi psicotici sono frequenti anche nelle demenze sottocorticali, di tipo degenerativo o vascolare (vedi oltre), oltre che nelle demenze miste, le quali peraltro hanno un profilo neuropsichiatrico assimilabile alla MA (Scarmeas et al,
2005).
ALTERAZIONI NEUROVEGETATIVE
Disturbi del sonno
Nell’età senile sono note le modificazioni qualitative e quantitative del sonno, con insonnia preminente: c’è diminuzione
del sonno REM, diminuzione del sonno a onde lente e aumento dei risvegli notturni; nei pazienti affetti da demenza l’insonnia, che è molto frequente (42% dei casi; Vitiello et al,
1990), può essere isolata o associata ad ansia o disforia. Nei
pazienti con MA il disturbo a questo proposito preminente è
l’alterazione del ciclo sonno-veglia, prevalentemente nei mesi
invernali (Yesavage et al, 2003).
L’incidenza di questi sintomi aumenta con la progressione
della malattia e costituisce un serio problema per i caregiver
che devono salvaguardare l’incolumità del paziente che si
alza di notte e comincia, magari al buio, a vagare per gli ambienti (con possibilità di cadute e traumatismi vari, o uscite
fuori di casa). Ci sono fattori multipli, che talora coesistono,
alla base di questo disturbo del sonno: stato dell’umore, effetti iatrogeni (farmaci), ambientali in senso lato (tra cui anche la
scarsa esposizione alla luce), oltre alla malattia cerebrale dementigena di per sé. Talvolta anche il dolore fisico o lo stress
per cause mediche generali possono esserne la causa.
Nelle forme di MA avanzate è riportato con una certa frequenza il fenomeno del sundowning, cioè dell’aumento della
confusione nelle ore serali, verosimilmente dovuta al venir
meno di stimoli visivi per la diminuzione della luce naturale
con, a volte, eccessiva illuminazione artificiale, in una situazione di possibile calo sensoriale globale (visivo e acustico).
Questa situazione, insieme alla sopracitata alterazione del
ritmo sonno-veglia e all’eventuale condizione di affaticamento serale, crea confusione e talora agitazione e attività motoria
afinalistica. Anche semplici interventi “ambientali”possono
risolvere questo problema.
In alcune patologie degenerative sottocorticali, come per
esempio la malattia di Parkinson (che, come si sa, in un terzo
almeno dei casi comporta demenza), oltre alla frequente eccessiva sonnolenza diurna (vedi oltre) è descritta anche in alcuni 347
8/31/11 5:06:42 PM
16
PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
casi una sorta di “ipervigilanza” con incapacità a rilassarsi, e
aumentata attività del sistema nervoso autonomo, con disturbi gastro-enterici (Stacy e Jankovic, 1992); nella MA è presente invece una globale ipoattività del sistema nervoso autonomo.
Nella malattia da prioni, chiamata insonnia fatale familiare
(Lugaresi et al, 1986), il disturbo progressivo e devastante del
ritmo sonno-veglia e la “burrasca” vegetativa sono appunto le
caratteristiche preminenti (causate dalla degenerazione talamica).
Disturbi del comportamento
alimentare
Sono comuni nella maggior parte delle demenze: in genere vi
è una diminuzione ponderale negli stadi intermedi o avanzati,
spesso da riduzione dell’appetito (anche per effetti iatrogeni o
disturbi fisici intercorrenti) o per condizioni pratiche che determinano minori introiti alimentari (assistenza carente, impazienza per i tempi canonici del pasto, ipercinesia protratta
ecc.). Non è però infrequente osservare un dimagramento
anche a fronte di normali, oppure anche aumentate, entrate
caloriche, per ragioni non chiare (malassorbimento? “ipermetabolismo”?). La perdita di peso costituisce un fattore di aggravamento di malattia ed è da alcuni considerato un indice
predittivo di mortalità (Riviere et al, 1999). Ci sono talora
casi di iperfagia, riportata nel 10% dei malati di Alzheimer e
assai più frequentemente nelle DFT, insieme con iperoralità
in genere (Assal e Cummings, 2002); in queste forme è frequente il desiderio di mangiare dolci, anche sovvertendo le
preferenze alimentari premorbose.
Nelle DFT anche gli aspetti ossessivo-compulsivi (rari nella MA), insieme agli altrettanto frequenti stati di disinibizione
e disforia, possono condurre a iperfagia, talora cospicua.
Le alterazioni neurochimiche endogene implicate in questa
serie di disturbi comprendono disfunzioni serotoninergiche,
diminuzione dei livelli plasmatici e cerebrali di neuropeptide
Y (Minthon et al, 1996), diminuzione della noradrenalina cerebrale (Marcus e Berry, 1998).
Disturbi del comportamento
sessuale
Un comportamento sessualmente inappropriato di vario tipo è
stato riportato nel 22% dei casi di MA, in un’estesa casistica
di soggetti anziani affetti da demenza (Alagiakrishnan et al,
2005). È noto che nella maggior parte dei casi, la demenza si
accompagna a diminuzione del desiderio sessuale ma, qualche volta, specie nei pazienti con MA avanzata, può esservi
ipersessualità, che può consistere in aumento dell’interesse
sessuale o raramente in aggressività sessuale (Cummings e
Victoroff, 1990) o parafilia. L’ipersessualità, più frequente
nella demenza fronto-temporale rispetto alla MA, inclusa
nello spettro del disturbo osssessivo-compulsivo, è una situazione spesso problematica per il partner o i caregiver. Tale
condizione, è difficile da trattare e non va accomunata con la
più frequente “iperaffettività” (per esempio, accarezzare, tenere le mani di altri a lungo, mandare baci), in parte da interpretare come lieve disinibizione emotiva.
Raramente pazienti affetti da MA in fase avanzata manifestano, in parte o in toto, la sindrome di Kluver-Bucy (Lilly
et al, 1983), sostenuta da una disfunzione bilaterale della par348 te mediale dei lobi temporali.
C0080.indd 348
COMPROMISSIONE COGNITIVA LIEVE
È necessario menzionare questa sindrome (in inglese Mild
Cognitive Impairment, MCI) intesa come condizione intermedia tra normalità cognitiva e demenza, che può in molti casi
essere precorritrice della MA (Petersen, 2004). I soggetti classificabili come MCI (Petersen et al, 1999) sono caratterizzati
da disturbo soggettivo di memoria, preferibilmente confermato da un familiare, funzionalità cognitiva generale normale,
attività quotidiane normalmente conservate, deficit cognitivi
obiettivati ai test (le prestazioni devono essere 1,5 DS sotto il
cut-off), assenza di demenza (Caltagirone et al, 2002).
Alcuni dei disturbi neuropsichiatrici sopra menzionati (sono
presenti in quasi la metà dei soggetti con MCI depressione,
apatia, irritabilità, ansia) possono essere presenti anche in una
condizione come questa, in cui il quadro cognitivo e, soprattutto, quello funzionale (autonomia del quotidiano) non sono ancora compatibili con una diagnosi di demenza secondo i criteri
canonici, condizione che potrebbe però comparire successivamente. Un recente studio ha confermato come l’apatia e la depressione siano i sintomi psichiatrici prevalenti non solo nella
MA ma anche nella sindrome MCI (Di Iulio et al, 2010). Un
corretto inquadramento della semeiotica di quest’area dei disturbi psicologici e comportamentali (BPSD) può dunque aiutare a diagnosticare tempestivamente la sindrome neurocognitiva.
È stato dimostrato che pazienti con MCI e sintomi depressivi
e/o apatici convertono in MA nell’arco di un anno in una misura significativamente maggiore rispetto a pazienti senza o con
una percentuale minore di questi sintomi (Robert et al, 2006).
Al di là di questo, la sindrome MCI – che dal punto di vista
nosografico è stata risistematizzata con una classificazione in
sottotipi (Petersen et al, 2001) in base agli aspetti cognitivi e
alle associazioni con altre condizioni patologiche, tra cui vi è
il quadro associato a disturbi psichici e comportamentali –
costituisce un interessantissimo ambito di ricerca (Kelley e
Petersen, 2007). Tuttavia, alla luce del recente tentativo di
identificare stati prodromici della demenza, in particolare
della MA, il concetto di MCI ha subito un considerevole ridimensionamento della sua importanza e della sua specificità
clinica (Dubois et al, 2010).
DEMENZE DEGENERATIVE E VASCOLARI
Vengono qui di seguito riportati gli aspetti clinico-diagnostici
ed eziopatogenetici rilevanti e distintivi delle principali forme
di demenza su base degenerativa e vascolare.
Per motivi di spazio e per scelta espositiva, viene riportata
solo una sintesi dei criteri diagnostici internazionali più in uso
per le singole forme di demenza, laddove presenti, rimandando alle fonti bibliografiche per la trattazione in esteso. Recentemente sono state pubblicate nuove linee guida per la diagnosi della MA (Dubois et al, 2007, Hort et al, 2010).
MALATTIA DI ALZHEIMER
La MA è la forma più comune di demenza, rappresentando da
sola circa il 50-60% di tutte le forme dementigene. La diagnosi di MA è stata considerata per molto tempo una diagnosi puramente clinica che si avvale di criteri internazionali
quali quelli del DSM-IV (1994) e del NINCDS-ADRDA
(National Institute of Neurological and Communicative Di-
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NEUROPSICHIATRIA DELLE DEMENZE
Sotto il profilo neuropsicologico si distinguono forme tipiche con preminente deficit della memoria (prevalentemente a carico della memoria
verbale episodica), con progressivo interessamento di altre aree cognitive
(funzioni simboliche, visuospaziali, esecutive) anche in modo disomogeneo, e forme atipiche dette anche pseudofocali. Sono forme con esordio
di afasia progressiva, forme con preminente localizzazione dell’atrofia in
sede occipitale bilaterale (deficit visivi progressivi), biparietale posteriore
od occipito-temporale (sono preminenti l’agnosia visiva progressiva, talora la sindrome di Balint, i deficit visuospaziali e altri deficit cognitivi
“posteriori”) e altre a nosografia talora incerta (per una rassegna vedi
Galton et al, 2000).
sorders and Stroke and Alzheimer’s Disease and Related Disorders; McKahn et al, 1984), che, sebbene datati, sono ampiamente accettati dalla comunità scientifica.
Secondo il DSM-IV (1994) devono essere presenti deficit cognitivi tali da
alterare la funzionalità sociale e/o lavorativa, ad andamento gradualmente
progressivo, non associati ad abuso di sostanze, né a occorrenza esclusivamente durante delirium in assenza di depressione maggiore. Per la diagnosi di MA i criteri più diffusi, quelli del NINCDS-ADRDA indicano tre
livelli di probabilità (possibile, probabile o definita dall’esame autoptico).
Negli ultimi anni tuttavia sono stati stilati nuovi criteri diagnostici (Dubois et al, 2007).
Questi criteri prevedono un uso sistematico delle più recenti indagini biochimiche: (determinazione dei dosaggi di proteina beta-amiloide e proteina TAU liquorali (la prima ridotta e la seconda aumentata rispetto alla
popolazione di controllo); di neuroimmagini (SPECT, PET, fRM); di genetica molecolare (ricerca delle mutazioni genetiche note ed eventuali
polimorfismi). Si introduce inoltre il concetto di malattia di Alzheimer
prodromica per indicare quello stadio della malattia nel quale, pur non
essendo presenti gli elementi clinici per formulare una diagnosi di demenza, si rilevano altri elementi (per esempio, diagnostico-strumentali,
biochimici, genetici) tali da poterne ipotizzare il futuro sviluppo.
Tali criteri sono stati sistematizzati da un gruppo di lavoro ad
hoc (Dubois et al, 2010) e, sebbene possano considerarsi applicabili solo da centri specialistici in quanto richiedono indagini che non sono facilmente accessibili a tutti, offrono la
possibilità di formulare la diagnosi ancora prima che si sviluppi una franca condizione di malattia. È tuttavia opportuno
ricordare come, a malattia manifesta, i criteri ancora oggi in
uso permettano di raggiungere un’accuratezza della diagnosi
di circa l’80-90%. La MA è caratterizzata da un graduale e
progressivo decadimento delle funzioni cognitive superiori.
16
Un aspetto di estremo rilievo clinico è la presenza, variabile
ma quasi sempre riscontrabile nel corso della malattia, di disturbi comportamentali e sintomi psichici che si manifestano
con una vasta gamma fenomenologica nei vari stadi della malattia, essendo più frequenti e più invalidanti nelle forme moderate-severe.
È stato stimato che oltre il 70% dei pazienti con MA presenta
disturbi neuropsichiatrici quali deliri, allucinazioni, agitazione,
aggressività, comportamenti sociali inappropriati e ancora ansia, depressione, apatia, disturbi del sonno, della condotta alimentare e sessuale. È stata suggerita una predisposizione genetica a questi tipi di disturbi (Sweet, 2002; Tunstall, 2000) e sono
stati indagati numerosi geni tra cui quello dell’apolipoproteina
E (Pritchard et al, 2007), che è riconosciuto come fattore di rischio per la MA, e altri geni coinvolti nel sistema neurotrasmettitoriale serotoninergico e/o dopaminergico (Assal et al, 2004;
Borroni et al, 2006; Craig et al, 2004, Holmes et al, 2001; Pritchard et al, 2007; Pritchard et al, 2010; Proitsi, 2010) (fig. 16.1)
Inoltre, a sostenere l’ipotesi di una predisposizione genetica è l’osservazione che, nei soggetti con MA geneticamente
determinati, l’esordio clinico è spesso di tipo comportamentale e ciò è tanto più vero nei casi sostenuti da mutazioni della
presenilina 1 (PSEN1) (che sono tra l’altro le più frequenti).
100
80
Frequenza (% dei pazienti)
Agitazione
Ritmi
giornalieri
60
Depressione
Irritabilità
Vagabondaggio
40
Ritiro sociale
Ansia
Paranoia
20
Fig. 16.1 Disturbi
del comportamento
e demenza di Alzheimer.
(Dati tratti da Jost e Grossberg,
1996.)
C0080.indd 349
0
–40
Ideazioni
suicidarie
–30
Agressività
Cambiamento
Allucinazioni
di umore
Comportamento
inappropriato
Comportamento
accusatorio
–20
–10
0
Deliri
Comportamento sessuale
inappropriato
10
20
30
Mesi post-
Mesi preDiagnosi
349
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16
PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
Escludendo tuttavia queste situazioni “particolari”, i disturbi neuropsichiatrici nella MA sono positivamente correlati
allo stadio della malattia.
Nello stadio iniziale, nel quale la coscienza di malattia e il
senso di critica sono parzialmente conservati, è più facile riscontrare episodi di depressione “minore” accompagnata da
sintomi somatici, ansia e disturbi del sonno (più frequentemente vari tipi di insonnia) spesso associati ad alterazioni di
personalità che possono essere di tipo inibitorio (apatia, appiattimento emotivo, abulia, ritiro sociale) ovvero di facile
irascibilità, opposizione ecc. Più raramente, in questa fase
iniziale, è possibile riscontrare la presenza di deliri che, al
contrario, sono più comuni nella fase intermedia.
Il contenuto del pensiero delirante è vario, sebbene spesso
si tratti di delirio di persecuzione e/o nocumento da parte di
familiari e/o conoscenti verso i quali il soggetto assume un
atteggiamento di chiusura, diffidenza e aggressività.
Nelle fase intermedia è altrettanto frequente il riscontro di
allucinazioni per lo più visive (tipicamente di persone del
passato, per esempio familiari deceduti), oppure uditive (di
solito persecutorie in accompagnamento ai deliri). Depressione, apatia, disturbi del sonno, agitazione e disturbi psicomotori completano il quadro neuropsichiatrico di questa fase intersecandosi fra loro in vario modo.
Lo stadio avanzato è caratterizzato spesso da marcata agitazione psicomotoria e vagabondaggio, in un contesto talora di
eloquio monosillabico o mutismo, rigidità, difficoltà nella deglutizione, incontinenza, che prelude la fase di allettamento
(cosiddetta internistica) con exitus per malattie intercorrenti,
anche infettive (delle vie respiratorie e/o urinarie), usualmente entro 6 mesi.
La figura 16.1 riporta la frequenza dei disturbi comportamentali prima e dopo la diagnosi di MA. Viene inoltre indicata
la percentuale dei pazienti che manifesta disturbi psichiatrici,
differenziando per ciascun sintomo la sua frequenza rispetto al
tempo in cui viene posta la diagnosi (Jost e Grossberg, 1996).
Genetica e biochimica
Nella maggior parte dei casi la MA è di tipo sporadico, mentre in un
5-10% la malattia ha una base familiare e talvolta più strettamente genetica (Piscopo et al, 2006; Talarico et al, 2010). Nel 10-20% delle forme familiari è possibile identificare mutazioni genetiche che presentano modalità di trasmissione autosomica dominante con la presenza di mutazioni a
carico di tre geni ovvero APP (proteina precursore dell’amiloide), PSEN1
(presenilina 1) e PSEN2 (presenilina 2) rispettivamente sui cromosomi 21,
14 e 1 (Piscopo et al, 2010; Sala Frigerio et al, 2005). Le nuove mutazioni
vengono raccolte e segnalate su un sito specifico al quale si rimanda per
l’aggiornamento continuo (http://www.molgen.ua.ac.be/ADMutations/).
Non esiste al momento un test di laboratorio sicuramente diagnostico
nel singolo soggetto; possono essere utili nella pratica clinica e hanno
esteso impiego nella ricerca la determinazione plasmatica dell’apolipoproteina E (il genotipo E4-E4 aumenta la probabilità di malattia), i dosaggi liquorali di isoforme della proteina TAU e della beta-amiloide, il profilo piastrinico dell’APP.
Per i correlati morfofunzionali e neuropatologici della MA
consultare la tabella 16.1.
DEMENZA FRONTO-TEMPORALE
La DFT rappresenta un eterogeneo gruppo di entità cliniche
caratterizzate da fenomeni neurodegenerativi con prevalenti
350 disturbi del comportamento e/o del linguaggio (Rabinovici e
C0080.indd 350
Miller, 2010) L’insorgenza è possibile in un ampio range di
età (35-75 anni), ma più spesso ha un esordio presenile. Spesso vi è familiarità, talora vi sono casi seguiti a lungo solo psichiatricamente.
L’esame neurologico rivela la presenza precoce dei segni di
“liberazione frontale” (riflessi arcaici); in alcuni casi vi sono
aprassia e/o comportamento di utilizzazione; il parkinsonismo, specie in fase avanzata, non è un elemento contro la diagnosi; fascicolazioni, disfagia e altri segni neuromuscolari
possono essere presenti (talora la DFT è associata alla malattia del motoneurone).
Nosograficamente vengono distinte tre grandi sottosindromi:
la variante frontale o comportamentale (DFT-f o DFT-c), la più
frequente, e due varianti “linguistiche”, l’afasia progressiva
primaria (APP) e la demenza semantica. La degenerazione
cortico-basale (CBD), la paralisi sopranucleare progressiva
(PSP) e la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) possono presentare caratteristiche comuni alla DFT e sono da molti autori raggruppate insieme a quest’ultima sotto il termine di taupatie.
Dati di prevalenza stimano le DFT con numeri variabili tra il 2
e il 9% dei casi di demenza. Hanno un altissimo tasso di familiarità (intorno al 50% circa). Nel 1998 i gruppi di ricerca svedese
(di Lund) e inglese (di Manchester) in una Consensus Conference hanno stabilito i criteri per la diagnosi della sindrome clinica
(Neary et al, 1998), poi rivisti nel 2001 da McKhann et al.
Questi criteri, i quali prendono in considerazione sintomi che coinvolgono il comportamento, l’affettività e linguaggio, sono:
1. a) precoce e progressivo cambiamento della personalità o b) precoce e
progressivo cambiamento del linguaggio (alterazioni della fluenza o
grave difficoltà nella denominazione e con il significato delle
parole);
2. i deficit manifestati con 1a o 1b provocano una compromissione significativa nelle funzioni sociali od occupazionali;
3. il decorso è caratterizzato da un esordio insidioso e un declino progressivo delle funzioni;
4. i deficit che si manifestano con 1a o 1b non sono dovuti ad altre condizioni del sistema nervoso, condizioni sistemiche o indotte da
sostanze;
5. i deficit non si manifestano esclusivamente nel corso di delirium;
6. il disturbo non è meglio diagnosticabile con nessun altro disturbo psichiatrico.
La DFT è una demenza in cui le alterazioni comportamentali
(disinibizione, perdita del controllo sociale, stereotipie), i disturbi affettivi (apatia, disinteresse, perdita di empatia), i disturbi del linguaggio (monotonia, riduzione dell’iniziativa
verbale) si manifestano inizialmente in forma quasi subdola e
progrediscono lentamente, come facenti parte di un processo
apparentemente non morboso e come tale non sempre adeguatamente valutato se non quando diventa conclamata la sindrome cognitiva con disturbi della memoria, afasia, marcato
disorientamento temporo-spaziale e compromissione funzionale (Mendez e Shapira, 2008). Diversi studi hanno infatti
dimostrato come l’intervallo tra il primo sintomo e l’ingresso
in un centro specialistico sia più lungo per i soggetti affetti da
DFT che da MA (Rascovsky et al, 2006). Questo tipo di demenza è verosimilmente sottostimata dal punto di vista epidemiologico (alcuni studi arrivano a ipotizzare percentuali vicine
al 20%), proprio in ragione delle sue peculiarità nell’espressione clinica. Pasquier et al (2004) riporta un declino annuale al
punteggio del Mini-Mental State Examination (MMSE) di 0,9
(± 1,4), nettamente inferiore a quello di una popolazione affetta
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NEUROPSICHIATRIA DELLE DEMENZE
Tab. 16.1
16
Correlati morfofunzionali e neuropatologici della MA e della DFT
Malattia di
Alzheimer (MA)
Neuroimmagini
Neuropatologia
La RM mostra già nelle fasi precoci una riduzione
degli indici morfometrici della corteccia entorinale
e dell’ippocampo. Con la progressione della malattia
si evidenzia atrofia corticale, e in modo ancora più
evidente, a livello delle strutture temporo-mesiali;
sono elementi a sfavore della diagnosi di MA pura
la presenza di infarti multipli, di alterazioni diffuse
e marcate della sostanza bianca sottocorticale, di
atrofia focale (per esempio, lobare) o evidentemente
asimmetrica
All’esame istopatologico sono presenti
differenze quantitative rispetto al cervello senile:
depauperamento neuronale, placche amiloidee
o senili (intercellulari), grovigli neurofibrillari
(intracellulari), specie nell’ippocampo, degenerazione
walleriana nel corpo calloso anteriore e posteriore
Recenti studi di RM con tecnica voxel-based
morphometry hanno mostrato alterazioni della
sostanza bianca a livello del corpo calloso anteriore nel
MCI e nell’iniziale MA che, in quest’ultima condizione,
si estendono però anche alle regioni callose posteriori
È presente un deficit neurotrasmettitoriale
prevalentemente a carico del sistema colinergico
dovuto alla degenerazione del nucleo basale
e di altri nuclei colinergici nel telencefalo basale,
che determina una deafferentazione colinergica della
corteccia cerebrale. Altri disordini neurotrasmettitoriali
appaiono come secondariamente determinati
dai fenomeni neuropatologici
Agli esami “funzionali” (SPECT e PET) si osservano
ipoperfusione parieto-temporale bilaterale nelle forme
tipiche; ipoperfusione focale nelle forme atipiche, per
le quali l’apporto diagnostico di queste indagini è più
rilevante; vi è evidenza di beta-amiloide con specifici
marcatori (PET con PIB compound)
Demenza
fronto-temporale
(DFT)
In generale si rileva un’atrofia asimmetrica (sinistra/
destra, con prevalenza dell’uno o dell’altro lato)
e focale a carico delle parti anteriori dei lobi frontali
e/o temporali (meglio apprezzata in proiezioni
coronali). Gli studi RM piu recenti hanno permesso
di identificare 4 pattern “anatomogenetici”:
variante temporale (MAPT associata), variante
temporo-fronto-parietale (GRN associata, che include
anche quadri di degenerazione corticobasale), varianti
frontali e frontotemporali
I pazienti con coinvolgimento del gene FUS
mostrano atrofia frontale paralimbica associata
ad atrofia del caudato soprattutto a confronto
con varianti di TAU o TDP. Mutazioni a carico di GRN
predispongono a un’atrofia asimmetrica a carico
dei lobi frontale, temporale e parietale inferiore
(caratteristica quest’ultima che differenzia questa
forma da tutte le altre), mentre mutazioni del MAPT
si associano ad atrofie simmetriche temporali anteriori
e orbito-frontali
Depopolazione neuronale piramidale e degenerazione
microvacuolare degli strati II e III della corteccia
frontale e temporale; gliosi corticale. La maggior
parte dei casi di DFT presenta inclusioni cellulari
e può essere classificata in due sottogruppi: a)
inclusioni cellulari TAU-positive (corpi di Pick); b)
inclusioni cellulari di ubiquitina e TDP 43-positive
e TAU-negative. Un piccolo gruppo di pazienti
presenta inclusioni positive al FUS
Sono presenti deficit prevalentemente
serotoninergico e dopaminergico
SPECT/PET: ipoperfusione fronto-temporale nelle
fasi iniziali della malattia con successiva estensione
ad altre aree corticali
da MA (2,0 ± 2,0) con curve di sopravvivenza non significativamente differenti. Un altro studio di confronto DFT-MA ha
portato tuttavia a risultati opposti: la popolazione con DFT presentava un’aspettativa di vita inferiore nonché una perdita di
punteggio al MMSE notevolmente maggiore (quasi doppia
rispetto ai soggetti con MA). Tali studi, oltre a portare a risultati
profondamente contrastanti, prescindono dall’aspetto genetico,
limitandosi all’aspetto clinico-epidemiologico della patologia.
Il profilo neuropsicologico della DFT dipende dalla prevalente localizzazione della degenerazione.
A differenza della MA i deficit mnesici non sono preminenti, le abilità
visuospaziali tendono a rimanere conservate per lungo tempo (anzi, talora
vi è un singolare sviluppo di capacità pittoriche). Sono invece presenti
deficit delle funzioni esecutive (degenerazione delle aree dorsolaterali) e
C0080.indd 351
disturbi del comportamento. Tra i disturbi comportamentali più significativi, vi è la presenza di apatia cognitiva (secondaria alla degenerazione
delle aree prefrontali dorsolaterali), e di apatia emozionale (secondaria
alla degenerazione delle aree orbito-frontali) (cfr. Capitolo 10), più costante e pervasiva che nella MA, che si esprime talora con un’indifferenza
totale per se stessi e per il prossimo, compresi i familiari più stretti. Inoltre, vi sono perdita di consapevolezza personale e sociale, irritabilità, disinibizione, comportamenti perseverativi con aspetti di iperoralità (iperfagia, specie per i dolci) e comportamenti motori aberranti, talora bizzarri.
Tali aspetti neuropsichiatrici riflettono prevalentemente la disfunzione
delle aree orbito-frontali. Sono comprese nel quadro anche idee polarizzate talora con istanze suicidiarie, incontinenza emotiva, euforia. Importante dal punto di vista dell’inquadramento è il rilevamento di un “cambiamento” di personalità e stile di vita spesso radicale rispetto al passato,
con possibilità di “incidenti” anche civilmente o penalmente rilevanti per
difficoltà di controllo dell’impulso.
351
8/31/11 5:06:43 PM
16
PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
I pazienti con MA riescono, talora fino a stadi intermedi, a
mascherare le difficoltà cognitive (di cui spesso sono parzialmente consapevoli) con comportamenti socialmente corretti
(mantenimento della “facciata”, talora le regole dell’educazione sono perfino accentuate), tanto che anche in sede di visita tendono a “voler apparire a tutti i costi a posto”, mentre i
pazienti con DFT, pur essendo per lungo tempo in grado di
registrare e ritenere nuove informazioni, paiono non avere alcun interesse per ciò che accade intorno a loro, né tantomeno
si curano delle apparenze e delle regole sociali. Tale aspetto di
“scorrettezza sociale”, che a volte è causa di istituzionalizzazione anche in casi non gravemente deteriorati e con autonomia funzionale conservata, è caratteristico delle varianti frontali della DFT, più frequentemente nelle forme con asimmetria
della degenerazione frontale per destra > sinistra (variante
frontale destra della DFT).
La prevalenza della degenerazione in sede fronto-temporale sinistra (variante temporale sinistra della DFT) dà luogo
più frequentemente a pattern cognitivi di alterazione linguistica anche come disordine isolato (APP), mentre i pazienti
con MA e con disordine linguistico di solito hanno anche una
compromissione precoce della memoria. Vi sono poi pazienti
con il quadro peculiare di demenza semantica (afasia fluente)
i quali hanno una perdita di conoscenza anche severa delle
espressioni verbali e delle conoscenze semantiche. (Per un approfondimento dei quadri di APP vedi Mesulam, 2001).
Nelle forme con pattern “linguistico” (da alterazione selettiva delle aree
silviane a sinistra) è presente un’afasia non fluente (APP non fluente) con
alterazione espressiva preminente, anche di lettura e scrittura, ma con
conservata comprensione verbale, con progressione fino al mutismo.
Quando la degenerazione è localizzata nelle parti anteroventrali del lobo
temporale sinistro, vi è una selettiva e severa compromissione della denominazione e della comprensione del significato delle parole (APP fluente
o “demenza semantica”); nell’omologa variante destra (ipotrofia selettiva
temporale destra) sono presenti difficoltà di riconoscimento di persone
note (prosopagnosia) e disturbi neuropsichiatrici.
Alcuni pazienti con la variante temporale destra della DFT
presentano, invece, manifestazioni con carattere di “novità”
rispetto alla loro personalità, caratterizzate da bizzarrie nell’abbigliamento, idee fisse e monotematiche, fanatismi ideologici, cambiamento di convinzioni politiche e religiose, talora veri e propri deliri (Miller et al, 1993) e, sul piano cognitivo,
deficit nel riconoscimento di persone note (Tyrrel et al, 1990).
È importante sottolineare la distinzione tra le malattie degenerative del lobo frontale, comprese appunto nel gruppo delle
DFT, che come si è visto sono entità ben precise, e invece le
manifestazioni di “tipo frontale” comportamentali (disinibizione, “dipendenza ambientale”), cognitive (sindrome disesecutiva) e neurologiche (all’esame clinico: riflessi arcaici e di
liberazione), che si possono riscontrare in varie patologie
fronto-sottocorticali in cui la funzione dei lobi frontali può
comunque risultare alterata. Sintomi e segni frontali sono
ampiamente presenti, per citare alcune delle forme più frequenti, nelle malattie vascolari sottocorticali con ampio coinvolgimento della sostanza bianca, in varie malattie degenerative sottocorticali con disturbi motori, nelle patologie
demielinizzanti infiammatorie (vedi oltre) e anche nelle psicosi primarie (psicosi schizofreniche, cicloidi e depressione
maggiore (vedi oltre). In questi casi il meccanismo invocato
352 per la spiegazione dei sintomi di questo tipo è la deafferenta-
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zione, cioè l’interruzione funzionale di connessioni sottocortico-frontali.
DFT e genetica
Nella DFT una familiarità positiva è presente nel 30-50% dei pazienti
(demenza semantica e APP hanno frequenze molto inferiori). Circa il 10%
dei pazienti presenta un pattern di trasmissione autosomica dominante. I
principali geni sede delle mutazioni riscontrate sono: MAPT, GRN, VCP,
TARDP, FUS; la mutazione sul cromosoma 9 è ancora da identificare.
TAU
Nel 1994 venne pubblicato il primo studio nel quale si dimostrava il linkage di un vasto pedigree caratterizzato da demenza disinibita-parkinsonismo-amiotrofia alla regione 17q21-22. Successivamente è stato dimostrato che altri pedigree, eterogenei per presentazione clinica, sono stati
causati da mutazioni della stessa regione codificante la proteina TAU sul
cromosoma 17. Nel 1996 (Consensus Meeting di Ann Arbor) questo
gruppo di forme familiari venne definito Frontotemporal Dementia with
Parkinsonism linked to chromosome 17 (FTDP-17).
Fino a ora sono state riportate in tutto il mondo più di 30 mutazioni del
gene TAU (http://www.alzforum.org/res/com/mut/tau/table1.asp).
La funzione fisiologica della proteina TAU è quella di promuovere la
polimerizzazione e la stabilizzazione dei microtubuli, fondamentale quindi per il trasporto assonale e la polarità cellulare. Essa è abbondantemente
rappresentata sia nel sistema nervoso centrale sia in quello periferico,
nonché nel cuore, nei muscoli, nel fegato, nella pelle ecc.; la proteina subisce poi una fosforilazione post-transduzionale a opera di chinasi e fosfatasi. Si conoscono fino a ora 22 siti di fosforilazione. L’iperfosforilazione
sembrerebbe essere il tratto patologico distintivo (evento non presente nel
cervello adulto sano) e tale evento porterebbe alla fibrillizzazione della
TAU. Anche se gli effetti delle diverse mutazione del gene sono tutt’altro
che chiari, sembrerebbe che la posizione e il tipo di mutazione cambino
profondamente il destino della proteina: tale eterogeneità genetica (e quindi probabilmente clinica) risulterebbe spiegata almeno in parte da uno
squilibrio tra due diverse forme di TAU, definite 3R e 4R, caratterizzate da
diversa affinità per i microtubuli. Tale situazione avrebbe dunque effetti
drammatici su tutta la dinamica cellulare risultando, infine, in apoptosi.
Presenilina 1
Il gene della presenilina 1 (PSEN1) è localizzato sul cromosoma 14 ed è
principalmente coinvolto nella MA di tipo autosomico dominante. A oggi
sono state individuate più di 150 mutazioni su questo gene che risultano
essere causali dello sviluppo della MA. Recentemente, però, sono state
identificate alcune mutazioni associate a casi di DFT e caratterizzate, a
livello patologico, dalla presenza di inclusioni ubiquitina-positive e TAUnegative (Dermaut et al, 2004; Halliday et al, 2005; Raux et al, 2000).
Inoltre, l’analisi neuropatologica condotta in alcuni di questi pazienti non
ha evidenziato le tipiche placche extracellulari A normalmente associate
alle mutazioni di PSEN1 nella MA. Tali osservazioni suggerirebbero così
che queste mutazioni non sarebbero necessariamente causa di meccanismi amiloidogenici come riscontrato nei pazienti affetti da MA, ma svolgerebbero un ruolo patologico diverso associato alla DFT le cui caratteristiche peculiari restano ancora da identificarsi.
Progranulina
La progranulina A o progranulina (PGRN) è una glicoproteina agente
come fattore di crescita responsabile per la progressione del ciclo cellulare e della motilità cellulare e dunque fondamentale per lo sviluppo, la riparazione di ferite e i processi immunitari, la differenziazione sessuale e
l’oncogenesi. Casi di DFT non attribuibili a meccanismi patogenetici
noti, sono stati recentemente ricondotti a una mutazione del gene della
PGRN, localizzato nel cromosoma 17 (Baker et al, 2006). Nelle famiglie
affette da DFT è stata dimostrata una perdita di funzione della PGRN
(aploinsufficienza) più che un accumulo della stessa (associata invece a
crescite decisamente aggressive di diversi tumori) (Ahmed et al, 2007). I
pazienti presentano inclusioni citoplasmatiche positive per l’ubiquitina
ma negative per TAU e per alfa-sinucleina. Questa alterazione appare in
assoluto la più frequente tra le DFT e dunque ridimensiona la portata
scientifica della scoperta delle mutazioni della TAU.
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NEUROPSICHIATRIA DELLE DEMENZE
Altri geni
Recentemente, nuovi geni sono stati coinvolti nella patogenesi delle DFT:
il più promettente sembra essere TARDP, codificante la proteina nucleare
TDP-43 attiva nella trascrizione e nella divisione del DNA, la cui funzione, tuttavia, non appare ancora completamente chiarita. Alcuni studi
hanno identificato la TDP-43 come il principale costituente delle inclusioni positive per l’ubiquitina ma negative per la TAU, facendo suppore
un processo multifattoriale non legato solo a un singolo gene ma all’interazione di più geni (Neumann et al, 2006). Un altro gene recentemente
coinvolto è FUS (fused in sarcoma) frequentemente riscontrato come aggregato insolubile e dimostrato come mutazione coinvolta in casi di SLA,
patologia frequentemente associata alla DFT.
Per gli aspetti di neuroimmagine e neuropatologia della DFT
consultare la tabella 16.1.
DEMENZA VASCOLARE
Com’è noto, il campo delle demenze vascolari (DVa) è molto
eterogeneo e comprende forme diverse per patogenesi, sintomatologia, prognosi, con caratteristiche clinico-patologiche di tipo
corticale, sottocorticale, miste, a seconda della sede e dell’estensione delle lesioni, includendo anche associazioni con forme
degenerative (demenze miste). Non c’è consenso unanime sui
criteri più utili per la definizione di queste forme in ambito clinico. Il punto saliente, e in parte controverso, è il ruolo causale
delle lesioni cerebrovascolari nel determinismo della sindrome
demenziale, essendo questo tipo di lesioni molto frequente,
specie in età senile, e oggi facilmente evidenziate dagli esami di
neuroimaging (soprattutto dalla RM: vedi i criteri diagnostici
NINDS-AIREN). Le forme vascolari incidono, secondo i dati
epidemiologici disponibili, per il 20-30% di tutte le demenze.
Come criteri diagnostici vengono utilizzati i criteri NINDS-AIREN (Román et al, 1993): presenza di demenza secondo i criteri del DSM-IV;
evidenza di malattia cerebrovascolare clinica (segni focali) e al neuroimaging (lesioni focali e alterazioni della sostanza bianca); correlazione tra la
demenza e la malattia cerebrovascolare, con associazione temporale (insorgenza di demenza entro 3 mesi dall’ictus).
Si considerano tre livelli di probabilità diagnostica come per la MA;
per la diagnosi di demenza vascolare probabile: demenza caratterizzata
da disturbo di memoria più almeno altre due aree cognitive compromesse,
documentati con test neuropsicologici, in assenza di grave afasia o psicosi e con deficit funzionale globale non dovuto solo agli effetti fisici dell’ictus.
Nei Paesi occidentali la demenza vascolare è la seconda causa
più comune di demenza dopo la MA, essendo responsabile
del 17,6% dei casi.
In Europa e Nord America il rapporto d’incidenza tra MA
e DVa è di 2:1, in contrasto con Giappone e Cina dove la DVa
rappresenta circa il 50% dei casi di demenza.
Sono presenti fattori di rischio cardiovascolare (ipertensione arteriosa, diabete, dislipidemia, fumo). Lo studio dei fattori genetici alla base del decadimento cognitivo vascolare è una
nuova linea di ricerca.
Leblanc et al (2006) hanno suddiviso i geni su cui focalizzare l’attenzione
per lo studio della DVa in due classi:
1. geni che predispongono alla malattia cerebrovascolare;
2. geni che influenzano la risposta del tessuto cerebrale alle lesioni
vascolari (per esempio, la capacità di recuperare in seguito a un danno
vascolare cerebrale).
Il primo gruppo comprende i geni coinvolti nella CADASIL e nell’emorragia cerebrale ereditaria con amiloidosi (HCHWA).
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16
La seconda classe potrebbe comprendere geni coinvolti nelle vie di
produzione dell’amiloide o nella sua eliminazione (preseniline, APP e
APOE), che possono conferire suscettibilità allo sviluppo di demenza
dopo una lesione vascolare spiegando così, almeno in parte, l’interazione
e la sinergia possibili tra DVa e MA. Altri gruppi di geni coinvolti nella
risposta dei tessuti all’ischemia cerebrale sono correlati alle proteine
come fattori di crescita, glutammato e recettori dell’acido gamma-aminobutirrico (GABA) ecc. È da segnalare un aumento della frequenza dell’allele APOE4 nella DVa rispetto ai soggetti anziani sani di pari età (rispettivamente 18% vs 7%).
Classificazione eziopatogenetica
Secondo i criteri NINDS-AIREN la DVa può essere suddivisa
in sottogruppi: demenza multinfartuale, demenza da singoli
infarti strategici, demenza da piccoli vasi, altre forme comprendenti quella emorragica e quella da ipoperfusione.
Il riconoscimento di casi clinici con deficit cognitivi causati da fenomeni patologici a carico di piccoli vasi cerebrali, con
lesioni vascolari nei gangli della base, nel mesencefalo e nella
sostanza bianca, ha portato all’identificazione di un sottotipo
di demenza vascolare chiamata demenza vascolare sottocorticale (DVas).
Il termine generale DVa è stato usato come “ombrello” per
descrivere la demenza multinfartuale, la demenza da encefalopatia vascolare sottocorticale (DVas) e le demenze causate
da ipossia ed encefalopatia emorragica. Questa categoria
comprende sia DVa con infarti corticali singoli o multipli, sia
DVa causata da alterazioni sottocorticali e anche una nuova
entità definita compromissione cognitiva lieve su base vascolare (Vascular Cognitive Impairment, VCI). Il termine VCI si
riferisce a casi di MCI, senza demenza, per analogia al concetto di MCI nella MA, considerato lo stadio preclinico diagnosticabile della malattia. Il VCI, a differenza del MCI, è
caratterizzato da deficit esecutivo isolato e perdita di memoria, senza demenza. Il termine VCI è anche utilizzato per indicare l’ampio spettro di deficit cognitivi associati a fattori di
rischio e danni vascolari. Il VCI può presentarsi da solo, in
associazione a MA (demenza mista) o progredire nella DVa
(Hachinski et al, 2006; Iadecola et al, 2010).
Al di là degli aspetti nosografici e classificativi, i quadri più
significativi e omogenei relativamente agli aspetti neurologici
e cognitivi sono le forme corticali e sottocorticali.
Sul piano neurologico vi sono segni focali, con deficit sensitivi, piramidali ed extrapiramidali di vario tipo. Il pattern è più specifico per le forme
ischemiche sottocorticali: marcia a piccoli passi, disartria, segni “pseudobulbari”, disturbi urinari, disturbi cognitivi e comportamentali.
Sul piano neuropsicologico vi sono deficit eterogenei, a seconda della
topografia e dell’estensione delle lesioni vascolari, nelle lesioni corticali
possono essere presenti afasia e deficit visuospaziali e/o prassici. Nelle
lesioni ischemiche sottocorticali (quadri più omogenei e rilevanti per il
pattern cognitivo, che configurano le sindromi cliniche chiamate stato
lacunare caratterizzato da piccoli infarti multipli diffusi ai gangli della
base, capsula interna e talamo bilateralmente), nell’encefalopatia arteriosclerotica sottocorticale o encefalopatia di Binswanger e nella demenza
da infarto strategico singolo o multiplo (per per esempio del talamo) sono
preminenti i deficit esecutivi (prefrontali), delle funzioni visuocostruttive,
della rapidità psicomotoria e dell’attenzione, mentre di solito sono sfumati o assenti i deficit simbolici (Gallassi et al, 1988). Questi aspetti neurologici e cognitivi riflettono prevalentemente le alterazioni della sostanza
bianca sottocorticale.
Ai sintomi neurologici e cognitivi nella DVa si associano qua353
si costantemente disturbi neuropsichiatrici.
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16
PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
Si osservano sia alterazioni della personalità, con comparsa di apatia, abulia, aspontaneità e inerzia, sia dell’affettività. I disturbi dell’umore sono
infatti molto comuni (cfr. Capitolo 14), soprattutto la depressione (presente
nel 60% dei casi, talora anche di tipo maggiore, non correlata con il grado
di compromissione e spesso “mascherata”; Erkinjutti, 1987). Il sintomo
depressione è più persistente nelle DVa rispetto alla MA (Starkstein et al,
2006). La labilità emotiva e la disforia sono anch’esse di frequente osservazione in queste sindromi vascolari sottocorticali. Non sono infrequenti anche disturbi di tipo psicotico, soprattutto deliri (che nell’encefalopatia di
Binswanger sono precoci) a contenuto vario (infedeltà, gelosia, presenza di
intrusi).
Per la diagnosi di DVa sono necessari anche esami cardiovascolari (eco-Doppler dei vasi cerebroafferenti, ECG, ecocardiogramma, Holter-ECG anche per evidenziare eventuali fonti
emboligene ecc.). Oltre agli esami ematochimici di routine, in
casi selezionati è utile il dosaggio degli autoanticorpi e la valutazione degli indici di infiammmazione (per sospette forme
autoimmuni, vasculiti cerebrali primarie o secondarie), biopsie
arteriose, muscolari, cutanee o eventualmente cerebrali.
Per la diagnosi sono fondamentali la TC ma soprattutto la
RM (per evidenziare infarti e alterazioni diffuse della sostanza bianca sottocorticale); talora si rende necessaria l’angioRM (per evidenziare malformazioni vascolari eventualmente
trattabili chirurgicamente) o la PET, per valutare in maniera
approfondita la perfusione del tessuto cerebrale.
All’esame neuropatologico è possibile riscontrare infarti
grandi e piccoli, lacunari, corticali e/o sottocorticali, alterazioni
della sostanza bianca sottocorticale (demielinizzazione, perdita
assonale, fibrosi), verosimilmente di rilevanza cruciale per
l’espressione dementigena; atrofia corticale, specie temporale
mediale e possibile coesistenza di lesioni di tipo Alzheimer.
DEMENZE DEGENERATIVE
EXTRAPIRAMIDALI
DEMENZA A CORPI DI LEWY, MALATTIA
DI PARKINSON CON DEMENZA
E ATROFIE MULTISISTEMICHE
La trattazione unitaria di queste forme è dovuta al fatto che il
quadro neuropsichiatrico è sostanzialmente omogeneo, e ciò
si spiega anche alla luce delle recenti scoperte di biologia
molecolare (queste malattie sono oggi inquadrate come sinucleinopatie). Peraltro queste forme sono talora difficilmente
distinguibili sul piano clinico poiché, in realtà, le differenze
tra le varie serie di sintomi e segni neurologici “classici”
(coinvolgimento di vie extrapiramidali, piramidali, cerebellari, autonomiche) sono soprattutto di tipo quantitativo oppure
riguardano la loro cronologia di comparsa (tempo d’insorgenza dei sintomi nella storia di malattia).
Soprattutto la forma a corpi di Lewy diffusi (DLB) e la malattia di Parkinson con demenza (PDD) (entrambe non rare:
tra un quarto e un un quinto di tutte le demenze la prima, 1%
di prevalenza nell’età senile la seconda) hanno aspetti cliniconeuropatologici in comune e sono da alcuni considerate appartenenti allo spettro di un unico disordine (Emre et al, 2007;
DeVos et al, 1995; Perl et al, 1998). Al di là di aspetti nosografici ancora controversi, nella pratica clinica risulta talora
difficile distinguere i due quadri, specie in fase non iniziale
354 (vedi la recente review di McKeith, 2006).
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La diagnosi di DLB viene posta sulla base di criteri proposti
da un Consortium ad hoc (McKeith et al, 2005).
La diagnosi di DLB probabile richiede la presenza di un deterioramento
cognitivo progressivo di entità tale da interferire con lo svolgimento delle
normali attività sociali e lavorative (caratteristica centrale) associato a
due tra le seguenti manifestazioni cliniche (caratteristiche core): andamento fluttuante dei disturbi cognitivi; allucinazioni visive ricorrenti; segni e sintomi extrapiramidali. Elementi clinici suggestivi e di supporto ai
fini diagnostici sono rappresentati da: disturbi del sonno REM; ipersensibilità ai neurolettici; cadute ripetute; disfunzione autonomica.
La compromissione cognitiva nella DLB è caratterizzata da un prevalente coinvolgimento, soprattutto nelle fasi iniziali, delle funzioni esecutive e visuospaziali; i disturbi mnesici compaiono invece più frequentemente con la progressione della malattia. L’andamento di tali disturbi è
spesso fluttuante, anche nell’arco della stessa giornata; fluttuazioni marcate possono riguardare anche lo stato di vigilanza. I segni extrapiramidali, rappresentati principalmente da rigidità e bradicinesia, sono spesso
bilaterali, scarsamente responsivi alla terapia dopaminergica, e insorgono
generalmente a distanza di mesi o anni rispetto alla compromissione delle
funzioni cognitive. Le allucinazioni visive, tipicamente complesse e dettagliate, compaiono invece precocemente e rappresentano utili elementi
ai fini diagnostici. I pazienti con DLB presentano spesso una spiccata
sensibilità agli effetti antidopaminergici e anticolinergici dei farmaci
neurolettici (D2-bloccanti); la somministrazione di tali farmaci può infatti determinare la comparsa o il peggioramento dei sintomi extrapiramidali nonché dei disturbi cognitivi e provocare gravi effetti indesiderati. Frequenti, infine, sono le manifestazioni disautonomiche (ipotensione ortostatica,
incontinenza urinaria, stipsi, impotenza) e i disturbi del sonno REM, consistenti principalmente in sogni vividi a contenuto terrifico.
La malattia di Parkinson (PD), caratterizzata clinicamente da
preminenti sintomi motori (tremore a riposo, bradicinesia, rigidità), si associa frequentemente a disturbi cognitivi: la prevalenza di una franca demenza (PDD) è del 30%; nel 15% dei casi
una compromissione delle funzioni cognitive è presente sin
dall’esordio della malattia. Una maggior incidenza di demenza
è stata descritta in forme familiari di PD associate a mutazioni
dei geni PARK1 e PARK8. I principali fattori di rischio per la
comparsa di PDD sono rappresentati da: età avanzata, severità
dei disturbi extrapiramidali, presenza di instabilità posturale e
di una riduzione delle performance cognitive sin dall’esordio
clinico. La compromissione cognitiva, a esordio insidioso e
andamento lentamente progressivo, insorge generalmente dopo
anni rispetto ai sintomi motori e ciò viene considerato un importante elemento differenziale rispetto alla DLB.
Il quadro clinico della PDD è caratterizzato, soprattutto nelle fasi iniziali,
da un preminente deficit delle funzioni esecutive con difficoltà attentive,
spesso fluttuanti nell’arco della giornata, nella programmazione, nella
soluzione di problemi, nella formulazione di concetti; possono anche
comparire disturbi mnesici, generalmente della memoria a breve termine
e delle capacità visuospaziali. Le funzioni fasiche e prassiche sono invece
generalmente risparmiate. Molto rilevanti, sia in termini di incidenza sia
di impatto per pazienti e caregiver, sono i disturbi affettivo-comportamentali quali apatia, depressione, allucinazioni (meno frequenti rispetto alla
DLB), agitazione, aggressività, disturbi del sonno.
Sintomi neuropsichiatrici sono presenti nella DLB e nella PDD
ma sono simili in entrambe le patologie.
In entrambe le malattie (anche nella PD senza demenza) sono presenti
disturbi psicotici (allucinazioni e deliri) e depressione preminenti. I pochi
studi disponibili in letteratura sui disturbi psicotici in queste patologie
(Aarlsand et al, 2001; Klatka et al, 1996) hanno evidenziato che tali
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NEUROPSICHIATRIA DELLE DEMENZE
manifestazioni cliniche sono dello stesso tipo nella DLB e nella PDD,
anche se quantitativamente maggiori nella prima (Emre et al, 2007). Le
allucinazioni sono in grande prevalenza di tipo visivo e riguardano esseri
viventi: in ordine di frequenza, persone adulte, animali, bambini; meno
frequentemente oggetti inanimati, fuoco; sono ricorrenti, durature, variamente criticate dai soggetti. I deliri riguardano più frequentemente ideazioni paranoidi e il fenomeno dell’intruso (per esempio, “c’è qualcuno in
casa”). La depressione maggiore non è preminente in entrambi i quadri
(meno di un quinto dei casi), mentre sintomi depressivi (depressione minore o distimia) sono molto frequenti soprattutto nella PDD. Nei pazienti
parkinsoniani è stato riportato anche un aumento della vigilanza e/o dell’impossibilità di rilassarsi (Stacy e Jankovic, 1992), in parte da collegare
all’aumentata attività autonomica, con disturbi gastro-enterici.
A questa serie di disturbi sono probabilmente collegate anche le alterazioni del sonno REM riportate in letteratura in un quarto di pazienti parkinsoniani (REM sleep behavior disorder; Comella et al, 1998), caratterizzate
da vocalizzazioni notturne e combattività, talora antecedenti i disturbi motori (vedi Capitolo 8). Tali alterazioni sarebbero molto più costanti nei pazienti affetti da DLB (Boeve et al, 1998) ed esprimerebbero un deficit dei
sistemi colinergici sottocorticali del tronco con riduzione dell’input colinergico alla corteccia, cosa che spiegherebbe anche la fluttuazione dei sintomi cognitivi e le allucinazioni visive floride. Sul versante opposto, estremamente frequente è l’eccessiva sonnolenza diurna, presente nel 57% dei
pazienti affetti da PDD e nel 50% dei soggetti con DLB (Gjerstad et al,
2002) tanto da essere stata recentemente considerata come un fattore di rischio per l’insorgenza di demenza nei soggetti parkinsoniani (Gjerstad
et al, 2002), una caratteristica di supporto nei criteri diagnostici per la PDD,
e un possibile elemento distintivo tra PDD e MA (Emre et al, 2007).
Anche nelle forme degenerative comprese sotto il termine più
generale di atrofia multisistemica (MSA) sono descritti disturbi neuropsichiatrici caratterizzati da apatia, labilità emotiva e psicosi similschizofrenica (Cohen e Freedman, 1995).
Con il termine MSA si identificano una serie di patologie
neurodegenerative accomunate clinicamente dalla presenza di
una combinazione variabile di sintomi e segni extrapiramidali, cerebellari, disautonomici e piramidali, e sotto il profilo
neuropatologico da una degenerazione dei sistemi striato-nigrico e olivo-ponto-cerebellare associata alla formazione di
numerose inclusioni citoplasmatiche gliali costituite da alfasinucleina. È pertanto considerata, così come la PDD e la
DLB, una sinucleinopatia. Una Consensus ad hoc (Gilman
et al, 2008) ha proposto i seguenti criteri diagnostici.
Si ipotizza una MSA probabile in presenza di una sindrome clinica a
esordio in età adulta e andamento progressivo, caratterizzata necessariamente da manifestazioni disautonomiche (incontinenza urinaria, disfunzione erettile, ipotensione ortostatica) associate a un parkinsonismo prevalentemente acinetico-rigido scarsamente responsivo al trattamento con
L-dopa o a una sindrome cerebellare con atassia assiale e segmentale,
disartria, nistagmo. Si parla invece di MSA possibile quando il parkinsonismo o l’atassia cerebellare si accompagnano a sfumate manifestazioni
di disfunzione autonomica (per esempio, urgenza minzionale, lieve ipotensione ortostatica). Sono inoltre frequenti segni piramidali (Babinsky,
iperreflessia), disartria, disfonia e disfagia, movimenti involontari. La
MSA è infine classificata in rapporto alla prevalenza dei sintomi extrapiramidali o cerebellari rispettivamente in MSA-P e MSA-C.
Nonostante siano riportati deficit di entità variabile delle funzioni esecutive, la presenza di una franca demenza è estremamente rara, tanto da essere
considerata come un elemento che rende inverosimile la diagnosi di MSA.
Più frequenti, seppure scarsamente caratteristici, sono invece i disturbi comportamentali e del tono dell’umore come apatia, labilità emotiva, psicosi.
La compromissione cognitiva è qualitativamente assimilabile
in tutte queste patologie: deficit di funzioni esecutive e visuo-
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16
spaziali ma, mentre nella DLB l’evoluzione dementigena è costante, nella PD (e in minore misura nelle MSA) è presente solo
in una parte dei casi. Inoltre, nella prima forma possono in realtà esserci aspetti che richiamano anche la MA (era stata in passato chiamata Lewy body variant della MA; Hansen et al, 1990),
con sintomi di tipo “corticale” oltre a quelli sottocorticali già
detti. In questa prospettiva, il discorso clinico-patogenetico
tende a complicarsi perché le sovrapposizioni clinico-neuropatologiche tra queste forme hanno portato alcuni autori (Kaufer,
2002; Perl et al, 1998) a ipotizzare un unico, ampio spettro degenerativo con la MA e la PD ai due estremi e la DLB in mezzo
a condividere le caratteristiche di entrambi i quadri.
Per gli aspetti di neuroimmagine e neuropatologia della
DLB, della PDD e della MSA consultare la tabella 16.2.
PARALISI SOPRANUCLEARE PROGRESSIVA
E DEGENERAZIONE CORTICO-BASALE
Queste due malattie degenerative con parkinsonismo, la paralisi sopranucleare progressiva (PSP) e la degenerazione cortico-basale (CBD), il cui legame è da alcuni anni noto (Litvan,
2002), sono sostenute, sul piano biologico, da alterazione della proteina TAU, così come riscontrato nelle DFT familiari
(Houlden et al, 2001). Pur avendo differenze che li rendono
distinguibili tra loro sul piano clinico, i disturbi neuropsichiatrici presenti nella quasi totalità di queste forme (anche in
quei casi che non sviluppano demenza) sono omogenei ed
essenzialmente riconducibili all’apatia e alla disinibizione,
considerati i disturbi affettivo-comportamentali più caratteristici delle taupatie. Tali manifestazioni sono secondarie a disfunzione dei circuiti orbito-frontali (disinibizione) e frontomediali (apatia) e sul piano neuropatologico, insieme al quadro
motorio, richiamano a un coinvolgimento dei nuclei della
base più massivo rispetto ad altre sindromi parkinsoniane.
Nella CBD, oltre a queste strutture, sono coinvolte anche aree
corticali (parietali e frontali).
La PSP è una taupatia caratterizzata sotto il profilo clinico da paralisi sopranucleare dello sguardo, interessante prevalentemente i movimenti di
verticalità verso il basso, segni extrapiramidali spesso simmetrici e assiali
scarsamente responsivi al trattamento con L-dopa, instabilità posturale con
cadute precoci, segni e sintomi bulbari (disfagia, disartria, disfonia), ad
andamento rapidamente progressivo. Accanto a questa forma “classica”,
nota come sindrome di Steel-Richardson-Olszewski, sono state recentemente identificate e definite alcune varianti cliniche “atipiche” accomunate dalla patologia neurofibrillare e dalla storia naturale che evolve nelle fasi
terminali in quadri comuni e porta generalmente al decesso dei soggetti
affetti in 6-12 anni. La PSP-Parkinsonism (PSP-P) si manifesta, soprattutto nelle fasi iniziali, con tremore a riposo, buona risposta alla terapia dopaminergica, in assenza di una marcata compromissione della motilità oculare rendendo difficoltosa la diagnosi differenziale con la PD; la PSP-pure
akinesia with gait freezing (PAGF) si presenta con precoci disturbi della
marcia con esitazione iniziale e freezing, micrografia, ipofonia, in assenza
di tremore, rigidità, paralisi di sguardo (Williams e Lees, 2009).
La PSP si accompagna costantemente a un decadimento cognitivo con
caratteristiche “sottocorticali” (rallentamento ideativo, deficit delle funzioni esecutive, dismnesie), raramente presente sin dall’esordio clinico, e
a disturbi affettivo-comportamentali quali irritabilità, apatia, deflessione
del tono dell’umore. Nella PSP la RM può mettere in evidenza una marcata atrofia del tegmento mesencefalico rostrale e caudale (segno del colibrì), del corpo calloso e del giro del cingolo anteriore.
La CBD si caratterizza clinicamente per la combinazione di sintomi e
segni motori e disturbi cognitivi indicativi di un diffuso coinvolgimento di
aree corticali e sottocorticali. Da un punto di vista neuropatologico, rientra
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16
PARTE II
Tab. 16.2
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
Correlati morfofunzionali e neuropatologici della DLB, della PPD, della MSA
Neuroimmagini
Neuropatologia
Demenza a corpi di Lewy
diffusi (DLB)
Le metodiche di neuroimaging strutturale
mostrano un relativo risparmio delle strutture
temporo-mesiali. Gli esami morfofunzionali
mostrano ipoperfusione/metabolismo occipitale
in studi SPECT con 99mTc-HMPAO e PET
con 18F-FDG; ipocaptazione a livello striatale
nella SPECT con DAT-SCAN; ridotto uptake di
123I-metaiodobenzilguanidine (MIBG), analogo
della noradrenalina, nella scintigrafia miocardica
(a differenza della MSA in cui l’innervazione
simpatica è conservata)
La DLB viene considerata come una
sinucleinopatia in quanto caratterizzata
dalla formazione di inclusioni citoplasmatiche
eosinofile costituite prevalentemente
da alfa-sinucleina, che si localizzano,
nelle prime fasi del processo patologico,
a livello dei nuclei neuronali monoaminergici
(locus coeruleus, nucleo basale di Meynert)
e che successivamente interessano
diffusamente le regioni neocorticali.
In un’elevata percentuale di casi, tuttavia,
è stata dimostrata la contemporanea presenza
di alterazioni neuropatologiche analoghe
a quelle che contraddistinguono la MA, costituite
principalmente da placche amiloidi e in minor
misura da grovigli neurofibrillari. Nella DLB
è stato infine evidenziato un marcato deficit
colinergico e dopaminergico
Malattia di Parkinson
con demenza (PPD)
Le metodiche di neuroimaging, sia strutturale sia
funzionale, non permettono di evidenziare reperti
patologici specifici e sono dotate di scarsa
sensibilità nel discriminare la PDD dalla DLB
e dall’AD (Emre et al, 2007)
Sotto il profilo neuropatologico la PDD
è caratterizzata dalla presenza di corpi di Lewy,
costituiti prevalentemente da alfa-sinucleina,
localizzati diffusamente a livello corticale,
e da numerosi nuclei troncali
Atrofia multisistemica (MSA)
Le metodiche di neuroimaging consentono
spesso il riscontro di reperti patologici utili
ai fini diagnostici: la RM mostra una significativa
atrofia a carico di putamen, peduncolo
cerebellare medio, ponte e cervelletto
associata, nelle metodiche SPECT e PET,
a una condizione di ipoperfusione/metabolismo.
La scintigrafia cardiaca con MIBG consente
invece di discriminare con buona sensibilità
la MSA, caratterizzata da relativa integrità
dell’innervazione simpatica, dalla PD e dalla
DLB dove si osserva invece una disfunzione
noradrenergica post-gangliare
Sotto il profilo neuropatologico la MSA
è caratterizzata da una degenerazione dei
sistemi striato-nigrico e olivo-ponto-cerebellare
associata alla formazione di numerose inclusioni
citoplasmatiche gliali costituite da alfa-sinucleina
356
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nella categoria delle taupatie ed è caratterizzata da estesa rarefazione
neuronale a carico di strutture corticali e sottocorticali (talamo, striato,
amigdala, nuclei troncali), comparsa di neuroni rigonfi e vacuolati, inclusioni intracitoplasmatiche costituite da proteina TAU.
Nella maggior parte dei pazienti è presente un parkinsonismo acinetico-rigido, inizialmente asimmetrico e successivamente bilaterale, talvolta
associato a movimenti involontari quali tremore posturale/cinetico, mioclonie, distonie. L’aprassia ideomotoria rappresenta un elemento clinico
distintivo e si manifesta con una grave difficoltà nella programmazione
dei movimenti volontari; meno frequenti sono l’aprassia bucco-facciale e
dello sguardo. Possono essere presenti disturbi sensitivi corticali (arto
alieno, fenomeno dell’estinzione, alterazioni della discriminazione tattile), turbe fasiche e gnosiche, alterazioni della motilità oculare (PSP-CBD)
(Williams e Lees, 2009). Sul piano cognitivo, in aggiunta alle manifestazioni aprassiche, molto frequente è la compromissione delle funzioni
esecutive con marcate difficoltà attentive, a fronte di un iniziale risparmio
mnesico; il progredire della patologia conduce tuttavia a una franca demenza (Kompoliti et al, 1998).
I pazienti con CBD, infine, presentano spesso rilevanti disturbi neuropsichiatrici quali depressione, apatia, irritabilità, disinibizione.
La neuroimmagini morfologiche evidenziano, nelle fasi iniziali,
un’atrofia focale corticale asimmetrica a carico delle regioni frontali posteriori e parietali e, meno frequentemente, del corpo calloso. La PET
mostra una significativa riduzione del metabolismo nella corteccia sensitivo-motoria e nello striato, mentre la SPECT con iodobenzamide può
svelare una severa deplezione di recettori D2 post-sinaptici a testimonianza di una marcata degenerazione striatale.
Nella PSP e nella CBD, oltre ai sintomi emotivo-comportamentali analizzati, sono stati descritti anche aspetti ossessivocompulsivi e raramente psicosi schizofreniformi.
Per quanto riguarda il quadro neuropsicologico, si ricorda
che la PSP è stata la prima forma per cui si è coniato il termine di demenza sottocorticale (Albert et al, 1974), poi usato
per varie altre forme a diversa eziologia.
A questo modello di disfunzione sottocorticale diffusa, che ha avuto molto successo in letteratura, ci si è riferiti per interpretare i quadri cognitivi
di varie patologie sottocorticali a differente eziologia: gli aspetti salienti
sono l’alterazione dell’information processing, in contrasto con i deficit
più contenuto-specifici nel linguaggio o nei processi percettivi che caratterizzano le demenze corticali prototipiche come la MA. Anche i disturbi
dell’area mnestica sono differenziabili (con apposite procedure testistiche, per esempio l’analisi del riconoscimento): le demenze sottocorticali
sono caratterizzate non da deficit di apprendimento (learning) come nelle
forme corticali, ma da incapacità di far riemergere la traccia mnestica
precedentemente appresa (retrieval) (Della Sala, 1990).
COREA DI HUNTINGTON
La corea di Huntington (Huntington’s Disease, HD) è una malattia neurodegenerativa rara del sistema nervoso centrale caratterizzata da movimenti coreici involontari, disturbi comportamen-
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NEUROPSICHIATRIA DELLE DEMENZE
tali e psichiatrici e demenza. La prevalenza nella popolazione
caucasica è stimata in 1/10.000-1/20.000.
La HD è una malattia autosomica dominante ereditaria causata da una
ripetizione di CAG allungata (36 ripetizioni o più) sul braccio corto del
cromosoma 4p16.3 nel gene HTT. Più lunga è la ripetizione di CAG, piu
giovane sarà l’età d’esordio della malattia. Nei casi di HD giovanile (Juvenile Huntington Disease, JHD) il numero delle triplette ripetute è superiore a 55 ripetizioni. La diagnosi si basa sui sintomi e sui segni clinici in
un individuo con un genitore con comprovata HD, ed è confermato dalla
determinazione del DNA da campione sierico.
16
(parietali), compromissione della soglia di attenzione, perdita della memoria a breve termine. Le funzioni linguistiche sono relativamente preservate, ma si nota un livello ridotto di complessità sintattica, parafasie e
afasia nominum sono comuni nelle fasi avanzate.
Per gli aspetti di neuroimmagine e neuropatologia della HD
consultare la tabella 16.3.
DEMENZE SECONDARIE
DEMENZE POTENZIALMENTE REVERSIBILI
L’età media di esordio dei sintomi è di 30-50 anni. In alcuni casi
la sintomatologia esordisce prima dell’età di 20 anni con disturbi
del comportamento e difficoltà di apprendimento a scuola (JHD).
Il segno classico è la corea che si estende progressivamente a
tutti i muscoli, accompagnata da disturbi cognitivi progressivi
con deterioramento costante e disturbi psichiatrici rilevanti, anche precoci (talora costituiscono gli unici sintomi di esordio)
(Cummings, 1995). Al momento non esiste una terapia e la progressione della malattia porta inevitabilmente alla totale perdita
dell’indipendenza nella vita quotidiana, che si traduce in pazienti che necessitano di cure a tempo pieno. La causa più comune di
morte nei pazienti con HD è la polmonite, seguita dal suicidio.
Il quadro clinico è dominato dalla corea che è il sintomo classico (parola
di etimologia greca che significa danza), diffusa e progressiva, associata
ad atetosi, distonia, mioclono e segni parkinsoniani tipici (tardivi): bradicinesia, rigidità ecc. Nelle prime fasi della malattia i sintomi più frequenti
sono: goffaggine, agitazione, apatia, irritabilità, accessi d’ira, oscillazioni
dell’umore, ansia, disinibizione, deliri, allucinazioni, compromissione dei
movimenti rapidi oculari (saccadici), depressione e tendenza al ritiro sociale. Con la progressione della patologia i disturbi motori divengono più
evidenti con distonia, compromissione severa dell’equilibrio statico e dinamico, disturbi dell’andatura con frequenti cadute, corea delle mani e dei
muscoli facciali, bradicinesia, rigidità, difficoltà ad apprendere nuove
abilità motorie, problemi di coordinazione agli arti superiori e inferiori.
Altri possibili riscontri clinici sono disartria (linguaggio indistinto, linguaggio interrotto e incerto) e disfagia con un’importante compromissione
della capacità di alimentarsi (spesso i pazienti con HD hanno un indice di
massa corporea ridotto). Tra gli altri disturbi neuropsichiatrici, gli individui con HD sviluppano significativi cambiamenti di personalità, psicosi
affettive, o psicosi schizofrenica (vedi capitoli 12, 13, 14, 15).
Sul piano neuropsicologico sono presenti deficit di memoria (specie
procedurale con modalità motoria), deficit nella fluenza verbale, fallimenti in compiti esecutivi (prefrontali), calcolo e compiti visuospaziali
Tab. 16.3
Si definiscono così quelle forme di demenza, spesso reversibile, sostenute da fattori endocrini, dismetabolici e da insufficienza cronica d’organo; sono compresi nel gruppo anche alcuni quadri carenziali, da farmaci e da fattori tossici. A questo
gruppo appartiene anche la demenza alcool-correlata che viene trattata a parte (vedi oltre).
Ci sono varie encefalopatie secondarie il cui protrarsi nel
tempo del fattore patogeno può configurare un quadro di demenza, spesso con disturbi neuropsichiatrici, potenzialmente reversibile, parzialmente o anche totalmente, se si adottano tempestivamente i trattamenti specifici (Adams e Victor, 1993).
Tra queste forme di encefalopatia si deve citare, con un’incidenza epidemiologica non trascurabile nell’anziano, quella
da ipotiroidismo (3% di prevalenza secondo Bahemuka e Hodkinson, 1975). A tale riguardo è importante, dinanzi a una sospetta sindrome “psicorganica”, inserire sempre un dosaggio
degli ormoni tiroidei tra gli esami bioumorali di screening.
L’insufficienza tiroidea cronica è caratterizzata da preminenti
disturbi dell’attenzione e della vigilanza (ipersonnia), con rallentamento psicomotorio, irritabilità, apatia e possibile esito
nel coma mixedematoso (caratterizzato da ipotermia marcata)
se non si interviene con la terapia sostitutiva adeguata; tale
quadro può talora fare seguito alla cosiddetta tiroidite autoimmune di Hashimoto (nei casi sospetti è utile il dosaggio degli
anticorpi antitireoperossidasi e antitireoglobulina) ed essere
parte di un’encefalopatia caratterizzata anche da crisi convulsive, episodi similictali e spasticità bilaterale. L’ipertiroidismo
invece può, raramente, dare luogo a una vera e propria psicosi
(secondaria), con allucinazioni (visive e uditive), depressione
ansiosa oppure mania; può esserci anche corea generalizzata;
tale condizione, che non è direttamente correlata alla severità
della tireotossicosi, è per lo più di osservazione psichiatrica:
Correlati morfofunzionali e neuropatologici della corea di Huntington (HD)
Neuroimmagini
Neuropatologia
Studi di imaging comprendenti MRI, TC, SPECT e PET forniscono
un ulteriore supporto per la diagnosi clinica di HD e sono strumenti
preziosi per studiare la progressione della malattia. Si osserva
una significativa atrofia del nucleo caudato, di solito bilaterale
(con aspetto allargato, balloniforme dell’adiacente corno frontale del
ventricolo laterale); ipometabolismo sottocorticale alla SPECT e alla
PET e nelle fasi avanzate anche corticale. Le neuroimmagini hanno
rivelato cambiamenti significativi nello striato prima della comparsa
dei sintomi: esami RM hanno evidenziato una significativa atrofia
striatale molti anni prima della comparsa clinica della malattia.
Numerosi studi negli ultimi anni hanno utilizzato la neuroradiologia
per chiarire la patogenesi e la progressione della HD, con specifico
interesse per eventuali sperimentazioni clinico-terapeutiche
La HD presenta perdita neuronale prevalente nello striato
e nel nucleo caudato; dal punto di vista biochimico vi è deficit
di GABA sottocorticale; è possibile solo un trattamento
parzialmente sintomatico (per il disturbo del movimento).
Altre regioni del cervello che possono essere colpite
comprendono la sostanza nera, l’ippocampo e le varie regioni
della corteccia; si è notato anche un coinvolgimento dei tessuti
periferici. Inclusioni intraneuronali contenenti huntingtina,
la proteina espressa dal gene HTT, sono anche una caratteristica
neuropatologica importante della malattia anche se non è ancora
chiaro il ruolo della proteina mutata e la relazione tra la comparsa
di inclusioni di huntingtina e la degenerazione selettiva
della patologia
357
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16
PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
l’obnubilamento del sensorio con perplessità e confusione è in
questo caso indicativo appunto di “delirium”.
È da ricordare anche l’encefalopatia da ipocalcemia cronica,
che può essere indotta da ipoparatiroidismo, acquisito o idiopatico (Hylstrup et al, 1981). In questa forma, nota anche come
morbo di Fahr (vedi Capitolo 14 e Capitolo 15), è stata documentata una reversibilità duratura della compromissione cognitiva (di tipo sottocorticale) e del quadro neuropsichiatrico,
dopo adeguato trattamento metabolico sostitutivo, anche in età
senile e con sintomatologia insorta anni prima (Lorusso et al,
1994). Nella sindrome di Cushing (ipercortisolismo, che può
anche essere iatrogeno in trattamenti steroidei prolungati), vi
sono disturbi neuropsichiatrici (depressione, episodi psicotici)
e cognitivi (disturbi mnesici e anche deterioramento mentale),
spesso con presenza di dilatazione ventricolare al neuroimaging, in circa la metà dei casi (Momose et al, 1971).
Tra le patologie da insufficienza d’organo sono da ricordare le malattie renali croniche (Marshall, 1979) in cui possono
aversi i quadri dell’encefalopatia uremica (con graduale insorgenza prima di astenia, apatia, irritabilità, quindi confusione,
allucinazioni, deliri, fino allo stupor e anche al coma uremico)
e la cosiddetta demenza dialitica, caratterizzata da disturbi del
comportamento e della personalità, disturbi dell’eloquio (lieve
disfasia, balbuzie, irregolarità nel ritmo d’emissione vocale) e
compromissione cognitiva progressiva. Quest’ultimo quadro,
che si accompagna anche a disturbi del movimento e ad anomalie specifiche all’EEG, è a patogenesi non chiarita, probabilmente multifattoriale, non è esclusivo dei soggetti dializzati
e non è in realtà reversibile.
Un’altra condizione rilevante per la sua sintomatologia peculiare è la cosiddetta demenza epatica, causata dalla cirrosi
e/o dall’alterazione circolatoria porto-cavale, con presenza di
sostanze tossiche in circolo e insufficiente sintesi di elementi
necessari al metabolismo cerebrale. Tale quadro spesso è preceduto da episodi di encefalopatia epatica, caratterizzati, in
sequenza progressiva (stadi) e in tempi variabili, da prevalenti
sintomi neuropsichiatrici: apatia, irrequietezza, depressione
dell’umore o euforia, alterazione del ritmo sonno-veglia, con
rallentamento psicomotorio e ridotta attenzione (e tremore);
in un secondo tempo intervengono cambiamento della personalità, comportamento inadeguato, sonnolenza, deficit della
memoria e dell’orientamento (con accentuazione dei disturbi
motori e dell’equilibrio), e successivamente crisi di panico,
sintomi psicotici, con peggioramento dei disturbi cognitivi (e
anche motori), fino alla letargia e al coma epatico come stadio
finale. L’insufficienza epatica cronica può essere causa di lesioni cerebrali prevalenti in sede sottocorticale nel corpo striato, chiamata degenerazione epatolenticolare acquisita, per
distinguerla da quella congenita (morbo di Wilson; cfr. oltre)
(Victor e Rothstein, 1992). Questo quadro morboso – caratterizzato da disturbi comportamentali, cognitivi e anche motori
del tipo sopradescritto, che talora possono manifestarsi anche
in modo subdolo ed evolvere lentamente, in modo progressivo
o con peggioramenti “a gradini” – è potenzialmente reversibile: vi sono segnalazioni di regressione clinica completa e stabile dopo il trapianto epatico (Stracciari et al, 2001).
Simile a queste forme è, appunto, la forma congenita, malattia detta morbo di Wilson, un disordine genetico (autosomico recessivo) che è responsabile di una diminuita sintesi di
ceruloplasmina, proteina che trasporta il rame, la quale si accumula nei tessuti. I sintomi neuropsichiatrici costituiscono
358 spesso l’esordio (nella seconda o terza decade) della malattia,
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possono essere di ogni tipo ma prevalgono i disturbi dell’affettività e quelli di tipo psicotico (episodi deliranti o quadri
stabili di psicosi); i disturbi cognitivi, talora presenti anch’essi all’esordio, sono più frequentemente tardivi e configurano,
in fase avanzata, una demenza di tipo sottocorticale. In questa
malattia sono sempre presenti anche disturbi del movimento
(distonie e ipercinesie) e segni d’insufficienza epatica (questi
ultimi fin dall’infanzia). Si conferma la diagnosi prevalentemente attraverso il riscontro sierico di diminuzione della ceruloplasmina, aumento del rame e anche aumento della cupruria (nelle urine delle 24 ore). Vi è un trattamento medico
specifico, basato sui chelanti (essenzialmente penicillamina)
e su provvedimenti dietetici, che va protratto a lungo, oltre
all’opzione chirurgica (trapianto epatico) nei casi che si scompensano.
Tra i quadri “carenziali” è da ricordare la forma da deficit di
vitamina B12, che può instaurarsi in condizioni di malassorbimento (per esempio, a seguito di interventi di chirurgia gastro-intestinale), oppure da inadeguata produzione di fattore
intrinseco (per esempio, per gastrite atrofica), e probabilmente esplica effetti clinicamente evidenti solo in concomitanza
con un inadeguato apporto di folati (Moretti et al, 2002). Le
manifestazioni “cerebrali” (che sono parte di un quadro sindromico neuroematologico) consistono in deficit cognitivi
(prevalentemente dell’attenzione e delle funzioni esecutive),
che possono configurare anche una demenza, e in alterazioni
psichiche (irritabilità, sospettosità, apatia, labilità emotiva,
depressione maggiore, che portano spesso nelle fasi iniziali a
un’osservazione psichiatrica), reversibili in toto se si interviene con la corretta supplementazione. Da queste considerazioni deriva la raccomandazione di eseguire dosaggi di vitamina
B12 e acido folico nello screening bioumorale delle demenze
(The Dementia Study Group of the Italian Neurological Society, 2000). Le figure 16.2 e 16.3 documentano il recupero
delle prestazioni cognitive e del flusso cerebrale, in un paziente affetto da demenza da ipovitaminosi B12 dopo la terapia sostitutiva vitaminica.
Tra questi quadri di demenza cosiddetti reversibili occupano
un posto rilevante per la loro incidenza le forme farmacologiche: sono molti, infatti, i farmaci che, assunti cronicamente su
prescrizione medica o per “automedicazione” (pratica sempre
più frequente), sono potenzialmente in grado di causare, con
vari meccanismi, encefalopatie anche assimilabili a demenza e
disturbi neuropsichiatrici (Lowenthal e Nadeau, 1991). In que-
a
b
Fig. 16.2 Demenza da ipovitaminosi B12. La figura
evidenzia le prestazioni di un paziente affetto da demenza
da ipovitaminosi B12 al test dell’orologio, prima (a) e dopo la
terapia (b) con vitamina B12 parenterale. (Blundo et al, 2011.)
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NEUROPSICHIATRIA DELLE DEMENZE
16
a
b
Fig. 16.3 Demenza da ipovitaminosi B12. a. SPECT cerebrale del paziente effettuata prima del trattamento con vitamina B12.
Sono presenti ipoperfusione frontale e retrorolandica, notevole ipoperfusione a livello del lobo frontale destro, minore a livello del
lobo parietale superiore bilateralmente, soprattutto a destra, scarsa rappresentazione del caudato e del putamen a destra. b. SPECT
cerebrale effettuata dopo 6 mesi, che indica un aumento del flusso ematico in particolare a livello della corteccia cerebrale frontale
di destra. (Blundo et al, 2011.)
sti casi la reversibilità (totale o parziale) dipende dalla durata
dell’esposizione e da vari fattori biologici individuali (patologie
concomitanti, altri farmaci assunti ecc.). Innanzi tutto le benzodiazepine, di cui viene fatto spesso un uso improprio a scopo
ipnoinducente, possono provocare soprattutto nell’anziano (in
cui è più frequente e stabile l’accumulo nel sangue) stati confusionali protratti o eccessiva sonnolenza-sedazione, per azione diretta sul sistema nervoso centrale; imputate sono soprattutto le benzodiazepine a lunga emivita (per esempio flurazepam,
flunitrazepam) e quelle che danno più facilmente assuefazione
(diazepam, lorazepam). Anche i neurolettici, specie quelli tipici con più spiccati effetti anticolinergici (ma non sono del tutto
esenti nemmeno quelli atipici di più recente introduzione) possono causare quadri psicorganici (oltre ad acatisia e altri effetti extrapiramidali); così pure gli antidepressivi triciclici classici, per lo stesso meccanismo. Tutti i farmaci antiparkinsoniani
possono dare come effetti collaterali disturbi neuropsichiatrici
(allucinazioni, specie visive, deliri, ipersessualità, ansia, depressione) e cognitivi (disturbi dell’attenzione e delle abilità
psicomotorie): gli anticolinergici (che erano al primo posto,
ora non sono più consigliati per queste forme), la L-dopa (specie nella fase di “saturazione dei recettori” dopo 5-7 anni di
trattamento), e i dopaminoagonisti. Anche farmaci di altro genere (non a connotazione “neuropsichiatrica”) possono avere
effetti collaterali di questo tipo: tra questi, per citare quelli di
uso più comune, vi sono gli antistaminici, alcuni farmaci gastro-enterici (ranitidina, cimetidina e antispastici), alcuni farmaci cardiocircolatori (digitale, diuretici, amiodarone, betabloccanti, clonidina), antidiabetici e antitussigeni (codeina).
È nota la possibile presenza di disturbi cognitivi e talora
anche di vere sindromi demenziali in corso di malattie psichiatriche primarie: depressione maggiore e anche distimia,
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disturbo bipolare, psicosi dissociative. Vi sono problemi di
nosografia e di diagnosi, specie per l’età senile, con molte sovrapposizioni tra depressione e demenza, com’è stato detto
nella parte iniziale di questo capitolo.
Anche nelle psicosi dissociative, peraltro spesso difficili da
valutare con un esame neuropsicologico formale, possono
essere presenti deficit cognitivi (a carico delle funzioni di controllo come pure di quelle esecutive, con funzioni simboliche
conservate, anche se la produzione linguistica può essere ridotta). Possono più facilmente andare incontro a un vero processo demenziale (con riscontro al neuroimaging di dilatazione ventricolare) le forme dissociative con sintomi “negativi”
nel quadro dell’adinamia cronica (Goldberg et al, 1987).
Sono di rilievo in questo campo anche le encefalopatie croniche da sostanze neurotossiche (Solaumburg e Spencer,
1987), oppure gli esiti di intossicazioni acute, che si estrinsecano con prevalente sintomatologia neuropsichiatrica e
cognitiva (si sta sviluppando una branca delle neuroscienze
chiamata appunto neurotossicologia comportamentale con
applicazioni connesse a malattie professionali). Alcuni quadri
cronici sono pressoché standard, sul piano clinico, per danni
da agenti di varia natura (piombo, solventi organici, bisolfuro
di carbonio, pesticidi). In questi casi si ha una prima fase caratterizzata da sintomi lievi e reversibili (che durano per settimane o mesi e spesso sono notati solo dai familiari): cambiamento dell’umore, disordine del sonno, difficoltà di memoria.
Successivamente compare una seconda fase più breve, caratterizzata da disordini di personalità, disturbi dell’umore più
rilevanti, alterazione della vigilanza, dell’attenzione, delle
prestazioni psicomotorie a tempo e delle abilità visuospaziali.
Un simile quadro è di solito a reversibilità incompleta, anche
rimuovendo la causa. La terza e ultima fase di questa pro- 359
8/31/11 5:06:46 PM
16
PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
gressione sintomatologica è caratterizzata da disturbi linguistici (ridotta fluenza verbale e difficoltà di comprensione),
grave deficit mnestico e quadro neuropsicologico e funzionale
compatibile con demenza. Una situazione di questo tipo, che
ancora oggi purtroppo si verifica, è dovuta a intossicazione
acuta o cronica da monossido di carbonio (spesso per piccole
perdite continuate da impianti di cucina o riscaldamento obsoleti), che si accompagna di solito a segni extrapiramidali e
sintomi neuropsichiatrici, tra cui sono preminenti il rallentamento psicomotorio e l’apatia (cfr. Capitolo 10). Sono peculiari i quadri professionali da intossicazione cronica di piombo
organico, tetraetile o tetrametile (in lavoratori addetti alla pulizia di taniche di benzina) caratterizzati da allucinosi e stati
maniaco-depressivi, scarsamente rispondenti ai composti chelanti (antidoti); le inalazioni croniche di polvere di manganese
(in minatori) con disorientamento, allucinosi (“follia da manganese”) e sintomi parkinsoniani (oltre a segni di interessamento di vari distretti neurologici). Non è rara l’intossicazione
cronica da tricloroetilene (solvente organico molto diffuso,
presente in collanti per scarpe, grondaie ecc.), caratterizzata
da disturbi comportamentali, deficit psicomotori (attenzione e
concentrazione) e visuospaziali (Baker, 1983).
Demenza alcool-correlata
La definizione del DSM-IV di demenza persistente alcoolcorrelata (ARD) richiede i criteri per la demenza con evidenza
anamnestica e conferma all’esame fisico o alle indagini strumentali che i deficit siano eziologicamente correlati agli effetti persistenti della sostanza. Non è una demenza rara, specie
nei Paesi nordeuropei e nordamericani.
La ARD è annoverata tra le demenze “reversibili” per la possibilità di remissione, di solito non completa, con l’astinenza.
L’esame clinico evidenzia segni fisici di abuso etilico ed
epatopatia con associata una possibile polineuropatia. In aggiunta alla generica sindrome demenziale alcolica, non molto
caratterizzata, anche sul piano neuropatologico, si associano
sindromi peculiari correlate (da carenze anche nutrizionali legate alla condizione e, talora, anche osservabili isolatamente al
di fuori dell’alcolismo): sindrome di Wernicke-Korsakoff (da
deficit di tiamina, con tipico disturbo dell’oculomozione); malattia di Marchiafava-Bignami (sofferenza del corpo calloso e
del cervelletto); cerebromielopatia con anemia megaloblastica
(deficit di vitamina B12); encefalopatia da pellagra (da deficit
di niacina); degenerazione epato-cerebrale acquisita (da passaggio anomalo dal circolo portale a quello sistemico).
Peculiare nell’alcolismo è la cosiddetta psicosi di Korsakoff, spesso causata da astinenza: il quadro è caratterizzato da
disturbi della memoria (amnesia di fissazione e per gli eventi
recenti, confabulazioni, pseudoreminiscenze di attività motorie), suggestionabilità, manie di grandezza, alterata consapevolezza del sé.
I deficit cognitivi sono molto frequenti (nel 50% dei pazienti ultraquarantacinquenni che abusano di alcool etilico cronicamente), di solito lievi o
moderati con disfunzione esecutiva preminente o compromissione cognitiva diffusa.
Alla TC e alla RM è frequente il riscontro di atrofia cerebrale
diffusa, cortico-sottocorticale, prevalentemente a carico dei
lobi frontali; talora si associano segni di pregressi traumi cra360 nici o sanguinamenti intracranici.
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DEMENZE POTENZIALMENTE TRATTABILI
Sono forme caratterizzate da patologie intracraniche, lesioni
postraumatiche, processi espansivi, infezioni, infiammazioni,
patologie disimmuni (comprese le forme paraneoplastiche) e
tossiche (Wells, 1977). In questo gruppo rientrano l’idrocefalo normoteso, la demenza da prioni e da HIV che vengono
trattate a parte.
Il concetto di demenze “trattabili” è storico e riflette un’impostazione precedente all’introduzione di farmaci che hanno,
in un certo modo, modificato la storia naturale di alcune demenze degenerative, come la MA considerata fino a poco
tempo fa “non trattabile”. Il termine è comunque sufficientemente chiaro per definire, in modo semplificativo, quelle forme in cui la diagnosi tempestiva e il trattamento specifico,
medico o chirurgico, che ne consegue possono portare a un
miglioramento del quadro (di solito, tuttavia, senza una restitutio ad integrum), la cui entità dipende dal tipo e dall’estensione del processo patologico sottostante, oppure dalle sue
caratteristiche biologiche (per esempio, dall’andamento ricorrente) e/o dalla possibilità di effettuare interventi specifici.
I traumi cranio-cerebrali con lesioni parenchimali, come
noto, danno frequentemente come sequele deficit cognitivi
multipli (variabili a seconda della sede e dell’estensione delle
lesioni, durata e profondità del coma e trattamenti rianimatori
praticati, età del soggetto, stato mentale precedente ecc.), talora anche demenza e disturbi neuropsichiatrici (apatia, depressione, mania, disturbo del controllo dell’impulso). In questi
casi la valutazione cognitiva formale (con test neuropsicologici
standardizzati) e quella comportamentale, data anche la rilevanza medico-legale, devono essere effettuate quando il quadro clinico si è stabilizzato (in media a 1 anno di distanza) e
ripetute nel tempo.
Peculiare è il quadro dell’encefalopatia da traumi cranici
chiusi ripetuti (non frequente), chiamata anche demenza pugilistica ma osservabile anche in altri sportivi (Jordan, 1987):
insorge anni dopo la cessazione dell’attività, talora non in
correlazione diretta con il numero e l’entità dei traumi, è caratterizzata da amnesia, disturbi linguistici, rallentamento
ideativo, apatia-abulia (con sintomi parkinsoniani).
Il concetto di demenza da processo espansivo cerebrale è
un po’ obsoleto, viste le possibilità di neuroimaging attuali e
di intervento, ma ancora di possibile osservazione in casi particolari (anche di non operabilità). Si tratta di lesioni solide, a
crescita lenta, che raggiungono dimensioni tali da produrre
demenza per “demolizione” di massa cerebrale (possono intervenire come fattori patogenetici anche l’edema e le alterazioni di flusso). Tra le neoformazioni tumorali possono causare quadri dementigeni i gliomi frontali e quelli talamici, i
meningiomi orbito-frontali e parasagittali (Knoefel e Albert,
1985). Manifestazioni neuropsichiatriche comuni di queste
forme sono la disinibizione (con moria), la labilità emotiva, le
alterazioni della personalità e anche la mania qualora la neoplasia si sviluppi a livello del terzo ventricolo e/o di strutture
adiacenti. Non rara, specie nell’anziano con atrofia cerebrale
ma anche talora in età non senile, l’evenienza dell’ematoma
subdurale cronico spontaneo, di solito legato a condizioni di
alterata coagulazione anche iatrogena, o di natura post-traumatica (a insorgenza anche dopo traumi non rilevanti), in genere per lacerazioni venose, a crescita lenta e sintomatologia
che può comparire con latenza di diversi mesi dall’evento
traumatico.
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NEUROPSICHIATRIA DELLE DEMENZE
Le infezioni croniche possono tutte, teoricamente, dare un
quadro dementigeno; la possibilità e l’entità della remissione
dipendono dalla tempestività degli interventi diagnostico-terapeutici.
Due quadri morbosi tipicamente cronici, ora entrambi piuttosto rari ma ben conosciuti in passato (trattati ampiamente nei
testi classici) e non scomparsi, meritano di essere citati per la
sintomatologia neuropsichiatrica: la meningoencefalite da tubercolosi cronica (con prevalente distribuzione delle lesioni a
livello della base cranica), caratterizzata da modificazioni della
personalità e quadri confuso-amnesici, e quella da neurosifilide (lue in fase terziaria), che può dare una sindrome demenziale caratterizzata, sul piano cognitivo, da amnesia severa e, sul
piano psichico, da idee paranoiche (megalomania), aspetti
psicotici (deliri) e alterazioni dell’umore con ipocondria (quadro chiamato paralisi progressiva nella neurologia classica,
pur in assenza di un vero e proprio deficit motorio).
Anche nelle malattie infiammatorie croniche della sostanza
bianca, di cui il prototipo è la sclerosi multipla, vi sono spesso
sintomi neuropsichiatrici e cognitivi (in quasi la metà dei casi)
(McKahn, 1982). Nella slerosi multipla, senz’altro la più studiata di queste forme, i sintomi cognitivi sono usualmente associati a lesioni periventricolari della sostanza bianca frontale
(evidenziabili alla RM); tra i sintomi neuropsichiatrici, pur
nell’ambito di una notevole variabilità individuale, sono presenti innanzitutto disturbi affettivi. Si osserva principalmente
depressione, presente in più della metà dei casi prevalentemente femminili, che può essere di tutti i tipi, non correlata con la
durata della malattia, di solito accompagnata da labilità emotiva; talora è presente un disturbo bipolare, sebbene il vero stato
euforico sia raro, tranne nei casi avanzati con marcata disfunzione frontale, in cui sono comuni anche disforia e incontinenza emotiva. Sugli aspetti neuropsichiatrici di questa malattia
possono incidere anche i trattamenti farmacologici (soprattutto
il cortisone può dare stati subeuforici, specie per dosi elevate
in acuto, come quelle che si usano nelle riacutizzazioni) come
pure, indubbiamente, lo stato di disagio e frustrazione secondario a sintomi inabilitanti funzioni come la motilità o la sessualità, in soggetti giovani. Per questi casi è sicuramente consigliabile un supporto psicosociale. I disturbi cognitivi, in questa
forma, possono essere fluttuanti a seconda dell’andamento
della malattia (che spesso è recidivante-remittente), sono scarsamente correlati a quelli neuropsichiatrici e anche con i sintomi neurologici classici (da coinvolgimento di più sistemi in
tempi e modi diversi); sono evidenziabili all’esame neuropsicologico formale nella maggior parte dei soggetti, in pochi
casi si ha un’evoluzione dementigena (in questi si riscontra di
solito maggiore atrofia del corpo calloso e maggiore carico
globale di lesioni alla RM rispetto ai non dementi). Il pattern
cognitivo tipico esprime una disfunzione sottocortico-frontale,
con deficit in funzioni di controllo (attenzione e concentrazione) ed esecutive (programmazione, applicazione di strategie,
flessibilità mentale), specie nelle forme cronico-progressive;
nei compiti mnesici si riscontra prevalentemente deficit di retrieval (estrazione della traccia mnesica dal magazzino di memoria), con eventuali differenze per la modalità verbale o visuospaziale nei casi con lesioni lateralizzate; relativamente
conservati gli altri ambiti di memoria.
Un pattern cognitivo di tipo sottocorticale, con maggiore
probabilità di evoluzione dementigena, si riscontra anche in
altre malattie della sostanza bianca, talora scambiate per sclerosi multipla, ma molto più rare, dovute ad accumulo patolo-
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gico, geneticamente determinato, di sostanze metaboliche
(prevalentemente lipidi) come le leucodistrofie metacromatiche, le adrenoleucodistrofie, le sfingolipidosi e le lipofuscinosi (Adams e Victor, 1993). Queste forme possono avere anche
un esordio nell’età adulta, oltre a quello più comune infantilegiovanile, e sono caratterizzate sul piano neuropsichiatrico da
disturbi della personalità e dell’umore (con elevata frequenza
di aspetti maniacali: impulsività, ipersessualità, disinibizione)
e psicosi (oltre a un’ampia gamma di disordini neurologici).
Altre condizioni infiammatorie non rare, con sintomatologia
neuropsichiatrica talora d’esordio, sono le connettiviti (disordini autoimmuni), in particolare il lupus eritematoso sistemico
(Sergent et al, 1975), alla cui base vi è verosimilmente un processo vasculitico. Sono frequenti quadri di rallentamento psicomotorio, con disturbi della personalità, affettività e anche di
tipo psicotico, ad andamento fluttuante e remittente.
Devono essere menzionati altri due quadri che si ritiene
siano dovuti ad alterata immunità: la cosiddetta encefalite limbica e la leucoencefalopatia multifocale progressiva (Critchley,
1988).
L’encefalite limbica è una rara forma paraneoplastica (associata soprattutto a neoplasie polmonari a piccole cellule, ma
descritta anche in corso di altri tumori solidi), caratterizzata
da un disturbo mnestico preminente a rapida progressione
verso una demenza ed exitus (in media dopo 1 anno), con depressione e letargia, nell’ambito di una sintomatologia neurologica polimorfa (con neuroimaging negativo e possibilità di
riscontro biochimico di anticorpi antineuronali).
La leucoencefalopatia multifocale progressiva è una complicanza di malattie del sangue e altre forme infiammatorie e
infettive croniche, compreso l’AIDS (nell’ambito del quale è
un’entità distinta dall’AIDS-dementia complex; Navia et al,
1986): il quadro neurocomportamentale è polimorfo in rapporto alla sede delle vaste lesioni della sostanza bianca sottocorticale (oltre al disturbo dell’attenzione e della vigilanza
sono possibili anche sintomi cognitivi focali quali afasia e
cecità “corticale”) mentre la progressione è rapida, con crisi
epilettiche e deficit neurologici multifocali (con aree multiple
ed estese di demielinizzazione alla RM cerebrale).
Idrocefalo normoteso
L’idrocefalo normoteso consiste in una dilatazione dei ventricoli cerebrali determinata da un aumento liquorale ma caratterizzata da un equilibrio tra la produzione di liquor e il suo
riassorbimento, con diminuzione della pressione endocranica.
Si tratta di un’entità non molto frequente, da alcuni considerata anche di origine vascolare, ma l’eziopatogenesi è ancora
dibattuta: si discute se sia secondario a traumi cranici, meningite o emorragia subaracnoidea, oppure idiopatico. Sono spesso
presenti ipertensione arteriosa, disturbo del cammino lentamente progressivo con perdita dell’equilibrio, incontinenza urinaria
e sincopi; disturbi cognitivi e neuropsichiatrici. Nell’ idrocefalo
normoteso che incide verosimilmente per il 3-4% di tutte le
demenze, il quadro cognitivo e neuropsichiatrico è assimilabile
a quanto sopra descritto per le forme vascolari sottocorticali,
con un decorso un po’ più rapido. Il quadro non va tuttavia confuso con quello dell’encefalopatia vascolare sottocorticale.
All’esame neurologico sono presenti aprassia della marcia, segni extrapiramidali, specie nella metà inferiore del corpo, talora anomalie dell’oculomozione e del fondo dell’occhio (papilledema); alterazioni sensitive.
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PARTE II
PSICOPATOLOGIA FUNZIONALE E NEUROPSICHIATRIA
Dal punto di vista neuropsicologico vi sono rallentamento ideativo e
alterazione della vigilanza, deficit di attenzione e memoria (sia fissazione
sia richiamo) con aspetti di tipo “sottocorticale”; lo spettro di compromissione cognitiva è ampio, da lieve fino alla demenza conclamata; i disturbi
sono fluttuanti e la progressione è lenta. Si ha una maggiore compromissione della memoria verbale (Gallassi et al, 1991). Sul piano neuropsichiatrico, nell’idrocefalo normoteso non sono riportate alterazioni timiche all’esordio; sono stati descritti quadri con accessi di aggressività ed
euforia o mania (Gustafson e Hagberg, 1978).
La RM dinamica costituisce un valido ausilio diagnostico. È
presente una dilatazione ventricolare diffusa, tipicamente in
assenza di atrofia cerebrale, ovvero con solchi corticali non
dilatati e piccole alterazioni periventricolari (iperlucentezze
alla RM da riassorbimento subependimale del liquor).
L’intervento neurochirurgico di derivazione ventricolo-peritoneale può far regredire in parte la sintomatologia, anche
quella cognitiva e neuropsichiatrica, specialmente se i sintomi
sono di recente insorgenza (idrocefalo normoteso è annoverato tra le demenze potenzialmente reversibili) e in assenza di
lesioni della sostanza bianca e di atrofia corticale. La rachicentesi evacuativa e il monitoraggio della pressione liquorale
hanno un’utilità diagnostico-prognostico-terapeutica.
Demenze da malattie da prioni
Si tratta di forme non comuni di demenza (a quanto oggi noto
vi è una prevalenza di 1/1.000.000 di soggetti), ma invariabilmente letali, che causano degenerazione cerebrale dovuta ad
accumulo di una proteina anomala (la proteina prionica,
PrP). Costituiscono un interessante modello di studio per le
loro peculiarità. Possono avere varia origine: spontanea (forme sporadiche), familiare (forme genetiche) o acquisita (trasmissibilità); hanno un lungo periodo di incubazione (anni).
Le sindromi cliniche sono diverse in base all’eziologia.
Esistono forme sporadiche (conversione spontanea della
PrP da normale a patogena) tra cui vi è la malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD) classica, caratterizzata spesso all’esordio
da disturbi psichici non specifici come depressione maggiore,
disturbo d’ansia con aspetti somatoformi talora inusuali, cambiamenti di personalità, irritabilità, ansietà, apatia, fino ad allucinazioni e deliri che rendono comune la presa in carico del
paziente da parte dello psichiatra, poi compromissione cognitiva a rapida progressione, disturbi motori (mioclono) e
dell’equilibrio (atassia), ed exitus entro 1 anno dall’esordio.
All’esame neurologico è possibile il riscontro di paralisi sopranucleare dello sguardo, rigidità, segni cerebellari (più comuni nella forma variante della CJD), disturbi di memoria,
stati confusionali, disturbi cognitivi ingravescenti, afasia, disturbi piramidali. Si possono individuare inoltre alterazioni
spongiformi, degenerazione diffusa delle cellule nervose,
proliferazione gliale e placche cerebrali di amiloide immunoreattive-PrP (nel 10% dei casi sia in pazienti con la forma
sporadica sia con la forma variante di CJD). Frequenti sono le
anomalie all’EEG con complessi punta-onda lenta periodici
(“periodismo”) e al neuroimaging usualmente è riscontrabile
atrofia corticale con, talora, riscontro alla RM di iperintensità
in T2 a livello dei nuclei grigi centrali.
Oltre alle forme sporadiche si hanno anche le forme atipiche con sintomatologia neurologica polimorfa (agnosia visiva
progressiva, afasia, sindromi cerebellari pure a più lungo decorso). In questi casi è di notevole utilità il dosaggio liquorale
362 della proteina 14-3-3.
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Vi sono inoltre forme familiari (autosomiche dominanti,
dovute a diverse mutazioni del gene che codifica la PrP): vari
fenotipi (con caratteristiche clinico-patologiche peculiari in
parte sovrapposte) comprendenti l’insonnia fatale familiare,
una malattia a trasmissione autosomica dominante a insorgenza in età adulta. È caratterizzata da disturbi del sonno con insonnia progressivamente ingravescente, disautonomia, mioclono, atassia, disatria e demenza. Altri segni e sintomi che si
possono riscontrare sono perdita di peso, diplopia intermittente, episodi di apnea, disfagia, costipazione, ritenzione urinaria,
diaforesi, febbre. Le alterazioni neurovegetative in particolare
del ciclo sonno-veglia sono dovute a una grave degenerazione
talamica, in particolare del nucleo dorsale mediale; anche il
tronco cerebrale può mostrare la perdita di cellule neuronali.
La malattia di Gerstmann-Straussler (GSS) è una rara malattia da prioni ereditaria, caratterizzata da un esordio in età
adulta con disturbi di memoria, decadimento cognitivo, atassia e deposizione di placche amiloid-like nel parenchima encefalico. Evolve con progressiva atassia del tronco e degli arti,
segni piramidali, disartria e demenza; la durata media della
malattia è di 7 anni. La GSS può essere distinta dalla CJD
dalla più giovane età di esordio, dalla maggiore durata della
patologia e dalla prominente atassia cerebellare. La GSS può
essere classificata in tre forme: una forma con atassia, una
forma con demenza e una forma con demenza accompagnata
da numerosi grovigli neurofibrillari (NFTs). Queste distinzioni sottolineano la variabilità fenotipica nella presentazione e
nella progressione della malattia.
Tra le forme acquisite vi è il kuru (ha un valore storico,
essendo ora praticamente scomparso) che veniva contratto
mediante pratiche tribali di cannibalismo con ingestione di
materiale cerebrale; la malattia è caratterizzata da difficoltà a
mantenere l’equilibrio, atassia, abnormi movimenti oculari e
compromissione cognitiva. Inoltre, si possono notare un aumento del numero degli astrociti e degenerazione neuronale
con vacuolizzazioni citoplasmatiche.
Tra le forme acquisite vi è anche la malattia di CreutzfeldtJacob iatrogenica (da contaminazione accidentale di prioni
umani attraverso l’ormone della crescita estratto da cadaveri,
trapianti di cornea, prelievo a fini chirurgici di dura madre da
cadavere, strumenti neurochirurgici) e la forma variante di
Creutzfeldt-Jacob ritenuta la variante umana dell’encefalopatia bovina spongiforme, dovuta ad assunzione alimentare
della proteina bovina patogena, che interessa individui più giovani rispetto alla CJD, esordisce con disturbi psichiatrici, si
esprime anche con disturbi sensitivi rilevanti e ha un decorso
generalmente meno rapido, senza le tipiche anomalie EEG,
con possibilità di diagnosi mediante biopsia tonsillare.
DEMENZA DA HIV
Riguardo alle forme correlate all’infezione da HIV, circa un
terzo dei soggetti con questa infezione sviluppa demenza; è un
fenomeno in calo nei Paesi avanzati, anche per i progressi nelle terapie, ma è in aumento nel Terzo mondo. Si tratta di un
quadro cronico progressivo di solito tardivo nell’AIDS, che
appare in soggetti severamente immunodepressi ed è caratterizzato da un tipico deterioramento mentale con rapido aggravamento (settimane o mesi), raramente anche come sintomo
isolato, con disturbi neuropsichiatrici (ottundimento, stato
confuso-agitato, apatia, depressione ansiosa, mania), potenzialmente reversibile. Frequenti sono anche le infezioni cere-
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NEUROPSICHIATRIA DELLE DEMENZE
brali opportunistiche, con sindromi focali varie a seconda della
sede colpita, e la leucoencefalopatia multifocale progressiva.
Nell’AIDS-dementia complex la sintomatologia neurologica e neuropsicologica è composita.
Si osservano disturbi del movimento (atassia e mioclono), segni piramidali, alterazione e fluttuazione della vigilanza, sintomi cognitivi e comportamentali (irritabilità, depressione). L’esame neuropsicologico evidenzia
deficit dell’attenzione e della memoria a breve termine; compromissione
cognitiva, quando presente, con caratteristiche “sottocorticali”; rari ed
eventualmente tardivi i sintomi “corticali”.
Alla RM si evidenziano atrofia cortico-sottocorticale, alterazioni della sostanza bianca sottocorticale, e/o altre patologie
HIV correlate (lesioni focali da infezioni opportunistiche varie, leucoencefalopatia multifocale progressiva ecc.).
Sono colpite soprattutto le regioni sottocorticali; si hanno
quadri di demielinizzazione e rarefazione della sostanza bianca, con gliosi e astrocitosi reattiva.
DEMENZE “A ESORDIO GIOVANILE”
Infine, si deve ricordare come la demenza possa colpire anche
soggetti relativamente giovani (sotto i 65 anni) nei quali i quadri di deterioramento cognitivo secondario alle patologie degenerative e vascolari sopra esposte possono presentarsi con
manifestazioni diverse dalle forme a esordio in età senile.
Inoltre, in questa fascia di età, vi sono numerose forme di
demenza trattabili e reversibili. In sintesi, la diagnosi delle
forme di demenza “a esordio giovanile” (termine che ha sostituito quello di “demenza presenile”) deve essere accurata e
prendere in considerazione un ampio spettro di patologie non
solo degenerative o vascolari ma a carattere infiammatorio,
metabolico ecc. (vedi Rossor et al, 2010).
SCALE DI VALUTAZIONE DEI DISTURBI
NEUROPSICHIATRICI
In questo campo oltre, ovviamente, all’anamnesi, al colloquio
clinico e ai test neuropsicologici (cfr. Capitolo 5), il cui ruolo
è insostituibile, sono disponibili numerose scale per meglio
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precisare i vari sintomi neuropsichiatrici. Alcune di queste,
nate per esigenze di ricerca, si sono poi dimostrate di utilità
nella pratica clinica quotidiana. Tra queste la più rilevante è la
UCLA NPI (Cummings et al, 1994), strumento ideato proprio
per i pazienti affetti da demenza di diversa origine. Essa valuta 12 tipi di disturbi neuropsichiatrici comunemente descritti nella demenza; di questi è prevista la graduazione per
frequenza e gravità, sulla base di domande poste al caregiver
del paziente e inerenti alle modificazioni comportamentali
insorte dopo l’inizio della malattia in questione (osservate
indicativamente nell’ultimo mese prima della valutazione).
Viene riportato un punteggio per ogni sintomo, risultante dal
prodotto della frequenza per la gravità; anche lo stress emotivo o psicologico del caregiver per ognuno di questi sintomi
viene graduato (in scala da 1 a 5, come gli altri due parametri): si ottengono così punteggi totali sia per i domini neuropsichiatrici sia per lo stress dei caregiver. Tale scala è stata
ampiamente validata, anche in una versione italiana (Binetti
et al, 1998).
Scale specifiche vengono frequentemente impiegate nella
valutazione della depressione, sia come supporto per la diagnosi differenziale con la demenza, sia per la quantificazione
di questo sintomo quando si trova associato a demenza, come
pure per il follow-up. Sono più utili in questo campo scale
specificatamente elaborate per il soggetto anziano, come la
Geriatric Depression Scale, autosomministrata (Yesavage et al,
1983) oppure, per il paziente affetto da demenza, la Cornell
Scale for Depression in Dementia (Alexopulos et al, 1988), che
comprende anche il rilievo di disturbi comportamentali e dell’ideazione.
Per una trattazione estesa e completa delle molte scale disponibili per la valutazione dei sintomi neuropsichiatrici si
rimanda a testi specificamente dedicati all’argomento (tra gli
altri: Bianchetti et al, 2001; Lezak, 1995; Masur, 1999).
In questo campo, comunque, le scale hanno sempre dei limiti non trascurabili sia di tipo generale, valevole per tutti gli
aspetti psichiatrici, sia di tipo particolare, per la difficoltà di
ottenere risposte attendibili a quesiti auto- o eterosomministrati ai pazienti, come pure ai caregiver (le cui risposte sono
spesso influenzate dal coinvolgimento personale e dalla reazione emotiva).
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