LookOut Magazine n. 14 - dicembre 2014

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LookOut Magazine n. 14 - dicembre 2014
2015 I I temi caldi della geopolitica e le prospettive economiche
NUMERO
SPECIALE
I MIGLIORI
ARTICOLI
DEL 2014
Barack Obama
Vladimir Putin
www.lookoutnews.it
Ancora due anni di mandato
per entrambi sono sufficienti
a cambiare gli equilibri geopolitici.
USA e RUSSIA anche nel 2015
restano intrappolati nel ruolo
di superpotenze antitetiche
che giocano a spartirsi il mondo
anno I - n. 14 dicembre 2014 |
ATTENTI
A QUEI DUE
numerO
zerO
NOVEMBRE
2013
la Vignetta
di
L a parti ta d el l’ an no. B uon 2 01 5!
VECCHIE SFIDE, NUOVI ORIZZONTI
DI MARIO MORI
l’editOriale
anno che si conclude è
stato per Lookout News
denso di soddisfazioni e
di impegno. Come ricorderete il 2014 è iniziato con
la nostra “discesa in edicola” a fianco di Panorama. I
sei numeri cartacei della rivista,
che sono usciti tra gennaio e giugno, hanno avuto un grande successo, che è proseguito e si è consolidato con la nostra presenza
fissa sul sito online del grande
magazine Mondadori.
Abbiamo deciso anche di aggiornare e modernizzare il nostro sito
web e la risposta di voi lettori è
stata decisamente incoraggiante:
in un anno gli accessi si sono triplicati. Abbiamo avviato anche un
“video-esperimento”, dotando il
nostro sito di una web TV, fatto
che ha riscontrato molto favore.
Dai grandi temi della geopolitica
alla storia italiana, passando per i
video-editoriali e i focus attualità,
ci siamo dotati di un nuovo canale
di comunicazione che nel 2015
verrà ulteriormente sviluppato.
L’
Saremo presenti riflessioni
storiche e analitiche sugli eventi
più importanti della storia nazionale e della geopolitica e proporremo nuove puntate su
argomenti che riteniamo attireranno l’interesse di quella consistente pattuglia di lettori che
ha mostrato finora di seguirci
con attenzione e spirito critico.
Insomma, chiudiamo un 2014
che è stato ricco di gratificazioni
e ci prepariamo a un 2015 ancora più impegnativo e, speriamo, di successo.
Il mondo, intanto, continua a
girare vorticosamente. Dal Nord
Africa al Medio Oriente, dal Sud
America all’Europa Centrale,
dall’Africa all’Estremo Oriente,
vecchi e nuovi focolai di tensione si sviluppano con dinamiche che noi continueremo a
osservare e ad analizzare con
quegli strumenti di rigore e di
approfondimento che ci hanno
consentito finora di condividere
con voi “il mondo che nessuno
racconta”.
inBOx
il direttore editoriale
risponde
come finirà la guerra del petrolio?
Mancano politici, grandi statisti con le idee chiare che vedono lontano,
moderatori che vogliono il bene comune anche per il loro stesso interesse. Il mondo può precipitare perché è nelle mani dell’alta finanza e gli Usa
e Obama hanno enormi responsabilità. Il pericolo è il BRICS, formato da super potenze militari, tra cui Russia e Cina in primis, che non si faranno mai
pestare i piedi dall’Occidente.
Qual è il vero obiettivo della
politica estera di ankara?
Incredibile parlare di politica
estera fortemente innovativa
per il governo turco. Il suo fallimento
è ormai cosa nota almeno da un paio
d’anni.
paolo turco
Per decenni la politica estera turca è
stata un modello di pragmatismo. I
rapporti con Israele, mai toccati da un
approccio islamista, l’apertura verso l’Europa e tante altre manifestazioni di intelligenza geopolitica sembrano un ricordo del passato da quando Erdogan, nel tentativo di
successo di fare eleggere presidente della Repubblica, ha impresso una deriva islamista
sia alla politica interna che alla politica interna che alla politica estera di Ankara. I risultati finora sono fallimentari: nonostante
i turchi abbiano apertamente appoggiato la
rivolta anti-Assad in Siria e la nascita dello
Stato Islamico, oggi si trovano costretti a fare buon viso a cattivo gioco e ad appoggiare
i curdi nella lotta contro i miliziani jihadisti
pietro albertini
Prima di analizzare quale sarà la strategia dell’Occidente nel prossimo futuro, dobbiamo in modo molto critico ammettere che negli ultimi anni l’Occidente non ha
avuto una strategia. Tutte le crisi internazionali che si sono succedute nell’ultimo
quinquennio sono state affrontate in modo superficiale, all’insegna di slogan politicamente corretti ma sostanzialmente vacui: le primavere arabe non hanno portato alla
democrazia in Medio Oriente e Nord Africa, anche se l’Occidente a rimorchio degli Stati
Uniti le ha sostenute con l’ingenua speranza che la “Democrazia Jeffersoniana” fosse esportabile dalla sera alla mattina in Paesi nei quali le maggioranze politiche non potevano che riflettere le maggioranze religiose. Le sanzioni alla Russia, adottate per difendere i nazionalisti di estrema destra di Kiev, stanno danneggiando le economie europee
in modo insostenibile. Nel caso del petrolio Obama ne sostiene il calo del prezzo perché
anche questo è uno strumento di pressione contro Putin. Ma sembra dimenticare che lo
shale gas, che al momento assicura l’autosufficienza energetica agli Stati Uniti, è competitivo nei confronti del petrolio greggio solo se questo ha una quotazione non inferiore
ai 60 dollari al barile. Se incoraggia l’ulteriore discesa del greggio, Obama si darà l’ennesima zappa sui piedi.
il mistero del volo della malaysia airlines abbattuto
a donestk?
C’è poco da discutere: solo per un “idiota” poteva essere evidente
la responsabilità dell’abbattimento da parte dei filo-russi con un
missile terra-aria.
pierpaolo1947
SCRIVI A:
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Visto il battage pubblicitario che sui media occidentali ha accompagnato la presunta minaccia dell’“orso russo” nei confronti degli “indifesi” ucraini, è evidente
che se in questi mesi fosse stata trovata non dico una prova ma almeno un indizio
sostanziale di responsabilità dei filorussi, ne avremmo viste delle belle. Ricordate nei primi giorni dopo il disastro? Sembrava che la National Security Agency e i satelliti americani ci avrebbero fornito anche la targa del furgone che avrebbe trasportato il missile
omicida. Risposte? Nulla. Il silenzio più totale. L’abbattimento al momento resta un mistero, ma proprio l’assenza di certezze sulla sua paternità autorizza sospetti su Kiev. Così
come lo studio del MIT (Massachusetts Institute of Technology) che abbiamo pubblicato
sul nostro sito ha scientificamente dimostrato che la responsabilità del bombardamento
chimico dell’agosto 2013 in Siria era dei ribelli e che era animato dalla volontà di provocare l’intervento occidentale contro Assad, così l’assenza di qualsiasi “prova” sulla responsabilità dei separatisti o dei loro alleati russi e l’imbarazzato silenzio che copre ormai da mesi quell’evento sconvolgente autorizza il sospetto che dietro l’abbattimento
non ci sia una “manina” separatista.
twitter.com/lookoutnews
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I volti più significativi
del 2014
1. CHRIS CHRISTIE
2. NADEZHDA TOLOKONNIKOVA
3. BILL GATES
4. ED MILIBAND
5. JIMMIE AKESSON
6. PETRO POROSHENKO
7. PAPA FRANCESCO
8. JEHANE NOUJAIM
9. SERGEI LAVROV
10. CHRISTY WALTON
11. AGATHA SANGMA
12. MARINE LE PEN
13. KHALIFA HAFTAR
14. ALEKSANDR ZAKHARCHENKO
15. JANET YELLEN
16. JOHN KERRY
17. WARREN BUFFETT
18. AXEL KICILLOF
19. BERND LUCKE
20. PRAYUTH CHAN-OCHA
21. VLADIMIR PUTIN
22. CRISTINA DI BORBONE
23. VICTORIA NULAND
24. CARLOS SLIM
25. FEDERICA MOGHERINI
26. GEERT WILDERS
27. VIKTOR YANUKOVICH
28. IGOR PLOTNITSKY
29. HELLE THORNING SCHMID
30. WALID AL-MOUALEM
31. JAN KOUM
32. SEBASTIAN KURZ
33. HEINZ-CHRISTIAN STRACHE
34. AHMED MAITEEQ
35. ARSENY YATSENIUK
36. ARIEL SHARON
37. HAITHAM AL-MALEH
38. INGVAR KAMPRAD
39. KIM JONG UN
40. NIGEL FARAGE
41. NICOLAS SARKOZY
42. BARACK OBAMA
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Le sfide del 2015 nel
segno di Vlad e Barack
Ancora due anni di mandato per entrambi sono
sufficienti a cambiare gli equilibri geopolitici.
USA e RUSSIA anche nel 2015 restano intrappolate
nel ruolo di superpotenze antitetiche che giocano
a spartirsi il mondo
di Luciano Tirinnanzi
anno che stiamo per lasciarci
alle spalle è stato caratterizzato a livello geopolitico da
una serie di crisi internazionali ad alto rischio che, solo
sommariamente e dimenticandone inevitabilmente alcune, possiamo individuare soprattutto in due aree geografiche, ovvero le
regioni nordafricana-mediorientale e
quella dell’est europeo.
Nel primo caso, dovremo parlare
della fine della parabola delle Primavere Arabe, segnata principalmente
dal voto democratico in Tunisia (unico evento segnatamente positivo) ma
anche della presa del potere da parte
dei militari in Egitto e della contestuale disintegrazione della società libica,
le cui fughe verso l’ignoto e la guerra
preoccupano non poco.
Alla moderazione delle popolazioni
musulmane che hanno scelto di
emanciparsi dal radicalismo religioso,
si è però sostituito in Medio Oriente
un fenomeno ben più pericoloso, rappresentato dalle milizie dello Stato
Islamico in Siria e Iraq. L’organizzazione jihadista sunnita da giugno a
oggi ha colmato un vuoto politico
(Iraq) e si è inserito in una guerra civile (Siria), non solo imponendosi militarmente in larga parte della Mesopotamia, ma ricreando anche una for-
L’
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ma di Stato che risale alle origini della
società araba musulmana, il Califfato.
Una mossa che rischia di oscurare i
successi delle borghesie arabe che sono riuscite ad emanciparsi dall’involuzione religiosa radicale, perché ISIS
si è rivelato capace di attrarre verso sé
nuove generazioni di musulmani provenienti da tutto il mondo e pronti a
immolarsi per la causa del Califfo.
Causa che però appare vana, visto
che la forza propulsiva dimostrata
dalle truppe dello Stato Islamico si è
arrestata e nel 2015 non potrà che conoscere ulteriori battute d’arresto, fino al radicamento nelle sole aree sunnite dell’Iraq o fino alla sua definitiva
scomparsa. Molto dipenderà dalle sorti, ancora sospese, della guerra civile
in Siria (che ormai ha superato il
quarto anno) dove, oltre alla presenza
delle milizie dello Stato Islamico, s’intrecciano gli interessi di Mosca e Washington, che combattono una partita
di ben più ampio respiro.
Di Israele e Palestina, invece, non
molto conviene dire neanche per il
2015, poiché si rischia di cadere in un
esercizio retorico dove all’analisi politica dell’esistente si sostituiscono solo
speranze e buoni propositi, e mai fatti
decisivi o innovativi per la futura
creazione di due Stati.
L’acuirsi della virulenta crisi in
RUSSIA
IL 2015
DI MOSCA
pOTREbbE
ApRIRSI nEL
SEGnO DELLA
MODERAzIOnE
Ucraina nel 2014 è invece lo specchio
dei pessimi rapporti cui sono giunte le
attuali amministrazioni di Washington
e Mosca, dopo anni di tiepido riavvicinamento. L’involuzione del dialogo tra
Russia e Stati Uniti ha così riavvolto il
nastro delle relazioni tra i due Paesi, riportandolo ai tempi in cui il muro di
Berlino era ancora in piedi. Ci si è messa di mezzo persino Cuba - che col
nuovo anno godrà di relazioni diplomatiche con Washington - nel braccio di
ferro tra Vladimir Putin e Barack Obama, con un punto messo a segno da
quest’ultimo, nonostante il 2014 sia
stato caratterizzato dalle azioni del presidente russo.
Putin può a ragione essere definito
l’uomo dell’anno 2014, perché è stato
capace di tutto: riavvicinare la Siria di
Assad all’Occidente, facendosi consegnare l’arsenale chimico; ammansire
l’Iran per avviare la strada dei colloqui
sul nucleare con le potenze mondiali;
annettere la Crimea, togliendola all’Ucraina e difendendo l’Est ucraino dal
governo legittimo di Kiev.
Ma l’ultimo trimestre ha rivelato anche le molte fragilità del Cremlino: l’economia energetica e di conseguenza quella nazionale al momento non viaggiano
più ai livelli sperati, il Paese si è avvitato
nella ricerca di partner strategici alternativi ai mercati abituali, mentre le sanzioni economiche comminate dall’Occidente in risposta alla difesa dell’Est ucraino
e il crollo del prezzo del petrolio hanno
fatto il resto, scatenando una spirale discendente del rublo e dell’economia nazionale, per risollevare la quale occorreranno almeno un paio d’anni. Da ciò se
ne può dedurre che la scelta di Vladimir
Putin nel 2015 potrebbe essere di moderazione e basso profilo. Mentre Barack
Obama farebbe davvero bene a non provocare il risveglio dell’orso.
PROSPETTIVE PER
IL NUOVO ANNO
I
l 2014, tutto sommato, è stato un
anno di passaggio e la soluzione a
molte delle vicende sin qui enucleate potrà trovare risposta più avanti. Lo Stato Islamico in Siria e Iraq, ad
esempio, potrebbe essere definitivamente sconfitto nel corso del 2015, mentre a giugno potrebbero aprirsi spiragli
concreti per un accordo sul nucleare in
Iran. Più difficile prevedere una pacificazione in Siria che, in ogni caso, resta
all’ordine del giorno una volta risolto il
dilemma del mantenimento al potere
o meno di Bashar Assad, cosa per la
quale servirà l’assenso di Mosca.
Gli Stati Uniti, in piena ripresa economica e con un
presidente libero di agire negli ultimi due anni al potere
(nonostante la minoranza al
Congresso), saranno il vero
ago della bilancia geopolitica,
per quanto questo sia anche
un fatto molto pericoloso. La
Casa Bianca, infatti, al momento lavora dietro le quinte
per trovare una sponda politica interna alla Russia che li
aiuti a defenestrare il presidente Putin. Un ennesimo
tentativo di destabilizzazione volto ad accrescere il potere della NATO in Europa,
che potrebbe minare una soluzione pacifica della guerra
in Ucraina.
Se Putin si rivelerà prudente, il presidente più amato di Russia riuscirà a disinnescare la bomba piazzata
sotto la sua poltrona e potrà
impedire che gli USA proseguano nella strategia di una
riedizione della Guerra Fredda, riconoscendo la necessità di un
maggior dialogo e stemperando
quella voglia di supremazia di cui
gli Stati Uniti sono afflitti da sempre.
Parimenti, nel 2015 la crisi in Europa potrebbe allentarsi e anche la
nostra economia ripartire. I segni indelebili che l’anno 2014 lascia in
eredità all’Italia sono riscontrabili
principalmente nella contrazione
economica che abbiamo scoperto
mordere ancora. Al nuovo presidente
della Repubblica il compito di contribuire a fare del nostro Paese una penisola di stabilità e progresso, senza
cedere alle sirene del disfattismo e
di quel compromesso gattopardesco
che ha annichilito la politica italiana, rendendola nauseante e impotente a incidere positivamente sul
futuro, certo migliore, che questo
Paese merita.
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Il 2013 è stato l’anno di Vladimir Putin
e del ritorno della Russia nello scenario
internazionale. Il presidente, grazie anche
al suo abile ministro degli Esteri,
Sergei Lavrov, ha posto le basi per la nuova
e aggressiva politica estera di Mosca.
In Europa già ci si chiede: che fare?
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Zitti e MOSCA
RUSSIA | di Giorgio R. Fanara*
H
o trovato intellettualmente curiosa e piuttosto stimolante l’ottima recente iniziativa
editoriale (targata Radio 24) di raccontare la storia del tentativo italiano di regime change condotto e ritirato nel 1970 da Valerio Borghese. Ottima, curiosa e stimolante deludenti, scaturiti dai regime change
perché la lettura della Storia e dei suoi arabi tentati quarant’anni dopo.
Per quanto riguarda Mosca, la stagioerrori è sempre utile, anche se a volte
istruttiva e altre deprimente. Riascol- ne era addirittura invernale, imperava
tare alla radio con voce fuori campo un altro ossimoro (correva il tempo dell’intervista di Giampaolo Pansa al la Guerra Fredda) e cortine, muri e patti
principe, pubblicata dal quotidiano non consentivano cambi di stagione.
La Stampa il 9 dicembre 1970, è stato Eppure, come spesso si constata, nella
follia si nasconde un presagio di futuro.
esercizio fecondo di riflessioni.
Fin dal primo mandato di Putin alla
Una in particolare: il principe, con
la stizza e la supponenza di chi, non presidenza della Federazione Russa si
raccogliendo sufficiente consenso sul- assiste a una traiettoria geopolitica che
le proprie idee, risolve e giustifica il gli analisti hanno definito “post-zarista”
o “neo-imperialista”. Il Cremlino ha
proprio insuccesso addebitando
condotto nell’alternarsi delle
agli altri l’incapacità a comstagioni politiche un’uniprendere. Egli sentenzia,
voca grande strategia: il
a proposito della supmantenimento
del
posta resa della allora
Putin: il suo
controllo dell’Hearclasse
dirigente:
tland e l’intransigenza
“...si è già arresa!”, e
nel garantire la sicupiù avanti incalza:
rezza delle proprie
“...allora si arriverà a
è nel segno della
frontiere.
una decisione del popoIl nuovo mandato di
continuità
lo italiano. Fra breve si
Putin, l’attuale, è segnato
porrà di nuovo il dilemdalla continuità strategica
ma: o Roma o Mosca!”.
con il primo, ma affinato atEra quella l’epoca in cui ai
traverso l’elaborazione di una scienfenomeni socio-politici era attribuita
la qualificazione meteorologica del- za di politica internazionale che lo ha
l’autunno e s’impressionava l’opinio- reso molto più lucido, incisivo e conne pubblica con il paradosso dell’ossi- cludente degli intenti perseguiti. Conmoro (l’autunno caldo). L’aspettativa cedendomi un’ardita interpretazione
positiva riposta nell’accezione stagio- comparata, della quale devo chiedere
nale della primavera avrebbe poi sug- venia agli analisti di mestiere, possiagestionato i nostri tempi, ma non era sta- mo definire Putin un “leader neota ancora smentita dai risultati, invero monroviano”.
TERZO
MANDATO
Nella foto: la navicella
Soyuz TMA-11M,
decorata con il logo
di Sochi 2014.
Il cosmonauta russo
Mikhail Tyurin
ha passeggiato nello
spazio con la fiaccola
che accenderà le
Olimpiadi invernali
(7-23 febbraio 2014)
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FOCUS
Vladimir Putin
l’essenziale
La Dottrina Monroe nasce per creare un Nuovo Ordine repubblicano a
guida americana in contrapposizione
a un Vecchio Ordine monarchico restaurato dal Congresso di Vienna. Essa
utilizzava la frontiera continentale e
l’equilibrio strategico negoziato con
l’allora potenza navale inglese, per impedire una colonizzazione delle monarchie europee non solo sul territorio della nuova nazione, ma anche delle regioni latino-americane, acquisendo enormi vantaggi geo-economici per
gli Stati Uniti (a nulla valse il tentativo
di inserimento francese in Messico).
Mentre Monroe non aveva una
“geo-storia” da difendere, ma un futuro da conquistare e una naturale proiezione di difesa-offesa rappresentata
dall’Oceano, Putin ha invece una
grande “geo-storia”, un futuro da riconquistare e una proiezione di difesa-offesa a banda larga: dall’uso politico del gas e del petrolio alla dislocazione di batterie di missili alle frontiere con l’Unione Europea (nell’enclave russa di Kaliningrad e lungo la
frontiera con i Paesi baltici), in risposta al progetto europeo di scudo missilistico adottato dalla Nato e basato sulla tecnologia americana.
La garanzia di sicurezza e integrità
territoriale, la capacità di leadership e
influenza regionale, accomunano il
Monroe di allora e il Putin di oggi. Per
gli epigoni di Monroe, quella dottrina
riverbera ancora oggi, eco malinconica
di un ormai impossibile isolazionismo
e mortificata con astruse “alleanze dei
volenterosi”, contorte geometrie variabili, per lo più contingenti contro avversari regionali, in conflitti asimmetrici, tra complicati slogan (“guerra al
terrore”, “soft power bellico”, “counterinsurgency”, etc.) su cui impostare le
scelte strategiche con enormi costi. La
questione siriana docet.
Due esempi sono sotto gli occhi di tutti. Primo, l’attuale vincente linea energetica di Mosca nei confronti dell’Unione Europea, che è alla disperata ricerca
di un mercato comune e, nel frattempo,
cerca di massimizzare la diversificazione
dei volumi e delle rotte per non dipendere da Mosca.
Secondo, lo scudo missilistico della
NATO, sulla carta strumento geostrategico per la difesa degli Stati europei
da potenziali attacchi missilistici di
Paesi “nemici” (Iran e Corea del Nord
su tutti), mentre Mosca lo considera
una minaccia alla propria sicurezza e
non digerisce il concetto di “nemico”,
ma preferisce quello di “avversario”.
Infatti, chi oggi è un “avversario” domani potrà essere un “alleato”. Un
“nemico”, invece, allunga il fattore
tempo in modo ultra-generazionale.
Da un lato, la Dottrina Putin cerca
di annullare la minaccia esterna alla
pace e alla prosperità domestica e
limitrofa piena di problemi (uno per
Nome Vladimir Vladimirovich Putin
Nato il 7 Ottobre 1952
Luogo Leningrado (San Pietroburgo)
Studi Leningrad State University,
Legge, 1975; Red Banner Institute
of Intelligence, 1984; Mining
Institute of St. Petersburg, 1997
Matrimonio Lyudmila Shkrebneva
(28 Luglio 1983) separato, due figli
Religione Cristiano-ortodossa
Carriera Ha servito come agente del
KGB in Germania Est (1985-90)
Altre curiosità parla fluentemente
tedesco, discretamente l’inglese,
è cintura nera di judo.
Al CREMlINO
2000 Eletto presidente al primo turno
(tragedia del sottomarino Kursk)
2003 Elezione generale dà agli alleati
di Putin il controllo sul parlamento
2004 Putin rieletto (attacchi ceceni
culminano nella strage di Beslan)
2005 Mikhail Khodorkovsky arrestato
per evasione fiscale
2006 Russia taglia le forniture
di gas all’Ucraina (gennaio);
San Pietroburgo ospita il G8
2007 Braccio di ferro con gli USA
sullo scudo anti-missili in Europa
2008 Putin premier e Medvedev
presidente (guerra in Georgia)
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La Banca centrale russa
ha ridisegnato il rublo,
lasciando al pubblico
la possibilità di esprimere
la propria opinione sulla
scelta definitiva del nuovo
logo che, nelle intenzioni
del Cremlino, servirà per
rilanciarne l’immagine
e bilanciare le riserve
internazionali, alla pari
con il dollaro e l’euro.
Al sondaggio online hanno
partecipato 280mila persone
e il simbolo prescelto
ha ottenuto il 61% delle
preferenze. L’artista che ha
disegnato la lettera “P” con
il trattino è Artemy Lebedev
tutti, Tiblisi); dall’altro lato, sposta gli equilibri regionali e
globali a proprio vantaggio, sfruttando geo-economicamente le proprie risorse.
Il Moscow Consensus non tende a fare di Mosca un “padrone” e “protettore” degli equilibri geopolitici, ma mira a riconquistare il ruolo di grande potenza economica, egemone nel proprio Heartland e influente nelle scelte degli Stati
(es. dalla Turchia all’Iran nel Medio Oriente Allargato; da
Singapore alla Cina nel Sudest Asiatico; dal Venezuela al
Brasile nel Sud America; in Africa e così via). Esso non interferisce in prima battuta negli affari politici, ma impone
gli interessi economici della Russia per poi esercitare un’influenza politica determinante.
D’altronde, Putin stesso ha manifestato chiaramente il
suo pensiero considerando che se il collasso dell’Unione
Sovietica è stata la più grande catastrofe del XX secolo, la
sua ricostruzione sarebbe il più grande disastro del XXI.
L’unione doganale tra Russia, Kazakhistan e Bielorussia,
la proiezione con la Nuova Zelanda, la collaborazione con
la Norvegia, l’attenzione verso l’organizzazione dei Paesi
EFTA e il negoziato con la Svizzera, sono testimonianze della tessitura esocentrica di Putin in materia d’influenza dispiegata per il preliminare e prioritario raggiungimento dei
suoi interessi economici.
E l’Italia?
Fedele agli impegni assunti con le alleanze strategiche di
cui fa parte, immersa in una perdurante crisi economica e
un crescente disagio sociale - fattori che acuiscono il malessere di essere la più piccola tra le grandi potenze e la più
grande tra le potenze minori del mondo - l’Italia potrebbe,
con un colpo d’ala creativo, cimentarsi su come trasformare
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in una straordinaria occasione di sviluppo, la minaccia incombente di collassare (se non arresta la caduta del
tasso di disoccupazione) nella classifica economica mondiale. Basterebbe
evitare d’intendere quelle alleanze come puro asservimento su decisioni
per essa assunte altrove.
Sempre per la suscettibilità degli
analisti di mestiere, absit iniura verbis,
il Sabatini Coletti così definisce “asservimento”: “collegamento tra due elementi
di un sistema, tale che l’azione di uno segua obbligatoriamente l’azione dell’altro”.
Sostituiamo l’avverbio “obbligatoriamente” con “opportunamente”. Non
siamo nemici e neanche avversari della Russia. Coniamo noi creativamente:
siamo amici.
Se l’Italia provasse a valorizzare la
sua caratteristica di grande potenza industriale che, pure se versa in una contingente difficoltà economica, mantiene eccellenze invidiabili e desiderabili
in ogni settore, potrebbe acquisire una
sua autonoma agibilità in termini di
deterrenza e dissuasione nel negoziare
in proprio favore interessi economici
nazionali e condurre una politica internazionale di scambio economico,
da utilizzare per neutralizzare la principale minaccia all’elemento su cui costituzionalmente si fonda: il lavoro.
Mosca, a mio giudizio, sarebbe contenta di un’alleanza con un’Italia dotata di una siffatta connotazione internazionale. Forse che non sarebbe più
attraente della Norvegia, della Svizzera o della Nuova Zelanda? Sono certo
che intuitivamente il lettore concorderà. Altrettanto sono convinto che
bisognerebbe approfondirne i motivi.
Ma per questo bisogna chiedere al direttore una seconda puntata.
In conclusione, tornando all’esordio “o Roma o Mosca”, un siffatto manicheismo non è accettabile, specie per
i motivi che ispiravano il principe Borghese. Quattro decadi dopo, potremmo dire: “Roma e Mosca”.
Dall’Impero alla Federazione
Dimitri
dove sei?
D
al maggio 2012 è
primo ministro della
Federazione Russa
ma non se n’è accorto nessuno. Soprattutto negli ultimi
mesi, la scena politica infatti è
stata interamente dominata
dal presidente Putin che opera
sullo scenario interno e su
quello internazionale come
se la figura del suo capo di
governo non esistesse, accentrando su di sé qualunque
iniziativa di rilevanza politica, dalla liberazione di alcune figure politiche incarcerate con accuse varie ai negoziati sulla Siria. Ed è nella linea politica tradizionale
del leader russo non lasciare
spazi di manovra ad altre
personalità che possano ricoprire un ruolo di primo piano, anche se appartenenti
all’entourage del potere. Sentiremo ancora parlare di
Medvedev, ma probabilmente
solo per riaffermare delle linee di governo già tracciate
da una non troppo velata
“eminenza grigia”. (C.E.)
* Ceo di FANARA - SPEI, Studio di Politica
Economica Internazionale
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Un documento unico nel suo genere.
Le voci pro e contro della Costituente tunisina.
Un reportage esclusivo per raccontare
la parabola dell’unico Paese arabo che ha superato
indenne le Primavere Arabe e ne è uscito rafforzato.
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A
ttraversando Avenue Mohammed V, la grande arteria cittadina che spinge il
traffico fuori e dentro il
centro di Tunisi fino a
piazza dell’Orologio e Avenue Bourguiba
- cuore pulsante della capitale e luogo
simbolo della Rivoluzione - si è come
costretti a osservare il grande e imponente palazzo di vetro che si staglia sullo skyline cittadino e che, con la sua
presenza, incombe sul via vai ininterrotto del traffico che dalle cinque di sera
intasa regolarmente questa e altre vie.
Non è un edificio qualsiasi, il palazzo di
vetro. Niente a che fare con l’ONU e i
diritti umani, anzi. Quello che oggi è
un edificio spoglio e sinistro, era il quartier generale di Zine El-Abidine Ben
Ali, il dittatore che ha torreggiato su
questo Paese per oltre vent’anni e che
ha fatto imprigionare (e torturare) anche alcune tra le persone che intervisteremo durante questo viaggio.
Oggi il palazzo di Ben Ali è vuoto,
spogliato delle cupe trame e dai diktat
del Raggruppamento Costituzionale
Democratico - RCD, il partito del presidente di cui questo edificio era sede
- che da qui imponeva la propria volontà sul popolo tunisino. Ma ormai
tutto ciò è storia passata e presto qui
sorgerà una più incoraggiante dimora, quella del commercio internazionale. È un punto di osservazione privilegiato, come se il dittatore da quelle
finestre avesse potuto controllare e
giudicare i tunisini in ogni momento.
Ma la sua vista s’interrompe alla fine
di Avenue Bourguiba, a Port du France,
nel punto in cui comincia la città vecchia. Lì Ben Ali, che si era illuso di poter
vedere tutto, non è riuscito mai ad arrivare. È arrivata invece la Rivoluzione.
Arriviamo a destinazione e attendiamo. Quando sono passati dieci minuti
dall’orario stabilito per l’intervista, la
tensione è ormai alta. Non sappiamo
ancora se arriveranno, e ho il timore
crescente che abbiano cambiato idea all’ultimo momento. Ci sono volute settimane, anzi mesi per combinare l’appuntamento e, visto che non rilasciano
mai interviste agli occidentali, il dubbio
è lecito. Mentre scruto nervosamente il
via vai di volti che affollano il luogo dell’incontro, chi mi accompagna ostenta
serenità e mi ripete che “in Africa bisogna saper aspettare”, perché, prima o poi, qui tutto
magicamente accade. Un
po’ come per la costituzione tunisina, che ormai sta
per essere firmata a poche
centinaia di metri da qui, al
Palazzo della Costituente
ovvero il Parlamento. Infatti, non c’è neanche il tempo di finire il caffè che scorgo nella sala grande due
volti carichi d’espressività.
Un cenno d’intesa e ci avviciniamo. Sono loro. Ci rechiamo in un luogo appartato, dove abbiamo già sistemato il registratore e la
telecamera. Niente francese, per esprimere compiutamente certi concetti serve l’arabo. Pensano che io conosca bene
la loro lingua, ma non è così. Concordiamo allora che le domande saranno in
francese, le risposte in arabo. Lascio tre
delle nuove monete in dinari appena
coniate dalla Banca Centrale, ma il barista non si fida, così sono costretto a lasciargli una banconota da venti. Ho fretta e, del resto, quel caffè le meritava. Saliamo in ascensore in un silenzio surreale ma a poco a poco mi rendo conto che
sono l’unico ad esser teso. Gli altri sono
ben felici di esser qui e si vede che hanno voglia di comunicare, di farsi conoscere meglio da noialtri europei, che
tendiamo sempre a generalizzare e semplificare quando parliamo di Islam.
Ci accomodiamo nella camera, accendo il registratore, e finalmente possiamo iniziare. Sono Abdelmajid Habibi e Abdelhafidh El Gaied, rispettivamente portavoce e presidente della
Commissione del partito Ettahrir. Sarà
il portavoce a rispondere a quasi ogni
domanda, ma lo sguardo penetrante
di El Gaied sottolinea sufficientemente bene ogni passaggio dell’intervista.
di Luciano Tirinnanzi
L’Islam
che non
vuole
confini
C’è anche
chi dice no
alla Costituzione.
L’intervista esclusiva
ai vertici del partito
internazionale islamico
Hizb ut-Tahrir
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numerO
2
FEBBRAIO
2014
Tra qualche ora la Costituzione sarà
infine approvata. Che ne pensate?
Il problema non è la Costituzione in
sé, ma la rinascita spirituale della nostra società. Questa presunta rivoluzione urta i sentimenti del popolo, dato
che non siamo un Paese culturalmente
omogeneo come può esserlo l’Italia,
perciò riteniamo che non sarà possibile applicarla. I costituenti, anche se
eletti, stanno scrivendo una Carta che
non va bene per i tunisini, i quali sono
profondamente musulmani all’origine, anche se non tutti sono praticanti.
Qui a fianco: il
quartier generale
di Ben Ali, ex
sede del partito
del presidente
deposto, l’RCD
Eppure il popolo è sceso in piazza
A destra:
La moschea
perché voleva un regime change e
di Zitouna
migliori condizioni economiche
(VIII secolo),
Qui, come in altri Paesi, le rivolte conuno dei principali
tro i regimi dittatoriali sono state spinte
centri mondiali di
per protestare contro qualcosa che non
cultura islamica.
va più bene. Tali movimenti, che mettoFu chiusa
da Bourguiba
no in gioco la vita senza pensare al dopo,
nel 1964 per
non portano in sé le risposte per il fututentare di frenare
ro né hanno già chiaro il domani. Ma è
l'influenza
proprio dopo il crollo di un certo regidella religione
me che viene il compito dei leader, delle
in Tunisia
élite e degli intellettuali, che devono guidare il popolo verso nuove soluzioni.
ci sia un dittatore a governare, ma nel
In Tunisia, la via di chi ha preso adesso fatto ch’egli faccia le leggi. È questo a
in mano la situazione per guidare il popo- determinare una dittatura di per sé.
lo verso una strada nuova, è poco diffe- Qui sta il problema.
rente rispetto al passato: dal nostro punto
di vista, ci sono ancora le stesse perQual è allora il vostro compito
sone, sistema, leggi e infrae come si concilia
strutture del tempo di Ben
con la democrazia
Ali, a gestire il Paese. Non
e l’Occidente?
“Questa
vediamo differenze tra
Il problema è la mapRESUNTA
la nuova Costituzione e
niera in cui gli occidenquella del 1959: essa
RIvOlUZIONE tali vedono l’Islam,
non ha niente a che
cioè senza conoscerlo
urta
vedere con l’Islam e la
profondamente. Ani sentimenti
Sharia. Va anzi verso
che se questo in realtà è
un’altra strada.
un nostro problema,
del popolo”
spetta a noi far conosceDunque, è una
re il vero Islam. L’Islam è
Costituzione laica?
una responsabilità che ci ha
Evidentemente.
dato Dio, un messaggio da spiegare e
far arrivare a tutti gli esseri umani.
Ma è o no un passo avanti?
Chiunque pretenda di essere musulLa dittatura, del resto, non c’è più… mano, sa che egli è un messaggero e
Tout le monde vie la dictature. La ditta- ha il compito di far conoscere l’Islam
tura per noi non consiste nel fatto che e farlo comprendere a tutto il mondo,
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per salvarlo dalla malvagità e dalla corruzione e da tutto ciò di cui soffrono i
popoli della terra. Noi abbiamo la responsabilità di chiamare la gente all’Islam, ma senza coercizione. Il nostro compito, del resto, è arrivare il
più lontano possibile: il Corano dice
che Dio ha creato l’umanità in vari popoli e cittadinanze, che dovranno conoscersi reciprocamente. Noi musulmani dobbiamo chiamare gli altri a
un’unica parola comune, a riconoscere un unico Dio.
Ma se non avete convinto Ennahda
e il popolo tunisino, come farete
a convincere l’Occidente?
Anzitutto, vorrei dire che noi non
abbiamo mai parlato di relazioni internazionali e rapporti con i governi, noi
non siamo un governo né siamo al governo. Bisogna lavorare per obiettivi e
per fini. L’obiettivo principale è applicare l’Islam per come lo vuole Dio. Il
modo più corretto è parlare con la
Abdelhafidh
El Gaied
Abdelmajid
Habibi
Presidente
della Commissione
del partito
Portavoce
del partito
Noi dobbiamo fare in modo che sia il popolo a chiedere di vivere sotto una legge
divina, mandata da Dio, e dia il potere a
quegli eletti di instaurare la Sharia. Gli altri metodi non si sono rivelati validi.
Come pensate che venga giudicato
questo in Occidente?
Il primo problema degli occidentali
è il modo in cui guardano all’Islam.
Ma se oggi in Francia o in Italia venisse deciso di chiudere le moschee o di
tutti si esprimano liberamente in Tunisia. Presenteremo i nostri progetti e vedremo se il popolo preferirà vivere sotto l’Islam o meno. Bisogna lasciar decidere il popolo: se vuole l’Islam, che lo
si lasci fare, senza manipolarlo. Un esempio è l’Egitto: il popolo aveva scelto la
Sharia, ma altre forze esterne hanno appoggiato un colpo di Stato e tutto è cambiato. Questo non è giusto, è un’ingerenza negli affari musulmani, bisogna lasciare il popolo decidere della propria sorte.
Dov’è la democrazia se poi un risultato
elettorale che non piace, viene rovesciato? Viene da pensare che la democrazia
sia solo un concetto immaginario.
Perché non avete partecipato
alla fase costituente?
È una nostra scelta. La questione
non è andare a cercare il potere. Andare al potere oggi significa imporre
le proprie idee al popolo, mentre per
noi è indispensabile prima di tutto
persuadere. Il concetto di arrivare al
potere per sistemare le cose non ci appartiene, noi vogliamo coltivare il rapporto con la gente affinché siano loro
a chiederci di applicare la Sharia. È la
collettività a cambiare le cose.
gente, e poi sarà la gente a voler vivere
sotto l’Islam. Se non lo farà, vorrà dire
che non siamo stati capaci di comunicare bene. In ogni caso, è il popolo ad
avere il potere e coloro che guidano il
popolo devono esprimere la sua volontà. Nel parlamento, i deputati sono
eletti per esprimere il volere del popolo ma questo non sempre avviene. Più
spesso sono solo un gruppo di persone che decide per conto del popolo.
impedire di portare il hijab, noi non
protesteremmo. Perché è il vostro
Paese e potete fare ciò che volete. Ma
qua in Tunisia, e nel mondo arabo, al
momento si cerca di manipolare la volontà del popolo. La Costituzione ne è
un esempio: è volontà dei partiti politici, fatta per loro e non per il popolo.
Secondo voi che si dovrebbe fare?
La nostra soluzione è lasciare che
D’accordo, ma come si può fare,
concretamente?
Lo stiamo facendo anche in questo
momento, parlando con dei giornalisti
occidentali. In ogni caso, oggi ci sono
due sole vie: o continuiamo nel sistema
capitalista che ha condotto il mondo
verso la malvagità e la corruzione o scegliamo l’Islam. È questo che noi diciamo al popolo, il quale deve avere l’ultima parola. Noi lavoriamo a questo.
Ma se il popolo chiede soltanto
il benessere economico?
Il benessere economico minimo
dev’essere garantito a tutti e dev’essere lo Stato a garantirlo. Chi vuole
raggiungere obiettivi anche economici
molto più alti e accumulare denaro ne
ha il pieno diritto. Ma se ci può essere chi
ha un intero grattacielo, invece non ci
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numerO
zerO
NOVEMBRE
2013
Chi è Hizb ut-Tahrir
Il “Partito della Liberazione”
è un’organizzazione islamista internazionale,
la cui finalità è la restaurazione del
Califfato Islamico in unione con la Umma
(comunità) dei fedeli musulmani. In concreto,
ciò significa ricondurre i musulmani ai
principi della religione nell’ambito di un’entità
sovranazionale dominata da un califfo, che
esercita i suoi poteri proprio come garante
della Sharia, la legge religiosa islamica.
Formalmente, Hizb ut-Tahrir fu fondato
nel 1953 a Gerusalemme, da Taqiuddin
al-Nabhani, studioso e giurista islamico.
Da allora, l’organizzazione ha fondato filiali
locali in oltre quaranta Paesi e può contare su
circa un milione di affiliati. Hizb ut-Tahrir è
ben radicato anche in Occidente e, come spiega
il sito australiano, “accetta musulmani e
musulmane come membri, a prescindere che
siano arabi o no, bianchi o di colore,
perché è un partito per tutti i musulmani”.
Nonostante la denominazione di “partito”,
Hizb ut-Tahrir ha raramente presentato propri
candidati alle elezioni dei Paesi in cui è
presente, in alcuni dei quali è messo al bando.
Ciò avvenne in Giordania, negli anni ’50, prima
che il partito fosse bandito, e più recentemente
in Kirghizistan, però senza successo.
Nelle parole dell’analista kazako
Dosym Satpayev, la strategia di Hizb ut-Tahrir
si basa sui seguenti tre passaggi:
• fondare una comunità di affiliati
che lavorino insieme sul modello dei
Compagni del Profeta, in spirito di totale
obbedienza ai principi ispiratori del partito;
• influenzare l’opinione pubblica,
soprattutto nell’ambito delle comunità
musulmane, a favore del progetto del
califfato e del ritorno alle origini dell’Islam;
• ottenere il supporto di vertici politici
e militari per procedere a un cambio di
regime in senso autoritario; e così, di Paese
in Paese, auspicabilmente in tutto il mondo.
L’anima del “partito” può essere definita
salafita in quanto si rifà agli “antenati”
dell’Islam (Salaf). In quanto tale, rifiuta la
modernità e i sistemi politici moderni, quali
ad esempio la democrazia intesa nel senso
occidentale e il sistema elettorale.
Fonti: OGMO, Hizbuttahrir.org
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Fonte: OGMO
Ar-Raya al-Islamiyya,
la bandiera islamica
Contrariamente al luogo comune, la bandiera
in campo nero con scritte bianche in arabo mostrata
in numerose occasioni in relazione alla jihad,
non è affatto un “marchio esclusivo” di Al Qaeda.
In essa è scritto: “Non vi è altro Dio all’infuori di Allah
e Muhammad è il Suo Messaggero”, ed è la frase che
si trova sulla storica bandiera islamica (Ar-Raya alIslamiyya), bianca su sfondo nero o viceversa. Ma è
anche la stessa dell’Arabia Saudita, che ha aggiunto
sotto l’espressione una spada e utilizzato il colore
verde dell’Islam, che rappresenta la janna (il paradiso).
Si tratta dell’espressione religiosa e dottrinale più
importante per tutto l’Islam, in quanto rappresenta
il primo pilastro della fede musulmana, la shahada,
la testimonianza di fede. È stata la prima bandiera
del Califfato islamico, ed è sempre stata utilizzata
nel corso della storia dell’Islam come bandiera della
Umma, la comunità globale dei fedeli musulmani.
Allo stesso modo, la bandiera è l’espressione del
concetto di unità all’interno dell’Islam e dunque contrasta
con le ideologie nazionaliste, che nel secolo scorso,
e dopo lo smembramento dell’Impero Ottomano
- l’ultimo Califfato dell’Islam - hanno prodotto la
nascita dei vari Paesi arabi come li conosciamo oggi.
Essendo portatrice di un messaggio che si rifà, dal
punto di vista geopolitico, all’idea di Califfato, questa
bandiera è stata ed è utilizzata da diversi movimenti
islamici, in particolare sunniti, che si richiamano a
questa ideologia: a partire da movimenti politici come
Hizb-ut-Tahrir fino ad arrivare ad Al Qaeda.
Essendo quella salafita un’ideologia che non riconosce
gli attuali confini tra i Paesi arabi e rimanda direttamente
al primo secolo dell’Islam, l’unica bandiera che è in
grado di rappresentare graficamente questa ideologia
e accomunare le diverse popolazioni musulmane, è la
bandiera storica del Califfato, che con il primo pilastro
dell’Islam rappresenta l’unione e la comunione della
Umma intesa come grande nazione musulmana.
Simbolo escatologico
dell’Islam che rappresenta
l’avvento del Mahdi,
in origine non riportava
la professione di fede
Questa variante, usata
da ISIS e al-Shabaab,
sottolinea attraverso
il cerchio la supremazia
di Allah sul Profeta
può essere chi non ha nemmeno un tetto sopra la testa. A questo deve provvedere lo Stato.
Per voi servirebbe allora un’altra rivoluzione?
Chiaramente. Noi incitiamo le persone a fare una rivoluzione e non soltanto a protestare, ma nel modo concepito
dalla religione islamica. Dunque, non bruciando le strutture dello Stato o con la violenza in strada, come abbiamo visto durante questa rivolta. Tu puoi anche essere Stato ma
non avere il potere. Anzi, è proprio questo che ti spinge a usare la violenza. Il vero potere è la forza emanata dal popolo.
Ma il popolo ha già deciso.
Non è vero. Il popolo non sapeva neanche cosa significava “costituzione” quando è cominciato questo processo.
In Occidente spesso si associa la Sharia
con il terrorismo. È così?
Il concetto che il terrorismo sia legato all’Islam è un concetto creato dall’Occidente. Il messaggio dell’Islam è un messaggio di pace. Il miglior esempio è Al Qaeda: se si pensa che
il mondo islamico dia finanziamenti o armi ad Al Qaeda,
questo è del tutto sbagliato. Chi ha creato Al Qaeda? Chi strumentalizza questi “terroristi”? Chi li arma? Noi?
E chi allora?
Certamente, non siamo noi...
A quali altri partiti vi sentite più vicini?
Siamo vicini a tutti i musulmani, e la cosa è reciproca.
Però non siete al potere in nessun Paese…
Non possiamo accettare il compromesso di stare al potere nei sistemi politici attuali. Governare un Paese o partecipare al sistema non è un fatto condivisibile per noi. Noi
non siamo al potere perché tutti i regimi sono corrotti. Il
nostro partito si chiama “Partito della Liberazione”, ma liberazione non come la intendete voi, ma come liberazione
dell’essere umano: questo è il messaggio dell’Islam.
Come spiegare all’Occidente la forma di Stato
e di governo che voi avete in mente?
La forma di Stato è quella che conoscete anche voi, il
concetto è il medesimo. Per la forma di governo, noi crediamo in un’elezione differente dalla vostra. Non si applicano le leggi scritte ma le leggi divine. Tutta la differenza
sta nel fatto che nello Stato islamico il potere è e resta in
mano al popolo e non alle lobby o a chi detiene i soldi.
Secondo voi, gli attuali confini statuali in Nord Africa
e Medio Oriente andrebbero modificati?
Certamente, andrebbero cancellati.
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2014
Mentre il mondo vede
crescere il mercato
delle armi e conosce
sbilanciamenti
economici gravi,
l’Uruguay di Pepe
Mujica ha trovato una
ricetta socio-politica
originale grazie al suo
eccentrico presidente.
SICUREZZA
Los pres
“Guerri
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marzO 2014
Il Paese sudamericano
e il suo bizzarro presidente sono
il volto del nuovo corso politico
che attraversa il continente,
dove ai vertici dello Stato
siedono oggi molti di quelli
che ieri combattevano le istituzioni.
I casi di Brasile, Ecuador, El Salvador
sidentes
illeros”
URUgUAy | di Mariana Diaz
J
osè Pepe Mujica è il presidente di un Paese, l’Uruguay, dove ci sono più mucche che
persone, ben 13 milioni di
bestie contro 3,2 milioni di
abitanti. È stato lui stesso ad affermarlo
nel corso di un summit delle Nazioni
Unite in Brasile, dimostrando il suo carattere informale e il suo singolare modo d’esprimersi. Nel 2010, poco prima
di diventare presidente, aveva affermato: “L’Uruguay è un grande Paese, peccato che sia pieno di uruguayani”.
Questo è Pepe Mujica, un capo di
Stato che non indossa cravatte, ama la
terra e parla da contadino. “Uno dei
vantaggi di essere vecchio è che si può
dire ciò che si vuole”, ripete spesso.
Guida ancora un Maggiolino Volkswagen del 1987 (costato appena 1.900
dollari), non ha conti in banca né debiti e spesso si presenta agli incontri
formali in ciabatte.
Ma Mujica ha anche un passato da
guerrigliero e oggi questa pesante eredità deve coesistere con la necessità di
dare sicurezza agli uruguayani e al
mondo. Perciò deve dimostrare che,
nonostante i quattordici anni trascorsi
in prigione, ha ancora la testa salda e
che l’esperienza della galera non gli
ha fatto perdere la ragione. Ma Pepe è
uomo forte e, non a caso, il suo discorso alle Nazioni Unite del 2012 è già diventato un classico ed è persino stato
nominato dagli internauti come il
“più bello del mondo”.
Settantotto anni e un po’ di sangue
italiano - i nonni materni erano emigrati dalla Liguria, da un paese in provincia di Genova - dopo il ciclismo, si
appassiona alla politica e negli anni
Sessanta, a 24 anni, entra a far parte
dell’appena nato Movimiento de Liberacion Nacional - Tupamaros (MLN-T),
divenendone in poco tempo il leader.
Non erano tempi facili: l’Uruguay allora era sommerso dalla crisi finanziaria e dalla scarsa capacità di azione del
sistema politico, ma più in generale
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2014
Salvate El Salvador!
L’Uruguay di Mujica e il Brasile della Rousseff
non sono gli unici esempi in America Latina
dove ex guerrilleros sono diventati
presidenti. Nel Salvador, la campagna
elettorale ha visto lo scontro fra l’esponente
della destra ARENA, Norman Quijano, e
Salvador Sanchez Cerén del Frente
Farabundo Martí para la Liberación Nacional
(FMLN), ex gruppo di guerriglieri diventato
poi partito politico e che già nel 2009 vinse le
presidenziali con Mauricio Funes. Con la
vittoria di Salvador Sanchez Cerén (al momento
in cui scriviamo i due leader sono ancora al
ballottaggio), El Salvador sarà il
terzo Paese ad avere un ex
guerrigliero come presidente.
Nel 1980, mentre Mujica scontava
gli ultimi cinque anni in carcere,
nasceva il FMLN. Il contesto
geopolitico internazionale diviso
in due dalla Guerra Fredda, fece sì
che El Salvador divenisse terreno
fertile per la lotta sociale contro
le oligarchie che detenevano
la ricchezza del Paese (il FMLN
era in guerra contro le Forze
Armate, sostenute dagli USA).
Sanchez è stato uno dei principali
comandanti di una guerriglia
durata dodici anni - una lotta
armata conclusasi con un saldo di
75mila morti - ma è stato anche
uno dei firmatari degli accordi di
pace promossi dall’ONU nel 1992,
che permisero il passaggio del
Frente Farabundo Martí da gruppo
rivoluzionario a partito politico.
La visita di Barack Obama nel 2011 e
l’incontro con l'allora presidente Funes,
primo esponente di sinistra al potere (FMLN),
è stata catalogata come un segnale storico
per la riconciliazione tra i due Paesi.
Così come storico è stato l’abbraccio tra
Sanchez Cerén e Jose Mujica nel 2012,
in occasione della visita ufficiale in Uruguay
del salvadoregno. Quell’abbraccio è diventato
il simbolo di due nazioni che si riconoscono
nel passato dei propri leader.
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Norman Quijano
leader del Partito
della destra Arena
Salvador
Sanchez Cerén
il nuovo presidente
ed esponente
dell’FMLN
(sotto, il simbolo)
ha un passato
da guerrigliero
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Dilma schedata dalla polizia brasiliana
era tutto il Latino America a risentire del peso di appartenere
al “cortile di casa degli Stati Uniti” e, a fine anni Sessanta, i partiti socialisti e i movimenti estremisti erano ormai spuntati in
quasi ogni Paese. Come in Brasile, dove una giovane Dilma
Rousseff entrava a formar parte della POLOP (Organizazione
Dilma Rousseff, classe 1947 e figlia di un
Politica Operaria) e in El Salvador, dove erano in corso una seemigrato bulgaro (il vero cognome è infatti Rusev),
rie di rivolte popolari che portarono il Paese alla guerra civile.
si trovò a dover fare una scelta di vita, poco più che
ventenne: abbracciare la rivoluzione sociale
I Tupamaros, in quel contesto, ebbero molto spazio per organizattraverso il dialogo o attraverso la lotta armata?
zare, attraverso la lotta armata, la loro idea di sviluppo sociale.
Dilma scelse la seconda. Fu così che entrò a far
Ma il tempo passa per tutti e molti dei giovani leader di allora
parte del Comando de Libertação Nacional (Colina)
oggi sono arrivati al potere, hanno sostituito ai fucili le parole, e
e della Vanguarda Armada Revolucionária Palmares
si sono dati un aplomb istituzionale. Eppure, non tutti sono di(VAR-Palmares).
ventati presidenti del “Paese dell’anno”, come il settimanale britannico The Economist ha recentemente definito l’Uruguay.
Poi arrivò il colpo di Stato in Brasile. Il regime militare
Nel caso di Mujica, la lotta armata è stata parte della sua vita
durò dal 1964 al 1985 e nei documenti della dittatura
- mantenuti sotto segreto di Stato per quarant’anni e causa di ripetuti arresti. Come la prigionia nel carcere di
si parlava anche del ruolo della “Giovanna D’Arco dei
Punta Carretas, a Montevideo, dove fu rinchiuso nel 1970.
rivoluzionari”, ovvero proprio la Rousseff. Dilma fu
Chissà che penserà oggi il “presidente più povero del mondo”
rinchiusa per tre anni nel carcere Tiradentes (1970) a
del fatto che al posto del carcere (dove visse anche un paio
San Paolo, con l’accusa di partecipazione nelle attività
d’anni in isolamento dentro a un pozzo) adesso qui sorge un
svolte dai gruppi guerriglieri (anche se lei ha sempre
lussuoso centro commerciale, dove il marmo dei corridoi è ilnegato il coinvolgimento nelle azioni armate,
luminato dallo scintillio delle vetrine dei negozi. Eppure, 43
ha ammesso di essere stata alla testa del gruppo).
anni fa a Punta Carretas, Mujica e altri 111 uomini attraversarono quegli stessi passaggi - che allora non erano altro che un
L’esperienza nella lotta armata, il carcere e le torture,
forgiarono nell’acciaio il carattere di questa
buco fra muri marci e fatiscenti - e fuggirono dal cardonna, che decise di restare in politica
cere, compiendo un’impresa che tuttora viene ridiventando, nei Duemila, ministro
cordata come “straordinaria”.
dell’Energia dell’ex presidente Lula da
Nel 1973, dopo il golpe che diede inizio
Molti dei
Silva, quindi capo di gabinetto, per
alla
dittatura uruguayana, Mujica venne
proseguire l’ascesa fino all’attuale
nuovamente arrestato. Ma questa volta
presidenza.
dietro le sbarre ci rimase fino al 1985
quando, con il ritorno della democrazia, il
di allora sono
presidente conservatore del Partito ColoBandiera
rado, Julio Maria Sanguinetti, promosse
oggi al potere
Tupamaros
l’amnistia che liberò Mujica e altri prigionieri
politici. Di quell’esperienza, Mujica ricorda oggi: “Ero in totale isolamento e non parlavo con nessuno. C’era talmente tanto silenzio che ho sentito le formiche urlare”.
In ogni caso, il passato da guerrigliero e la loquacità dell’ex
tupamaro,
sono serviti non poco al presidente. È grazie a quelAdios?
l’esperienza, ad esempio, che le FARC (Forze Armate RivoluPepe Mujca
zionarie della Colombia) si sono progressivamente fidate di lui
e hanno infine accettato una sua mediazione - anche se non
Secondo la Costituzione uruguayana
formalmente - nel delicatissimo processo di pace con il goverun presidente può candidarsi una volta
soltanto e deve attendere altri cinque
no colombiano di Juan Manuel Santos, attualmente in corso a
anni prima di ripresentarsi (art.152).
Cuba. Mujica stesso aveva espresso il desiderio di contribuire al
Alle prossime elezioni del 26 ottobre,
processo di pace “più importante dell’America Latina”. Dopodunque, al posto di Pepe si presenterà
tutto, è stato proprio il dialogo e l’abbandono delle armi ciò
l’ex presidente Tabarè Vasquez
che alla fine degli anni Ottanta permise ai Tupamaros di en(contro i candidati del partido Nacional
trare
a far parte della politica “ufficiale”, all’interno della coay Partido Colorado).
lizione
di sinistra Frente Amplio, che nel 2005 arrivò alla preÈ la conclusione di un governo
sidenza dell’Uruguay con Tabarè Vasquez.
emblematico per l’America Latina.
Presidente
e pasionaria
gIOvANI
lEADER
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2014
Un mondo di armi
Solo nel 2010, le cento più grandi
aziende produttrici di armi al mondo,
escluse quelle cinesi, incassavano
qualcosa come 410 miliardi di
dollari grazie alla vendita di
materiale bellico e relativi servizi,
segnando una flessione di 7 punti
rispetto al +8% del 2009 (ma
ottenendo uno straordinario +60%
rispetto al 2002). Oggi la cifra
si attesta intorno ai 400 miliardi.
Senza la Cina, i primi dieci
produttori al mondo di armamenti
sono, in ordine di grandezza:
Lockheed Martin (USA, 36 miliardi
di dollari); Boeing (USA, 27,6 mld);
BAE Systems (Regno Unito, 26,8
mld); Rayeton (22,5 mld); General
Dynamics (USA, 21 mld); Northrop
Grumman (USA, 19,4 mld); Airbus
Group (UE 15,4 mld - ex EADS);
United Technologies (USA, 13,4 mld);
Finmeccanica (Italia, 12,5 mld); L-3
Communications (USA, 10,8 mld).
Spese per la difesa dalla crisi finanziaria del 2008
150
140
Cina
130
Russia
120
Brasile
Giappone
India
110
100
Francia
USA *
90
Germania
UK
80
Italia
70
60
50
2008
2009
2010
2011
Le grandi nel Pacifico
CINA
2.285.000
1.903
1.190.000
1.430
247.450
USA
2.338
(Tank)
23.866
CINA
7.430+
(Tank)
gIAppONE
gIAppONE
Fonte: The Military Balance 2014
(Veicoli Corazzati)
USA
USA
552
2.900
(Veicoli Corazzati)
gIAppONE
777
(Tank)
817
(Veicoli Corazzati)
26
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
2013
Per ogni Paese, i livelli di spesa per la difesa (secondo le valute correnti) sono state
aggiustate per l’inflazione e ricalcolate con indice 100, fatto 100 il livello del 2008.
*Budget base
CINA
2012
CINA
12.367+
USA
6.477
gIAppONE
1.776
marzO 2014
I primi 15 Paesi per spesa militare
Budget 2013 in miliardi di dollari
Percentuale rispetto al PIL nazionale
Cina
112.2
USA
$ 600.4
Arabia Saudita
8.0%
Australia
7.2%
Israele
6.0%
Iran
4.1%
USA
3.7%
Russia
3.1%
Corea del Sud
2.5%
68.2
Russia
59.6
Arabia Saudita
57.0
Regno Unito
52.4
Francia
Regno Unito
2.4%
51.0
Giappone
Francia
1.9%
44.2
Germania
India
1.8%
36.3
India
Brasile
1.4%
34.7
Brasile
Cina
1.2%
31.8
Corea del Sud
Germania
1.2%
26.0
25.2
Australia
Italia
Italia
1.2%
18.2
17.7
Israele
Iran
Giappone
1.0%
Fonte: The Military Balance 2014
USA
CINA
112
77
(TOTALE)
11
1
22
62
0
17
14
(Cacciatorpedinieri)
(Fregate)
700
(Portaerei non operative)
(SAM - Air Defence)
2
(Incrociatori)
62
gIAppONE
2
CINA
(Incrociatori)
(Cacciatorpedinieri)
(Fregate)
(SAM - Air Defence)
(TOTALE)
(Portaerei non operativa)
(Incrociatori)
1.281+
47
(TOTALE)
(Portaerei)
USA
gIAppONE
302
30
(Cacciatorpedinieri)
(SAM - Air Defence)
13
CINA
65
(combattimento)
211+
(pattugliamento)
USA
72
(combattimento)
41
(pattugliamento)
(Fregate)
gIAppONE
18
(combattimento)
6
TESTATE NUCLEARI
(pattugliamento)
USA
7.650
(di cui 2.150 attive)
CINA
240
gIAppONE
0
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
27
Voci da un mondo pressoché sconosciuto.
L’Iran sotto l’embargo e lo Yemen
dilaniato dalle forze islamiche, centrifughe e dissidenti.
numerO
4
APRILE
2014
28
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
aPrile 2014
Con gli occhi
dell’Oriente
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
29
numerO
4
APRILE
2014
Senza un accordo con USA e Unione Europea,
il destino del Paese è segnato: le crescenti difficoltà
economiche non consentono più neanche l’accesso
alle cure sanitarie
IRAN | di Ottorino Restelli
L’
elezione di Hassan Rouhani a settimo presidente dell’Iran nel giugno
2013 ha coinciso con
un’evoluzione della strategia della Repubblica Islamica. Da una
parte, sono proseguite le esecuzioni degli oppositori (come nel caso del poeta
pacifista Hashem Sabaani, arabo-iraniano di Ahwaz e veterano della guerra
contro l’Iraq), la condanna degli intellettuali e riformisti (come l’attrice e
blogger Pegah Ahangarani, condannata a 18 mesi di reclusione), gli arresti
domiciliari (come per Hussein Moussavi e Mehdi Kharroubi) e la chiusura
di giornali (come il Bahar daily).
Dall’altra, si è avviato un rilancio dei
negoziati sul nucleare (Joint Plan Act,
novembre 2013), culminati nell’accordo quadro annunciato a Vienna lo
scorso febbraio tra il gruppo P5+1 - dove siedono Cina, Gran Bretagna, Francia, Russia, Stati Uniti e Germania - e il
ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, che prevede controlli in cambio di
allentamento e revoca delle sanzioni.
I commentatori attribuiscono questo
cambio di strategia all’azione delle sanzioni economiche che stanno stritolando l’economia di Teheran. Ma quali sono state le conseguenze economiche
RIAl
La moneta iraniana
ha perso il 50%
del proprio valore
solo nel 2013
dell’embargo sull’economia iraniana?
Nel 2013 l’allora ministro dell’Economia, Shamseddin Hussein, affermava che le entrate petrolifere della Repubblica Islamica erano diminuite del
50%, portando a 77 miliardi di dollari
tale quota per il 2012. In una energy-economy dove il petrolio costituisce l’80%
delle esportazioni e il 60% delle entrate statali, la caduta delle esportazioni scese a 1 milione di barili al giorno, soprattutto verso Cina e India - ha avuto
effetti devastanti sull’occupazione e
sui prezzi. Così, il rial nel 2013 ha perso il 50% del proprio valore (37% il
tasso d’inflazione ufficiale), mentre la
disoccupazione generale ha superato
il 12% e quella giovanile il 26%.
A ciò si aggiunga che, durante le due
presidenze Ahmadinejiad, il valore
delle aree urbane era cresciuto di oltre
l’80%, mentre quello delle abitazioni
nelle aree medesime si era più che raddoppiato (+220%) e ancor di più era
cresciuto il costo degli affitti (+250%),
provocando nel settore delle costruzioni una vera e propria bolla dei prezzi,
che si è poi tradotta in una scarsità di
abitazioni accessibili. Nel 2007, il presidente stesso aveva lanciato il “Mehr
Housing Plan”: un piano di edilizia popolare rivolto ai ceti meno abbienti,
tradizionale serbatoio di consensi per
la teocrazia sciita, che puntava alla costruzione di 1,5 milioni di abitazioni in
17 città iraniane e che aveva lo scopo di
calmierare i prezzi e risolvere le tensioni abitative (per inciso, il governo voluto dal presidente Rouhani ha poi bloccato il conferimento di appartamenti a
pasdaran e amministratori vicini ad Ahmadinejiad). In realtà, secondo il nuovo ministro dell’economia Ali Tayebnia, il “Mehr Housing Plan” è responsabile di aver alimentato le tensioni inflazionistiche e i gravi problemi di bilancio per la Repubblica.
Secondo il rapporto Iran Sanctions
pubblicato a gennaio 2014 dal Congressional Research Service degli Stati Uniti,
le sanzioni hanno ridotto del 60% le
vendite di petrolio, facendo scendere
a 35 miliardi di dollari i ricavi da
esportazioni di greggio nell’ultimo anno, rispetto ai 100 miliardi del 2011. Il
PIL si è così ridotto del 5% nel 2013.
La produzione auto, tanto per fare
un esempio, si è ridotta del 40% rispetto al 2011: le imprese manifatturiere,
quando non chiudono, hanno una larga sottoutilizzazione degli impianti e
sono costrette a impiegare prodotti cinesi, spesso di mediocre qualità (come
freni per le auto in amianto e vernici
Il dizionario
Nonostante le buone
prospettive circa il dialogo
avviato dalla Repubblica
Islamica con gli USA e
l’Occidente, Teheran non
resiste alla tentazione di
provocare il “Grande
30
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
Satana”. Il presidente
Rouhani ha infatti scelto
come rappresentante
iraniano al Palazzo di
Vetro dell’ONU Hamid
Aboutalebi, accusato di
aver partecipato
all’assalto del 4 novembre
1979 all’ambasciata Usa a
Teheran, durante il quale
furono tenuti prigionieri
52 diplomatici e
funzionari americani
per ben 444 giorni.
aPrile 2014
tossiche), in base all’accordo del
2011 tale per cui il 40% del petrolio esportato in Cina viene pagato in yuan e speso in gran parte per l’acquisto di questi prodotti provenienti da Pechino.
Inoltre, la crescente difficolta di assicurare i pagamenti
cash degli stipendi ai dipendenti dello Stato e l’esplosione
dell’inflazione (stimata tra il
50% e il 70%) hanno indotto il
nuovo governo a rivedere il sistema di sussidi definito da Ahmadinejiad e a distribuire direttamente beni alimentari ai cittadini. Il programma di aiuti alimentari ha dapprima riguardato i cittadini con un reddito inferiore a 5 milioni di rial al mese
(pari a 170 dollari), che ha interessato 4 milioni di persone
su una popolazione di 77.
Quindi, è stato esteso a oltre 17
milioni di iraniani. Per ricostituire le riserve della Banca
Centrale dissanguate dall’embargo, l’Iran ha iniziato a rastrellare oro sui mercati e a esigere in oro anche il pagamento
delle esportazioni, come nel caso del gas alla Turchia.
Infine, per quanto riguarda il
sistema sanitario nazionale, il rapporto pubblicato dal Global Research del Centre for Research Globalization (ottobre 2013) testimonia
il verificarsi di un vero e proprio
disastro sanitario. Non solo l’accesso ai più diffusi sistemi diagnostici - come radiografie, TAC,
RM - risulta spesso compromesso, ma anche l’uso di esami di laboratorio e di anestetici si rivela
quasi impossibile: basti pensare
che l’assenza di kit di laboratorio
costringe a inviare i campioni di
sangue o urine in Turchia. La situazione è ancora peggiore per
quanto riguarda i farmaci per la
cura di patologie più complesse,
come le malattie cardiovascolari
e il cancro (ogni anno 85mila
nuovi casi di cui 30mila mortali,
in crescita per l’impossibilità di
accedere a medicine e trattamenti adeguati e con un’età d’incidenza inferiore ai 30 anni).
Il 20 marzo scorso, gli iraniani
hanno festeggiato Nowruz (capodanno) in un clima di ristrettezze
e disagio, quando non di vera e
propria emergenza economica,
con bazar semivuoti e vacanze rigorosamente in casa, nella speranza però che il nuovo corso delle relazioni internazionali, testimoniate dalla recenti visite a Teheran di
parlamentari e ministri dell’Unione Europea, ripristini al più presto
le condizioni di normalità e riavvii
la crescita economica del Paese,
stimata nelle attuali condizioni dalla Banca Mondiale in un insufficiente +1% nel 2014, +1,8% nel
2015 e +2% nel 2016.
L’opinione degli americani
Le relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e l’Iran sono
migliorate. Qual’è il suo giudizio?
Gli USA fanno bene a promuovere
le relazioni diplomatiche con l’Iran
Gli USA dovrebbero essere
più duri e aumentare le sanzioni
36%
Non sa
28
37
A proposito del programma nucleare iraniano,
pensa che lo scopo sia...
6
Pacifico (energetico)
Militare (bombe nucleari)
63
Non sa
31
Per impedire all’Iran di sviluppare la bomba atomica,
gli USA dovrebbero....
32
Usare i canali diplomatici
6
Usare la forza militare
39
Entrambe
4
Né l’una né l’altra
18
Non sa
Gli USA e altre potenze mondiali hanno raggiunto un accordo di
massima con l’Iran per congelare il programma nazionale sul
nucleare in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni. È favorevole?
Favorevole
44
Contrario
22
Non sa
34
Se l’accordo fallisce, gli USA dovrebbero...
Continuare la via diplomatica
31
Incrementare le sanzioni
49
Usare la forza militare
20
Non sa
25
Sondaggio realizzato tra il 24 e il 26 novembre 2013
su un campione di 591 soggetti.
Intervallo di credibilità 4,9 punti percentuale.
Fonte: Reuters/Ipsos
50%
Traffico d’armi nel Mar Rosso
inizio marzo al largo delle coste sudanesi la marina israeliana ha
sequestrato la nave “Klos-C” battente bandiera panamense, che
nascondeva nelle stive 40 missili M-302, 181 colpi di mortaio e
400 mila proiettili per armi automatiche. Il primo ministro israeliano,
Benjamin Netanyahu, ha subito puntato il dito contro Teheran, definendo
la spedizione nel Mar Rosso un’operazione clandestina organizzata
dal governo iraniano per armare Gaza e colpire così Tel Aviv.
Arrivato da Damasco al porto meridionale iraniano di Bandar Abbas,
il carico ha sostato inizialmente nel porto iracheno di Umm Qasr, dove
sarebbe stato mimetizzato tra sacchi di cemento. Da qui ha ripreso
il mare circumnavigando la penisola arabica, fino al fermo avvenuto
al confine marittimo tra Eritrea e Sudan.
A
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
31
numerO
4
APRILE
2014
Divide et impera
Nel Paese
sconvolto dalla
recessione
e diviso
dalle spinte
separatiste,
l’appello
all’unità regge
solo grazie
alla promessa
di una nuova
Costituzione
yEMEN | dalla corrispondente Laura Silvia Battaglia
un governo regolarmente eletto; economiche, che riducano una crisi salita
alle stelle; strategiche, per dare un segnale di stabilità nel Golfo di Aden
ohammad A. Qubaty, membro della
agli osservatori internazionali. Di fatConferenza per il Dialogo Nazionale,
to, la fine della Conferenza ha sancito
ritiene che la crisi potrà essere supeil prolungamento a un anno della prerata appena ci saranno le condizioni:
sidenza formale di Mansour Hadi. In
“Bisogna affrontare con priorità il
questo lasso di tempo, il presidente ad
problema delle amnistie per i vecchi leader politici e
interim si impegnerà a redigere la
l’annosa questione separatista. Prima si risolve, prima il
nuova costituzione per poi, eventualPaese si rimette al passo”. Così ci diceva due mesi fa.
mente, uscire di scena aprendo la staOggi non è più così fiducioso, nonostante il 28 gennagione delle elezioni.
io, dopo 10 mesi di lavori, la Conferenza si sia chiusa
Le misure più urgenti sono però lecon parole di speranza da parte del presidente ad integate all’economia e alla sicurezza. Dalrim Abdu Rabu Mansour Hadi: “Questo giorno è una
la fine della rivoluzione nel febbraio
pietra miliare dopo decenni di oppressione”. Il giorno
2011 - che si è conclusa con la destituche sarebbe dovuto diventare “la pietra miliare”, Ahzione del presidente storico Ali Abd
med Sharaf al-Deen rappresentante della tribù Houti
Allah Saleh, al potere da 33 anni in Conferenza, è stato freddato da un killer. L’attentato è
l’economia è in caduta libera. Nel
stato rivendicato dai leader tribali della sua stessa rapPaese, già prima delle
presentanza: Saraf al-Deen sarebbe staproteste che hanno cauto accusato di tradimento per avere
sato circa duemila morti
scelto in Conferenza una linea di concie 10mila feriti tra civili e
liazione e dialogo, tradizionalmente
militari, la povertà era
contraria alle spinte separatiste del
dilagante: il 40% degli
Nord e delle tribù sciite di Saada.
yemeniti vive con due
Lo Yemen si prepara a trovare le convive con meno
dollari al giorno o andizioni migliori per andare a future eledi due dollari
che meno e un terzo
zioni ma deve prendere delle decisioni.
deve fare i conti con la
Politiche, che traghettino il Paese verso
al giorno
M
Il 40%
degli
yemeniti
32
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
aPrile 2014
fame cronica. Oggi il valore del rial yemenita è sempre più fluttuante. Per
Faisal A. Darem, economista per il
quotidiano Yemen Observer, “lo Yemen
è un Paese che rischia di diventare
sempre più povero: il deficit di bilancio attuale è di 600 miliardi di Yer, pari
a 2,6 miliardi di dollari, circa il 50% in
più di quel che i funzionari del ministero delle Finanze si aspettavano alla fine del marzo scorso”. Per arginare
questa deriva economica e occupazionale e non arenare i risultati della
Conferenza per il dialogo nazionale,
il presidente ad interim Mansour Hadi ha appena incontrato gli ambasciatori dei Paesi del Golfo, per chiedere
di tenere alto l’interesse sugli investimenti nel Paese.
Ma è la questione sicurezza, quella
che si impone con urgenza: il ministero della Difesa, con l’attacco dei miliziani di Al Qaeda, attuato in grande
stile il 5 dicembre del 2013 (53 persone morte e 162 ferite) e reiterato con
le due esplosioni successive dell’1 febbraio, è diventato un simbolo governativo da abbattere. Nonostante il dispiegamento di forze e i checkpoint a presidio di ministeri e ambasciate, l’organizzazione terroristica mira e colpisce.
Sono sempre più frequenti, tra l’altro,
gli attacchi alle reti informatiche e ai
servizi di erogazione dell’elettricità intorno alla capitale, rivendicati da hacker qaedisti.
Forti delle spinte separatiste, i jihadisti di Ansar al-Sharia e AQAP
(Al Qaeda nella Penisola Araba)
hanno mantenuto il controllo
parziale nelle aree di Abyan, alBayda, nel Ma’rib, e nei governatorati di Shabwah e Lahij, con casi limite come quello di Jaar e Azzan, due città totalmente sotto il controllo dell’ala più intransigente degli
jihadisti, un “governatorato qaedista”,
simile a quello di Raqqa in Siria. Ad
aumentare la rabbia dei separatisti verso il governo e l’adesione, soprattutto
nel Sud, ad Al Qaeda, contribuiscono
gli attacchi dei droni USA sulle aree
tribali, soprattutto desertiche, confinanti con l’Arabia Saudita. Lo scorso 20
gennaio miliziani armati hanno attaccato i checkpoint governativi di Rada’a,
un distretto del governatorato di al-Beida’a. Sono morti sei miliziani e sei soldati, e un ufficiale è stato rapito. Motivo
della protesta: un drone americano, in
un attacco dei primi di dicembre 2013
avrebbe ucciso 12 civili, vicino al villaggio di Qaifa. Il governatorato di al-Beida avrebbe chiesto il cessate il fuoco
nell’area al governo centrale, ma sembra non sia stato ascoltato.
Le regioni del nuovo Stato federativo
Il presidente dello Yemen ha approvato il passaggio del Paese a
una confederazione di 6 regioni, e concesso maggiore autonomia al sud
Azal
ARABIA SAUDITA
Saba
OMAN
Tahama
Janad
Hadramout
YEMEN
Sanaa
100 miglia
Aden
100 km
ETIOPIA
Fonte: Reuters
Aden
Golfo di Aden
Socotra
La questione
meridionale
In Yemen la cosiddetta
“questione meridionale”
assume sempre più peso per
il futuro del Golfo di Aden.
Il leader del consiglio supremo
del Movimento dei Separatisti
del Sud, Hassan Baoum,
nell’ottobre 2013 è stato
chiaro: “Gli yemeniti del Sud
non hanno scelta e chiedono
libertà e indipendenza:
rifiutiamo totalmente una
soluzione parziale”. La spinta
separatista del Sud è infatti la
vera patata bollente nelle mani
della Conferenza per il Dialogo
Nazionale. Una questione
annosa, che risale al 1994,
appena quattro anni dopo
l’unificazione del Nord
e del Sud in un unico Stato
e che, fino a qualche mese fa,
sembrava aprirsi alla
conciliazione, grazie ai dialoghi
di Sanaa. Adesso, dopo gli
attacchi bomba nella capitale,
che si aggiungono ai continui
scontri a Sud con le truppe
governative, non sembrano
esserci molti dubbi. L’unico che
permane è quanto sia intensa
la pressione di Al Qaeda sui
leader tribali che aderiscono al
movimento separatista del Sud.
Da sempre, i separatisti prendono
formalmente le distanze
dall’organizzazione terroristica
e accusano il governo centrale
e l’ex presidente, l’autocrate Ali
Abdullah Saleh, di farsi scudo
con il pericolo qaedista per
combatterli e ottenere appoggi
internazionali.
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33
PLACES
1
2
3
8
9
10
15
16
17
22
23
24
29
30
31
36
37
38
I luoghi meno conosciuti
al mondo
1. KRASNOYARSK, RUSSIA
2. NIAMEY, NIGER
3. RIAD, ARABIA SAUDITA
4. ABLAIN-SAINT-NAZAIRE, FRANCIA
5. DJOUBISSI, REP. CENTRAFRICANA
6. AHMEDABAD, INDIA
7. JERICO, CISGIORDANIA
8. JUBA, SUD SUDAN
9. DARWIN, AUSTRALIA
10. KOLKATA, INDIA
11. BRASILIA, BRASILE
12. GUANGZHOU, CINA
13. PARAÑAQUE, FILIPPINE
14. KOBANE, SIRIA
15. HOMESTEAD, STATI UNITI
16. RIO DE JANEIRO, BRASILE
17. GORENICHY, UCRAINA
18. HANOI, VIETNAM
19. PANJSHIR, AFGHANISTAN
20. SIALKOT, PAKISTAN
21. KABUL, AFGHANISTAN
22. PHOENIX, STATI UNITI
23. SINGAPORE
24. CHANGDE, CINA
25. CHARLESTOWN, STATI UNITI
26. CAPPY, FRANCIA
27. BEIRUT, LIBANO
28. MELILLA, SPAGNA
29. KARO, INDONESIA
30. DEIR AL ZOR, SIRIA
31. STATI UNITI
32. ODISHA, INDIA
33. RIO DE JANEIRO, BRASILE
34. GERUSALEMME, ISRAELE
35. CANTIL, CALIFORNIA
36. PECHINO, CHINA
37. ALLAHABAD, INDIA
38. LONDRA, REGNO UNITO
39. CARACAS, VENEZUELA
40. BANGKOK, THAILANDIA
41. TOKYO, GIAPPONE
42. HAMILTON, CANADA
34
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4
5
6
7
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12
13
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41
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numerO
5
MAGGIO
2014
Uno dei peggiori
fenomeni sociali con
cui l’Occidenti deve
fare i conti è
l’immigrazione africana
verso l’Europa. Mentre
milioni di migranti
cercano una speranza,
il Medio Oriente
perde la propria
arte e umanità.
36
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
SOCIETà
Biglietto
di sola
andat
ta
maggiO 2014
Con l’approssimarsi della stagione
estiva, torna purtroppo
di moda raccontare il dramma
dell’immigrazione verso l’Europa.
Proviamo almeno a tracciare
le rotte e identificare chi gestisce
questo esodo inarrestabile
lIbIA | di Cristiano Tinazzi
D
ue sono le principali
rotte che portano i migranti dall’Africa subsahariana verso Libia e
Tunisia. La prima è
quella Agadez-Dirkou-Sebha. Una rotta
migratoria che attraverso il Niger congiunge Africa Occidentale e Centrale e
si snoda lungo l’antica via carovaniera
per entrare nel Paese nordafricano dal
posto di frontiera di Toumu. Dirkou, a
circa 550 chilometri a sud del confine
con la Libia e a 650 da Agadez, è il punto di raccolta dei migranti che si apprestano a dirigersi a nord e, viceversa, per
tutti coloro che sono stati respinti alla
frontiera. Con una esigua popolazione
che si attesta sulle 14mila unità, la cittadina ha avuto enormi flussi di passaggio negli anni passati, con picchi di
transiti che nel 2011 hanno oltrepassato 60mila unità (la quasi totalità in fuga
dalla Libia in guerra). A partire dal
2012, i flussi hanno ripreso la normale
direzione sud-nord. Nella cittadina è
presente dal 2009 l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM),
che gestisce un centro di transito con
una capienza massima di 250 persone.
le dispute tribali
La rete di trafficanti che gestisce sin
dagli anni Novanta il passaggio di migranti verso Libia e Algeria è gestita da
una decina di “agenzie di viaggi” semiclandestine, con ramificazioni e uffici
ad Agadez. Dirkou ha una popolazione mista, composta da Toubu, Tuareg
e Kanuru, ma sono le prime due etnie
a gestire il traffico dei migranti. Come
popolazioni seminomadi e transfrontaliere risiedono, infatti, in una vasta
area che si estende su diversi Stati. La
maggioranza dei Toubou vive tra le
montagne del Tibesti sul confine libico-ciadiano. I trafficanti, chiamati
“Tchagga”, organizzano il viaggio con
l’assenso della polizia nigerina e in
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
37
numerO
5
MAGGIO
2014
Le rotte delle migrazioni afro-mediterranee
Malaga
Ceuta
Rotte principali
Casablanca
Tunisi
TUNISIA Lampedusa
Melilla
Magniyya
Rabat
Wagda
Sfax
MAURITANIA
Il Cairo
Ghamades
LIBIA
EGITTO
NIGER
BURKINA
FASO
Ouagadougou
Conakry
Freetown
Accra
Monrovia
GHANA
Dirkou
Agadez
Niamey
Porto
Novo
Atbara
Asmara
Khartum
N’Djamena
Kano
SUDAN
ETIOPIA
NIGERIA
Addis Abeba
Lagos
CAMERUN
Yaounde
cambio di soldi, per chiudere un oc- controllare un’area vasta quanto Texas
chio su documenti e certificazioni fal- e Oklahoma e soggetta a scontri armase. Da Dirkou, lungo la strada si rag- ti tra l’etnia Toubu e la tribù araba degiunge Madama, un ex avamposto mi- gli Awlad Suleiman. Scontro dovuto
litare francese e da lì si arriva al posto non solo a rivendicazioni etnico-politidi frontiera libico di Toumu. Da Tou- che, ma anche e soprattutto alla gestione del controllo della frontiera
mu il secondo punto di raccolta
sud. La città di Sebha è svidei migranti è l’oasi di Seluppata su tre oasi (Jebha, nel Fezzan, punto
La Libia
did, Quatar e Hejer) e
dal quale poi si arriva
ha soltanto
rappresenta la città
dopo un lungo viagmadre degli Awlad
gio sulla costa libica.
Suleiman e della sua
famiglia più imporIl Fezzan
uomini per un’area tante, quella del clan
Da sempre crocevia di traffici umani,
vasta quanto Texas Saif al Nasr, alleata
armi e droga, il Fezzan
con gli Abu Saif. Uno
e Oklahoma
è la regione semidesertidei quartieri della città,
ca nel sud della Libia. DalTajuri, è principalmente
l’inizio del conflitto del 2011,
abitato da Toubu e Tuareg.
che ha portato alla caduta del regime
di Gheddafi e alle prime libere elezioni Dal Corno d’Africa all’Italia
nella storia del Paese, il Fezzan contiLa seconda rotta è quella dei flussi
nua a vivere un’emergenza (collegata e migratori originari del
consequenziale agli innumerevoli pro- Corno d’Africa che
blemi di stabilità statuale) relativa ai parte dallo snodo di
flussi migratori verso l’Italia e l’Europa. Khartoum, in Sudan, e
Qui circa 6mila uomini del Comando segue la strada per
militare della Libia del sud devono l’oasi libica di Kufra,
6.000
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
ERITREA
CIAD
BENIN
LIBERIA
Port Sudan
Selima
MALI
Nouakchott
Bamako
Kufra
Toumu
GUINEA
38
Alessandria
Sebha
Tamanrasset
SIERRA
LEONE
Bengasi
Adjabiya
ALGERIA
El Ajum
Dakar
Tripoli
MAROCCO
Wargla
SENEGAL
Malta
Fonte: Frontex, Reuters, Limes
Fonte: Reuters; i-Map; International Organization for Migration
Agadir
Almaria
Le vittime del 2013
Numero di migranti morti in mare
o mentre attraversavano il deserto
Caraibi
Nord Africa
Pacifico
del Sud
Stati Uniti/
Confine
messicano
99
129
214
444
Mediterraneo
707
Golfo del
Bengala
785
Africa/
Medio Oriente
2.000-5.000
(stime)
Il dizionario
La rivolta contro il regime libico
del 2011, porta a una guerra civile
che oppone le forze fedeli a
Gheddafi agli insorti del Consiglio
Nazionale Libico. A seguito della
risoluzione 1973, la NATO interviene
militarmente. Rovesciato il regime,
il potere va alla nuova Assemblea
Congressuale. Tuttavia la crisi politica
non accenna a risolversi. Dopo il
difficile premierato di Ali Zeidan, e di
Al Thinni, oggi il Paese è in mano al
giovane imprenditore Ahmed Maetiq.
fino ad arrivare ad Ajdabiya-Bengasi. La
rotta è praticata in particolare da profughi sudanesi, somali, etiopi ed eritrei.
L’entrata in Libia spesso avviene dal deserto egiziano. Anche a Kufra si scontrano i Toubu con la tribù araba dominante,
gli Sway, per il controllo del potere. Il leader Toubu, Issa Abdul Majid Mansour,
nel 2011 è stato designato dal Consiglio
Nazionale di Transizione - ovvero l’organo che controlla la fase transitoria delle
nuove istituzioni libiche - come supervisore per la frontiera meridionale. Nel febbraio 2012, però, la cooperazione tra
Sway e Toubu, rafforzatasi con la comune
avversione al Colonnello Gheddafi, cessa
e i susseguenti combattimenti tra i due
gruppi causano centinaia di morti da
ambo le parti. In ogni caso, questo non
ha impedito il traffico di esseri umani,
né di armi (o altro) e il punto d’arrivo
finale sulla costa è ancora Tripoli, da
dove poi altri trafficanti organizzano i
ben noti viaggi in mare verso l’Italia.
Terrorismo e traffici
illegali in Nord Africa
Il vuoto di potere che è andato creandosi in Nord Africa nel post-rivoluzioni - complice l’assenza di una risposta forte da parte dei governi centrali, se non il crollo
stesso dell’apparato statuale - ha permesso il consolidarsi di un sostrato jihadista
sahelo-sahariano che sfrutta la porosità delle frontiere per i suoi traffici e per la sua
stessa sopravvivenza e organizzazione logistica. L’incapacità dei governi centrali
di controllare porzioni sconfinate di aree desertiche ha concesso ai gruppi militanti
emergenti di trovare terreno fertile per radicarsi e portare avanti azioni congiunte
su base regionale, pur mantenendo basi distinte e direttive separate per ogni Paese. Restando fermi i legami con Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), che detiene
tuttora la leadership qaedista in questa parte di Africa, i vari gruppi si sono organizzati più o meno su base nazionale, ognuno “specializzandosi” in un determinato
tipo di traffico illecito o azione armata.
ALGERIA
La Brigata “Firmatari col sangue”, di Mokhtar Belmokhtar, responsabile della
strage di Tiguentourine-In Amenas, nasce alla fine del 2012 dalla scissione diretta
di AQIM guidato da Abdelmalek Droukdel. Secondo fonti di intelligence, dal gennaio
2014, avrebbe unito le forze con le organizzazioni di Ansar al-Sharia in Libia e Tunisia. Più di recente, inoltre, ha preso posizione nel nord del Mali e si starebbe specializzando nel sequestro di personale occidentale. Il gruppo di Belmokhtar, tra l’altro avrebbe legami con i “Figli del Sahara per la giustizia islamica” il cui ex
leader, Liamine Boucheneb, contrabbandiere e saharawi arruolato nella milizia armata del Polisario, è stato ucciso durante l’attacco a In Amenas. Il jihadismo algerino, benché tenuto a bada dalle forze di sicurezza centrali, si alimenta dei commerci illeciti con la Libia, in particolare armi e droga.
LIBIA
Il gruppo islamista militante di Ansar al-Sharia (di cui esistono rami separati almeno a Bengasi e Derna) compare ufficialmente sulla lista delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato americano. Ma l’azione armata e i traffici di contrabbando (in particolare, armi e esseri umani) sono gestiti altrettanto fruttuosamente
dalle migliaia di milizie armate presenti sul territorio. Alcune di queste, come la “Brigata dei Martiri di Abu Salim” diretta da Salem Derbi, un veterano dell’Afghanistan,
sposano il connubio militanza-islamismo. Si è diffusa di recente l’esistenza (non
confermata) di un gruppo radicale libico-tunisino, Shabab Al-Tawhid, specializzato nel rapimento di ostaggi in Libia e con apparenti legami con il gruppo jihadista
dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, attivo in Siria (ISIL).
TUNISIA
Il governo tunisino ha ufficialmente dichiarato Ansar al-Sharia organizzazione terroristica nell’agosto 2013. Dopo una prima fase di azioni armate e attentati che hanno colpito turisti e obiettivi politici, destabilizzando il Paese, l’attività dei terroristi tunisini è stata circoscritta all’area del Monte Chaambi (sopra Kasserine, al confine
con l’Algeria) che rimane altamente pericolosa nonostante la crescente risposta militare. L’area è fortemente soggetta al contrabbando di droga e armi.
EGITTO
Il jihadismo egiziano è diretta espressione dei Fratelli Musulmani, il cui movimento
è stato dichiarato organizzazione terroristica dal governo del Cairo nel dicembre
2013. Dopo la destituzione del presidente islamista, Mohammed Morsi, la situazione
è particolarmente degenerata nel Sinai, dove il gruppo di Ansar Beyt al-Maqdis,
affiliato di AQIM, ha raccolto decine di migliaia di beduini fondamentalisti prendendo di mira militari e turisti. Ulteriori gruppi jihadisti (“Ansar al-Shari’a nella Terra di Kinana” e Ajnad Misr), emersi più di recente, hanno esteso la loro attività
anche ai centri abitati, colpendo sia università sia sedi e personale della polizia.
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39
numerO
5
MAGGIO
2014
L’arte della
guerra
I colpi di stato e le guerre civili che negli ultimi
anni hanno interessato le coste meridionali
del Mediterraneo hanno danneggiato gravemente
i patrimoni archeologici dell’intera area.
L’intervista al critico d’arte philippe Daverio
AFGHANISTAN
Nel 2001 distrutti
dai talebani i Buddha
di Bamiyan
III secolo d.C.
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LOOKOUT 14 - dicembre 2014
maggiO 2014
MEDITERRANEO |
di Rocco Bellantone
T
ra le rovine dei
governi caduti in
Nord Africa e Medio Oriente non giace
solo il tradimento delle
velleità di democrazia alla base delle
prime rivolte del 2011. Oltre ai rais e ai
dittatori, spodestati dopo decenni di potere, le vittime eccellenti di queste guerre sono le centinaia di beni archeologici
e artistici devastati da bombardamenti e
saccheggi o, nel migliore dei casi, alla
mercé di trafficanti d’arte. A lanciare l’ultimo appello è stata pochi mesi fa l’UNESCO, che per tamponare quest’emorragia sempre più profonda (soprattutto in
Egitto, Siria e Libia), ha proposto interventi di vigilanza coordinati tra le organizzazioni internazionali specializzate
nella conservazione dei siti e dei reperti
storici. “Il problema però - spiega il critico d’arte Philippe Daverio - è che questi
gridi d’allarme serviranno a ben poco fino a quando i conflitti in corso non permetteranno di accedere a queste aree”.
Qual è l’entità dei danni nel Mediterraneo?
È una crisi trasversale che interessa
un’area estesissima, che va dall’Algeria all’Iraq alla Siria, passando anche per l’Africa subsahariana. Qui il disordine politico
e sociale ha ormai preso il sopravvento, i
patrimoni artistici sono rimasti incustoditi subendo inevitabilmente danni e perdite gravissime. I reperti archeologici in
ALGERIA
TUNISIA
Siria sono stati massacrati, soprattutto gli scavi di Ebla. Aleppo,
un tempo la città più bella
del Mediterraneo dove era
rappresentata tutta l’era della prima cristianità, di fatto
oggi non esiste più. Per non
parlare dei bellissimi edifici storici di Baghdad, o di quella meraviglia di
Timbuctù in Mali, dove gli estremisti islamici hanno fatto saltare in aria tombe
antichissime. Anche se il caso più emblematico rimane certamente la distruzione dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, distrutti dai talebani nel 2001. Guai
però a credere che si tratti solo di un fenomeno che riguarda i Paesi arabi.
Vale anche per l’Occidente?
In passato gli europei non sono stati
di certo meno “criminali”. In epoca
calvinista e luterana, gran parte dell’iconografia religiosa è stata data alle
fiamme. Nella rivoluzione francese la
stessa sorte è toccata dai decori delle
chiese gotiche, mentre gli unici ritratti
di pregio di Napoleone Bonaparte sono stati confinati al Museo del Risorgimento di Milano. Nelle fasi conclusive
della seconda guerra mondiale gli
americani potevano evitare di bombardare Montecassino o radere al suo la
cattedrale di Brandeburgo, ma non lo
hanno fatto. L’umanità è fatta così. Le
società si riconoscono sempre in grandi immagini, e se ci sono conflitti sono
queste a essere distrutte per prime.
Dietro saccheggi e razzie opera una
rete internazionale del mercato nero?
Contesa
sulla Maschera
della Gorgone
Quello a cui abbiamo assistito di recente ha poco a che fare con i trafficanti d’arte. Una cosa è derubare un sito
archeologico, un’altra è devastarlo. Chi
è entrato in azione a Baghdad, in Afghanistan o in Siria non ha avuto nessuna sensibilità per ciò si è trovato di fronte. C’è poi da tenere conto delle eccentricità dei dittatori. In Tunisia, Ben Ali
considerava ogni cosa di sua proprietà,
basti pensare al furto della Maschera
della Gorgone che appartiene all’Algeria. I Paesi del Golfo più ricchi, come il
Qatar ad esempio, stanno investendo
per la conservazione di alcuni patrimoni come è accaduto per le piramidi in
Sudan. Ma da altre parti, come a Gerico
in Cisgiordania, la situazione è preoccupante. Per non parlare del Tibet, altra
questione tabù per via degli interessi
della Cina.
L’Italia può avere un ruolo nella tutela di questi beni?
L’Italia ha sempre avuto più che altro un ruolo diplomatico. Ha mai sentito parlare di una proposta di intervento da parte del nostro ministero
degli Esteri o dell’organizzazione di
missioni congiunte con i ministeri della Difesa e della Cultura in queste aree
di crisi? Eppure abbiamo le conoscenze e le competenze per essere in prima
linea. D’altronde, in queste aree di conflitto a contare sono altri aspetti, quello
umanitario in primis ma anche quello
commerciale ed energetico. E mettere
il bene dell’archeologia sullo stesso piano di questi interessi allo stato attuale è
praticamente impossibile.
SIRIA
AFGHANISTAN
Rubata nel 1996
MALI
Distrutti
i mausolei
di Timbuctù
XIV secolo d.C.
A rischio
gli scavi
archeologici
di Ebla
3.000 a.C.
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numerO
6
GIUGNO
2014
La guerra non è solo Jihad.
Vista con gli occhi dell’Occidente è soprattutto
una questione economica fatta di numeri
e di commesse commerciali,
come insegna la storia degli aerei F-35.
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
43
numerO
6
GIUGNO
2014
ITAlIA | di Marco Giaconi
S
ul tema dell’acquisto degli
F-35 JSF (Joint Strike Fighter)
si intersecano tre questioni:
cosa farne della Difesa Aerea
italiana e della strategia nazionale futura; come impostare il rapporto con gli USA dopo la crisi siriana
e le “primavere” del Maghreb; infine,
come rimodulare il rapporto tra Italia e
UE, che è di stampo politico-monetario ma anche strategico-militare.
Comprare novanta F-35 (e il progetto JSF ci è già costato, dal suo inizio
nel 1993, ben 2,5 miliardi di euro)
malgrado la “pausa di riflessione” indotta dal futuro Libro Bianco e il “dimezzamento delle spese di acquisto”
richiesto dalla Commissione Difesa il
7 maggio scorso, risponderà simultaneamente a tutte le tre domande.
F-35
Difesa aerea
Il costo annuale
dell’F-35 per
l’Italia era 500,3
milioni di euro
nel 2013,
divenuto 535,4
mln nel 2014
e arriverà a 657,2
mln nel 2015
colpito o affondato?
Se si comprano gli F-35 avremo ancora una Difesa aerea credibile, se rimaniamo “tra color che son sospesi”
l’Italia manifesterà invece, anche sul
piano militare, quel declino attuale
che la sta portando al suo stadio prerisorgimentale: le botteghe senza lo
Stato, il sogno dei nostri concorrenti e
l’incubo dal quale voleva sfuggire Machiavelli nel suo Principe.
I dati: i Tornado, gli AMX e gli
AV-8B dell’Areonautica e della Marina Militare termineranno la loro
vita operativa tra il 2018 e il 2025.
Se le nostre Forze Armate radieranno
250 aerei - considerando che il tasso
di sostituzione dell’F-35 è di uno a
due - allora ci basterà avere negli hangar della Difesa 131 aerei, proprio
44
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
quelli richiesti all’inizio dell’ingresso italiano nel progetto JSF.
Lockheed Martin
La flotta italiana è costituita ancora
Il 16 agosto 1912, Glenn L. Martin
oggi dai “Tornado” Panavia
fondò la Glenn L. Martin
(prodotto fin dal 1979),
Company a Los Angeles,
Il declino
dall’Harrier
AV-8B
California, costruendo il
suo primo aereo in una
attuale della
(sempre degli anni
chiesa presa in affitto.
’70) e dall’EurofiQuattro mesi più tardi,
gher (costruito fin
Allan e Malcolm
dalla metà degli anni
Lockheed fondarono la
Novanta), ovvero tutAlco Hydro-Aeroplane
ti modelli da “Guerra
ci sta portando
Company, poi
Fredda”. Mentre l’Fribattezzata Lockheed
a uno stadio pre35 è un aereo per attacAircraft Company, in un
risorgimentale
co al suolo stealth che
garage. Oggi il colosso
dell’ingegneria aerospaziale
opera in contesti da networkè il maggior contraente militare
centric warfare, per azioni antiteral mondo con un fatturato da 45 mld
rorismo e in aree isolate. Del resto, aldi dollari (2013).
ternative per il rinnovamento della
DIFESA
ITAlIANA
giugnO 2014
flotta aerea non ve ne
erano: il Rafale francese
avrebbe distrutto la nostra industria sensoristica e sarebbe costato più
dell’F-35, gli altri velivoli
non sono in configurazione navale, mentre
l’HornetSuper americano
è già datato. I famosi costi finali per il programma F-35, saranno di 10
miliardi di euro per 90
aerei, che non è affatto
una cifra irrazionale.
L’Italia ha poi Cameri
(Novara), ovvero l’unica
struttura permessa fuori
dagli USA che può assemblare sia gli F-35, sia i
prossimi caccia di Quinta
Generazione. E ci sono
oltre 90 contratti per circa 30 aziende italiane legati al JSF, che valgono
667 milioni di dollari.
Si dice che ci siano stati,
e ci siano ancora oggi difetti nella progettazione/configurazione del JSF. Ma questa è la norma
per un caccia evoluto: gli “errori” per
l’AMX o per l’F-16 furono ancora più gravi. Pura controinformazione.
Certo, nelle (rosee) prospettive - oggi irrealizzate - dei nostri programmatori, delle alternative ci sarebbero, anche se tutto il progetto della FACO di
Cameri è già costato 795 milioni di euro e dovrebbe creare un indotto per
10mila lavoratori.
Si tratterebbe magari di reimpostare
il progetto Eurofighter dove, diversamente da quello che accade con il JSF,
avremmo pieno possesso della tecnologia informatica che invece gli USA
terranno “coperta” anche agli alleati
più stretti (come Israele e Singapore,
che partecipano al JSF) e di iniziare
una grande progettazione di droni
unmanned (senza equipaggio) con il
resto degli alleati UE.
Ma riprodurre gli Eurofighter costerebbe più o meno tanto quanto
Gli ordini degli F-35 Paese per Paese
Aeronautica
STATI
UNITI
1,763
340
Velocità
Marines
80
Larghezza
Max.
g-rating
F-35A
Marina
260
REGNO UNITO
138
TURCHIA
100
AUSTRALIA
100
85
PAESI BASSI
CANADA
Lunghezza Altezza
65
60
Decollo
e atterraggio
convenzionali
Mach
1.6
51.4 ft / 14.4 ft / 35 ft /
15.7 m 4.38 m 10.7 m
9.0
F-35B
Decollo
e atterraggio
verticali
Ascensione verticale
Spinta posteriore
ITALIA
30
Mach
1.6
NERVEGIA
52
GIAPPONE
42
F-35C
40 (Variabili)
Struttura
modificata
COREA DEL SUD
DANIMARCA
30
ISRAELE
19
SINGAPORE
12
51.2 ft / 14.3 ft / 35 ft /
15.6 m 4.36 m 10.7 m
7.0
Superficie alare
maggiore
Ali pieghevoli
Mach
1.6
51.5 ft / 14.7 ft / 43 ft /
15.7 m 4.48 m 13.1 m
7.5
Fonte: Reuters, Lockheed Martin Corp.
produrre l’F-35. E poi, sono veri alleati gli europei?* Avremmo il pieno disvelamento delle tecnologie per i droni? Infine, ci sarà un progetto strategico comune con il resto dell’Europa,
ormai destinata alla provincializzazione strategica come e più dell’Italia?
Sembra improbabile.
Allora meglio seguire la linea dell’F-35,
cercando di ricontrattare con gli
USA sia la questione tecnologica (la
copertura stealth delle superfici)
sia il tema delle “librerie” informatiche, che dovrebbero essere agibili
e modificabili anche dai tecnici italiani. Altrimenti, come qualche
analista ha detto, avremo un aereo
per il quale dovremo chiedere agli
USA anche il permesso di accensione del motore.
*Scrive in proposito Gianluca Di Feo
sul settimanale l’Espresso:
“La Gran Bretagna si sta muovendo
per convincere i governi europei ad
affidare la manutenzione dei loro F-35
a uno stabilimento britannico,
tradendo l’impegno a svolgere questa
attività nell’impianto di Cameri
(Novara), costruito proprio puntando
a questo affare. Londra avrebbe già
convinto la Norvegia a dirottare i
contratti dall’impianto piemontese alla
base inglese di Marham, nei dintorni
di Nolfolk”.
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
45
geOPOlitiCa
numerO
13
NOVEMBRE
2014
Uno dei dossier in
mano all’Alto
Rappresentante
dell’Unione Europea,
è certamente l’ascesa
del Califfato in Siria
e Iraq. Ma che cos’è
lo Stato Islamico
e come si foraggia?
46
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
Come si
finanzia
lo Stato
Islamico
nOVemBre 2014
l’ascesa del gruppo
è stata possibile anche
grazie alle enormi
disponibilità economiche,
calcolate oggi intorno
ai due miliardi di dollari.
estorsioni, contrabbando,
riscatti di ostaggi, ma
soprattutto vendita del
petrolio al mercato nero,
finanziamenti esteri
e razzie nelle banche.
ma quanto pesano queste
voci nel bilancio
dei jihadisti sunniti?
di Luciano Tirinnanzi
IRAQ
uando a giugno le armate di Abu Bakr
Al Baghdadi conquistano Mosul, nella
Iraq’s United Bank for Investment trovano un tesoro di 500 miliardi di dinari
- oltre 450 milioni di dollari, un quarto
del patrimonio totale - che permette
loro di fare il salto di qualità. Ma, in
parte, questa notizia è propaganda.
Athil al-Nujaifi, governatore della provincia
di Ninive (dove si trova Mosul), ha confermato
come i jihadisti sunniti abbiano razziato numerosi milioni da questa e da altre banche nell’area. Ma la grande banca finanziaria irachena
fino a poche settimane fa sosteneva che quel
mezzo miliardo di dollari ghermito dai miliziani dalla filiale di Mosul “non è mai stato
rubato” e che la banca continua a operare
normalmente.
Eppure, è un fatto che Mosul sia stata ampiamente saccheggiata di soldi, armi e mezzi
prima di divenire la capitale irachena del Califfato, controllata direttamente dalle milizie del Califfo, che ha scelto proprio questa città per fare la
sua prima e unica apparizione in pubblico.
Q
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
47
numerO
13
NOVEMBRE
2014
LA CADUTA DI MOSUL
Base militare di Al Kindi
Tigris
Mosul
Baghdad
Musherfa 6
Avanzata
dei combattenti
IS
Haramut 6 Tamoz 17
6
Mosul Hotel
8 9
Hay al-Islah al-Ziraie 6
Hay Tanak 6
Hay Uraibi
IRAQ
10 Gharawi cade in un’imboscata
Iraqi Operation 7
Command
Aeroporto di Mosul
2 miglia
2 km
GIUGNO
6
Intorno alle 03:20,
i combattenti
dello Stato
Islamico entrano
a Mosul attraverso
cinque distretti
lungo il bordo
occidentale
della città.
I miliziani di IS fanno
strage della polizia
irachena nella parte
settentrionale del
quartiere Tamoz 17.
La Terza divisione
dell’esercito iracheno
abbandona il bordo
occidentale della città
e anche tra la polizia
iniziano le defezioni.
7
Qanbar, vice capo
del personale del
ministero della
Difesa, e Ghaidan,
comandante delle
forze di terra
irachene, arriva
a Mosul e assume
il controllo
da Gharawi,
capo dei federali.
8
9
Arrivano altre
truppe IS che
assaltano una
stazione di polizia
nel quartiere Hay
Urabi e poi si
dirigono all’Hotel
Mosul. Continuano
le diserzioni e
le fughe di
poliziotti e federali.
Un’autocisterna riempita con
esplosivo esplode di fronte all’Hotel
Mosul, mettendo in fuga gli ultimi
federali e poliziotti rimasti. IS
raggiunge il lato occidentale del
fiume Tigri. Esercito e ufficiali locali
si riuniscono al Comando Operazioni
intorno all’aeroporto. Qanbar
e Ghaidan si dirigono verso la base
militare di Al Kindi, che poi
abbandonano nella notte.
10 Gharawi lascia
il Comando
Operazioni e
attraversa il Tigri,
dove cade in
un’imboscata, ma
riesce a fuggire
dalla città a bordo
di un veicolo
corazzato.
fonte: reuters
il caso della banca di mosul
I soldi spariti dalle casse della United Bank facevano parte delle riserve liquide e auree dell’istituto di credito. Vanno esclusi invece i titoli quotati in borsa, i quali sono facili
da controllare e da bloccare. Il bilancio dell’istituto bancario iracheno al 31 marzo di quest’anno mostrava che la banca centrale (di cui Mosul è solo una delle 21 filiali) aveva in
pancia 227 miliardi di dinari investiti, 371 mld di depositi,
“
nella pen-drive di un corriere dello Stato Islamico, intercettato
dai servizi segreti iracheni. Dunque, mancherebbe all’appello
un altro miliardo di dollari. Se ne deduce che il grosso dei finanziamenti allo Stato Islamico giunga da altre fonti. Quali?
il finanziamento internazionale
Come noto, uno dei cinque pilastri dell’Islam su cui si
basa la professione di fede di ogni buon musulmano, è la
Zakat, traducibile come “elemosina” nel
suo senso più nobile: è fatto obbligo per
ogni musulmano dimostrare la propria
benevolenza e misericordia verso i propri
fratelli attraverso la donazione spontanea
di una parte delle proprie ricchezze.
Un sistema che può travalicare la fede
e può servire da finanziamento occulto
per attività niente affatto connesse con
le pratiche religiose o sociali, come ad
esempio la jihad. Arabia Saudita e Qatar sono direttamente
coinvolte in questo senso. Non si tratta solo di accuse, ma
di considerazioni che provengono da numerose istituzioni,
a cominciare dalla Casa Bianca.
Già nel 2001 gli Stati Uniti avevano creato unità specializzate nello screening dei flussi finanziari esteri, concentrando le indagini proprio sulla Penisola Araba, e facendo
conseguentemente pressione sui governi di Arabia Saudita,
Kuwait e Qatar per reprimere il finanziamento di gruppi
estremisti. Che tuttavia non si è mai interrotto.
QATAR E ARABIA SAUDITA
SONO COINVOLTE NEL FINANZIAMENTO
61,5 mld di provvigioni e solo 38 mld di riserve. Se i dati
della United Bank sono corretti, la cifra reale di cui i miliziani hanno potuto usufruire realmente si aggira allora intorno ai 120 miliardi di dinari, pari a circa 85 milioni di
dollari. Forse ancor meno. Sempre che le riserve si trovassero tutte a Mosul. In ogni caso, si tratta di una cifra ben
lontana dai 450 milioni di dollari denunciati. Prima della
caduta di Mosul, sappiamo per certo che la reale disponibilità economica del Califfato era pari a 875 milioni di dollari.
La notizia è giunta a noi attraverso i dati contabili scoperti
48
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
”
nOVemBre 2014
nelle casse del Califfato quotidianamente una cifra compresa tra i 200 e i 400 mila dollari, attraverso la vendita del
greggio al mercato nero, al governo turco e allo stesso regime siriano. Controllare le strade da Jarabulus a Kobane in
Siria e l’autostrada che corre lungo la provincia di Anbar in
Iraq, consentirà a IS di incrementare tali commerci, che avvengono per lo più su gomma, attraverso autocisterne.
Anche le razzie perpetrate a danno delle
aree archeologiche garantiscono una straordiMARZO 2014
Il documento del
naria fonte di finanziamento (la Siria, afferma
bilancio ufficiale
l’UNESCO, possiede oltre 10mila siti greci, rodella United Bank
mani, ottomani e di altre civiltà). Secondo l’inof Iraq
telligence britannica, solo i saccheggi presso il
sito archeologico intorno ad Al Nabuk, tra le
montagne Qalamoun a ovest di Damasco, hanno portato allo
Stato Islamico guadagni per 36 milioni di dollari.
Inoltre, le immagini satellitari della città greco-romana di
Apamea mostrano distintamente scavi e dissotterramenti
incontrollati con i bulldozer, a riprova di quanto spaventoso sia il livello di razzie raggiunto da parte dei predoni che
operano per conto dei jihadisti sunniti, e di quanto remunerativo sia questo business.
Questi tre governi hanno anzi affermato che parte delle
donazioni, emerse come chiara fonte di finanziamento diretta ai combattenti in Siria dal 2011 in poi, sono giustificate dalla necessità di sostenere le forze ribelli in Siria contro
il regime di Bashar Al Assad.
Enti di beneficenza e singoli uomini facoltosi del Golfo
hanno dunque effettivamente donato, sia pur indirettamente, cifre enormi a enti o soggetti collegati tanto all’esercito Siriano Libero quanto a Jabhat al-Nusra, sia attraverso bonifici
sia per tramite di emissari con valigette piene di contanti.
Secondo una nota informativa del Brookings Doha Center (ente di ricerca politico-economico del Qatar, con sede
anche a Washington), a maggio scorso la gran parte della
raccolta fondi privati e di beneficenza per l’insurrezione in
Siria era concentra nelle sole aree dove operano i jihadisti.
Fino alla fine dello scorso anno, dicono fonti inglesi ben
informate, è stato possibile rintracciare i dettagli dei depositi bancari internazionali per le donazioni. Oggi questo metodo è stato
sostituito da comunicazioni cellulari, contatti telefonici e account
WhatsApp utilizzati per coordinare le donazioni e trasmettere indirizzi stradali dove raccogliere fisicamente il denaro.
petrolio e archeologia
Per capire come funziona l’economia dello Stato Islamico, non vanno dimenticati i profitti dei giacimenti petroliferi che ancora controllano in Siria orientale e nel Nord
dell’Iraq. IS esporta circa 9mila barili di petrolio al giorno
a prezzi che vanno dai 25 ai 45 dollari al barile. Il che porta
le tasse
Infine, lo Stato Islamico ha creato anche un vero e proprio
sistema di tassazione, tanto in Siria quanto in Iraq, che colpisce sia le piccole e medie imprese sia i cittadini musulmani e
non, con relativi distinguo. Nella loro capitale irachena Mosul, ad esempio, oltre agli esercizi commerciali, le tasse vengono imposte anche alle compagnie telefoniche che dispongono di ripetitori nelle zone controllate da IS. Nella capitale
siriana Raqqa, invece, agli imprenditori si richiedono 20 dollari ogni due mesi in cambio di energia elettrica, acqua e sicurezza per la propria azienda. Un tributo che, in maniera
lungimirante, è inferiore alle tasse (e alle tangenti) che prima
erano dovute al governo di Assad. Ai cristiani, inoltre, è stata
imposta la Jizya, la stessa tassa che il profeta Maometto richiedeva alle comunità non musulmane in cambio di protezione. Tutti i tributi vengono riscossi attraverso rappresentanti
politici locali e gestiti dalla Banca di Credito di Raqqa, che oggi funziona come autorità fiscale almeno per la Siria e le cui
ricevute portano il timbro con il logo dello Stato Islamico.
Discorso simile vale per gli stipendi ai funzionari pubblici
e ai soldati, che si aggirano intorno ai 500 dollari al mese,
per un totale di circa 60mila uomini. Fa 360 milioni l’anno
che possono uscire dalle casse dello Stato Islamico, meno
di un quarto delle ricchezze totali, il cui resto può dunque
essere investito ancora a lungo nella loro “Guerra Santa”.
Il Califfato, dunque, si sta comportando esattamente come uno Stato sovrano e ha dato vita a un sistema tradizionale di economia di guerra che, ahimè, funziona fin troppo
bene. Se non si capisce questo, non si comprende appieno
la sua forza e la sua pericolosità.
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numerO
13
NOVEMBRE
2014
LA CATENA DI COMANDO DELLO STATO ISLAMICO
CONSIGLIO
DELLA SHURA*
(CONSIGLIERI MILITARI
E RELIGIOSI)
MEMBRI
ANZIANI
(CONSIGLIERI)
ABU MUSAB AL ZARQAWI
LEADER DI AL QAEDA IN IRAQ E IDEATORE
DEL PROGETTO PRIMORDIALE DELLO “STATO ISLAMICO”
ASSASSINATO NEL 2006 DAGLI USA
ABU SHEMA
RESPONSABILE ARMAMENTI
ABU MOHAMMAD AL-ADNANI
PORTAVOCE DELLO STATO ISLAMICO
ABU KIFAH
RESPONSABILE GUERRIGLIA E ATTENTATI
ABU OMAR AL-SHISHANI
COMANDANTE DELLE FORZE ARMATE IN SIRIA
ALIAS “IL CECENO”
ABU SUJA
CONSIGLIERE AFFARI CONNESSI
CON LA RELIGIONE
ABU BAKR AL-BAGHDADI
FONDATORE
E DEL CALIFFATO E LEADER ASSOLUTO DELLO STATO ISLAMICO
IS
CONOSCIUTO COME CALIFFO IBRAHIM
*Sono indicate
solo le figure chiave
CAPO DI STATO E DI GOVERNO ATTUALMENTE AL POTERE
GABINETTO DI GUERRA
BRACCIO ESECUTIVO
?
LUOGOTENENTI
ABU MUSLIM AL-TURKMANI
ABU ARI AL ANBARI
VICE DI AL BAGHDADI E COMANDANTE IN IRAQ
VICE DI AL BAGHDADI E COMANDANTE IN SIRIA
GOVERNATORI
DELLE PROVINCE IRACHENE
50
GOVERNATORI-EMIRI
DELLE PROVINCE SIRIANE
FINANCE COUNCIL
MILITARY COUNCIL
SECURITY COUNCIL
MEDIA COUNCIL
ARMI, PETROLIO, ECONOMIA
DIFESA E DOGANE
POLIZIA INTERNA E GIUDIZIARIA
MASS MEDIA E SOCIAL NETWORK
LEADERSHIP COUNCIL
FIGHTERS ASSISTANCE COUNCIL
INTELLIGENCE COUNCIL
LEGGI E KEY POLICIES
GESTIONE COMBATTENTI STRANIERI
SERVIZI SEGRETI
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
nOVemBre 2014
Figure chiave di IS
ABU MUSLIM AL-TURKMANI
“NUMERO DUE” DEL CALIFFATO
Forse la figura più importante dopo il
Califfo stesso, Al Turkmani è un
esperto militare iracheno, proveniente
dai ranghi dei baathisti. Ha servito
Saddam Hussein come generale
dell’esercito, come membro della guardia
repubblicana (nelle forze speciali del palazzo
presidenziale) e ha militato anche nella disciolta
Istikhbarat, l’intelligence militare di Baghdad, sino
al 2003. Come Al Baghdadi, anche Al Turkmani è
stato imprigionato a Camp Bucca, le discusse
carceri irachene sotto il controllo americano
durante l’invasione che ha deposto il regime. Oggi
governa le province irachene ed è a capo delle
operazioni militari in Iraq. Potrebbe essere morto
durante il raid americano dell’8 novembre 2014 su
Qaim (Iraq) in cui sarebbe stato ferito lo stesso Califfo.
ABU OMAR AL-SHISHANI
ALTO COMANDANTE IN SIRIA
Nome di battaglia “Al Shishani”,
conosciuto anche come “il ceceno”, è
nato in Georgia nel 1986. Ha
combattuto nelle fila dei ribelli siriani
contro il regime siriano di Assad, prima
di prestare giuramento al Califfato nel
2012. Figura chiave dell’alto comando
militare, Shishani è a capo delle operazioni in
Siria e ha condotto anche la vittoriosa campagna
militare che ha portato lo Stato Islamico ad avere
il controllo dell’Iraq del nord. Ormai leggendario
tra i miliziani, il suo volto caucasico e in
particolare la sua barba rossiccia sono ormai
divenuti un’icona: la sua immagine compare in
numerosi video realizzati dalla propaganda
jihadista mentre la sua faccia viene riprodotta su
auto, carri armati, muri e persino t-shirt. Per tale
ragione, i giornalisti lo chiamano anche “ginger
jihadist”. Attualmente, si ritiene stia conducendo la
campagna contro i curdi al confine turco-siriano.
ABU MOHAMMAD AL-ADNANI
PORTAVOCE E “IDEOLOGO DI IS”
Nato nel 1977 a Idlib, in Siria, Al Adnani
è indicato come un combattente
jihadista sin dai tempi della guerra in
Iraq del 2003, anche se gli americani lo
hanno inserito nell’elenco dei “terroristi
internazionali” soltanto nel 2013. Descritto
come appassionato lettore e assiduo
frequentatore di moschee, sotto il Califfato
Al Adnani è divenuto una sorta di Ministro per
la Propaganda. È lui che sovrintende a tutte le
comunicazioni ufficiali e ai messaggi veicolati ai
media da IS. Si ritiene anche che abbia personalmente
curato la dichiarazione ufficiale multilingue del 29
giugno 2014 (foto in alto), che annunciava al mondo
la creazione dello Stato Islamico.
Proclama dello
Stato Islamico
robabilmente, lo Stato Islamico è
un parto dello Stato maggiore della
difesa irachena, promosso da quella parte di sunniti che si sono rifiutati di subire discriminazioni etnico-religiose. In ogni caso, il gruppo
è cresciuto oltre ogni aspettativa e oggi ha debordato in una forma arcaica di teocrazia, dove vige principalmente la legge della spada. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, può essere utile leggere la proclamazione
della nascita dello Stato, “La promessa di Allah”.
P
Lo Stato islamico - rappresentato da Ahl-Halli-wal -’aqd
(l’autorità del proprio popolo), composto da personalità di
alto livello, dirigenti e dal Consiglio della Shura - ha deliberato di annunciare l’istituzione del Califfato Islamico, la
nomina di un khalifah (Califfo) per i musulmani, e il pegno di fedeltà allo shaykh (Sceicco), il Mujahid, lo studioso
che pratica ciò che predica, il fedele, il leader, il guerriero,
il rinnovatore, discendente dalla famiglia del Profeta, lo
schiavo di Allah Ibrahim, Ibn ‘Awwad Ibn Ibrãhim Ibn’ Ali
Ibn Muhammad al-Badri al-Hashimi Husayni al-Qurashi per lignaggio, as-Sãmurrã’i per nascita ed educazione, al-Baghdadi per dimora e studio. E lui ha accettato la bay’ah (pegno di fedeltà). Così, egli è l’imam e khalifah per i musulNASCITA DEL CALIFFATO mani in tutto il mondo. Di conseguenza,
in nome dello Stato islamico l’Iraq e
Sham (ISIS) è d’ora in poi rimosso da tutte le deliberazioni
e le comunicazioni ufficiali, e il nome ufficiale dalla data
della presente dichiarazione è Stato islamico.
Chiariamo ai musulmani che con questa dichiarazione
del Khilafah (Califfato) spetta a tutti i musulmani di giurare fedeltà al khalifah Ibrahim e sostenerlo (che Allah lo preservi). La legittimità di tutti gli Emirati, i gruppi, gli stati e
le organizzazioni, diventa nulla per l’espansione dell’autorità del Khilafah e l’arrivo delle sue truppe nei loro territori.
Imam Ahmad (che Allah abbia misericordia di lui) ha detto, come riportato da ‘Abdus Ibn Malik al-’Attãr: “Non è
permesso a nessuno che crede in Allah di dormire senza contemplare come proprio capo chiunque li conquisti
con la spada fino a che non diventa
Khalifah e si chiama Amirul-Mu’minin (il capo dei credenti), sia che queSTIME CIA
sto leader sia un giusto o un peccatore”.
2014
29 giugno
31.500
miliziani ISIS
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RAGES
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Le principali manifestazioni
di rabbia e dissenso nel 2014
1. BANGKOK, THAILANDIA
2. BRUXELLES, BELGIO
3. TRIPOLI, LIBIA
4. CARACAS, VENEZUELA
5. BAGHDAD, IRAQ
6. AMRITSAR, INDIA
7. OUAGADOUGOU, BURKINA FAS
8. IL CAIRO, EGITTO
9. JOHANNESBURG, SUDAFRICA
10. RIO DELLE AMAZZIONI, BRASILE
11. TAIPEI, TAIWAN
12. ODESSA, UCRAINA
13. MADRID, SPAGNA
14. LONDRA, REGNO UNITO
15. PHNOM PENH, CAMBOGIA
16. BANGUI, REPUBBLICA CENTRAFRICANA
17. GERUSALEMME, ISRAELE
18. SANAA, YEMEN
19. HOMS, SIRIA
20. DIYALA, IRAQ
21. KIEV, UCRAINA
22. RAJSHAHI, BANGLADESH
23. ATENE, GRECIA
24. HONG KONG, CINA
25. BRUXELLES, BELGIO
26. COLOMBO, SRI LANKA
27. SANAA, YEMEN
28. BRUXELLES, BELGIO
29. ISTANBUL, TURCHIA
30. GERUSALEMME, ISRAELE
31. SAN CRISTOBAL, VENEZUELA
32. MAOMING, CINA
33. BOGOTÀ, COLOMBIA
34. GERUSALEMME, ISRAELE
35. SANAA, YEMEN
36. KATHMANDU, NEPAL
37. JALAZOUN, TERRITORI PALESTINESI
38. LONDRA, REGNO UNITO
39. MELILLA, SPAGNA
40. ATENE, GRECIA
41. MPEKETONI, KENYA
42. GERUSALEMME, ISRAELE
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eCOnOmia
2015, come superare
la tempesta perfetta
analisi comparata dell’andamento e delle prospettive per le economie
mondiali. dall’italia al resto del mondo, l’anno che verrà stabilirà il ruolo
e il peso di ciascun paese per il prossimo decennio
di Ottorino Restelli
“
on cambia niente, non c’è niente di nuovo. È la stessa vecchia,
tetra atmosfera di crisi, la sensazione che non possa peggiorare ancora molto senza che qualcosa ceda. Ma non cede niente.
Si moltiplicano soltanto i luoghi
comuni: la rovina, il crollo, la nave dello
stato che affonda, il punto di non ritorno, l’equilibrio precario, l’edificio pericolante, il tempo che scorre inesorabile...”
Questo non è un editoriale dell’anno in corso pronunciato da un economista o un intellettuale, ma un testo
scritto nel 1788 estratto da La storia
segreta della rivoluzione (Hilary Mantel, Fazi 2014), che racconta il periodo
della Rivoluzione Francese.
La fine del 2014 è stata caratterizzata da due eventi di segno opposto.
N
...
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“Todos somos americanos” ha affermato il Presidente Barack Obama annunciando la storica richiesta al Congresso di mettere fine all’embargo (el
bloqueo) verso Cuba, in vigore da oltre cinquantacinque anni. “Il muro di
Berlino è crollato, ma si costruiscono
nuovi muri nonostante i nostri tentativi di collaborare. L’espansione della
NATO non è forse un muro, un muro
virtuale?” ha affermato il Presidente
Vladimir Putin nella conferenza di fine anno a proposito delle sanzioni imposte dagli USA e dall’UE alla Russia
dopo la crisi Ucraina. La profonda incertezza che caratterizza gli scenari
internazionali, nell’era della globalizzazione, rischia di condizionare in
modo importante le possibilità di ripresa economica dell’Italia nel 2015.
I dati macroeconomici dell’eurozona sono desolanti e descrivono un
continente in stagnazione, in cui
l’eventualità della deflazione è sempre più vicina. Nel terzo trimestre il
PIL medio è cresciuto del +0,2%, era
stato del +0,1% nel secondo trimestre, mentre la formazione di capitale
si è ridotta del -0,1%. La produzione
industriale a ottobre è cresciuta rispetto a settembre mediamente del
+0,1%, l’occupazione nel terzo trimestre è cresciuta in media del
+0,2%, era cresciuta del +0,3% nel
secondo trimestre, e il tasso medio di
disoccupazione è all’11,5%. Il reddito
medio in agricoltura si è ridotto con
picchi del -15% in Belgio, il costo del
lavoro medio, misurato su base annuale, è sceso del -1,3% e l’inflazione
813
media si è attestata al +0,3% annuo.
Infine, la bilancia degli scambi dei beni con il resto del mondo ha registrato
in ottobre un saldo positivo di +24
miliardi, rispetto allo stesso mese
dell’anno precedente.
In Italia il quadro macroeconomico
è più grave. Il Documento di Economia e Finanza approvato dal Parlamento prima della pausa natalizia ha
confermato la strategia del governo
del Premier Matteo Renzi di voler
riavviare la crescita attraverso un sostegno diretto e indiretto alla domanda privata (consumi e investimenti),
ma la profondità della crisi rende difficile il realizzarsi di una significativa inversione della congiuntura recessionedeflazione. I consumi in Italia sono crollati ai livelli del 1999 (813 miliardi),
MILIARDI
DI EURO
I COnSUMI
ITALIAnI
2014
con una riduzione di
66,5 miliardi rispetto al
2007, mentre gli investimenti hanno fatto segnare un ulteriore calo del 2,3% nel 2014, principalmente nella spesa in macchinari e
attrezzature e quella nei beni della proprietà intellettuale, cioè nei principali
fattori di accumulazione del capitale.
La ricchezza finanziaria netta delle
famiglie ha raggiunto i 4.000 miliardi,
a testimonianza di generali aspettative negative sul ciclo economico. Ipotecano la ripresa, infatti, gli antichi e
ben noti mali dell’economia italiana.
Scarsa capitalizzazione delle imprese,
scarsa qualità del management, scarsa innovazione tecnologica di qualità,
scarsa penetrazione dell’IT nelle imprese, scarsa produttività dei fattori,
scarsa attenzione al capitale immateriale, scarsa
lotta contro la rendita che si
appropria di gran parte della
ricchezza prodotta dal Paese e, infine, scarsa capacità di immaginare una
qualsiasi forma di politica industriale.
Questa l’eredità di decenni di svalutazioni competitive che si somma alla
più profonda crisi economica e finanziaria dal dopoguerra (la crescita
dell’economia mondiale è attesa del
+3,3% nel 2014, ben lontana dal
+5,2% di prima della crisi dei mutui
subprime). Anche il repentino dimezzamento del prezzo del petrolio che
ha raggiunto i 59 dollari al barile - e
che in tempi normali sarebbe salutato
come un evento favorevole soprattutto per le economie di trasformazione
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eCOnOmia
ed energivore come quella italiana rischia di rappresentare un ulteriore freno alla ripresa per le conseguenze sulla
bilancia dei pagamenti di gran parte dei
Paesi produttori che, come la Russia,
sono anche partner commerciali dell’Italia (-16% le esportazioni verso Mosca su base annua a ottobre).
Le economie avanzate mostrano
gradi diversi di ripresa e le stime danno una crescita media del +1,8%, dovuta in massima parte all’ottima performance dell’economia statunitense
e del Regno Unito, che contano per il
12% dei flussi di scambio mondiali
dell’Italia come la sola Francia. Le
economie asiatiche e pacifiche sono
attese a una crescita del +5,5%, come lo scorso anno, ma il loro peso
nelle esportazioni globali italiane è
molto basso (1,5% per il Giappone,
0,8% per l’India e 2,5% per la Cina).
Inoltre, pesano sulle loro prospettive
economiche la crisi dell’Abenomics e il
ri-orientamento verso una crescita della domanda interna dell’economia cinese. In America Latina è attesa una
crescita decimale (0,7%), quando non
una vera recessione come in Argentina
e Venezuela. Il Nord Africa e il Medio
Oriente, condizionati dalla caduta dei
prezzi del petrolio e del gas e dalle
guerre, sono attesi a una crescita attorno al 2%. Troppo poco per sperare in
un’esplosione delle esportazioni, capace di rivitalizzare l’economia italiana.
Le dense nubi che avvolgono il Bel
Paese prefigurano allora l’eventualità
di una tempesta perfetta dagli esiti
economici e sociali imprevedibili. Il
problema della crescita economica
mondiale è l’eurozona, ma senza un
deciso cambio di prospettiva e di politiche economiche nell’UE non si ha
nessuna ripresa economica. Il 2015
sarà l’anno della verità per l’Italia, ma
anche per l’euro e la stessa Unione
Europea. Incrociamo le dita e speriamo che prevalga il buon senso sulla
rigidità delle regole arbitrarie e dei
trattati.
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PIL
IL 2015
pOTREbbE
ESSERE
L’AnnO
DELLA
SvOLTA
(pIER CARLO
pADOAn,
MInISTRO
DELL’ECOnOMIA
EUROZONA
PIL
ITALIA
PIL
PERCENTUALE QUADRIMESTRALE
L’ITALIA AL
DICEMBRE 2014
Il PIL si è ridotto nel terzo trimestre del -0,5%
ed è previsto un sostanziale prolungamento al quarto
trimestre della stagnazione (variazione del PIL
compresa tra -0,2% e +0,2%), il che porta
la stima della variazione del PIL nell’anno
a -0,3%. Quindi, siamo nel terzo anno
consecutivo di recessione: -2,4% (2012), -1,9%
(2013) e -0,3% (stimato 2014). La produzione
industriale si è ridotta del -3% su base annua,
segnalando la sostanziale debolezza del
settore manifatturiero, mentre nell’industria
delle costruzioni, considerata il volano della
ripresa economica, si è registrato un calo
della produzione del -4,3%. Il tasso di
disoccupazione ha raggiunto il record
del 13,2% (43,3% tasso di disoccupazione
giovanile), con un calo di oltre -50.000
occupati tra settembre e ottobre. Il tasso
d’inflazione mensile a novembre è stato del 0,2%, il che porta la stima annuale del tasso
d’inflazione al +0,2%. Il saldo attivo
commerciale nei primi 10 mesi dell’anno è
stato di +33,6 miliardi (+70,4 miliardi al netto
0,5
della bolletta energetica), con un aumento
del +2,9% delle esportazioni,
0,0
in particolare per la crescita delle vendite
verso i mercati dell’UE (+4,7%); ma nel mese
-0,5
di ottobre si è evidenziata una dinamica
divergente nelle vendite estere, +1,8%
-1,0
quelle diretto verso i paesi dell’UE, -1,2%
quelle dirette verso i paesi extra-UE.
FARE
BUSINESS
ALL’ESTERO
L’IMPORTANTE È
GUARDARE LONTANO
ercare nuovi mercati
di approvvigionamento e di sbocco
per i prodotti italiani
è fondamentale. Per
avere successo è necessario un approccio integrato, in grado di mettere sulla bilancia anche la
nostra sensibilità nel creare
relazioni in grado di generare
valore. Quest’azione in passato ha fatto grande l’Italia
sui mercati internazionali.
Vogliamo chiudere l’anno
insieme a voi con un invito
ad approfondire due regioni
del mondo vicine all’Italia ma
al contempo lontane: il Mediterraneo e l’America Latina.
Nell’area mediterranea l’Italia, ha molto da sviluppare sul
piano politico e commerciale
con tutti i Paesi rivieraschi a
Nord, a Sud, a Est e a Ovest
del “Mare Nostrum”. È importante per il nostro Paese
rinsaldare i legami con l’area
mediterranea e mediorientale
per poter saper cogliere le
opportunità di un contesto in
continua evoluzione.
Sicuramente tra i Paesi da
tenere d’occhio il prossimo
anno, possiamo annoverare
il Marocco, una delle poche
C
nazioni non interessate dagli stravolgimenti che hanno destabilizzato la regione
del Nord Africa negli ultimi
anni. Il Fondo Monetario Internazionale stima per il 2015
un tasso di crescita (+4,7%)
che va oltre le aspettative governative proprio perché considera i risultati attesi dalle riforme strutturali messe in
campo negli ultimi anni nel regno di Hassan VI. Il Marocco
si configura pertanto sempre
di più come una porta d’accesso all’intero continente africano, un hub logistico, commerciale e finanziario credibile per
le nostre imprese.
Guardando ancora più a
est sono immense le possibilità che potrebbero dischiudersi da un rilancio concreto
del partenariato con l’Egitto.
Sotto la nuova guida del presidente Abdel Fattah Al Sisi il
Paese ha in programma ambiziosi piani di investimento e
offre un potenziale commerciale enorme dal momento
che non si parla unicamente
dei 90 milioni di consumatori
egiziani, ma di una platea di
1,5 miliardi di persone, grazie
agli accordi di libero scambio
con gli Stati arabi, africani,
dell’UE e del MercoSur
(Mercato Comune dell’America Meridionale).
Mediterraneo e America Latina:
sono queste le due regioni del
mondo che nel 2015 offriranno
maggiori opportunità di
investimento alle imprese italiane
Per chi invece sa guardare
lontano il nostro invito è
quello di tenere sotto osservazione l’andamento e le
opportunità che offrono i
grandi mercati del Sud
America. Sarà interessante,
ad esempio, osservare da
vicino le evoluzioni dell’economia brasiliana che
nel 2014 ha registrato un
modestissimo incremento
del PIL pari allo 0,4%, ben
lontano dai tassi di crescita
degli ultimi anni. Il Paese,
tuttavia, può contare su una
folta classe media emergente pronta a consumi emozionali e di qualità che naturalmente, come tutto il
mondo, subisce il fascino
del Made in Italy.
Ne sono da meno le opportunità in Messico e Colombia, due mercanti emergenti che negli ultimi anni
sono stati protagonisti di
una crescita costante e continua. Da non tralasciare, come sempre, che l’andamento di buona parte delle economie emergenti e dei Paesi
in via di sviluppo nel 2015
sarà maggiormente condizionato dall’altalena dei
prezzi delle materie prime,
in primis il prezzo al barile
del petrolio sceso, dopo anni, al di sotto dei 60 dollari.
Comunque vada le opportunità non mancheranno e
nuovi mercati e consumatori potranno essere conquistati con strategie vincenti,
lungimiranza ed un pizzico
di coraggio in più. Il nostro
invito, come sempre, è saper guardare lontano.
TOP
INDONESIA
COLOMBIA
USA
POLONIA
FLOP
RUSSIA
GIAPPONE
ARGENTINA
LIBIA
a cura di
IBS ITALIA
Società di consulenza
specializzata
nell’offerta di servizi
all’internazionalizzazione
d’impresa: studi di
mercato, tax planning,
ricerca partner,
assistenza operativa
in loco, organizzazione
eventi, redazione
pratiche per
finanziamenti agevolati
LOOKOUT 14 - dicembre 2014
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OSSerVatOriO SOCiale
Monitoraggio dei principali eventi e fenomeni ribellistici ed eversivi nel nostro Paese
Fine anno col botto
e azioni e le violenze di cui si sono resi protagonisti gli antagonisti
italiani nell’ultimo mese dimostrano che l’area anarchica dispone ancora di solide capacità operative ed è in grado di operare a livello nazionale evidenziando un’eccellente capacità di coordinamento e di
infiltrazione nei molteplici luoghi della protesta, anche quella legittima sindacale. Alla luce degli episodi e delle strategie decritti nella
cronologia, sembra lecito sottolineare che la minaccia eversiva nel
nostro Paese, anche alla luce delle diffuse difficoltà economiche e sociali,
sia destinata a manifestarsi anche nel prossimo futuro.
L
Nel frattempo, i quattro anarchici No-Tav arrestati il 9 dicembre 2013 sono
stati assolti dall’accusa di attentato con finalità di terrorismo dalla Corte
d’assise di Torino, ma sono stati condannati per danneggiamento, dal trasporto di armi e dalla resistenza a pubblico ufficiale.
Oltre ai presumibili, ulteriori, tentativi d’inserimento e infiltrazione dei
gruppi anarco-insurrezionalisti all’interno dei movimenti di protesta sindacale o sociale che sembrano destinati a ripetersi, occorre sottolineare che
per tradizione, durante le festività natalizie, gli anarchici italiani sono soliti
inviare lettere esplosive ai loro
“nemici di classe”, approfittando
dell’aumentato numero di messaggi che tendono a sovraccaricare
il sistema postale rendendo più
difficili i controlli preventivi. Una
curiosità: alcune lettere bomba degli scorsi anni avevano come mittente: “Quintino Sella, piazzale
Vaticano n. 1”. Buon Natale.
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LOOKOUT 14 - dicembre 2014
TIMELINE
DEGLI EVENTI
10 novembre MILANO
Gli anarchici hanno dato
il via alla mobilitazione
violenta, irrompendo
nella sede PD di via
Mompiani, Corvetto.
12 novembre MILANO
Scontri con la polizia
che stava eseguendo
lo sfratto di due famiglie
di extracomunitari
e danneggiamento
bancomat e auto di lusso.
14 novembre ROMA
Nella capitale, ma anche
a Palermo e Milano,
manifestazioni contro il
“Jobs act. Gli anarchici
infiltrati all’interno dei
cortei dei sindacati
danno luogo a scontri.
17 novembre NAPOLI
All’ingresso degli uffici
della Deutsche Bank di
via Mascagni al Vomero
viene rinvenuto un
ordigno esplosivo.
18 novembre MILANO
Nella notte un gruppo
di anarchici devasta e
dà alle fiamme la sede
dell’ente case popolari
ALER, inneggiando alla
“lotta per la casa”.
20/21 novembre TRENTO
Gli anarchici locali
hanno attaccano sede
del PD. Stesso caso
si verifica a Verona (18
nov) e Torino (24 nov).
17 dicembre TORINO
Inflitte 4 condanne
per "fabbricazione
di armi da guerra,
danneggiamento
e violenza a pubblico
ufficiale". Caduta
l'accusa di terrorismo.
COPertina
NOVEMBRE
2014
Aggiornato
al 19 dicembre 2014
ATTENTATI
LETTERE O
PACCHI BOMBA
INCIDENTI
DI PIAZZA
TRENTO
RAPINE
O AGGRESSIONI
MILANO
VERONA
RISCHI
O MINACCE
TORINO
ARRESTI
ROMA
NAPOLI
PALERMO