Filippo Casonatto

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Filippo Casonatto
CONTRIBUTI
REIFICAZIONE
Rapporti sociali e prospettive di trascendenza nella
Scuola di Francoforte
di FILIPPO CASONATTO
Lo scopo del nostro lavoro è raccogliere l’allarme lanciato
dalla Scuola di Francoforte, nell’opera dei suoi più illustri rappresentanti Theodor Wiesengrund Adorno e Max Horkheimer. Tra le
molte ricerche di taglio sociologico e filosofico che sono partite
dall’ “Istituto per le ricerche sociali” diretto da Horkheimer nella
Germania degli anni ’30 e negli Stati Uniti nel decennio successivo,
riteniamo essere di grande attualità la critica agli aspetti “reificanti”
della società contemporanea. Questi autori si adoperano in
un’indagine sui “sottoprodotti” di una società che ha nel mercato
libero il proprio cardine e sul problema della mercificazione dei
rapporti umani. Per esprimere il loro dissenso dalla sottaciuta impostazione non solo antimetafisica ma addirittura antispeculativa
che si fa spazio in tutti i campi, i Francofortesi coniano la categoria
di “Illuminismo”, concetto questo da cui si diparte l’intera “teoria
critica”. Portare alla luce la dinamica dello spostamento dialettico
verificatosi nella storia del concetto di illuminismo è l’intento dei
nostri autori nell’opera Dialettica dell’Illuminismo, scritta negli anni
della seconda guerra mondiale. In seconda battuta, analizzata la critica al sistema, vogliamo tentare un’esposizione di una possibile pars
construens proposta dalla stessa Scuola, con la dovuta attenzione al
5
dibattito contemporaneo, tentando così di “incarnare” la teoria critica.
1.
Concetto di Illuminismo
Horkheimer e Adorno sono convinti che l’umanità sia sprofondata in un nuovo genere di barbarie: la società fruisce, infatti,
del più alto livello tecnologico mai raggiunto, ma è nel contempo in
crescente decadenza dal punto di vista culturale; non vi sarebbe, infatti, in questo ambito un’attenzione pari a quella dedicata allo sviluppo degli strumenti.
Che la fabbrica igienica e tutto ciò che vi si riconnette,
utilitaria e palazzo dello sport, liquidino ottusamente la
metafisica, sarebbe ancora indifferente; ma che diventino
essi, nella totalità sociale, a loro volta metafisica, una cortina ideologica dietro cui si addensa il malanno reale, questo non è indifferente. È di qui che muovono tutti i nostri
frammenti1.
Inizialmente la proposta dell’Istituto non vuole essere di rottura, ma perfettamente inseribile nell’organizzazione scientifica vigente, com’è rivelato nella premessa alla prima edizione della Dialettica. Tale proposta, tuttavia, può sempre meno essere ritenuto solamente una critica al pensiero positivista, dal momento che il discorso francofortese trascende il quadro assiologico vigente e lo
mette a tema; tentando di dare una reinterpretazione della società
in polemica critica con la Weltanschauung diffusa dalla “ideologia del
mercato libero”. In questo senso i nostri autori risentono
1 M. HORKHEIMER, T.W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung. Philosophische
Fragmente, Social Studies Ass. inc., New York 1944, pubblicato solo ciclostilato
in America, diventa volume presso l’editore Querido, Amsterdam 1947; segue
una seconda edizione presso Fischer, Frankfurt a.M. 1969; trad. it. di R. SOLMI,
Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 7.
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dell’influsso
marxista:
essi
individuano per ogni approccio al
reale – compiuto filosoficamente –
una concretizzazione particolare del
principio di scambio. La crisi da loro
constatata è specialmente quella del
sapere
scientifico: la scienza
perderebbe la sua funzione sociale e
finirebbe per comportarsi come se
fosse fine a se stessa, diventando
autarchica e autoritaria; vorrebbe
dare una spiegazione a tutto, finendo
per escludere i temi fondamentali dal
Max Horkheimer
punto di vista esistenziale. Il
problema di un pensiero che può essere considerato critico, è quello di riuscire ad astrarsi da questa tendenza reificante universale, la
quale, come vedremo, coinvolgerebbe tutti gli ambiti.
Il termine “critico” definisce quindi un pensiero non disposto all’accettazione del dato, ma teso a vagliarne razionalmente
l’attendibilità. La possibilità della critica verrebbe meno, giacché le
potenze economiche ridurrebbero la gran parte della popolazione a
uno stato di inferiorità culturale, grazie anche al controllo dei meccanismi sociali attraverso i quali la cultura è prodotta. A tal fine non
sarebbero necessarie imposizioni di alcun genere, almeno non quelle del tipo di un regime totalitario o dei vari ministeri per la propaganda. «Rendere completamente superflue le funzioni [della censura] sembra l’ambizione del sistema educativo»2: l’autocensura è
spontanea, dettata dalla mercificazione del prodotto culturale, e avviene sia da parte dell’autore che dal “consumatore”. Il prodotto
deve essere, infatti, consumato, non rispondere a criteri di qualità
umana o alla coscienza, essendo finalizzato alla riproduzione del
capitale investito.
2
Ibid., p. 5.
7
La “massa” domanda intrattenimento per il “tempo libero”.
In risposta, la cultura si trasforma in amusement. L’uomo, quanto più
crede di emanciparsi dal processo lavorativo, tanto più rientra nella
sua logica, occupando il proprio tempo nel divertimento gestito e
programmato dal sistema, riproducendone così le premesse e consumandone i prodotti. Il soggetto è scomposto in operaio e consumatore. Tutto viene percepito solo sotto l’aspetto dell’utilità, in
quanto cioè può servire a qualcos’altro, anche se l’idea di questo altro spesso resta vaga. Tutto ha valore solo in quanto può essere
scambiato, non in quanto è per sé qualcosa. L’unico principio valido in questo sistema, il principio da cui ci mettono in guardia i nostri autori e che starebbe invadendo anche la sfera dei rapporti sociali, è il principio di scambio.
Negli Stati occidentali, sottoposti a questo tipo di processo
più di altri, si constata tuttavia un benessere diffuso; quanto poi la
reperibilità di prodotti che rendono agevole la nostra vita quotidiana si debba allo sfruttamento di persone e risorse dei paesi “sottosviluppati”, come alcuni critici del capitalismo fanno notare, è un
altro discorso. L’altra faccia della medaglia del benessere materiale
guadagnato grazie al libero mercato consiste nella terribile e inconsapevole omologazione, apparentemente inarrestabile: sono le stesse condizioni della società a produrre il conformismo. Adorno
propone un parallelismo tra gli operai e i rematori. Questi non possono parlare fra loro e sono aggiogati tutti quanti allo stesso ritmo,
come l’operaio moderno nella fabbrica, al cinema e nel collettivo.
Tutto questo riguarda anche l’arte, che finisce per sovrapporsi al design, mirando solo a rivestire prodotti altrimenti indistinguibili per la loro funzione o poco appetibili.
Nessuno deve rendere conto di ciò che pensa. In cambio
ognuno è racchiuso fin dall’inizio in un sistema di istituzioni e relazioni, che formano uno strumento ipersensibile di controllo sociale3.
3
Ibid., p. 44.
8
Ma non tutta l’arte è soggiogata, e i nostri autori non sono
certamente gli unici a percepire questo stato di cose come alienante:
anche il Dadaismo vede la crisi del sistema nell’arte riproducibile e
cerca di porsi criticamente di fronte alla società capitalistica. C’è
almeno un’altra voce che dissente, quindi, seppur non concettualmente. Walter Benjamin, pensatore molto vicino ad Adorno, scrive
alcuni saggi sull’arte nella società della tecnica, riflettendo sulla possibilità e sul senso della riproducibilità tecnica dell’opera artistica.
Qui Benjamin segnala il tentativo del Dadaismo di mettere in luce
l’insieme opprimente degli equilibri della società e collega le motivazioni artistiche del dadaista a quelle concettuali dell’Istituto.
Le loro poesie sono insalate di parole, contengono locuzioni oscene e tutti i possibili e immaginabili cascami del
linguaggio. Non altrimenti i loro dipinti, dentro i quali essi montavano bottoni o biglietti ferroviari. Ciò che ottengono con questi mezzi è uno spietato annientamento
dell’aura dei loro prodotti, ai quali, con i mezzi di produzione, imponevano il marchio della riproduzione. […]
L’opera d’arte era chiamata principalmente a soddisfare
un’esigenza: quella di suscitare la pubblica indignazione.
Coi dadaisti, dalla parvenza attraente o dalla formazione
sonora capace di convincere, l’opera d’arte diventò un
proiettile. Venne proiettata contro l’osservatore4.
L’opera d’arte per Benjamin è tale in quanto ha un’aura di
unicità. Essa le proviene dalla sua inserzione nella tradizione, dalla
sua esistenza hic et nunc, nel luogo e nel contesto in cui si trova e per
il quale è nata, dal suo essere autentica. L’autenticità fugge ogni tipo
di riproducibilità. Ecco il contesto di grande polemica in cui si inse4 W. BENJAMIN, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit,
[1936], in Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1955; trad. it. di E. FILIPPINI,
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in Opere complete VI. Scritti
1934-1937, Einaudi, Torino 2000, p. 43.
9
riscono queste opere. Esse consistono in collages di oggetti della vita
quotidiana della massa, dal biglietto del tram al bottone. Oggetti riproducibili per lanciare l’allarme su una vita che rischia di diventare
riproducibile anch’essa. Ma se l’arte può assumere la funzione di
suscitare indignazione, certo non lo può fare tematicamente. Non
vuole esprimere il problema nel tentativo di risolverlo, né è una
forma di pensiero riflesso: il suo compito è solo quello di rendere
evidente il disagio. Alla filosofia il compito di affrontare il problema attraverso il logos. Potremmo però chiederci se c’è ancora posto
per la riflessione del pensiero o se non c’è più tempo per riflettere
nella nostra società, dal momento che ciò che conta è agire, o meglio produrre, come risulta dal panorama apocalittico prospettato
nelle opere di questi artisti.
Questa è la denuncia che fa da ossatura all’opera fondamentale, Dialettica dell’Illuminismo, scritta a quattro mani da Adorno e
Horkheimer, i quali mirano a far emergere la contraddizione di quel
processo, detto appunto Illuminismo, e a far notare come
anch’esso sia parte di un più vasto processo dialettico. Va però
chiarito in che senso i Francofortesi parlino di Illuminismo. Quando si pensa all’Illuminismo, spesso la mente va al movimento intellettuale che si colloca tra il XVIII e XIX secolo. I nostri autori usano però diversamente questo concetto, facendone una categoria
speculativa e intendendo con Illuminismo il rapporto che l’uomo
instaura con la natura, il processo attraverso il quale l’uomo si emancipa da essa e si libera dal suo dominio, lo stadio di sviluppo
della scienza, da quando questa esiste, o della conoscenza.
La prima modalità di rapporto con la natura è mitica.
L’uomo è dominato dagli eventi naturali, non può né prevederli né
tanto meno controllarli o produrli. La conoscenza scientifica, a partire soprattutto dalla sua matematizzazione da parte di Galileo, affranca l’uomo da questo stato di inferiorità fino ai giorni nostri,
quando il rapporto è esprimibile come una presa di possesso pressoché totale del soggetto sull’oggetto. Illuminismo è quindi la lotta
ai feticci, alle credenze e al mito in genere. Ciò che si vuole dimostrare è che, annullando il proprio nemico, il processo illuministico
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si trasforma dialetticamente nel suo opposto. Assolutizzando la razionalità, l’Illuminismo stesso diventa mito e, quindi, impermeabile
a tutti quei gradi della conoscenza – e c’è chi ritiene siano proprio
quelli fondamentali – che sfuggono alle maglie troppo larghe della
scienza. La volontà della ragione di non lasciare nulla di inspiegato
e non razionalizzato, conduce a una serrata critica del mito, inteso
come l’attribuzione indebita di caratteri umani a Dio o alla natura
piuttosto che di caratteri divini all’uomo. Da qui nasce il discorso
filosofico, che attraverso il logos, il pensiero razionale, tenta il superamento di questo improprio rapportarsi alla natura, identificandosi
con essa. Sia l’Illuminismo che il mito sono tentativi di dominare la
natura, di porsi a un livello superiore a questa. Ma se al mito segue
l’indistinzione tra soggetto e natura, l’Illuminismo, per poter indagare razionalmente, pretende l’ob-jectus, l’oggettività, la separazione
dal soggetto.
Il mito trapassa nell’Illuminismo e la natura in pura oggettività. Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere
con l’estraniazione da ciò su cui lo esercitano.
L’Illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli
uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli.
Lo scienziato conosce le cose in quanto è in grado di farle. Così il loro in sé diventa per-lui 5.
Affinché le pratiche localizzate dello stregone cedessero il
posto alla tecnica industriale universalmente applicabile, era prima
necessario che i pensieri si rendessero indipendenti dagli oggetti,
come avviene nell’Io conforme alla realtà.
Bisogna notare, però, che l’Illuminismo proviene dal mito,
del quale opera una razionalizzazione. Il “mito” non si identifica
peraltro con la “mitologia”, essendo un rapporto originario uomonatura, mentre la mitologia è invece logos, la prima sistemazione lo-
5
M. HORKHEIMER, T.W. ADORNO, Dialettica dell’Illuminismo, cit., p. 17.
11
gica di quel rapporto, quindi già frutto di riflessione e primo passo
verso l’Illuminismo contemporaneo.
L’ironia degli antichi sugli dei troppo umani non colpiva
l’essenziale. […] Sotto il verecondo involucro della chronique scandaleuse dell’Olimpo si era già sviluppata la dottrina
della mescolanza, della pressione e dell’urto degli elementi, che si stabilì ben presto come scienza e ridusse i miti a
creazioni di fantasia6.
Il rapporto dialettico tra Illuminismo e mito è la chiave per
comprendere la storia: solo intendendolo come polo dialettico, riusciamo a cogliere quale sia il significato attribuito da Adorno e
Horkheimer alla categoria dell’Illuminismo e in che senso ne parlino. Se il mito è “antropomorfismo”, dispersione del soggettivo nella natura, l’Illuminismo è la separazione, la distinzione netta tra
soggettivo e oggettivo, il numero che vuole essere completa espressione del fenomeno. Per intendere correttamente il rapporto dialettico tra mito e Illuminismo, è allora necessario notare che il mito è
al contempo “già” e “non ancora” Illuminismo, poiché, come ribadito spesso da Adorno, il mito è già Illuminismo e l’Illuminismo
torna a rovesciarsi in mitologia: la moderna razionalità intende separarli in quanto termini di una dialettica aporetica, ma dimentica
che essi sono uniti in re e non vede come essi esprimano il contraddittorio rapporto dell’uomo con la natura. D’altronde nessuna spiegazione scientifica può eliminare la contraddizione, se questa è reale.
Il ragionamento dei nostri autori è dunque naturalmente ostile alla necessità razionale di “far tornare i conti”. Ma essi vanno
ben oltre con la loro critica al linguaggio: tentando di criticare il mito, l’Illuminismo lo fa nel suo terreno, quello del logos, dove il mito
non può scendere. Oltre che nel concepire i due poli Illuminismo/mito con il riferimento storico alle due categorie dell’apollineo
6
Ibid., p. 25.
12
e del dionisiaco, anche nel discorso sul linguaggio Adorno e Horkheimer sono debitori a Nietzsche. Ritengono infatti che il linguaggio sia stato uno strumento dell’Illuminismo e che esso tuttora ingabbi il pensatore che vuol essere critico.
I concetti filosofici con cui Platone e Aristotele spiegano
ed espongono il mondo, sollevavano – con la loro pretesa
di validità universale – i rapporti fondati da essi al grado
della realtà vera. Essi uscivano, come dice Vico, dalla
piazza del mercato di Atene; e riflettevano con uguale purezza le leggi della fisica, l’uguaglianza dei cittadini di pieno diritto e l’inferiorità delle donne, bambini e schiavi. Il
linguaggio stesso conferiva ai rapporti di dominio
l’universalità che aveva assunto come mezzo di comunicazione di una società civile. […] L’Illuminismo, come
nominalistico, si arresta davanti al nomen, al concetto in esteso, puntuale, al nome proprio7.
Il simbolo è il nome proprio, il punto formale che coincide
anche con il limite della scienza – e per la scienza non si penetra oltre al simbolo. Per poterla comprendere, la natura va matematizzata. La natura è ciò che l’illuminista riesce a concepire in termini matematici. Per la scienza il concetto non è più il prodotto del pensiero dialettico, dove ogni cosa è ciò che è solo in rapporto a ciò che
non è, ma diventa un’unità caratteristica di ciò che è ricompreso
sotto di esso. E questa è l’evoluzione del linguaggio, che sbocca
nella perdita del senso dell’ignoto, nella paura provata di fronte a
qualcosa di inspiegabile, un timore che può essere giustificato dal
tabù imposto dalla scienza su tutto ciò che non è catalogabile e non
può rientrare nei suoi schemi. Ma qui siamo solo all’aspetto più superficiale del problema… Infatti è veramente “noto” ciò che la
scienza dice di conoscere? Oppure è solo controllabile o prevedibile? Lo “spiegabile” è veramente tale e, soprattutto, investe i campi
esistenziali fondamentali nella vita della persona? La risposta dei
7
Ibid., p. 30-31.
13
nostri autori è assolutamente negativa. Essi ritengono che in questo
modo non si accantona solo l’esigenza di riflettere, ma si ipostatizza il pensiero matematico,
perché il pensiero reificato non può nemmeno porre la questione.
[…] Non c’è essere al mondo che la scienza non possa penetrare,
e ciò che può essere penetrato dalla scienza non è l’essere8.
Questo è il punto focale della polemica dei Francofortesi alla “società occidentale”, per la quale essi auspicano un allontanamento dall’ottica illuministica anche nel linguaggio, e la restaurazione di una visione “critica” della realtà. Da qui si snoda l’intera
analisi sociologica relativa ai diversi ambiti della realtà sociale quali
l’industria culturale, l’arte, la possibilità del dono, i rapporti relazionali e di coppia: la messa a fuoco della dialettica interna
all’Illuminismo è lo scopo ultimo di ogni opera dei Francofortesi ed
è alla luce di essa che si coglie l’autentica portata di uno scritto come Minima moralia di Adorno9 o il tema della nostalgia del totalmente
Altro in Horkheimer10.
2.
Prospettive salvifiche intramondane
ed extramondane
Dato il quadro appena tracciato, sembrerebbe che non si
diano vie di fuga dal “materialismo sociale” in cui ci troviamo.
I problemi più complessi da risolvere sono da sempre quelli
che nascono dall’educazione della persona. Inserito in un preciso
Ibid., p. 34.
T.W. ADORNO, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1951; trad. it. di R. SOLMI, Minima moralia, Einaudi,
Torino 1974.
10 M. HORKHEIMER, Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen, Furche-Verlag H.
Rennebach KG, Hamburg 1971; trad. it. di R. GIBELLINI, La nostalgia del
totalmente Altro, Queriniana, Brescia 1972.
8
9
14
contesto sociale, mero ingranaggio inessenziale al sistema, ma pur
sempre illuso di esserne ancora il guidatore, difficilmente l’adulto
sarà disposto a mettere in discussione le certezze su cui ha edificato
la propria esistenza. Enucleato il problema teorico, si deve ora trattare qualche proposta pragmatica che possa contrastare questa tendenza alla reificazione, con tutte le difficoltà che comporta mettere
in discussione un intero sistema: difficile per il cieco riaprire gli occhi senza soffrire a causa della luce intensa a cui non è più abituato.
Volendo essere propositivi, quali saranno le vie da percorrere per
evitare di continuare la nostra discesa lungo la china? Le alternative
sono due. Possiamo cercare una soluzione, per così dire, intramondana, come potrebbe essere la fede nel progresso scientifico,
l’ipostatizzazione della storia, insomma la ricerca di un assoluto
non spirituale-metafisico. Oppure rimane aperta la via alla trascendenza, che i Francofortesi nei loro ultimi scritti sembrano ritenere
privilegiata, più efficace e paradossalmente meno aporetica della
prima. Vediamo in che cosa consistano queste due differenti Weltanschauungen.
Le posizioni “giovanili” dei Francofortesi, in particolare di
Horkheimer, non lasciavano spazio a prospettive metafisiche di alcun genere. A testimonianza di ciò, vogliamo citare un suo saggio
degli anni ’30.
La lotta per la realizzazione di un mondo più degno
dell’uomo non rinvia forse essa stessa a un significato più
profondo? Non esiste forse un fine della storia nascosto
agli uomini, sicché chiunque si impegna in quella che è la
sua posizione si pone al servizio di un’entità superiore, irriconoscibile eppure degna di venerazione? Il razionalismo e l’irrazionalismo hanno dato molte risposte positive
a queste domande. Ciò facendo essi cadono in una metafisica ottimistica, rendendosi in tal modo ancor più facile
il loro pessimismo attuale. Il materialismo non conosce
una seconda realtà, né una che stia al fondo della nostra,
né una che la sovrasti. La felicità e la pace, che non sono
date in dono agli uomini sulla terra, essi non le hanno
15
perdute solo in apparenza, ma realmente e per l’eternità;
la morte infatti non è la pace, ma conduce realmente a
nulla. L’amore per gli uomini come lo intende il materialismo non si rivolge ad esseri che dopo la morte sono salvi
per sempre, ma a individui che sono solo di passaggio.
[… La prospettiva materialistica] concentra tutte le energie, anche le più disperate, sull’aldiquà, esponendo quindi
certo al rischio di una delusione l’unica fede che essa accetta: la speranza nelle possibilità terrene dell’uomo. In
antitesi con ciò l’ottimismo metafisico e religioso non ha
alcun bisogno di scoprire la sia pur minima prospettiva
per gli uomini dell’aldiquà e di aggrapparsi energicamente
ad essa. […] Razionalismo e irrazionalismo hanno assunto entrambe la funzione di far accettare l’esistente11.
È chiaro perché molti lettori abbandoneranno Horkheimer,
quando negli scritti più tardi auspicherà un
ritrovamento della trascendenza, ritenendo
il suo un “rammollimento senile”.
In ogni caso, la critica di
Horkheimer al razionalismo è particolarmente interessante: egli ritiene che, a
partire da Cartesio, questa forma di
pensiero sia stata assolutizzata come
l’attività suprema della conoscenza, in
connessione alla credenza che le azioni
umane siano conseguenza totale delle sole
motivazioni coscienti. D’altra parte,
neppure l’irrazionalismo appare una
Theodor W. Adorno
soluzione praticabile. A questo proposito
Horkheimer si richiama a Heidegger, che dice: «l’irrazionalismo –
11 M. HORKHEIMER, Zum Rationalismusstreit in der gegenwärtigen Philosophie, in
«Zeitschrift für Sozialforschung», 1934 (3), pp. 1-53; tr. it. di G. BACKHAUS, A
proposito della controversia sul razionalismo, in Teoria Critica, vol. 1, Scritti 1932-1941,
Einaudi, Torino 1974, pp. 118-172, qui 167-168.
16
come antagonista del razionalismo – ha solo una visione strabica di
ciò rispetto a cui quest’ultimo è cieco»12. È nell’ambito delle politiche sociali che l’irrazionalismo si delinea come esito quasi scontato
del fallimento del razionalismo: si passa dall’individualismo borghese alla fase industriale, dalla monade pensante e profondamente individualista, alla massa che agisce secondo criteri eteronomi assecondando i propri bisogni, reali o presunti. Secondo Horkheimer,
ogni concezione della storia ha ormai smesso di essere sistema razionalistico e va pensata secondo il metodo dialettico. Oggi il problema della scienza è che essa non ha più un rapporto controllabile
con i bisogni degli uomini, sia nei metodi che segue che negli scopi
che si prefigge. La grande influenza che, nel primo dopoguerra,
hanno avuto l’etica e l’ontologia materialistiche è dovuta anche al
fatto che le presunte soluzioni scientifiche e filosofiche non sono
riuscite davvero a risolvere i problemi sociali.
Come nella storia contemporanea gli avversari fascisti del
liberalismo approfittano del fatto che quest’ultimo ignorò
l’estraneità dello sviluppo sfrenato dell’economia capitalistica ai bisogni reali degli uomini, la metafisica contemporanea è stata rafforzata dalle carenze della scienza e filosofia positivistica; essa è la sua vera erede, come il fascismo
è il legittimo erede del liberalismo13.
In che senso, quindi, la scienza può essere salvifica per
l’uomo? Può essere questa a portare l’uomo verso una crescita autentica e verso una realizzazione di sé? Nei primi scritti dei Francofortesi, come abbiamo appena visto, la risposta sembrerebbe dover
essere affermativa: essi procedono negativamente cercando i limiti
delle visioni “occidentali” della gestione della società e di qualunque impostazione che si fondi in senso trascendente, al fine di poter individuare positivamente nella via materialista, nella redistribu12 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927; trad. it. di P.
CHIODI, Longanesi, Milano 1976, p. 136.
13 M. HORKHEIMER, A proposito della controversia sul razionalismo, cit., p. 175.
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zione delle risorse, nei valori marxisti di solidarietà e nelle possibilità della scienza una elezione dell’umano a criterio fondante della
comunità. Auspicano l’avvento di un pensiero materialista forte,
che non ostacoli il progresso intramondano con l’idea dell’aldilà, un
pensiero che non raggiri le masse rendendole politicamente gestibili, un pensiero che faciliti la democratizzazione effettiva, a partire
dalla gestione della propria persona e della propria vita.
Successivamente, però, la loro opinione muta radicalmente.
Dopo le grandi illusioni del “fascismo di sinistra”, dopo aver assistito all’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione
nei paesi dell’area socialista e alla feroce dittatura staliniana, non
meno inumana di quella nazista da cui sono fuggiti, si convincono
che la radice del male non è nelle strutture, ma nell’uomo, nella
“logica di sopraffazione” che risorge in tutte le condizioni. Non si
potrà mai integrare la morale alla politica: il partito, lungi dall’aver
sempre ragione, spesso ha torto. Così Adorno:
La frase di Brecht, che il partito ha mille occhi, l’individuo
solo due, è falsa come mai lo è stata una verità da quattro
soldi. L’esatta fantasia di un dissenziente può vedere più
di mille occhi, cui siano imposti gli occhiali uniformi in
rosa-rosso, che poi quando guardano, scambiano ciò che
vedono con l’universalità del vero e regrediscono14.
Secondo Adorno, va sconfitta la logica del profitto, che non
esita a calpestare il prossimo: ogni uomo va riconosciuto come fine
e bisogna combattere per una gestione democratica della politica e,
soprattutto, dell’economia, affinché la maggior parte dell’umanità
venga sottratta a quello stato di indigenza funzionale allo sfruttamento, in cui è tenuta da una minoranza che vive nello spreco. La
rivoluzione deve procedere nel senso delle strutture e non semplicemente appellarsi alla moralità individuale poiché, in tal caso, si la14 T.W. ADORNO, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1966; trad. it.
C.A. DONOLO, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 41.
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scerebbe sussistere lo stato di cose e, senza essere apertamente critici, si diverrebbe complici della struttura sociale vigente.
L’informazione sarà la prima da recuperare, come i Francofortesi sottolineano ripetutamente. Un morto è un morto, sia che
sia stato un impiegato nelle Twin Towers o un bambino senegalese,
un assassino è un assassino, sia che sia russo o ceceno. La giurisprudenza e l’informazione
non possono essere un
epifenomeno dell’economico.
Il problema è di educazione,
di formazione della coscienza
critica con cui affrontare i
problemi, anche se il mezzo
per ottenerla non può essere
quello
della
violenza,
incompatibile con l’obiettivo
della liberazione dell’uomo:
volendo rifiutare una società
perché violenta, non ha senso
una protesta violenta. O si
vuole la libertà dell’uomo o si
prende in mano un’arma. La
violenza è portatrice di
dolore, sempre e comunque,
e non è vero che la violenza
sia sterile, perché porta La Scuola di Francoforte: Horkheimer
sempre con sé altra violenza,
con Marcuse, Adorno e Habermas
(vignetta di V. Kriegel)
finché, nel migliore dei casi,
conduce al dominio degli uni
sugli altri e quindi alla legittimazione della violenza di ritorsione da
parte dei sottomessi. Una riforma strutturale, che volesse cambiare
veramente le cose, dovrebbe muoversi su un piano differente, sottraendosi a questo circolo vizioso. La fatica, per Adorno, è quella di
pensare qualcosa di nuovo e diverso rispetto la negatività dominante che si trascina nel mondo da Caino in poi.
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Quali tratti dovrebbe allora avere una liberazione non effimera? Il male sta nel fatto che tutto è considerato come una preda;
la razionalità stessa sembra traducibile in una forma di dominio e
solo il tentativo di dominare sembra razionale: la nostra, in effetti, è
una convivenza in una società sempre più antagonistica e competitiva. È in questa logica che, per Adorno e Horkheimer, si iscrivono
sia lo sterminio programmato di milioni di uomini che il lasciarne
morire di fame altri milioni: i membri del sistema sono accecati dal
desiderio di possesso al punto di sentirsi con la coscienza a posto.
L’impulso egoistico all’autoconservazione, associato all’evoluzione
della tecnica, finisce per mettere a rischio lo stesso genere umano:
basti pensare alle potenze nucleari.
La soluzione suggerita da John Rawls nel celebre Una teoria
della giustizia15 è quella di riformulare i rapporti sociali e ristrutturare
la convivenza umana, sopprimendo o smembrando i grandi poli di
interesse economico, ridistribuendo le risorse e riformulando così
una vera democrazia – la «democrazia dei piccoli proprietari» cara a
Robert Dahl16. La volontà di recuperare un reale rapporto con
l’altro, non reificato, corrisponde a un mutamento della mentalità
oggettivante. Lo strumento, nonché il primo passo, sarebbe allora il
pensiero critico, la denuncia dell’illusione, lo smettere di idolatrare
il finito, ciò che non è Dio, l’aprirsi all’altro come soggetto e, quindi, come infinità inconoscibile mai esauribile.
Abbiamo detto che in primo luogo sono necessarie riforme
strutturali e che non bastano prese di coscienza individuali.
L’individuo deve però assumersi le proprie responsabilità e deve
essere capace di critica, diventare adulto, riconoscendo che
l’impostazione data sempre più insistentemente dall’industria culturale, reificante e oggettivante, non permette la relazione; egli deve
inoltre riconoscere che, senza la relazione con il soggetto, ma solo
15 J. RAWLS, A Theory of Justice, Harvard University Press, Cambrige (Mass.)
1971; trad. it. di S. MAFFETTONE, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano
1982.
16 R. DAHL, Intervista sul pluralismo, Laterza, Bari 2001.
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con l’oggetto, cioè il “soggetto-in-quanto-utile”, non è pienamente
persona e il suo non è propriamente un rapporto. A chi riesce ad
essere critico, cioè a rendersi cosciente che il rapporto implica il rispetto della soggettività, ed è allenato a squarciare il velo
dell’oggettività posto dalla società tra lui e il prossimo, quale tipo di
relazione si rende dunque possibile? La chiave della relazione in un
rapporto non reificato è nell’amore donativo, che consiste «nella
dedizione dell’Io al sostanziale fuori di lui, nella capacità di far proprio l’interesse vero degli altri»17. L’esercizio deve essere simultaneamente teoretico ed esistenziale. La liberazione, per i Francofortesi,
verrà dalla conoscenza e dall’amore, e l’amore non può non tradursi in fiducia e comportare un rischioso abbandono. Amore è, in una
parola, l’opposto del processo di reificazione. Come scrive Galeazzi:
Debbo convincermi che l’egoismo è alienante – è tutta
l’analisi dei Francofortesi sta a dimostrarlo – ma come accettare che perdendosi ci si ritrova, che solo dimenticandosi si realizza se stessi, senza la fiducia in quell’Altro, in
cui nulla di positivo è perduto e nel quale si ritrova in
pienezza ciò che, nell’esistenza umana ancora prigioniera
della morte, è solo prefigurato ed anticipato parzialmente?18
La figura dell’amore e quella della morte aprono alla trascendenza. Sia chiaro però che i Francofortesi non pensano certo
di dimostrare l’esistenza di Dio: essi adoperano le categorie della
teologia non intendendola come scienza del divino, bensì nel senso
di una “nostalgia del totalmente Altro”, del non reificato, nella
convinzione che il mondo sia fenomeno e non la realtà ultima. La
possibilità di sfuggire, quindi, a questa assolutizzazione del finito è
nel tendere verso il sapere, verso quella verità mai attingibile dalla
scienza: «la negazione di Dio implica in sé una contraddizione in17
18
M. HORKHEIMER, T.W. ADORNO, Dialettica dell’Illuminismo, cit., p. 211.
U. GALEAZZI, La scuola di Francoforte, Città Nuova, Roma 1975, p. 129.
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superabile, in quanto nega il sapere stesso»19. Senza Dio non c’è verità che non sia relativa, e se la morte relativizza tutto, è proprio la
morte a spingerci alla trascendenza, poiché se essa fosse fine ultimo
perderemmo il senso, senza la possibilità di recuperarlo. Nessun
miglioramento intramondano può colmare il senso di ingiustizia
derivato dalla morte. Cos’è allora la teologia se non la risposta
all’ingiustizia? La teologia «è espressione di una nostalgia, secondo
la quale l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente»20 o, ancora, «nostalgia di una perfetta consumata giustizia»21. La
giustizia non potrà mai essere di questo mondo; anche nel caso di
un’utopica società giusta, non sarebbe riequilibrato quel male subito in passato, quel nulla che ci rapina continuamente portando via
giorno dopo giorno qualche frammento dalla dimensione temporale di ogni uomo, dai suoi ricordi, dai suoi affetti. Addirittura, secondo Horkheimer, ogni etica libera, per essere fondata, ha bisogno di Dio, almeno in questa sua forma non personale, che lo avvicina all’ipostatizzazione della verità e della giustizia.
Dal punto di vista del positivismo non è possibile dedurre
nessuna politica morale. Se guardiamo le cose dal punto
di vista strettamente scientifico, l’odio, nonostante tutte le
differenze di funzione sociale, non è peggiore dell’amore.
Non c’è nessuna motivazione logica stringente, se a me
non viene nessun svantaggio nella vita sociale. […] Tutti i
tentativi di fondazione della morale su una saggezza di
questo mondo anziché sul riferimento ad un aldilà – anche Kant non ha sempre contraddetto questa inclinazione
– riposano su illusioni di impossibili concordanze. […]
Ogni morale, almeno nei paesi occidentali, si fonda sulla
teologia – con buona pace di tutti gli sforzi per prendere
le dovute distanze dalla teologia22.
M. HORKHEIMER, T.W. ADORNO, Dialettica dell’Illuminismo, cit., p. 121.
M. HORKHEIMER, La nostalgia del totalmente Altro, cit., p. 75.
21 Ibid., p. 82.
22 Ibid., p. 74.
19
20
22
Per Horkheimer non è necessario appellarsi a Dio, ma basta
comportarci come se Egli ci fosse, quasi riproponendo le idee regolative della ragione di kantiana memoria. Allo stesso modo non
dobbiamo svalutare le conseguenze intramondane delle nostre azioni: il mio prossimo può farmi felice solo con il suo essere felice
e, anche se non ricevessi in cambio la felicità della persona amata,
potrò sentirmi comunque pago, avendo un orizzonte ultimo nella
verità e nella giustizia, in una parola nell’amore donativo.
Il pensiero che non si fa decapitare sfocia in trascendenza, […] in cui non solo sarebbe eliminata la sofferenza esistente, ma sarebbe revocata perfino quella irrevocabilmente passata23.
In che senso quindi questa soluzione teoretico-esistenziale si
riferisce all’amore cristianamente inteso? Non era già pienamente
amore quello prospettato dal marxismo, nella solidarietà del proletariato? In che senso l’amore ha bisogno della trascendenza? Essa è
necessaria se vogliamo giustificare adeguatamente il più grande dei
postulati, per il quale l’amore è migliore dell’odio, come non riescono a fare né il positivismo né la scienza, che non riesce neppure
a formulare questi concetti. Rispondendo a una domanda forse un
po’ provocatoria, Horkheimer dice di vedere anche in Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg una dimensione teologica, a causa del
loro amore per gli uomini: nel loro caso, infatti, non si tratterebbe
di un facile filantropismo, ma del sacrificio della propria esistenza
per gli altri, impossibile tra gli animali a cui manca la dimensione
teologica. Questa è la dimensione trascendente che deve essere alla
base di ogni approccio, se questo vuole essere “umano”: nella prospettiva dei Francofortesi l’uomo sarà portato ad amare il prossimo, sentendosi a lui simile nella finitezza. Come Marx vedeva sorgere la solidarietà dal processo di immiserimento che legava il pro23
T.W. ADORNO, Dialettica negativa, cit., p. 364.
23
letariato, così la consapevolezza dell’essere finiti deve portare
l’uomo a fare causa comune, a unirsi, a capire che questo è il suo
compito essenziale.
Oso sognare che un giorno si sviluppi un tipo di atteggiamento, connesso con la teologia, che porterà gli uomini a vedere come loro compito essenziale sia quello di far
causa comune, perché nessuno muoia di fame, perché
ciascuno abbia una casa conveniente, perché nei paesi indigenti non ci siano più epidemie. Gli uomini capirebbero
di risolvere assieme i loro problemi, avendo capito tutti
che sono esseri finiti, e che devono rendere la loro vita
non solo più lunga, ma anche più bella. Sì, io poi vado avanti nel sogno, da veder estesa alla fine tale solidarietà
anche alle altre creature24.
Questi pensieri necessitano del contributo armonico della
teologia e della scienza. Spesso ci si serve della scienza per criticare
la teologia, ma si può muovere anche una critica alla scienza partendo dalla teologia, richiamandola così alla sua vera vocazione:
«nella volontà della verità vi è il desiderio dell’Altro, il desiderio di
presagire qualcosa di ciò che non è relativo, ma assoluto»25. Sembra
vero infatti, come scrive Horkheimer, che nella loro concretizzazione mondana i concetti di uguaglianza, giustizia e libertà siano
dialettici, tanto che se cerchiamo l’uguaglianza mettiamo a rischio la
libertà. Se trovare l’equilibrio “umano” è stato spesso storicamente
difficile, abbiamo comunque bisogno di una dimensione dove questi ideali si realizzino pienamente.
Da questa dimensione teologica potremo trarre la misura per
la nostra vita aldiquà e, nel contempo, la forza per porci davanti alla
morte, che non sarà più l’ultima parola. Viene così a delinearsi il
ruolo critico ed esistenziale del filosofo, che per i Francofortesi deve amare l’umanità per poter adempiere alla funzione sociale della
24
25
M. HORKHEIMER, La nostalgia del totalmente Altro, cit., p. 115.
Ibid., p. 119.
24
filosofia, cioè vegliare affinché la società rimanga umana, soprattutto nella nostra epoca che si dirige verso un mondo completamente
“amministrato”, dove l’individuo perde sempre più importanza. In
mancanza di ciò, avremo un uomo che si limiterà a obbedire ai segnali, perché tutto, perfino le nascite, sarà programmato, e «potremo cercare la libertà tra gli uomini nella stessa guisa in cui la cerchiamo tra api e formiche»26. Ancora molto però si può fare per evitare all’umanità la prima “carestia spirituale” della storia, questa
sorta di medioevo al contrario, dove ad esser messa tra parentesi
sarebbe la trascendenza e non l’immanenza.
Come monito conclusivo vorremmo lasciare questa pagina
di Horkheimer, che costituisce quasi il suo testamento spirituale.
Io ho tentato di delineare un’immagine del mondo, della
quale fino ad oggi non devo cambiare pressoché nulla. La
lotta, che si estende su scala mondiale tra i grandi gruppi
del potere economico, è condotta a prezzo dell’atrofia dei
valori umani, a prezzo della somministrazione di bugie
all’interno e all’esterno, a prezzo del dilagare di un odio
smisurato. L’umanità è diventata così ricca durante il periodo borghese, dispone di tali mezzi naturali ed umani,
che potrebbe vivere nella concordia e nel perseguimento
di fini degni di essa. La necessità di mascherare questo
fatto d’importanza decisiva determina tutta una sfera
d’ipocrisia, che non solo si estende ai rapporti internazionali, ma invade anche i rapporti più privati; determina una
diminuzione delle aspirazioni culturali inclusa nella scienza, un abbrutimento della vita pubblica e privata, così che
alla miseria materiale si associa quella intellettuale. Mai la
povertà dell’uomo è stata in tanto stridente contrasto con
la sua possibile ricchezza come al presente, mai tutte le
energie sono state così miseramente incatenate come in
questa generazione, nella quale i bimbi soffrono la fame e
le mani dei padri maneggiano bombe […]. La dimensione
teologica sarà soppressa. E, con essa, scomparirà dal
26
Ibid., p. 98.
25
mondo ciò che noi chiamiamo “senso”. Certo ferverà una
grande attività, ma in fondo sarà priva di senso, e dunque
portatrice di noia. Ed un giorno anche la filosofia sarà
considerata una pratica puerile. Forse già in un prossimo
futuro si qualificherà come puerile ciò che noi in tutta serietà abbiamo fatto in questa conversazione, e cioè speculare sui rapporti tra trascendente e relativo. La filosofia
vera si avvia sul viale del tramonto27.
27
Ibid., pp. 84-103.
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