Istituto MEME: Incesto - Descrizione del fenomeno e trattamento

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Istituto MEME: Incesto - Descrizione del fenomeno e trattamento
UNIVERSITE EUROPEENNE JEAN MONNET
ASSOCIATION INTERNATIONALE SANS BUT LUCRATIF
BRUXELLES - BELGIQUE
THESE FINALE EN
“SCIENCES CRIMINOLOGIQUES”
Incesto
DESCRIZIONE DEL FENOMENO E TRATTAMENTO
TERAPEUTICO
Gecchele Irene
Matricola n° 2151
Bruxelles 2009
_________________ISTITUTO MEME S.R.L. - MODENA ASSOCIATO UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L BRUXELLES
IRENE GECCHELE – SST IN SCIENZE CRIMINOLOGICHE - TERZO ANNO A.A. 2008 – 2009
Indice
INTRODUZIONE
4
CAPITOLO I
7
IL FENOMENO DELL’INCESTO
1.1 L’incesto nella mitologia: il mito di Adone
7
1.2 Il fenomeno dell’incesto
9
1.3 Un accenno alla storia
11
1.4 La proibizione dell’incesto
12
CAPITOLO II
19
ABUSO SESSUALE INTRAFAMILIARE ED ABUSO
EXTRAFAMILIARE: INCESTO E PEDOFILIA
2.1 La pedofilia da un punto di vista clinico
19
2.2 Definizione di abuso sessuale infantile
25
2.3 Tipologie di abuso
28
2.4 L’abuso intrafamiliare
29
2.5 Tipologia della famiglia incestuosa
33
2.6 Genitori abusanti
35
2.7 L’incesto tra padre-figlia
37
2.8 Le conseguenza dell’incesto
43
CAPITOLO III
48
ASPETTI GIURIDICI E SEGRETO PROFESSIONALE
2
3.1 La definizione giuridica dell’incesto
48
3.2 L’incesto (Art.)
52
3.3 L’abuso sessuale in famiglia
57
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3.3.1
ART. 609 bis: il reato di violenza sessuale
58
3.4 Il coniuge quale soggetto passivo del reato di violenza
sessuale
3.5 Il segreto professionale
CAPITOLO IV
60
67
71
PERICOLOSITA’ SOCIALE E TRATTAMENTO TERAPEURICO
4.1
Dopo la condanna: rieducazione del condannato
4.2
La pericolosità sociale: il problema dell’accertamento 73
4.3
La terapia dell’abusante
4.4
Il trattamento cognitivo comportamentale degli aggressori
4.5
71
84
sessuali
89
Il colloquio psicologico come strumento di aiuto
96
4.5.1
I fattori che influiscono sul colloquio
98
4.6
Il colloquio criminologico
103
4.7
I test psicologici
108
4.7.1
La personalità dell’abusante attraverso
i test proiettivi
CAPITOLO V
117
121
Il caso del Signor G.
CONCLUSIONI
140
APPENDICE
145
BIBLIOGRAFIA
150
3
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Introduzione
I maltrattamenti e gli abusi sui minori sono sempre esistiti nella
nostra
storia
e
solo
negli
ultimi
anni
si
sta
prendendo
in
considerazione più seriamente la grave situazione che si sta
sviluppando. Esistono varie tipologie di violenza che possono essere
attuate all’interno di un contesto familiare, ma in questo caso ci
soffermeremo in particolare sul fenomeno dell’incesto.
L’abuso sessuale sui minori è un comportamento deviante che
nell’ordinamento italiano si concretizza come reato. Il caso più
frequentemente riscontrato è l’abuso perpetrato da uno dei genitori a
danno dei figli, ossia l’incesto. In effetti, dai dati statistici di cui si è a
conoscenza, e che riguardano naturalmente solo i reati denunciati,
risulta che l’incesto, inteso nella forma più ampia, e cioè come
comprendente tutti i rapporti di natura sessuale intervenuti tra
persone legate da vincoli di sangue in linea retta o collaterale, sia la
forma di abuso sessuale sui minori più frequente. L’abuso sessuale è
sempre un trauma per la vittima, a maggior ragione quando questa è
una persona in crescita, come nel caso di un minore. Ovviamente, le
conseguenze di questo evento traumatico sono diverse, poiché
dipendono da fattori variabili, quali l’età di vittima e aggressore, la
relazione esistente fra i soggetti coinvolti, la durata dell’abuso, il
livello di sviluppo fisico e cognitivo del minore, ecc. Di conseguenza,
anche
gli
diversificati,
interventi
poiché
a
favore
della
vittima
qualunque generalizzazione
dovranno
potrebbe
essere
avere
conseguenze deleterie per il soggetto. In ogni caso, gli addetti ai
lavori
sono
concordi
nel
ritenere
indispensabile
un
approccio
integrato, nel quale si mescolino in ugual misura interventi di ordine
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giudiziario, medico, psicologico e assistenziale, tutti orientati alla
salvaguardia
e
alla
protezione
irrinunciabile
il
momento
della
del
minore.
rilevazione,
Appare
poiché
quindi
rilevare
prontamente l’incesto e segnalarlo all’autorità giudiziaria sono le
modalità più sicure per ottenerne l’interruzione e per mettere in atto
le prime misure di protezione del minore. Naturalmente, questo è
solo il primo passo per eliminare la situazione di pericolo fisico e
psicologico in cui il minore si trova a vivere. Successivamente sono
indispensabili l’accertamento, il trattamento giudiziario e, in ultimo,
ma di fondamentale importanza, la comprensione degli stati d’animo
e delle emozioni che permetteranno di portare avanti una terapia per
il minore.
Con questo studio cercherò di porre l’attenzione sulla figura
dell’abusante, proponendo un’analisi su quelle che a tutt’oggi sono le
principali modalità di intervento poiché l’incesto è la forma di abuso
più diffusa.
Il primo capitolo si occupa del fenomeno dell’incesto, cerca di
descriverne la storia e alcuni riferimenti teorici che spiegano le origini
del tabù dell’incesto Tale norma sociale è infatti molto antica e si
ritrova in quasi tutte le culture, con qualche rara eccezione. E’ allora
utile capire per quale motivo sia stata creata un regola tanto forte e
tanto temuta, e cercare di dare una spiegazione alle violazioni che
comunque esistono a questa norma sociale.
Il secondo capitolo affronta il tema della differenza tra abuso
intra-familiare e abuso extra- familiare, ovvero incesto e pedofilia. In
questo capitolo si cerca di definire in modo abbastanza dettagliato il
fenomeno dell’incesto e del suo sviluppo, soffermandosi nel dettaglio
sull’incesto tra padre e figlia e sulle conseguenze che questo
comportamento deviante può portare. Non si può inoltre non fare
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alcuni accenni all’abuso sessuale infantile, in quanto è un tema
strettamente correlato alla figura dell’abusante.
Il terzo capitolo tratta degli aspetti giuridici e delle normative
italiane descrivendo in dettagli gli articoli che riguardano l’incesto e la
violenza sessuale. Vengono descritti gli interventi legislativi contro
l’incesto. Mi è sembrato opportuno soffermarmi brevemente anche
sul conflitto che molti operatori del settore molto spesso si trovano
ad affrontare, ossia il conflitto tra l’obbligo di denuncia e il segreto
professionale, tema che divide tutt’ora molte persone.
Nel quarto capitolo si cerca di definirne la pericolosità sociale e un
possibile
trattamento
terapeutico
di
risocializzazione
e
di
reinserimento sociale che si può attuare nel momento in cui
l’abusante venga condannato e quindi internato in un istituto
carcerario, si descrive l’utilizzo dei colloqui di sostegno e i fattori che
possono influirlo. Vengono descritti inoltre i test maggiormente
utilizzati all’interno di colloqui clinici, sottolineando come, con alcune
ricerche sui test proiettivi, si cerchi di comprendere la personalità
dell’abusante.
Infine ho riportato alcuni colloquio seguiti in prima persona con un
detenuto della casa circondariale di Verona, con cui sto seguendo un
progetto di sostegno per una risocializzazione e reinserimento nella
società con la relazione finale fatta per l’Avvocato.
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Il fenomeno dell’incesto
1.1 L’incesto nella mitologia: il mito di Adone
Adone, mitico personaggio dell’antichità, rappresentante il frutto
dell’amore incestuoso tra un padre e una figlia, è un esempio di
amore, come veniva inteso nelle credenze degli antichi greci, che
erano soliti immaginare un connubio tra il naturale ed l’innaturale,
giustificando spesso il sottile passaggio dall’ umano all’eterno.
A Cinira, nipote di Pigmalione, fondatore della città di Pafo sull’isola
di Cipro, gli nacque una figlia (Mirra o Smirra), che, appena divenne
una leggiadra giovinetta, s’innamorò perdutamente del padre.
Mirra si considerava bellissima e spesso si vantava di avere i
capelli più belli della stessa Afrodite (Venere) la dea della bellezza e
per questo fu punita. La punizione consistette nel fatto che, Mirra,
(per volere degli Dei olimpici, che mal sopportavano questi affronti
dai mortali), presa da irrefrenabile passione pel padre, con inganno
inebriò il genitore con essenze irresistibili e giacque con lui per dodici
notti consecutive.
Durante l’ultima notte al bagliore di un lume nascosto Cinira si
destò dall’ebbrezza e scorta chi era la compagna di letto e scoperto
l’inganno, andò su tutte le furie e brandendo la spada si scagliò con
veemenza contro la figlia per ucciderla.
Mirra, per sfuggire alla morte e conscia che portava in seno un
bambino, concepito in quell’amore proibito, e piena di vergogna,
pregò gli dei di scomparire e di non esistere né tra i vivi, né tra i
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morti. Padre Zeus (Giove) s’impietosì e trasformò Mirra in un albero,
che piange con le lacrime più aromatiche nel partorire il proprio
frutto, il frutto del legno (Adone).
Divenuta albero, Mirra partorì così il suo primo frutto (Adone) che
era un bambino bellissimo, tanto che Afrodite (Venere), lo nascose
chiudendolo in una cassa, che consegnò a Proserpina (la dea degli
Inferi) perché la custodisse. Proserpina, incuriosita del contenuto,
aprì la cassa e visto il bel bambino, non volle più restituirlo.
Tra le due Dee nacque così una contesa, che, fu risolta da padre
Giove con questo verdetto, il fanciullo, finché non diventava adulto,
una parte dell’anno la trascorreva da solo, un’altra parte con
Proserpina ed un’altra con Afrodite.
Intanto Ares (Marte) roso dalla gelosia per le attenzioni
amorose, che Afrodite profondeva per il fanciullo, durante una
battuta di caccia fece ferire a morte da un cinghiale il bel Adone, il
cui sangue, spargendosi per tutta la boscaglia, dove ricadeva, faceva
sorgere anemoni rossi variopinti, che però appassivano molto presto.
Il Mito di Adone sta a simboleggiare nel cinghiale la stagione
invernale, che spegne la vita della natura (la morte apparente, il
periodo che Adone trascorre presso Proserpina negli inferi), e
nell’amore eterno voluto da Afrodite finché non si congiunge con
Adone, che si manifesta nella rinascita della vegetazione in primavera
con il rifiorire nei campi dei primi fiori anche se dopo breve tempo
appassiscono.
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1.2 Il fenomeno dell’incesto
Ogni società si basa su scale di valori storicamente definite e
variabili nel tempo e il fenomeno dell'incesto è stato, in epoche e
comunità particolari (ad esempio nella società contadina e pastorale)
tollerato e non avvertito come deviazione sessuale. Oggi, la nostra
cultura ci porta a condannare l'incesto. In quanto fenomeno,
l'incesto, presenta delle differenze con la violenza sessuale sui
minori: non sempre infatti, l'incesto presuppone la violenza, anzi,
giuridicamente si parla di incesto in caso di violazione della morale
familiare (che è l'oggetto tutelato dall'art. 564 c.p. in seguito
spiegato nel dettaglio CAP 3) attraverso il compimento di atti sessuali
che causano "pubblico scandalo".
Si parla dunque di atti sessuali, non di violenza. Nonostante
l'impronta
giuridica,
però,
è
interessante
notare
come
nella
percezione sociale, l'incesto viene riferito a tutti quei casi in cui
vengono compiute violenze sessuali tra soggetti appartenenti alla
stessa famiglia, e l'elemento della violenza con cui viene commesso
1
l'atto sessuale lo rende, socialmente, un caso particolare e specifico
della situazione di abuso sessuale. Da considerare che quando si
parla di violenza sessuale su minore, ci si riferisce ad una
presunzione di violenza in cui l'eventuale consenso o dissenso del
minore non ha rilevanza giuridica. Il minore è considerato un
soggetto
speciale
che
necessita
di
particolare
e
più
attenta
protezione, ogni singolo atto sessuale, anche se da lui deciso o
voluto, è ritenuto un atto violento da perseguire.
Esemplificativa
è
la
definizione
proposta
dal
Comitato
di
protezione giovanile del Quebec, che ha individuato l'incesto in
qualsiasi tipo di relazioni sessuale che avviene all'interno della
1
Merzagora, Incesto, in Digesto delle discipline penalistiche, Utet, Torino, 1992, p. 326-331.
9
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famiglia tra un bambino ed un adulto che svolge nei suoi confronti
una funzione parentale. Vi rientrano, quindi, atti compiuti in ogni tipo
di relazione, etero od omosessuale (non soltanto se si arriva
all'accoppiamento, ma anche quando si verificano pratiche orogenitali, anali e masturbatorie), e al bambino di atti di voyeuristico
ed esibizionistici.
Dunque, quando la società discute di situazioni di incesto si
riferisce ai casi di abuso sessuale intrafamiliare, che vengono puniti
dall'ordinamento con la normativa della Legge n. 66 del 1996. Da
anni, infatti, anche i giudici che devono valutare casi di incesto tra un
soggetto minorenne ed uno maggiorenne, non applicano più l'art.
564 c.p., in quanto tale norma non ha di mira la tutela del minore
(che è invece quello che l'attuale percezione sociale ritiene essere
l'obiettivo più importante dell'ordinamento) e fanno ricorso alle
norme sulla violenza sessuale. Questo cambiamento è risultato anche
dal fatto che i vari studi di psicologia sul rapporto sessuale tra un
soggetto minorenne ed uno maggiorenne (soprattutto se legati da un
rapporto di parentela) hanno individuato che in questa situazione di
violenza intrinseca all'atto stesso, anche se non esplicita. È dunque
più opportuna la tutela del minore attraverso le norme sulla violenza
sessuale2.
Un ultimo appunto ci viene fornito da Moro3 che ritiene che
l'eziologia dell'incesto debba essere oggi più esattamente individuata
in una "cultura della violenza" pervasiva delle relazioni familiari, nelle
quali ogni membro della famiglia contribuisce allo sviluppo e al
mantenimento del problema. Dunque non è corretto interpretare
l'incesto come qualcosa riguardante esclusivamente il sesso, ma
come un fatto legato ai rapporti di potere all'interno della famiglia e
2
R. Luberti, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori, Corso di formazione per
volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.
3
A. C. Moro, Erode fra noi, Mursia, Milano, 1988.
10
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ad una serie di sottoculture ancora molto diffuse all'interno della
nostra società, come la "cultura del possesso del figlio" che scambia
la forza con la potenza e l'affetto con il possesso.
1.3 Un accenno alla storia
L'incesto è il rapporto sessuale tra persone che hanno legami di
parentela, la cui origine, e il cui divieto, sono antichissimi, come
anche le punizioni, che arrivavano fino alla morte dei colpevoli e che
hanno caratterizzato quasi tutte le culture del mondo. Già ai tempi
degli antichi Greci esistevano norme riguardanti l'incesto. In Grecia,
dopo
un
primo
periodo
di
tolleranza,
vennero
giuridicamente
represse le unioni incestuose, in particolare il matrimonio fra
ascendenti e discendenti, mentre soltanto interdetto il matrimonio tra
fratello e sorella (tollerato solo nel caso in cui costoro non fossero
figli della stessa madre)4. Nel diritto romano per incesto venivano
indicati tutti i gravi attentati alle leggi religiose e per i quali non era
ammessa espiazione (ad esempio tutti i reati in ordine alle
contaminazioni dei rapporti di consanguineità). La prima vera e
propria incriminazione dell'incesto risale alle origini del diritto
romano, quando tale comportamento veniva punito con la pena di
morte; in epoca imperiale poi, la pena capitale venne sostituita dalla
deportazione, poiché la maggior parte dei comportamenti incestuosi
venivano compiuti da soggetti appartenenti alle classi sociali più
privilegiate. Il Cristianesimo contribuì ad inasprire le pene: per il
comportamento incestuoso era prevista la vivicombustione5. Nel
periodo illuminista, invece, venne sconfessato l'incesto come reato
4
5
I. Merzagora, Incesto, in Digesto delle discipline penalistiche, Utet, Torino, 1992.
Ibidem, pp. 329.
11
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penale tanto che non venne inserito nei delitti previsti dal codice
francese del 1810, e nemmeno in quello delle Due Sicilie del 1819 e
in quello di Parma del 1820. Successivamente fu poi il codice sardoitaliano del 1859 e il codice toscano del 1853 che ripristinarono la
previsione del reato di incesto.
Il codice Zanardelli adottò una soluzione di compromesso,
subordinando la punizione del reato al verificarsi del "pubblico
scandalo". Tale soluzione aveva trovato unanime accordo, visto che
erano in molti a proporre di sopprimere l'ipotesi delittuosa. Il codice
Rocco ha infine, previsto tale reato all'articolo 564 c.p. nel fatto di
avere rapporti sessuali, in modo che derivi "pubblico scandalo", con
un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, o con
un sorella o un fratello6. Nei lavori preparatori non fu neanche
discusso
sull'opportunità
o
meno
di
punire
l'incesto.
L'unica
perplessità riguardò il mantenimento dello "scandalo pubblico", che
venne ribadito, riconoscendosi anzi proprio in esso il requisito
fondamentale per la configurazione del reato o almeno per la sua
punibilità7.
1.4 La proibizione dell’incesto
Molti
antropologi
sono
inclini
a
considerare
la
proibizione
dell'incesto come uno dei pochi divieti universali, comuni a tutte le
culture conosciute e studiate8. Un'esplicita proibizione delle unioni
incestuoso si trova già nell'antico testamento (Levitino, 20, 17-21);
l'esperienza
dimostra
come
l'interdizione
dell'incesto,
pur
accompagnata da gradi di punizione diversi (le modalità reattive
6
7
8
F. Antolisei, Manuale di diritto penale - Parte speciale, I, Giuffrè, Milano, 2002, pp. 485.
I. Merzagora, Incesto, in Digesto delle discipline penalistiche, Utet, Torino, 1992.
I. Merzagora, L'incesto, Giuffrè, Milano, 1986, pp. 4 - 13.
12
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vanno dalla totale tolleranza, alla pena capitale9) sia di fatto
universale. Le eccezioni sono pochissime: nell'antica Persia e
nell'Egitto Tolemaico il matrimonio incestuoso veniva praticato nella
classe regnante ed in altre società, come quella hawaiana, o nei regni
bantù, l'incesto era consentito da alcune classi privilegiate.
Tuttavia è il tabù stesso, indipendentemente dalle regole che lo
sostengono, a dimostrare che esiste una tendenza all'incesto e che
senza di esso non sarebbe inibita: la legge che vieta la trasgressione,
tanto più è rigida, quanto più potenti sono le tendenze alla
trasgressione. In Totem e Tabù, Freud10 riporta e commenta l'incesto
come è vissuto da alcuni popoli primitivi della Melanesia, della
Polinesia e della Malesia. Nella tribù dei Ta-Ta-Thi, ad esempio, nel
nuovo Galles del Sud, per i rari casi in cui si verifica una relazione
incestuosa, l'uomo viene ucciso, la violazione del divieto viene punita
con il massimo rigore. Un altro esempio di clamorosa condanna, per
impiccagione, è quello che riguarda gli abitanti dell'isola di Lepers,
una delle nuove Ebridi, dove il giovinetto, raggiunta l'età pubere, è
costretto ad abbandonare la casa materna per trasferirsi in quella
11
"dell'associazione" . Potrà tornare a far visita alla madre ma solo per
chiedere cibo, e se in quell'occasione una sorella fosse in casa,
sarebbe lui a doversene andare ancor prima di aver mangiato; se per
caso i due dovessero incontrarsi sarà la sorella a doversi allontanare
e nascondere; e quando il giovane vedrà orme di passi sulla sabbia e
le riconoscerà come quelle della sorella non potrà seguirle.
È facilmente intuibile come, in questo caso, la prevenzione
dell'incesto renda impossibile al giovane il ritorno all'oggetto amato,
in cui ha investito non solo le sue esigenze di amore e di essere
9
American Jourmal 150: 3, Rethinking Oewdipur: an Evolution Perpsective of Incest Avoidance, Marzo
1993.
10
S. Freud, Totem e tabù, Bollati Boringhieri, Torino, 1967.
11
S. Freud, Totem e tabù, Bollati Boringhieri, Torino, 1967.
13
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amato, ma anche le proprie possibilità di sopravvivenza12. Dunque
l'osservanza delle leggi che regolano i rapporto tra consanguinei
richiede la separazione dall'antico rapporto e, come ogni situazione di
distacco
e
di
perdita,
è probabile
che
generi
frustrazione
e
depressione ma, contemporaneamente crei i presupposti per un Io
solido e autonomo, capace di instaurare e mantenere rapporti
oggettuali maturi13.
Un altro esempio di rapporto incestuoso è quello dei Big Namba,
dell'isola di Malekula: l'anziano suocero, il Nambutji, prima delle
nozze, picchia con verghe di legno e poi sodomizza il futuro genero14.
In questo rito in cui l'anziano padre usa il promesso sposo come
"figlio-moglie", emergono l'elemento sadico, l'incestuoso desiderio
per la figlia e la trasmissione da suocero a genero della "cosa"
proibita.
Se socialmente l'incesto è un divieto permanente, insormontabile
e perseguibile, lo stesso rigore non è applicato per quelle relazioni
sessuali che tutto hanno dell'incesto tranne la consanguineità15. Il
vecchio Nambuji, infatti, non viola il tabù, ma come è successo a suo
tempo per lui, soddisfa e contemporaneamente trasmette al marito
della figlia, verso cui non ha legami di sangue, il desiderio e l'orrore
dell'atto
16
proibito .
A
questo
proposito
si
possono
fare
due
considerazioni: la prima, confermata dall'osservazione clinica, è che
chi subisce il danno dell'incesto, come se si trattasse di una malattia
12
P. Mari, Nodi Relazionali della famiglia abusante, in Per i derubati del sole. Un percorso formativo
nei casi di abuso e maltrattamento infantile, Centro di Aiuto al Bambino Maltrattato e alla Famiglia, Atti
del percorso formativo, Roma, 2001.
13
M. Acconci, A. Berti, Grandi reati, piccole vittime. Reati sessuali a danno dei bambini, Erga
edizioni, Genova, 1999, p. 203-211.
14
W. Muensterberger, Perversione, norma culturale e normalità, in Psicoterapia della perversioni, Ed.
Astrolabio, Roma, 1972.
15
M. Mancia, Riflessioni sulla Psicoanalisi contemporanea, in Psicoanalisi ed Antropologia, Ed. Bollari
Boringhieri, Torino, 1995.
16
W. Muensterberger, Perversione, norma culturale e normalità, in Psicoterapia della perversioni, Ed.
Astrolabio, Roma, 1972.
14
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infettiva, ne diviene portatore e potenziale veicolo di contagio17, la
seconda è che il desiderio di violare il tabù dell'incesto segregato
nell'inconscio trova una via di appagamento "lecita" e in un certo
senso utile dal momento che "avverte" la nuova generazione
dell'ambivalenza emotiva che ha verso il tabù anche chi lo rispetta.
Alla proibizione dell'incesto sono state in antropologia proposte
principalmente tre tipi di spiegazione18:

biologica, in cui la proibizione dell'incesto sarebbe una misura
di protezione diretta a salvaguardare la specie dai risultati
nefasti dei matrimoni consanguinei;

psicologica, in cui la proibizione dell'incesto sarebbe basata
sulla istintiva repulsione o mancanza di eros derivante dalla
familiarità dei rapporti tra consanguinei;

sociologica, in cui la proibizione dell'incesto sarebbe da
considerarsi come una regola che permette agli uomini di
scambiarsi le donne e di stabilire in questo modo delle alleanze,
dando il via alla possibilità della vita sociale.
In particolare è la spiegazione sociologica quella che oggi è
19
ritenuta dalla maggior parte degli antropologi la più convincente . Ed
essa si correla con il binomio esogamia/endogamia, ovvero con la
tendenza riscontrabile in ogni società, a contrarre matrimoni ed
17
M. Acconci, A. Berti, Grandi reati, piccole vittime. Reati sessuali a danno dei bambini, Erga edizioni,
Genova, 1999, p. 205.
18
N. Rouland, Antropologia giuridica, Giuffrè, Milano, 1992, p. 46.
19
E questo essenzialmente per le due seguenti rispettive ragioni: la spiegazione biologica presuppone
che popoli anche molto primitivi abbiano consapevolezza degli effetti prodotti dalla procreazione di
genitori consanguinei quando in alcuni casi popolazioni tradizionali (ad esempio alle isole Trobrinad)
non sono neanche a conoscenza della correlazione fra gravidanza ed atto sessuale; la spiegazione
psicologica invece si basa su un'assunzione smentita da innumerevoli riscontri empirici che confermano
l'attrazione sessuale fra consanguinei (per non parlare degli stessi presupposti della psicoanalisi) e dalla
semplice e logica osservazione secondo cui non ci sarebbe alcun bisogno di proibire qualcosa che
istintivamente nessuno è disposto a fare. V. Andreoli, Dalla parte dei bambini. Per difendere i nostri
figli dalla violenza, Ed. SuperBur, Milano, 2003, p. 72-73.
15
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unioni sessuali con appartenenti ad uno stesso gruppo (endogamia) o
ad
un
gruppo
diverso
dal
proprio
(esogamia)20.
La
regola
dell'esogamia è presente in Freud. In Totem e tabù, Freud muove
dalla nozione antropologica di totem, l'oggetto sacro, per lo più un
animale, che viene considerato simbolo della tribù e contraddistingue
l'appartenenza alla tribù stessa e una specie di legame di parentela
fra tutti i membri della stessa. Nel gruppo totemico vigono più tribù
con più divieti: non uccidere l'animale totemico, non mangiare carne,
non contrarre matrimonio all'interno del gruppo ossia non con
membri dello stesso totem21.
In
questo
senso
alla
proibizione
dell'incesto
corrisponde
l'esogamia, ma secondo Lèvi-Strauss, questo è innanzitutto scambio:
«In qualunque sua forma è lo scambio, e sempre lo scambio, che
risulta essere la base fondamentale e comune di tutte le modalità
dell'istituto matrimoniale. Se queste modalità sono tutte assumibili
sotto la generale denominazione di esogamia, ciò può farsi a
condizione
di
riconoscere,
dietro
l'espressione
superficialmente
negativa della regola di esogamia, la finalità di cui essa tende con la
proibizione del matrimonio nei grandi proibiti, e che è quella di
assicurare la circolazione totale e continua di quei beni per eccellenza
che il gruppo possiede e che sono le sue mogli e le sue figlie»22.
In generale la tensione verso l'esogamia, corrisponde al fortificarsi
del gruppo, non solo in termini biologici e genetici ma anche in
23
termini culturali e sociali . Alla base della proibizione dell'incesto vi è
dunque innanzitutto lo "scambio" come prima condizione di esistenza
20
C. Seymour-Smith, Dizionario di antropologia, Sansoni, Firenze, 1991.
Freud interpretava queste caratteristiche delle tribù primitive con mezzi psicoanalitici e, più
precisamente, era del parere che l'animale totemico simbolizzasse la figura del padre e che i tabù
corrispondessero a divieti derivanti dal complesso di Edipo: il divieto di parricidio e il divieto di incesto.
D. Fusaro, Sigmund Freud. La sublimazione.
22
C. Lèvi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, 1984, Milano, p. 614.
23
N. Rouland, Antropologia giuridica, Giuffrè, Milano, 1992.
21
16
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della società. Ciò significa che, dice ancora Lèvi-Strauss, che
«l'esogamia ha un valore assai più positivo che negativo, perchè
afferma
l'esistenza
sociale
altrui,
e
proibisce
il
matrimonio
endogamico solo per introdurre e prescrivere il matrimonio con un
gruppo diverso dalla famiglia biologica; e non certo perchè al
matrimonio consanguineo si attribuisca una pericolosità biologica, ma
24
perchè da un matrimonio esogamico risulta un beneficio sociale» . Si
può dunque affermare che l'esogamia «costituisce l'archetipo di tutte
le altre manifestazioni a base di reciprocità, e fornisce la regola
fondamentale ed immutabile che assicura l'esistenza del gruppo
come gruppo».
Se da un lato la rete di alleanza che i sistemi esogamici
producono, permette al gruppo di prosperarsi e di organizzarsi sul
territorio in modo anche molto efficace, dall'altro comporta una certa
dispersione, anch'essa non solo genetica, ma anche sociale e
culturale. Scambiano i geni, la cultura, le risorse economiche e sociali
con un gruppo diverso, ogni gruppo perde parte di sé e si fortifica
solo nella misura in cui non si perde nell'altro. L'esogamia pertanto,
pur essendo teoricamente auspicabile, comporta dei seri rischi nella
continuità
e
nella
riproduzione
del
25
gruppo .
Applicare
simili
caratteristiche alla società in cui viviamo e ai casi di abuso in
famiglia, potrebbe rilevare degli aspetti interessanti. Interpretare
l'incesto e l'abuso in famiglia presente nella società occidentale in
termini di inibizione dell'esogamia apre la strada all'interpretazione di
alcuni aspetti della nostra società in termini di crisi, di problematicità
e di miseria psicologica. Il non voler contrarre relazioni esogamiche,
24
C. Lèvi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, 1984, Milano p. 616.
È un errore pensare alla nostra società come ad una società del tutto esogamica. Precise categorie di
ceto socioprofessionale, economico e culturale oltre che razziali, religiose e di età vincolano, nella nostra
cultura, le scelte matrimoniali.
25
17
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il non voler scambiare il proprio corredo (genetico, culturale, sociale)
con un individuo riconoscibile come altro da sé, potrebbe infatti
corrispondere ad una paura di dispersione, annientamento, perdita di
sé nell'altro26.
Anche la pedofilia potrebbe, in via del tutto ipotetica, essere letta
come un incesto simbolico, quindi come rifiuto endogamico a
"scambiare",
esogamicamente
il
proprio
patrimonio
(genetico,
culturale, sociale) con un partner appartenente ad un gruppo diverso.
Simili teorie però non godono allo stato attuale, di nessun riscontro
empirico e possono semplicemente aggiungersi alle tante interpretazioni della pedofilia che sinora restano, purtroppo, interpretazioni del
tutto astratte27.
Si possono inoltre considerare altre società antiche in cui l’incesto
veniva considerato come un requisito regale. Ad esempio nella civiltà
degli Inca solo il re poteva sposare la propria sorella, madre o nipote.
A chi non osservava questo divieto venivano cavati gli occhi. Anche i
faraoni egiziani consideravano l’incesto una caratteristica regale. I
sovrani di queste civiltà infrangevano intenzionalmente questo
divieto per affermare la loro posizione di superiorità e di potere
assoluto. Possiamo quindi affermare, per concludere, che il divieto di
incesto non dipende solo ed esclusivamente da influenze biologiche
ma anche dagli aspetti socio-culturali dei diversi popoli. Abbiamo
però anche visto come, in certi casi, gli uomini abbiano infranto
questo tabù per soddisfare la loro personale sete di beni e di potere o
per
26
27
affermare
la
loro,
quanto
mai
presunta,
B. Bernardi, Uomo cultura e società, F. Angeli, Milano, 1985.
N. Rouland, Antropologia giuridica, Giuffrè, Milano, 1992, p. 46.
18
“superiorità”.
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Abuso sessuale intra-familiare
e abuso extra-familiare:
incesto e pedofilia
2.1 La pedofilia da un punto di vista clinico
Etimologicamente il termine pedofilia (dal greco pais che
significa fanciullo, e philìa amore) sta a significare predisposizione
naturale dell'adulto verso il fanciullo come forma educativa o
pedagogica28. In realtà essa deve essere intesa come attrazione
sessuale dell’adulto verso i bambini in età pubere o in età pre-pubere
(generalmente inferiore ai 13 anni).
La pedofilia costituisce un argomento che suscita da sempre un
particolare allarme sociale, desta interesse crescente in ambito
clinico, giuridico e politico e richiama all’esigenza di trovare risposte
concrete e immediate da parte delle istituzioni preposte alla tutela
delle vittime ma anche e soprattutto al contrasto e al trattamento
degli autori anche in termini di prevenzione della recidiva.
La
natura
complessa
e
articolata
di
questa
problematica,
l’ampiezza ed eterogeneità dei modelli eziologici e della letteratura
esistente, nonché i diversi livelli interpretativi, rendono inoltre arduo
il lavoro degli operatori impegnati nella valutazione sistematica di
queste condotte, nonché nella loro presa in carico.
28
P. Monni, L'Arcipelago della Vergogna. Turismo sessuale e pedofilia, Edizioni Universitarie Romane,
2001, pp. 96.
19
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Il
fenomeno
in
questione
rappresenta
infatti
un
evento
eterogeneo: diverse sono le cause che possono costruire tale
comportamento, diversi sono i contesti in cui ha maggiori possibilità
di emergere, diversi sono gli operatori e le istituzioni coinvolte ma
anche gli strumenti e le tecniche utilizzate per il contrasto, diversi
sono gli esiti giudiziari ed istituzionali ed, infine, differenti sono gli
attori di volta in volta coinvolti e i profili comportamentali ad essi
riferibili.
A rendere ancora più difficoltosa una chiara definizione e
differenziazione delle condotte pedofile è il fatto che nel tempo, sui
reati sessuali in generale e sulla pedofilia nello specifico, si è
costruita una vera e propria mitologia che coinvolge aggressore e
vittima in una realtà diadica stereotipata, mitizzata tanto dai
protagonisti quanto dalla società nel suo complesso.
Altrettanto difficoltoso è tentare un raggruppamento in un’unica
categoria degli autori di questa tipologia di reati, laddove la stessa
diffusione del fenomeno della pedofilia è resa ancor più praticabile
per mezzo della diffusione del mezzo informatico (Festa - Careri,
2004).
Come emerge da una ricerca del 2004 a cura dell’International
Crime Analysis Association:
- il 13% dei bambini tra gli 8 e i 13 anni ha avuto dei contatti in chat
con un adulto che intraprende discorsi su tematiche sessuali;
- il 29,7% di adolescenti tra i 14 e i 17 anni ha incontrato contenuti
indesiderati/offensivi;
- il 51,7% di loro ha incontrato finestre aperte di pubblicità di altri
siti.
Per
quanto
concerne
poi
la
confusione
concettuale
nella
definizione del fenomeno, vi è una correlazione con il contesto sociale
20
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in cui è collocata, assumendo significati differenti nelle varie epoche
storiche.
Nell’antichità il pedofilo è considerato l’amante dei fanciulli con
valenze educative. Al tempo dei Greci e dei Romani, la pedofilia che
riguarda i bambini prepuberi è largamente tollerata. Nel Medioevo ha
ancora
caratteristiche
di
tollerabilità,
mentre
nell’età
moderna
diventa un concetto e una modalità comportamentale inaccettabile
da un punto di vista morale e penale (Callieri - Frighi, 1999).
Attualmente, gli orientamenti sulla pedofilia si posizionano su
diversi percorsi interpretativi:
- l’approccio di tipo socio-antropologico concepisce la pedofilia come
“pervertimento sociale”, solo in riferimento a particolari periodi storici
e ad alcune società, mentre per altre rientra all’interno di una
modalità largamente accettata (Scardaccione, 1992; Scardaccione
Baldry, 1997);
-
l’approccio
di
tipo
antropo-fenomenologico
si
concentra
sull’osservazione nella pedofilia della presenza di stati emotivi
caratterizzati
da
impellenza,
che
diventano
ostacolo
per
la
costruzione di un legame normale amoroso fra due soggetti adulti di
sesso diverso;
- l’approccio di tipo clinico definisce la pedofilia come una perversione
sociale e la tratta come un disturbo della sfera sessuale (Coluccia et
al., 1999).
Da un punto di vista clinico quindi la pedofilia, secondo la
classificazione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi
Mentali - IV - Text Revision (DSM-IV-TR), essendo un disturbo della
sfera sessuale, rientra in quei disturbi che la terminologia psichiatrica
indica come “parafilie”.
Il termine “parafilie” sta ad indicare che la deviazione (para)
dipende dall’oggetto fonte d’attrazione (filia). Le caratteristiche
21
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essenziali
delle
parafilie
sono
fantasie,
impulsi
sessuali
o
comportamenti ricorrenti o intensamente eccitanti, che possono
riguardare oggetti inanimati, la sofferenza e l’umiliazione di se stessi
o del partner, di bambini o di altre persone non consenzienti,
essendo «caratterizzate da ricorrenti e intensi impulsi, fantasie, o
comportamenti sessuali che implicano oggetti, attività o situazioni
inusuali
e
causano
disagio
clinicamente
significativo
o
compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altre aree di
funzionamento …» (DSM-IV-TR).
Questa
definizione
ci
fa
dunque
capire
che
il
pedofilo
è
“psicopatologicamente pedofilo”, perchè mosso in modo invasivo e
incontrollabile dalle sue fantasie, impulsi e desideri a tal punto da
compromettere una o più aree della sua vita a livello sociorelazionale o professionale.
Nel DSM-IV-TR, ai fini di una corretta valutazione clinica della
pedofilia, si fa riferimento a tre criteri specifici:
- la presenza durante un periodo di almeno 6 mesi di fantasie,
impulsi sessuali, o comportamenti ricorrenti e intensamente eccitanti
sessualmente che comportano attività sessuale con uno o più
bambini prepuberi;
- le fantasie, gli impulsi sessuali o i comportamenti causano disagio
clinicamente
significativo
o
compromissione
dell’area
sociale,
lavorativa o di altre importanti aree del funzionamento;
- il soggetto ha almeno 16 anni ed è di almeno 5 anni maggiore del
bambino o dei bambini di cui al criterio A
Non esiste un’età media cui ricondurre il soggetto pedofilo (Dickey
et al., 2002) e non è possibile rintracciare neanche una classe sociale
cui un soggetto affetto da tale disturbo appartiene.
Il sesso del pedofilo è quasi esclusivamente rappresentato dal
genere maschile, ma non è esclusa la presenza di quello femminile.
22
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Per
quanto
riguarda
la
meta
d’attrazione,
alcuni
pedofili
preferiscono minori dello stesso loro genere (pedofilia omosessuale),
altri quelli di sesso opposto (pedofilia eterosessuale), altri ancora
sono eccitati sia dagli uni sia dagli altri (pedofilia bisessuale).
In genere, i pedofili riferiscono un interesse sessuale rivolto a
minori di una particolare fascia d’età; sono individui particolarmente
attratti da soggetti che hanno un’età che precede, rientra o ha
appena superato la pubertà. Da ciò consegue che non appena questi
soggetti, crescendo, assumono sembianze più adulte viene meno la
capacità di attrarre sessualmente il pedofilo Canziani (1996), in base
alle caratteristiche di personalità e ai livelli di gravità, distingue tra:
- pedofili omosessuali, che desiderano avere rapporti con bambini/e
dello stesso sesso, con modalità “d’amore” vicine a quelle fra madre
e figlio;
-
pedofili
compulsivi,
comportamenti
sessuali
che
agiscono
sui
bambini/e
in
in
modo
irrefrenabile
associazione
ad
i
un
restringimento dello stato di coscienza, al di fuori del quale soffrono
per tale comportamento;
- pedofili perversi, che non considerano il bambino come soggetto,
ma solo un mezzo per soddisfare un comportamento sessuale, intriso
di ritualità violenta.
Un’altra
differenziazione
è
quella
rappresentata
da
Groth,
Birnbaum (1978) tra pedofili regressivi e pedofili fissati:
- i pedofili regressivi, sono coloro che rivolgono il loro interesse sui
bambini, perché sono caratterizzati da una personalità immatura e
fissata ad un livello infantile di sviluppo psicosessuale. Spesso
l’attrazione verso soggetti pre-puberi è preceduta o accompagnata da
forme più mature di attrazione sessuale. In questi casi si ha a che
fare con soggetti che hanno relazioni con adulti e sono sposati, ma
che tendono a rivolgersi sessualmente ad individui più giovani in
23
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conseguenza di frustrazioni e conflitti di relazione con soggetti della
loro età. In questi casi la spinta non è esclusiva ma episodica e le
motivazioni non strettamente sessuali;
- i pedofili fissati sono coloro nei quali vi è un arresto temporaneo o
permanente dello sviluppo psico-sessuale e fin dall’adolescenza un
atteggiamento di tipo pedofilo. L’interesse sessuale primario non è
mai evoluto oltre lo stadio prepubere; raramente intrattengono
relazioni sessuali adulte, sono spesso celibi e tengono a mettere in
atto comportamenti sessuali pedofili verso sconosciuti o vicini di
casa.
Trasversale a tutte le tipologie evidenziate, come anche per gli
autori di reati sessuali in genere, è infatti la presenza di alcune
caratteristiche distorsioni cognitive (Bandura, 1986; Pithers et al,
1989; Marshal, 1988; Barbaree, 1997; Ward, 2000; Mihailides et al,
2004) che possono essere così riassunte:
- negazione o minimizzazione del danno;
- spostamento della responsabilità ad altri o a fattori esterni situazionali;
- credenze e convinzioni secondo cui i bambini amano fare sesso con
gli adulti, cercando attivamente di impegnarsi in tali attività con loro
e non vengono danneggiati da ciò.
Come per le parafilie in genere, occorre a questo punto una
considerazione a parte per tutti i moltissimi casi in cui delle persone
sentono fantasie e desideri simili a quelle dei pedofili, cioè della
stessa natura e contenuti, senza però una compromissione delle
normali attività di vita e ancor di più senza sentire il bisogno
incoercibile di passare all’atto. In questa condizione si trovano, anche
e non solo, la maggior parte di coloro che sono affetti dal disturbo di
pedo-porno-dipendenza e i fruitori non malati di pornografia.
24
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Ambedue differiscono dal pedofilo riguardo al fatto che non
agiscono mai la condotta sessuale. Tuttavia, il soggetto affetto da
pedo-porno-dipendenza ha in comune con il malato di pedofilia il
fatto di compromettere spesso in modo rilevante le proprie attività
quotidiane a causa della sua malattia di dipendenza, mentre il
fruitore non malato di pornografia, pedo-pornografia inclusa, a
differenza di entrambi, oltre a non agire nessun comportamento
sessuale con il bambino, non compromette in alcun modo le proprie
attività quotidiane.
Certamente non appare possibile attribuire l’eziopatogenesi della
pedofilia a un’unica classe di eventi: la pedofilia sembrerebbe
derivare dunque da una molteplice varietà di dimensioni e classi di
eventi, sia intrapsichici sia esterni. Occorre pertanto al fine di
spiegare tale complesso fenomeno prendere in considerazione una
molteplicità di fattori: anche in funzione del fatto che non esiste
un’unica
tipologia
di
fenomeni,
va
utilizzando
«un
approccio
multifattoriale e chiaramente ancorato ad un criterio casistico tale da
non trascurare la specificità di ogni situazione» (Scardaccione Baldry, 1997).
2.2 Definizione di abuso sessuale infantile
Il termine abuso sessuale infantile incontra alcune difficoltà nella
definizione, poiché essa dipende fortemente dall’ambito di studio in
cui è inserito il problema. Infatti, si possono delineare tre campi di
attività che interessano il fenomeno: la ricerca, la clinica e il diritto;
campi
che,
necessariamente,
forniscono
criteri
di
definizione
dell’abuso diversi. Di qui la necessità di chiarire che cosa si intende
per abuso sessuale infantile.
25
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Dalla sua definizione dipendono, infatti, decisioni importanti per il
minore, come l’attivazione o meno di interventi diagnostici e clinici, o
l’apertura di un procedimento giudiziario nei confronti dell’aggressore. D’altra parte, nell’intervento a tutela del minore abusato sono
coinvolte differenti figure professionali, e ognuna di esse, in base alla
sua specifica formazione, è portatrice di una sua peculiare visione
dell’abuso sessuale minorile. Perciò è necessario prevedere l’impiego
di una definizione che, sul piano operativo, sia condivisa dalle diverse
figure professionali.
In realtà non è affatto semplice delimitare i confini tra ciò che è
lecito e ciò che non lo è in una materia fortemente condizionata da
inclinazioni soggettive, dove la linea di demarcazione è molto
sfumata. E’ quindi di fondamentale importanza porsi la domanda su
che
cosa
possa
essere
correttamente
definito
come
un
comportamento abusante nei confronti di un minore, domanda a cui
è difficile dare una risposta univoca, visto che gli esperti ancora
dibattono sull’estensione di tale definizione, sia in merito agli atti
commessi, sia al tipo di relazione intercorrente.
Vediamo allora quali sono state le definizioni di abuso sessuale
infantile proposte dagli studiosi fino a questo momento.
Kempe29 definisce abuso sessuale infantile il coinvolgimento in
qualsiasi attività sessuale di un minorenne, non maturo, dipendente
e quindi incapace di un libero e cosciente consenso, o il suo
coinvolgimento in atti che violano il tabù sociale dell’incesto. Quindi
ogni rapporto sessuale tra un adulto e un bambino va considerato
come abuso:
- se il minore è esposto o coinvolto in attività sessuali inappropriate
al suo sviluppo psico-fisico;
29
Kempe C.H., “Sexual abuse, another hidden pediatric problem”, , Pediatric, 1978, 62. In De Leo G.,
Petruccelli I., L’abuso sessuale infantile e la pedofilia, 1999, p.15.
26
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- se il minore è usato o sfruttato per la gratificazione di un adulto;
- se il minore si trova nell’incapacità di essere consenziente a causa
della differenza di età e di ruolo dell’adulto;
- se il minore è coinvolto nell’attività sessuale con persone che hanno
un ruolo determinante nell’ambiente familiare (incesto).
Montecchi
30
propone
di
parlare
di
abuso
all’infanzia
come
traduzione del termine inglese child abuse, che comprende tutte le
forme di maltrattamenti e violenze a danno di minori, conformandosi
così alla definizione data dal Consiglio d’Europa in occasione del IV
colloquio criminologico, secondo cui negli abusi vengono individuati “
gli atti e le carenze che turbano gravemente il bambino, attentano
alla sua integrità corporea, al suo sviluppo fisico, intellettivo e
morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di
ordine fisico e/o psicologico e/o sessuale da parte di un familiare o di
altri che hanno cura del bambino”. Rientrano nell’abuso anche le
attività sessuali realizzate in violazione dei tabù sociali sull’incesto
pur con l’accettazione del minore, poiché si presume che tale
accettazione sia viziata dal rapporto di potere che si instaura tra il
minore e l’abusante.
Secondo
Roberts
e
31
Taylor ,
l’abuso
sessuale
sui
bambini
comprende: l’incesto, lo stupro, la sodomia, i rapporti con i bambini,
pratiche o comportamenti omosessuali con i bambini, fotografare i
bambini e incoraggiarli a prostituirsi
o
a
guardare
materiale
pornografico. Ogni bambino sentirà di essere stato sessualmente
abusato quando una persona lo coinvolge in attività volte a
soddisfare l’eccitazione o la gratificazione sessuali di quella o di
30
Montecchi F., Gli abusi all’infanzia, Carocci, Roma ,1998, 17-19. In De Leo G., Petruccelli I., op.
cit.,p.20.
31
Roberts J., Taylor C., “Sexually abused children and young people speak out”, Child abuse and child
abusers, J. Kingsley Publ., London, 1993, pp.13-36.
27
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qualunque altra persona, indipendentemente dall’uso della forza e dal
fatto che si sia verificato un contatto con i genitali.
Dunque, una definizione clinica dell’abuso sessuale infantile deve
includere la considerazione di tre fattori:
a. un’esplicita dichiarazione dell’accaduto: la natura degli atti
sessuali, la frequenza, l’uso della violenza;
b. l’informazione riguardo all’età e allo sviluppo delle persone
coinvolte: la differenza di età, il livello di intelligenza, lo stato
mentale;
c. la natura del rapporto tra le persone coinvolte: se si conoscevano
e in quale contesto, la qualità di altri aspetti del loro rapporto, le loro
percezioni e i loro sentimenti riguardo all’accaduto e al perché.
2.3 Tipologie di abuso
Riprendiamo, dunque la definizione di “abuso sessuale” data da
Kempe: “il coinvolgimento di bambini e adolescenti, soggetti quindi
immaturi e dipendenti, in attività sessuali che essi non comprendono
ancora completamente, alle quali non sono in grado di acconsentire
con totale consapevolezza o che sono tali da violare tabù vigenti nella
società circa i ruoli familiari”.
E’ utile, a questo punto, indicare le diverse tipologie di abuso
sessuale sui minori:
1.
Intra-familiare: abuso attuato da membri del nucleo familiare,
quali genitori (compresi quelli adottivi e affidatari), patrigni,
matrigne, fratelli, o da membri della famiglia allargata quali
nonni, zii, cugini o amici stretti della famiglia.
2.
Extrafamiliare: abuso attuato da persone conosciute dal minore,
quali
28
vicini di casa, conoscenti, etc.
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3.
Istituzionale: abuso attuato da persone ai quali i minori vengono
affidati per ragioni di cura, custodia, educazione, gestione del
tempo libero, all'interno di diverse istituzioni ed organizzazioni
(insegnanti, medici, assistenti di comunità, allenatori, etc.).
4.
Di strada: abuso attuato da parte di persone sconosciute.
5.
Ai fini di lucro: commesso da parte di singoli o gruppi criminali
organizzati, quali le organizzazioni per la produzione di materiale
pornografico, per lo sfruttamento della prostituzione, agenzie per
il turismo sessuale, etc.
6.
Da parte di gruppi organizzati (sette, gruppi di pedofili, etc.),
esterni al nucleo familiare.
2.4 L’abuso intrafamiliare
L’abuso intrafamiliare è quello che crea
maggiori difficoltà, sia
nella fase di accertamento, sia nel trattamento ed è, secondo le
ricerche, la tipologia di abuso prevalente.
Per indicare gli abusi che avvengono all'interno dalla famiglia,
viene usato il termine "incesto", che indica qualunque tipo di
relazione sessuale tra un bambino ed un adulto che condividono un
32
legame di parentela, o che vivono insieme .
In pratica, anche la relazione sessuale tra un bambino ed il
patrigno, la matrigna o sostituti parentali permanenti si può
considerare incesto, come pure gli atti compiuti in ogni tipo di
relazione,
etero
od
omosessuale,
non
soltanto
se
si
arriva
all'accoppiamento, ma anche quando si verificano pratiche orogenitali,
32
anali
e
masturbatorie,
e
determinati
comportamenti
Goodwin J., Abuso sessuale sui minori. Le vittime dell’incesto e le loro famiglie, 1982, p.1.
29
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parentali
caratterizzati
da
un'intimità
fisica
eccessiva
o
dall'imposizione al bambino di atti voyeuristici ed esibizionistici.
Gli abusi sessuali nell'ambito della famiglia possono essere
ulteriormente distinti in:
o
Incesto tra padre e figlia. Si tratta del caso di gran lunga più
frequente di cui la letteratura si è maggiormente occupata;
o
Incesto tra padre e figlio. Secondo alcuni autori le sue dinamiche
presenterebbero
delle
analogie
con
quelle
dell'incesto
padre/figlia, compreso l'atteggiamento collusivo della madre;
o
Incesto tra madre e figlio. È un evento molto raro, che la
letteratura scientifica descrive come il più grave, dal punto di
vista delle conseguenze psicologiche per i soggetti coinvolti;
o
Incesto tra madre e figlia. Non è un caso molto frequente ma ne
vengono segnalati alcuni;
o
Altri tipi di incesto perpetrati da altri parenti, conviventi o,
comunque, da persone presenti con particolare assiduità, come
nonni o zii.
Un dato molto importante che bisogna tenere in considerazione è
che gli abusi delle madri sui figli sono molto difficili da scoprire
soprattutto perché sono mascherati dalla pratica delle cure e
dell'affettività materna. Molti atti di libidine si celano infatti nei bagni
e nei lavaggi intimi, nelle applicazioni superflue di creme sui genitali
dei figli di entrambi i sessi, nel condividere con questi ultimi fino
all'età adolescenziale il letto o le carezze erotiche, arrivando anche al
rapporto completo. Tutti questi comportamenti sono naturalmente
perversioni
materne,
spesso
anche
molto
sottili,
che
sono
difficilmente riconoscibili e che non riescono ad emergere se non in
terapia. Essi sono stati considerati fino a non molti anni fa quasi
"naturali", o comunque un "eccesso" tollerato dal sentire comune, in
30
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quanto è considerato un dato scontato che il rapporto tra madre e
figlio sia esclusivo.
Spesso
l'aggressione
sessuale
viene
effettuata
da
figure
sostitutive del padre - assente perché deceduto o separato dalla
moglie - come il patrigno o il convivente della madre, o anche da un
fratello maggiore della vittima.
Inoltre, secondo Montecchi, l’abuso sessuale intrafamiliare può
assumere tre differenti forme cliniche:
o
Abusi sessuali manifesti (intra-domestici ed extra-domestici);
o
Abusi sessuali mascherati (da pratiche igieniche incongrue o
abuso assistito);
o
Pseudo-abusi
(convinzioni
errate
di
un
genitore,
accuse
consapevoli calunniose di un genitore verso l’altro, dichiarazioni
false del soggetto).
Ciò che può variare, è anche la frequenza e la durata dei
comportamenti incestuosi. Possono, inoltre, essere accompagnati
dall’uso di violenza, anche se non avviene di frequente. Russell ha
trovato, attraverso una ricerca, che l’uso di metodi coercitivi violenti
si verificava solo nel 3% dei casi esaminati. Questo dato sembra
confermare che l’uso di metodi coercitivi è implicito nell’ambito della
relazione di dipendenza e subordinazione fra vittima ed abusante. In
questi casi, infatti, la violenza dell’abusante si basa sul “confidence
power”, ovvero la strategia seduttiva che sfrutta i sentimenti di
obbedienza,
fiducia
e
confusione
del
bambino,
e
lo
irretisce
attraverso offerte di affetto, regali o concessioni particolari.
Sembra comunque che si possano rintracciare alcune tappe
caratteristiche nello sviluppo dell’ incesto, da quando ha inizio al
momento in cui viene scoperto:
1.
Fase dell’adescamento: il genitore abusante crea le condizioni
necessarie alla messa in atto dell’abuso, instaurando con la
31
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vittima un rapporto privilegiato, e preparando situazioni di
isolamento dal resto della famiglia.
2.
Fase dell’interazione sessuale: la vittima viene coinvolta sempre
più in attività sessuali, da forme poco intrusive fino al rapporto
sessuale completo.
3.
Fase del segreto: il bambino viene costretto a mantenere il
segreto, attraverso minacce di violenza, di perdere l’affetto dei
genitori, di non essere creduto, sollecitando sentimenti di colpa e
di vergogna.
4.
Fase dello svelamento: quando l’incesto viene alla luce, le
reazioni dei familiari possono essere ambigue e contraddittorie, e
capita di frequente che proprio loro si oppongano alla verità,
negandola, minimizzando l’accaduto o accusando la vittima di
voler disgregare la famiglia.
E’
difficile
quantificare
la
diffusione
degli
abusi
sessuali
intrafamiliari sui minori.
Nel Consiglio d’Europa del 1982 è emerso che almeno 2 bambini
su 100 ogni anno subiscono violenze fisiche, di cui il 60% sono
violenze sessuali intrafamiliari.
In Italia, si stimano circa 2000 casi ogni anno, mentre i dati forniti
dal Telefono Azzurro sono ancora più preoccupanti (nel ’94 ha
ricevuto 2700 denunce di abusi sessuali sui minori, di cui il 75%
intrafamiliari).
E’ importante, comunque, tenere a mente le difficoltà legate alla
denuncia, particolarmente significative in questo tipo di reato, che
rendono molto squilibrato il rapporto fra il numero di abusi denunciati
e quello degli abusi effettivi.
32
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2.5 Tipologia della famiglia incestuosa
Per
poter
comprendere
appieno
le dinamiche
che
possono
condurre alla messa in atto dell’incesto, è necessario andare ad
analizzare la struttura della famiglia in un approccio sistemico.
Infatti, la famiglia può essere considerata come un sistema che è
qualcosa di più della semplice somma delle sue componenti, le quali
comunicano tra di loro attraverso un insieme di interazioni che dà
vita al sistema stesso. Quindi, lo studio della struttura familiare deve
iniziare con l’analisi delle relazioni che ciascun membro ha con gli
altri. All’interno del confine familiare ci sono i vari membri, con i loro
ruoli, norme, valori, tradizioni e intenzioni. Se i confini sono aperti e
flessibili, la famiglia risulta sana: la struttura del potere al suo
interno è di tipo gerarchico, con i genitori che condividono lo stesso
tipo di potere. Se invece i confini sono chiusi e rigidi, la struttura
familiare risulta disfunzionale: i ruoli sono rigidi e predeterminati, i
membri non hanno un potere egualitario, e colui che detiene il potere
più elevato, il padre, gestisce e domina i livelli inferiori, la madre e i
figli, che gli sono sottomessi.
E’ all’interno di questo tipo di famiglie che generalmente avviene
l’incesto.
Infatti,
intergenerazionale,
trasmissione
secondo
il
elaborato
intergenerazionale
concetto
da
della
Krugman
della
33
violenza
triangolazione
per
spiegare
familiare,
la
nelle
famiglie disfunzionali il figlio viene elevato a far parte del livello
gerarchico
genitoriale
e
il
sistema
si
stabilizza
attraverso
un’inversione dei ruoli. Al bambino può essere assegnato il ruolo di
33
Krugman S., “ Trauma in the family: perspectives on the intergenerational transmission of violence”,
in van der Kolk, Psychological trauma, American Psychiatric press, Washington, 1987. In De Leo G.,
Petruccelli I., op. cit., p.22.
33
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surrogato genitoriale per gli altri figli oppure, come avviene nel caso
dell’incesto padre-figlia, il ruolo di surrogato moglie.
In famiglie come queste, i genitori interagiscono con i figli come
fossero degli adulti, cercano in loro rassicurazione, conforto e amore,
sentimenti che non riescono a ricevere dal partner né a dare ai figli.
Si tratta generalmente di genitori incapaci di empatizzare con i figli e
la cui vita matrimoniale è infelice se non assente. In queste
condizioni l’incesto può risultare una soluzione al dilemma familiare.
Furniss34 descrive due diversi tipi di famiglia in cui si verifica
l’abuso sessuale infantile. Nel primo tipo l’abuso sembra finalizzato
ad evitare un aperto conflitto fra i genitori; nel secondo tipo,
l’obiettivo sembra essere quello di tenere sotto controllo il conflitto
stesso.
Nelle famiglie in cui si vuole evitare il conflitto, la madre è
affettivamente distante dai figli; i genitori colludono tacitamente
sull’abuso, e questa collusione accresce la dipendenza emotiva del
padre dalla madre e tiene l’uomo saldamente legato al contesto
familiare, impedendo così la risoluzione del conflitto. Nelle famiglie
nelle quali si vuole tenere sotto controllo il conflitto, invece, la madre
è carente nel fornire ai figli un sostegno concreto ed affettivo;
diviene una loro pari e può succedere che, tra i figli, uno assuma il
ruolo materno. Il figlio viene allora sacrificato per tenere sotto
controllo il conflitto ed evitare la disgregazione del nucleo familiare.
In queste famiglie si è maggiormente consapevoli della natura dei
rapporti familiari rispetto alla prima tipologia; tuttavia, viene creato
un tabù che vieta ai membri della famiglia di nominare ciò che sta
accadendo, in quanto un mutamento delle relazioni interne alla
famiglia
34
comporterebbe
la
rottura
dell’equilibrio
che,
tramite
Furniss T., “Conflict-avoiding and conflict-regulating patterns in incest and child sexual abuse”, Acta
Paedopsychiatrica, 1982. In De Leo G., Petruccelli I., op. cit., p.23.
34
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l’incesto, si è creato, rottura che porterebbe necessariamente alla
disgregazione dell’intera struttura familiare.
Furniss conclude affermando che sarebbe proprio la concomitanza
tra confusione dei ruoli e clima di segretezza ad alimentare la
credenza secondo la quale l’incesto è la soluzione ai problemi della
famiglia.
2.6 Genitori abusanti
Nella maggior parte dei casi l’aggressore è di sesso maschile, con
un’età media di 33 anni. Il più delle volte è il padre. In misura minore
sono altri componenti del nucleo familiare (nonni, zii, patrigni,
fratelli) e, in percentuale molto bassa, le madri ( circa il 7% dei casi).
E’ raro che vengano riscontrate particolari patologie nel genitore
abusante; quelle più connesse con il comportamento incestuoso sono
i disturbi borderline e narcisistici della personalità, la sociopatia e la
pedofilia.
Emergono, invece, con grande frequenza, nella storia dei genitori
abusanti, esperienze intergenerazionali di violenza fisica, abuso
sessuale, trascuratezza fisica ed emotiva.
Questa catena di violenza si chiude, con un bambino abusato che
diventa un adulto abusante, quando intervengono fattori sociali,
familiari e personali facilitanti.
Le famiglie incestuose assumono in genere assetti particolari; si
possono individuare, infatti, 3 tipologie di personalità paterna e
materna, che si intrecciano fra loro in modo caratteristico:
o
Padre autoritario, violento, insensibile ai bisogni degli altri, che
inibisce la vita sociale ed affettiva dei figli, accanto ad una madre
vittima di maltrattamenti, succube, maltrattata dal marito e dalla
famiglia, che spesso ha subito a sua volta abusi intrafamiliari.
35
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o
Madre autoritaria, molto impegnata lavorativamente, che delega
il proprio ruolo genitoriale e coniugale alla figlia, accanto ad un
padre passivo, succube, disoccupato o pseudo occupato e
dipendente della moglie. In questo caso i ruoli coniugali sono
invertiti.
o
Coppia perversa, inscindibile e non trasformabile. In questo caso
il genitore abusante fa continui buoni propositi, che non vengono
poi mantenuti. Questo assetto è dei peggiori, perchè più
refrattario al cambiamento.
Nei primi due tipi di configurazione familiare esistono difficoltà di
definire i ruoli e le funzioni dei membri della famiglia, specie fra
genitori e figli.
L'incesto si verifica all'interno di una dinamica affettiva molto
particolare e complessa. Infatti, mentre in qualsiasi altra forma di
violenza sessuale la vittima, di qualsiasi età essa sia, ha la possibilità
di riconoscere nell'abusante la figura del colpevole, l'incesto priva chi
lo subisce della libertà di difendersi e di odiare.
Più fattori concorrono a determinare l’incesto fra padre e figlia:
l'emergere della figlia come figura femminile centrale nell'ambito
della famiglia, l'incomprensione e l'ostilità tra i coniugi che si traduce
in un'incapacità ad avere rapporti sessuali normali e regolari, la
riluttanza del padre a cercarsi una partner al di fuori della famiglia,
collegata alla crescente angoscia nel constatare la tendenza alla
disgregazione di quest'ultima. Può capitare che il padre attui l'incesto
con la figlia come un paradossale tentativo di ristabilire l'equilibrio
famigliare.
L'approvazione della madre può essere di tipo passivo, tacito,
talora inconscio, o estrinsecarsi in un comportamento attivo, ed
assume in questo contesto un significato chiaro: per paura di essere
abbandonata dal marito, spinge la figlia ad assumere un ruolo
36
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vicario. In questo caso, la madre è incapace di stabilire una qualsiasi
relazione materna ed affettiva con la figlia e con il marito. Questo
"abbandono emotivo" della famiglia, da parte della moglie, può
indurre il marito ad incentrare le proprie attenzioni sulla figlia.
La complicità attiva della madre può variare da incoraggiamenti
ambigui sino al vero e proprio aiuto fisico prestato al coniuge che usa
violenza alla figlia. Nella madre, in questo caso, al distacco emotivo
si accompagnano disturbi più gravi della personalità, talora tratti
psicotici.
2.7 L’incesto tra padre-figlia
L'incesto/abuso
sessuale
padre-figlia
rimane
tuttora
la
combinazione più diffusa e conosciuta (3/4 dei casi di violenza
sessuale intrafamiliare) e non è sempre accompagnato da atti di
violenza,
come
la
maggior
parte
delle
persone
presumono.
Tale tipo di violenza si inserisce all'interno di una dinamica
particolare e complessa che certamente lo differenzia da qualsiasi
altra forma di abuso compiuta da un adulto ai danni di un minore.
Infatti, mentre in qualsiasi altra forma di violenza sessuale la vittima,
di qualsiasi età essa sia, ha la possibilità di riconoscere nell'abusante
la figura del colpevole, "l'incesto" priva chi lo subisce della libertà di
difendersi e di odiare.
Le figure genitoriali, all'interno della "famiglia incestuosa", sono
complementari:
ad
un
padre-padrone
corrisponde
una
madre
assente, ad un padre endogamico una madre anaffettiva.
Nel primo caso, il cosiddetto "padre-padrone" è indicato dalla
letteratura come colui che ha la convinzione che la disponibilità
sessuale sui propri figli sia uno degli aspetti della totale disponibilità
37
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che egli non può non avere su tutta la famiglia; che i rapporti
familiari siano di puro dominio e che quindi sia del tutto ammissibile
che si punisca la figlia con l'abuso sessuale; che il compito educativo
del padre che svela il mondo alla figlia comprenda anche il rito di
iniziazione connesso con l'esperienza sessuale. Questa immagine è
associata, complementarmente, a quella della "madre assente",
dipendente, sottomessa e spesso anch'essa abusata dal marito.
Esiste, però, un'imponente letteratura che rivela come il modello
delle relazioni affettive nella famiglia incestuosa possa essere
esattamente l'opposto, essendo il padre inadeguato, debole, timido,
dipendente: questa è l'immagine del cosiddetto "padre endogamico".
Questa figura è solo in apparente contraddizione con quanto descritto
prima,
perché
in
realtà
il
padre-padrone
nasconde,
sotto
l'atteggiamento di ostentata autorità, una sostanziale insicurezza e
debolezza.
Questo tipo di padre viene spesso associato ad una "madre
affettivamente distante", poco attenta ai bisogni degli altri membri
del nucleo familiare e che demanda il suo ruolo coniugale e materno
alla figlia, la quale diventa così la nuova partner del padre. La figlia
viene caricata di pesanti responsabilità alle quali non può sottrarsi,
pena la perdita dell'affetto dei genitori da cui il bambino dipende: si
tratta
del
cosiddetto
"terrorismo
della
sofferenza",
cioè
della
tendenza a riversare sulle spalle dei figli ogni tipo di disordine interno
alla famiglia.
Vi sono, però, anche casi in cui il padre appare alla figlia
genericamente insoddisfatto della moglie ed egli attua "l'incesto" con
la figlia come un paradossale tentativo di ristabilire l'equilibrio
familiare. La madre, sentendosi incapace di accontentare il marito, si
mostra debole ed arrendevole, cedendo la figlia alle cure del marito,
il quale adotterà con la figlia atteggiamenti da coetaneo, esplicitando
38
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chiaramente quanto si senta realizzato solo in sua compagnia. Il
rapporto
si
sessualizza
nel
momento
in
cui
il
padre
allude
chiaramente alla sua insoddisfazione per le prestazioni sessuali con la
moglie ed inizia così la relazione con la figlia.
A
volte
può
accadere
che
una
moglie,
particolarmente
dipendente, sia ossessionata dall'idea di non perdere il proprio uomo
e veda la figlia come un tramite di offerta di un legame sessuale con
una ragazza più giovane, che possa così renderlo felice ed appagato.
Ciò è vero specie se a questo tratto si aggiunge la frigidità e il fatto
di essere sessualmente rifiutata. In questo tacito "gioco" non ci sono
sensi di colpa, a meno che la "relazione incestuosa" non venga alla
luce.
Si può affermare con certezza che dietro l'abuso sessuale c'è
sempre una premeditazione, cioè la fase di vera e propria interazione
sessuale è sempre preceduta da fantasie sessuali sulla minore, dalla
progettazione dell'abuso e dalla ricerca attiva di circostanze che ne
permettano l'attuazione.
In molti casi l'abusante stabilisce con la bambina un rapporto
esclusivo e la isola con vari mezzi dal resto della famiglia, facendole
credere che è la figlia preferita, l'unica della famiglia "alla sua
altezza", con cui si può parlare da pari a pari ecc., oppure cercando
di impietosirla mostrandosi incompreso, bisognoso di cure ed
attenzioni, e svalutando la madre agli occhi della bambina.
Può mettere di fronte alla figlia tutta una serie di promesse e
progetti in cui lei sarà la protagonista, inserendola in aspettative di
realizzazioni sociali grandiose e facendole credere di averne le chiavi
di accesso; le può promettere di concederle di partecipare ad attività
al di fuori della famiglia in un futuro che non arriverà mai, in quanto
nella realtà tutte queste promesse servono da esca a mantenerla
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nella sua orbita e per poterle nel contempo proibire le attività di
socializzazione normali per la sua età.
In questo modo mantiene viva nella bambina l'aspettativa che le
cose potranno cambiare e la speranza che il suo papà sia in realtà un
papà buono che le vuole bene e che la vuole aiutare. Inoltre mette in
atto una serie di strategie volte a svalutare su tutti i piani la figura
materna e interferisce nella relazione madre-figlia, in modo che la
bambina non possa trovare aiuto in questa.
L'azione del padre volta all'isolamento della figlia agisce in molti
casi su una difficoltà già presente nella madre in termini di
protettività e di vicinanza affettiva verso la bambina, legata a sue
difficoltà personali o a fattori contingenti quali malattie fisiche,
aumentando la distanza tra le due al punto tale da rendere entrambe
del tutto impotenti; l'una ad accorgersi dell'abuso e a difendere la
figlia, l'altra a chiedere aiuto. L'azione del padre è volta spesso anche
a "buttare fumo negli occhi" della moglie, facendo cadere anche lei in
una fitta rete di inganni.
D'altro canto madri che iniziano a sospettare che qualcosa "non
funzioni", perché colgono qualche comportamento "strano" del marito
nei confronti della bambina, e che per questo lo affrontano, vengono
subito da lui accusate di essere pazze, visionarie e incapaci come
madri,
spesso
picchiate
per
tale
visionarietà
e
minacciate.
Inoltre, nei casi di concomitante maltrattamento fisico, l'inizio
dell'abuso può coincidere con una diminuzione degli episodi di
percosse sulla figlia, che deve così pagare la sua "incolumità" fisica a
prezzo della violenza sessuale; tale prezzo viene frequentemente
pagato dalle figlie anche al fine di evitare altri episodi di violenza
sulla madre e sugli altri bambini e bambine della famiglia.
A volte, invece, le bambine - che verranno poi abusate - vengono
"preservate" dalle percosse, che sono riservate agli altri figli e/o alla
40
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mamma: questo "riguardo" nei loro confronti, che fa parte del lavoro
di adescamento, fa sentire le bambine privilegiate e nello stesso
tempo colpevoli nei confronti di chi all'interno della famiglia viene
percosso o percosso di più; l'impotenza nel constatare di non poter
difendere in altro modo la madre e i fratelli, la situazione di
apparente privilegio, unite spesso ad aperte minacce del padre circa
ulteriori aggressioni fisiche al resto della famiglia, consolidano
sempre più il ruolo segreto di vittima sacrificale della bambina
sessualmente abusata.
Le
bambine
e
i
bambini
piccoli,
inoltre,
non
riescono
assolutamente ad individuare la colpa dell'adulto, se l'adulto è
esteriormente gentile ed affettuoso, se quanto avviene è presentato
come fosse un gioco e se vengono date delle ricompense per la
partecipazione a certi atti.
La complicità della madre può essere di tipo passivo, tacito, talora
inconscio, o estrinsecarsi in un comportamento attivo. Ai due
comportamenti corrispondono personalità distinte.
Nel primo caso, la madre è incapace di stabilire una qualsiasi
relazione con la figlia e con il marito: questo "abbandono emotivo"
della famiglia da parte della moglie può indurre il marito ad
incentrare le proprie attenzioni sulla figlia. La complicità attiva della
madre, invece, può variare da incoraggiamenti ambigui sino al vero e
proprio aiuto fisico prestato al coniuge che usa violenza alla figlia.
Nella
madre,
in
quest'ultimo
caso,
al
distacco
emotivo
si
accompagnano disturbi più gravi della personalità e talora tratti
psicotici. La donna, fortemente dipendente nei confronti del marito,
teme di venir sostituita nel proprio ruolo dalla figlia, che sta
crescendo, e prova nei confronti di quest'ultima un risentimento
sempre più forte, sino a desiderare di vederla punita ed umiliata
(anche attraverso l'abuso).
41
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Ha un'importanza fondamentale anche l'elemento culturale legato
ad una concezione arcaica, esasperatamente patriarcale, del ruolo
del capofamiglia, che grande potere assumeva nel passato ma che ha
ancora oggi la sua rilevanza negli strati sociali di basso livello
culturale o presso comunità arretrate. In questi casi il padre
considera l'attività dell'incesto come un legittimo esercizio del suo
potere assoluto; perciò egli ben può abusare della o delle figlie - che
secondo il suo pensiero costituiscono una sua "proprietà" - per
soddisfare esigenze sessuali e/o affettive o semplicemente a scopo
punitivo.
Come
osserva
Isabella
35
Merzagora ,
«l'incesto
è
probabilmente una delle conseguenze di una sottocultura che
confonde la forza con la violenza, la virilità con l'ipersessualità,
l'autorevolezza con l'autoritarismo... il problema non è sessuale, ma
di violenza esercitata dal padre-padrone su moglie e figlie e
trasmessa - come valore culturale da imitare - ai figli».
Le
interpretazioni
più
recenti
tendono,
infatti,
a
vedere
"nell'incesto" commesso dal padre un tentativo di riaffermare la
propria supremazia nell'ambito familiare, una violenta rivendicazione
di
potere
più
che
un'espressione
di
problematiche
sessuali.
La figlia vive la situazione "dell'incesto" con il padre come un conflitto
dilaniante: da un lato vorrebbe porre fine ad una situazione
imbarazzante e traumatica per andare incontro ad una vita normale,
dall'altro non è in grado di parlare un po' per vergogna e un po' per
paura; inoltre questa decisione minerebbe la sicurezza e l'apparente
stabilità della famiglia, che a questo punto essa ritiene dipendano
esclusivamente da lei. Marinella Malacrea36 infatti afferma che "la
vittima di abuso sessuale si trova davanti ad un doppio vicolo cieco:
35
36
I. Merzagora, L'incesto, Giuffrè, Milano, 1986.
M. Malacrea, Trauma e riparazione, Cortina, Milano, 1998.
42
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«o cercare di valere qualcosa e quindi perdere il legame, oppure
restare spregevole per conservarlo»”.
In generale è possibile affermare che da ambo le parti si tende
comunque ad occultare l'incesto con un silenzio molto rigido. I
genitori
tendono
a
razionalizzare
"l'incesto"
(«...
volevo
solo
mostrarle come si fa»); a questo si aggiunga che, pur di preservare
la famiglia, i genitori negano persino dopo che la scoperta è
avvenuta, fino a condannare la stessa vittima se è la causa della
scoperta.
Spesso, infatti, alle violenze subite dal genitore abusante, si
aggiungono quelle - forse ancor più brucianti - compiute da parte di
tutto il nucleo familiare e dalla società, per il fatto di non essere
credute. L'isolamento, che caratterizza la situazione infantile di questi
bambini, si protrae anche dopo la denuncia: si forma il vuoto intorno
al loro coraggio e da vittime innocenti si trasformano in calunniatrici
colpevoli. Una ragazza, dopo anni di violenze compiute dal padre,
non essendo stata creduta dalla madre, ha fatto questo amaro
commento: "È stato quello il più grande dolore della mia vita. Lui mi
ha violentata e tormentata per tutta l'infanzia. Ma mia madre mi ha
uccisa".
2.8 Le conseguenza dell’incesto
L'abuso
sessuale
intrafamiliare
costituisce
una
forma
molto
particolare di abuso, non equiparabile a nessun'altra. In tutte le altre
forme di violenze compiute sui minori, infatti la vittima ha la
possibilità di riconoscere nell'abusante il colpevole. Non a caso
l'incesto non si configura con più frequenza attraverso modalità non
violente, anzi l'abusante ricorre a varie strategie di seduzione per
43
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ottenere la disponibilità da parte del minore37. Come ha sostenuto un
eminente psicoanalista, Ferenczi38 «l'aberrazione dell'incesto sta nel
fraintendimento tra il mondo infantile (e quindi il linguaggio della
tenerezza) e la sessualità adulta (il linguaggio della passione)». Ciò
che
occorre
mettere
in
evidenza
è
che
nell'abuso
sessuale
intrafamiliare, la richiesta seduttiva del bambino, le cui fantasie e
desideri sessuali non sono altro che surrogati del bisogno di amore e
vicinanza, trova la risposta del genitore attraverso l'espressione di
una sessualità reale perlopiù sconosciuta all'infanzia39.
Il fattore psicopatogenico principale nell'incesto è la confusione a
lungo termine dei livelli cognitivi, emozionali e sessuali di relazioni
tra le generazioni. Il bambino, infatti, è posto in una condizione
esistenziale altamente confusiva; l'adulto che lo dovrebbe guidare e
proteggere è la stessa figura da cui il bambino dovrebbe difendersi.
Per quanto possa sembrare cinico, alla luce delle conseguenze che un
bambino subisce da una relazione incestuosa, sembra che una
violenza
sessuale,
anche
perpetrata
con
violenza
fisica,
sia
psicologicamente meno devastante di un abuso sessuale operato con
le mani del pseudo-affetto e della seduzione. Infatti, nel caso in cui il
bambino o la bambina subiscano la violenza sessuale perché costretti
fisicamente, non si ingenerano in loro sensi di colpa causati
40
dall'essere stati "complici" dell'esperienza sessuale . L'uso della
seduzione comporta dei danni psicologici notevoli per il minore,
perché se l'incesto-violento azzera ogni distinzione di generazione e
ruolo, l'incesto-seduttivo tende a dare esiti ancora peggiori perché la
37
T. Furniss, L'abuso sessuale del bambino nella famiglia: valutazione e conseguenze, in Bambino
incompiuto, 3, 1990.
38
S. Ferenczi, La confusione delle lingue tra adulti e bambini, vol. 3, Guaraldi, Rimini, 1974.
39
T. Furniss, L'abuso sessuale del bambino nella famiglia: valutazione e conseguenze, in Bambino
incompiuto, 3, 1990, pp. 49-58.
40
A. Gombia, Bambini da salvare, Ed. Red, Novara, 2002, p. 74.
44
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precocissima erotizzazione crea nelle vittime un legame patologico
con il seduttore41. Si determinano deformazioni della sua personalità:
il bambino sente ogni parte di sé contaminata, sente il peso della
colpa dal quale non può sfuggire, attiva un sentimento di sfiducia
negli altri tale da determinare un suo atteggiamento paranoico verso
tutti. L'ipereccitabilità causata da un'attività sessuale impropria è
vissuta dal bambino con modalità devastante in quanto, attraverso la
sessualità non voluta, egli soddisfa i suoi bisogni, certamente non
sessuali; come conseguenza egli struttura un Sé confuso, un falso Sé
tale da non permettere relazioni fra il suo interno, i suoi reali
desideri, e il suo esterno in modo adeguato.
Da tutto questo si determina nel bambino una distorsione del suo
essere nel mondo che gli sconvolgerà tutta la vita nel perenne
meccanismo difensivo che adotterà con tutti i suoi simili, nella
convinzione della propria impotenza a modificare gli eventi e a
modificare se stesso. Disagio e disturbi psicologici andranno a
sommarsi e ad amplificare tali modalità distorte, in una circolarità
negativa, in un anello rigido che terrà prigioniero il bambino prima, e
l'adulto poi, per tutta la vita, salvo che non vi sia un intervento
diretto e mirato a modificare la sua personalità spezzando le catene
interne, liberando quelle sue dimensioni interiori che fino ad allora
erano state schiacciate42. Gli effetti a lungo termine sullo stato
psicologico delle vittime, nell'adolescenza e nella prima maturità, si
manifestano spesso con l'aumento della delinquenza, con l'abuso di
droga e alcool, con la promiscuità e la prostituzione, con l'isolamento
sociale, con l'aumento dei tentativi di suicidio e con l'incremento
41
M. Correra, P. Martucci, La violenza nella famiglia. La sindrome del bambino maltrattato, Cedam,
Padova, 1987, p. 157-168.
42
B. Bessi, Il maltrattamento e l'abuso sessuale in danno dei minori, Corso di formazione per
volontarie, Associazione Artemisia, Firenze, 2001.
45
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significativo degli indici di sintomi depressivi. Le conseguenze
psicologiche possono comunque variare secondo il modo con cui è
stato attuato l'incesto. Ad esempio, se la vittima ha subito un abuso
sessuale violento da parte di un genitore, le conseguenze saranno
aggravate dal fortissimo trauma psicologico dovuto alla trasformazione negativa della figura genitoriale, che passa d'improvviso da un
ruolo protettivo a quello di aggressore. La situazione si presenta
diversamente se il genitore ha agito senza violenza apparente,
assumendo un atteggiamento seduttivo, sfruttando l'ingenuità del
figlio o della figlia e attuando ricatti affettivi. In questo caso la
partecipazione all'incesto potrà portare la vittima (specialmente dopo
la
fine
della
relazione
e
con
il
sopraggiungere
della
piena
consapevolezza dell'accaduto) a sviluppare un profondo senso di
colpa e di disprezzo verso se stesso, unitamente ad istanze
autopunitive e a repulsione verso il sesso opposto.
Oggi, l'orientamento scientifico più recente tende ad essere
piuttosto
severo
verso
l'impostazione,
accusata
di
facilitare
un'ulteriore vittimizzazione del minore, secondo la quel il bambino
può essere considerato, in alcuni casi, "vittima partecipante"43, in
quanto
conoscendo
l'aggressore,
avrebbe
consciamente
o
inconsciamente voluto il trauma sessuale, provocando l'adulto o
assumendo un comportamento compiacente, oppure accettando in
cambio dell'atto sessuale regali o denaro. Sarebbero in realtà gli
adulti ad equivocare, interpretando come avances sessuali, gli
atteggiamenti di ricerca e di sollecitazione affettuosa da parte dei
bambini. La tesi prevalente al riguardo è che la partecipazione del
minore
non
può
in
ogni
modo
incidere
sulla
dell'adulto44.
43
44
G. Gulotta, La vittima, Giuffrè, Varese, 1976, pp. 36-41.
G. Gulotta, M. Vagaggini, Dalla parte della vittima, Giuffrè, Varese, 1981.
46
responsabilità
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Oggi come oggi possono essere causati anche non pochi "traumi
secondari"
nel
bambino
vittima
di
abuso
sessuale,
a
causa
dell'incompetenza degli operatori nei vari ambiti di presa in carico
della situazione45. Occorre ricordare che l'abuso sessuale non cessa di
avere effetti al momento della neutralizzazione e dell'allontanamento
dell'abusante dalla vittima. Di conseguenza, quando viene intrapreso
un
accertamento
peritale
è
necessario
cercare
molto
di
più
dell'attendibilità di una testimonianza: bisogna entrare in contatto
emotivo con il bambino per individuare, al suo interno, la presenza di
un'esperienza estranea ed imposta, che continua a produrre effetti
nel tempo. Il bambino, che è stato abusato a lungo, non ha alcuna
aspettativa di trovare un adulto comprensivo ed accogliente, perché
l'esperienza subita è tale da fargli vedere la realtà alla luce degli
eventi vissuti: così egli chiederà di lasciarlo solo, perché la solitudine
è comunque uno spazio vuoto in cui forse, crede di potersi rifugiare46.
È necessaria quindi una preparazione adeguata di tutti gli
operatori che seguono questi casi per poter dare il miglior sostegno a
questi bambini e per fornirgli quella figura che all’interno della sua
famiglia non è mai stata presente.
45
Taddei F., L'organizzazione dei servizi e i processi d'integrazione, Convegno nazionale sulla
prevenzione del disagio nell'infanzia e nell'adolescenza, Firenze, 2002.
46
Guasto G., Sull'abuso mentale infantile. Appunti per uno studio sulla violenza psicologica sui
bambini, in Rivista telematica "Psychatry on-line Italia", Vol.2, 4, 1996.
47
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Aspetti giuridici e segreto
professionale
3.1 La definizione giuridica dell’incesto
Secondo la legge italiana, l’incesto costituisce un reato soltanto se
suscita pubblico scandalo ed è dunque lesivo della morale familiare.
Così è stato dall’Unità ad oggi, secondo una sconcertante peculiarità
e continuità giuridica, nonostante la presenza di diversi codici preunitari, i ripetuti dissensi espressi al legislatore e i mutamenti nella
mentalità, nella sessualità, nella famiglia.
L'ipotesi delittuosa di incesto è inserita nel nostro codice penale
all'art. 564 c.p. Capo II (Dei delitti contro la morale familiare), nel
Titolo IX (Dei delitti contro la famiglia). Il legislatore ha previsto la
pena della reclusione da uno a cinque anni per tutti coloro che
commettono incesto con un discendente o un ascendente, con un
affine in linea retta o con una sorella o un fratello in modo che ne
derivi pubblico scandalo (reclusione da due a otto anni nel caso di
relazione incestuosa e perdita della potestà sul figlio in caso in cui sia
coinvolto un genitore). L'ipotesi giuridica quindi, non si limita soltanto
ad evitare la degenerazione di razza47 a causa della procreazione fra
consanguinei, ma prevedendo anche i rapporti sessuali tra affini in
linea retta (suocero e nuora, genero e suocera, per i quali non
47
R. Dolce, Incesto, in Enciclopedia del diritto, XX, Giuffrè, 1970, pp. 973-980.
48
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sussiste il vincolo di consanguineità), intende avere una più ampia
ratio.
In effetti, la punizione conseguente al comportamento incestuoso
è giustificata dalla sua particolare riprovevolezza morale, dalla
turpitudine che lo rende assolutamente intollerabile per la comunità
sociale. La profonda ripugnanza che il fatto desta nella coscienza
pubblica, induce lo Stato ad intervenire con la più grave delle
sanzioni di cui dispone: la pena della reclusione48.
Per la punibilità del reato di incesto, il codice penale richiede il
"pubblico scandalo", concetto che va ravvisato nella morale della
coscienza pubblica, accompagnato dal senso di disgusto e di sdegno
contro un fatto tanto grave. Tale "scandalo" inoltre, deve essersi
effettivamente verificato, e quindi, non basta che la generalizzata
riprovazione, in cui esso si concretizza, venga evidenziata in qualsiasi
modo (e cioè la semplice possibilità che ne derivi pubblico scandalo),
occorre che essa sia stata cagionata dalla condotta almeno colposa
degli autori. La legge infatti usa l'espressione «in modo che ne derivi
pubblico scandalo», ed è opinione unanime della giurisprudenza
ritenere che non occorre che la relazione incestuosa sia da tutti
conosciuta, basta che il pubblico scandalo sia derivato da un concreto
comportamento incauto degli autori, o di uno di essi, pur se non
manifestato direttamente in pubblico, ma rilevato dagli effetti
materiali o da confessioni. La fattispecie normativa, contenuta
nell'art.
546
c.p.,
è
di
quelle
cosiddette
"necessariamente
plurisoggettive": in essa, infatti, la condotta tipica è commissibile da
almeno due soggetti, i quali devono essere legati fra loro da vincolo
di parentela in linea retta (ascendente o discendente) o collaterale
entro il secondo grado (fratelli e sorelle), ovvero da vincolo di affinità
in
48
linea
retta
(suoceri,
genero,
nuora
e
loro
ascendenti
o
F. Antolisei, Manuale di diritto penale - Parte speciale, I, Giuffrè, Milano, 2002, p. 486.
49
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discendenti). Fratelli e sorelle sono sia i germani (figli degli stessi
genitori), sia i consanguinei (figli dello stesso padre ma non della
stessa madre), sia gli uterini (figli della stessa madre ma non dello
stesso padre)49. Inoltre, no vi è dubbio che, per il disposto dell'art.
540 c.p., vi sono compresi anche gli ascendenti e i discendenti
naturali, mentre ne sono esclusi gli adottivi. Sono sorte varie
esitazioni
per
l'esclusione
di
tali
soggetti,
soprattutto
dopo
l'equiparazione legale tra il rapporto familiare di sangue e quello
adottivo. Quanto agli affini è ritenuto valido il criterio interpretativo
che si desume dall'ultimo comma dell'art. 307 c.p. per cui agli effetti
penali il vincolo cessa allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole,
visto che in tal caso non ricorrono gli estremi del reato di incesto.
Contro tale tesi, però, gran parte della dottrina rileva che, di fronte al
mancato rinvio da parte dell'art. 564 c.p. all'elencazione di cui all'art.
307 ult. co. c.p., consegue che non può trovare applicazione, ai fini
dell'incesto, la disposizione secondo cui «nella denominazione di
prossimi congiunti non si comprendono gli affini affinché sia morto il
coniuge e non vi sia prole», ma va invece applicato l'art. 78 c.p.
secondo cui l'affinità non cessa per la morte, anche senza prole, del
50
coniuge dal quale deriva . Il codice penale non offre una definizione
chiara ed univoca del concetto di incesto, ragion per cui vi ruotano
attorno non poche incertezze. Secondo la giurisprudenza e la
maggior parte della dottrina il reato si consuma con il compimento
del rapporto sessuale; non manca però chi51 ritiene sufficiente il
compimento di atti sessuali anche diversi dalla congiunzione fisica da
parte dei soggetti indicati, in modo che ne derivi pubblico scandalo.
49
R. Dolce, Incesto, in Enciclopedia del diritto, XX, Giuffrè, 1970, pp. 973-980.
G. Lattanzi, E. Lupo, Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. X, Giuffrè, Milano,
2000.
51
G. D. Pisapia, Delitti contro la famiglia, Milano, 1953, p. 585; F. Antolisei, Manuale di diritto penale,
Pt. sp., I, Milano, 1994.
50
50
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Questa seconda opinione si basa sulla motivazione per cui il disgusto
morale, che legittima la pena, si verifica pure nei casi in cui la
relazione sessuale si esplica in altre forme, le quali possono essere
anche più ripugnanti. Nel caso di relazione incestuosa, invece,
occorre
che
la
reiterazione
dei
fatti
abbia
la
caratteristica
dell'abitualità.
L'elemento psicologico del reato è costituito dal "dolo generico":
dunque, deve esservi sia la consapevolezza dell'esistenza del vincolo
tra gli autori del fatto (è sufficiente anche un vincolo di filiazione
illegittima purché noto agli autori), sia la conoscenza e volontà di
avere rapporti sessuali con una delle persone indicate in modo
specifico nell'art. 564 c.p.52. Per quanti poi ritengono che il pubblico
scandalo costituisca evento del reato, anche quest'ultimo elemento
dovrà essere coperto dal dolo, in quanto esso individua una modalità
dell'azione criminosa e, dunque, inerente alla condotta volontaria dei
soggetti.
Un'ultima considerazione per quanto concerne l'aspetto giuridico
dell'incesto verte sulla naturale plurisoggettività della fattispecie: il
minore non è qualificabile tecnicamente come vittima, poiché nel
caso in cui, uno dei due subisce con violenza o minaccia, il fatto
dell'altro, non si ha incesto ma violenza sessuale (ugualmente se uno
dei due non è capace di prestare un consenso valido, e per la legge
italiana lo è soltanto dal compimento del sedicesimo anno di età).
Dunque il reato di incesto viene compiuto quando l'ascendente,
oppure la sorella o il fratello convivente, compiono atti sessuali con il
discendente di età superiore ai sedici anni e consenziente; e quando
il fratello, la sorella o l'affine in linea retta non conviventi compiono
tali atti con il familiare di età superiore a quattordici anni. Devono
ritenersi applicabili le norme sulla violenza sessuale tutte le volte che
52
E. Dolcini, G. Marinucci, Codice penale commentato - Parte speciale, Ipsoa Milano, 1999.
51
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uno dei due soggetti deve essere considerato soggetto passivo del
fatto dell'altra, anziché concorrente nel fatto stesso53.
3.2 L’incesto
Libro II, Titolo XI, Capo II: Dei delitti contro la morale famigliare
Art. 564 c.p: Incesto
"Chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette
incesto con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea
retta, ovvero con una sorella o un fratello, è punito con la reclusione
da uno a cinque anni.
La pena è della reclusione da due a otto anni nel caso di relazione
incestuosa.
Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se l'incesto è
commesso da persona maggiore di età con persone minore degli anni
diciotto, la pena è aumentata per la persona maggiorenne.
La condanna pronunciata contro il genitore importa la perdita della
potestà dei genitori."
Il delitto è collocato nel titolo IX del codice penale, tra i delitti
contro la famiglia ed in particolare contro la morale familiare. Ciò
implica che l'oggetto giuridico di tale norma consiste nella tutela della
moralità
familiare,
a
garanzia
dell'interesse
dello
Stato
di
salvaguardare la famiglia, nella sua essenza e nella sua funzione
etica, dal danno derivante dallo scandalo dei rapporti carnali tra certi
prossimi congiunti. Allo stesso tempo, tale collocazione implica che
l'oggetto giuridico della norma non tutela direttamente i diritti della
persona singola all'interno della famiglia.
53
G. Scardaccione, La tematica dell'abuso ed i principi dell'intervento, Corso di formazione per ausiliari
nella testimonianza dei minori, Roma, 2002.
52
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Si fa notare che il contenuto di tale disposizione richiede
l'integrazione tramite elementi normativi extragiuridici, che cioè
rinviano a norme sociali o di costume. L'elemento extragiuridico
richiamato è il concetto di pubblico scandalo che deve derivare
54
dall'incesto . In quanto concetto mutevole con il mutare dei costumi
sociali, la dottrina, ma soprattutto la giurisprudenza, hanno avuto
difficoltà ad utilizzare nella pratica questo reato.
Inoltre, sebbene oggi vi sia maggiore consapevolezza da parte
della società nel condannare il reato di incesto, per le sue gravi
ripercussioni a livello psicologico e fisico, non si deve scordare che in
Italia, fino a pochi decenni fa, e ancora oggi in alcune zone più
remote, la cultura contadina considerava i rapporti sessuali tra
familiari fatto assolutamente normale.
Oggetto giuridico: l'interesse tutelato non è solo l'offesa alla moralità
in genere, ma anche l'offesa alla norma di condotta che impone
l'asessualità nei rapporti di parentela. La ratio della punizione
dell'incesto
sta
nella
sua
riprovevolezza
morale
e
nella
sua
turpitudine, che lo rendono assolutamente intollerabile per la
comunità
sociale,
destando
quella
profonda
ripugnanza
nella
coscienza dei consociati - il pubblico scandalo appunto - che induce lo
Stato ad intervenire.
Tuttavia si nota che lo scandalo consiste pur sempre in un
sentimento psicologico individuale, trasformato dal legislatore a
categoria normativa, che va identificata nell'atteggiamento eticosociale che la collettività assume nei confronti di una relazione
sessuale tra consanguinei o affini. Pertanto, qualora i rapporti carnali
tra congiunti non abbiano suscitato una reazione di ripugnanza,
54
F. Romano, L'incesto: è ancora in grado di suscitare pubblico scandalo, "Giurisprudenza di merito",
1998, pag. 866.
53
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disgusto o sdegno nella collettività, evidentemente non hanno leso la
morale familiare, a salvaguardia della quale la norma è stata
predisposta. Ciò significa che il bene giuridico protetto, la morale
pubblica, potrebbe avere dei contenuti alquanto sfumati.
Soggetto attivo: il rapporto sessuale, per dare vita al delitto di
incesto, deve avvenire tra le persone che sono indicate in modo
tassativo nell'art. 564 c.p., e cioè tra gli ascendenti, i discendenti, gli
affini
in
linea
retta,
oppure
tra
sorelle
e
fratelli,
germani,
consanguinei e uterini. Per il disposto dell'art. 540 c.p., vi sono
compresi anche gli ascendenti e i discendenti naturali, mentre ne
sono esclusi gli adottivi. Per gli affini, si ritiene che debba trovare
applicazione il criterio interpretativo dell'ultimo comma dell'art 307
c.p., per cui agli effetti penali il vincolo cessa allorché sia morto il
coniuge e non vi sia prole, per cui in tale caso non ricorrono gli
estremi dell'incesto55.
56
Soggetto passivo: trattandosi di reato proprio , sono soggetti passivi
solo quelli previsti dalla norma, che subiscano rapporti sessuali.
Condotta: la condotta volontaria dei soggetti deve fare in modo che
la relazione venga percepita all'esterno.
55
G. Lattanti, E. Lupo, Codice Penale, Volume X, "I delitti contro la famiglia e i delitti contro la
persona", Giuffrè Milano, 2000.
56
Il cosiddetto reato proprio è quel particolare tipo di reato che può essere commesso soltanto da
soggetti con precise qualifiche naturalistiche o giuridiche, previste dal legislatore. In questo modo, in
base alla sua qualifica, il soggetto agente è posto in un particolare rapporto col bene giuridico tutelato. Si
può distinguere in reato proprio ma non esclusivo (consiste di per sé in un illecito extrapenale, la cui
rilevanza penale è legata alla qualifica stessa - per esempio gli atti in danno ai creditori che posti in
essere dall'imprenditore danno luogo a bancarotta -, oppure si può trattare di un illecito penale, che, in
presenza della qualifica, configura una fattispecie di reato più grave - per esempio l'appropriazione
indebita che diviene peculato se posta in essere da un pubblico ufficiale), e di reato proprio ed esclusivo
(fattispecie che in assenza della qualifica dell'agente, risultano, per l'ordinamento penale, inoffensivi di
qualsiasi interesse - come per esempio nel caso dell'incesto o della bigamia). F. Mantovani, op. cit., pag.
146.
54
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Elemento soggettivo: si tratta di un reato a dolo generico, che
consiste nella coscienza e volontà di avere rapporti con una delle
persone
tassativamente
indicate
nell'art.
564
c.p.
e
nella
consapevolezza della relazione di parentela o di affinità che esiste tra
i due soggetti.
Evento: la prevalente dottrina ritiene che si tratti di un reato di
evento, in quanto il legislatore ha usato la dizione "in modo che ne
derivi pubblico scandalo" e non "in modo che ne possa derivare
pubblico scandalo". Sembra, infatti, che il legislatore esiga una
relazione causale tra la condotta incestuosa e lo scandalo, ossia lo
scandalo deriva dal modo in cui è commesso l'incesto. Sono le
modalità
concrete
della
condotta,
il
rapporto
incestuoso,
che
determinano il pubblico scandalo.
Autorevole dottrina ritiene, invece, che il pubblico scandalo
costituisca condizione di punibilità57. La differenza non è di lieve
entità, in quanto la funzione delle condizioni obiettive di punibilità
non è quella di aumentare la punibilità, bensì di diminuirla58. Infatti,
la condizione obiettiva di punibilità funziona in termini di favore per
l'agente, come limite edittale della punibilità, perché la legge
stabilisce che il fatto nel quale sono già presenti tutti gli elementi
57
F. Mantovani, op. cit., pag. 817. Secondo l'autore il pubblico scandalo riguarda l'interesse alla moralità
pubblica, esterno all'interesse familiare tutelato dalla norma, ed esprime l'opportunità di non dare
pubblicità attraverso il processo penale a fatti incresciosi finché restino privati, e parimenti l'esigenza di
non subordinare l'esistenza del reato di incesto ad un dolo di scandalo che spesso non esiste o non è
accertabile.
58
F. Mantovani, op. cit., pag. 816. Le condizioni di punibilità riguardano quegli accadimenti del tutto
estranei alla sfera dell'offesa del reato, ma che rendono opportuna la punibilità di un fatto già di per sé
offensivo. Inoltre gli accadimenti arricchiscono la sfera dell'offesa del reato, in quanto importano un
aggravamento, una progressione tipica dell'offesa. Anche senza di essi il reato è già di per sé offensivo,
onde la condizione non fa che limitare la sfera di operatività della norma incriminatrice.
55
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dell'illecito non rileva se non quando si aggiunge l'ulteriore elemento
condizionante59.
Se si considera lo scandalo quale evento tipico della fattispecie,
anziché ulteriore, si deve però rintracciare anche un dolo di scandalo,
nel senso che lo scandalo è evento preveduto e voluto come
conseguenza dagli autori della condotta. Invece, lo scandalo si
produce anche senza il contributo volontario degli autori della
condotta: la conoscenza da parte di terzi dell'esistenza di un rapporto
carnale tra consanguinei può avvenire anche per caso fortuito o
coincidenza. Pertanto il reato si realizza lo stesso, proprio perché,
anche senza il contributo causale dei soggetti coinvolti, la collettività
è venuta a conoscenza della violazione di un tabù sociale.
Consumazione: secondo l'interpretazione prevalente, l'incesto, come
gli altri tipi di reati attinenti alla sfera sessuale, si considera
consumato quando vi è la possibilità di parlare di congiunzione
carnale, in qualunque modo si verifichi.
Circostanze aggravanti: è prevista solo una circostanza aggravante,
nel caso in cui il maggiore di età commetta incesto con un minore.
È prevista, inoltre, la fattispecie autonoma di relazione incestuosa.
Quest'ultima si definisce un reato abituale improprio, in quanto
consiste nella reiterazione di condotte già costituenti di per sé reato.
Concorso con altri reati: i reati di incesto e di violenza carnale
(rectius: violenza sessuale ex art. 609 bis) possono concorrere tra di
loro, in quanto la congiunzione carnale tra i soggetti individuati
dall'art. 564 c.p. può essere sia consensuale che violenta. Questa
impostazione è giustificata dal fatto che le norme violate sono due,
59
E. Antonimi, La funzione delle condizioni obiettive di punibilità. Applicazioni in tema di rapporti fra
incesto e violenza carnale presunta, "Rivista italiana di diritto e procedura penale", 1984, pag. 1281.
56
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essendo poste a tutela di beni giuridici distinti, ovvero la morale
familiare nella prima fattispecie e la libertà sessuale della persona
nella seconda.
Caratteristica strutturale del reato di incesto è di essere costruito
sul consenso degli autori, mentre il reato di violenza carnale (rectius:
violenza sessuale ex art. 609 bis) è fondato sul dissenso.
3.3 L’abuso sessuale in famiglia
La violenza sessuale è, tra i crimini aventi come soggetti passivi i
membri della famiglia, quello più grave e socialmente più rilevante.
Normalmente, le vittime preferenziali di tale crimine sono il coniuge
(rectius: la moglie) e i figli minori. Va comunque sottolineato che, al
pari dei maltrattamenti in ambito familiare, tale crimine viene
raramente denunciato qualora ne sia vittima la moglie. In tal caso,
infatti, il reato ha molta difficoltà ad essere denunciato in modo
autonomo, emergendo, di sovente, soltanto a seguito della denuncia
per reati di maltrattamenti in famiglia. Ciò in quanto il reato di
violenza
sessuale,
in
questo
caso,
può
facilmente
essere
la
conseguenza di un clima di prevaricazione e sopraffazione posto in
essere dal coniuge violento.
Al contrario, l'abuso sessuale su minori può essere rilevato e
denunciato
anche
in
modo
autonomo,
senza
accompagnarsi
necessariamente ad una situazione di genitore maltrattante e
violento, ma solamente deviato sessualmente.
57
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3.3.1 ART. 609 bis: il reato di violenza sessuale
Tra le novità introdotte dalla legge n. 66 del 1996, vi è il
passaggio della fattispecie incriminatrice dai reati contro la morale ed
il buon costume ai reati contro la persona. La scelta del legislatore è
senz'altro condivisibile, in quanto accentra il disvalore nell'offesa
contro la persona anziché contro la morale pubblica. La fattispecie
incriminatrice è inserita, infatti, tra i delitti contro la libertà
personale. In sostanza, il concetto di libertà sessuale non può essere
considerato come interesse collettivo alla continenza sessuale, bensì
come aspetto particolarmente significativo dell'autonomia personale.
Si assiste così all'introduzione di un concetto di rapporto sessuale
adeguato al costume ed alla cultura sociale e morale del ventunesimo
secolo, che restituisce alla vittima di simili delitti la piena dignità,
garantendole la piena tutela della volontà di disporre del proprio
corpo a fini sessuali60.
L'altra novità della legge n. 66 del 1996 è l'introduzione
dell'omnicomprensiva categoria degli atti sessuali, che ha unificato le
due ipotesi della violenza carnale ex art. 519 c.p. e degli atti di
libidine ex art. 521 c.p. Tale unificazione è di notevole importanza,
perché ha introdotto la moderna concezione di violenza sessuale,
secondo la quale la criminosità della stessa si incentra sull'offesa
comunque
arrecata
all'autodeterminazione
sessuale,
essendo
irrilevanti le concrete modalità. Come conseguenza, identica tutela
viene riservata all'intangibilità sessuale delle diverse parti del corpo61.
60
V. Musacchio, Le nuove norme contro la violenza sessuale: un opinione sull'argomento, "Giustizia
penale", 1996, II, pag. 118.
61
F. Mantovani, I delitti contro la libertà e l'intangibilità sessuale, Cedam, Padova, 1998, pag. 29.
58
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La norma cardine dell'intera legge è rappresentata dall'art. 609 bis
c.p., che disciplina il delitto di violenza sessuale.
"Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità,
costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la
reclusione da cinque a dieci anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o a subire
atti sessuali:
1. abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della
persona offesa al momento del fatto;
2. traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole
sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non
eccedente i due terzi."
Oggetto giuridico: è la libertà di agire, intesa come libertà di
autodeterminazione o meglio come volontà di attuare liberamente
una o più volizioni nella sfera sessuale, non solo di natura fisica ma
anche morale.
Soggetto attivo: è chiunque, pertanto trattasi di reato comune.
Soggetto passivo: è il titolare del bene giuridico offeso. Possono
essere soggetti passivi del reato tutte le persone fisiche, di sesso
femminile o maschile, maggiorenni o minorenni, con ovvia irrilevanza
delle condizioni della persona (nubile, celibe o coniugata, divorziata,
di onesti costumi o dedita alla prostituzione, vergine o meno,
fidanzata, separata, etc.).
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Condotta: consiste nel costringere taluno a compiere o a subire atti
sessuali, con il mezzo della violenza o della minaccia. La violenza è
quindi un mezzo e non il fine del reato.
Elemento
soggettivo:
si
tratta
di
un
reato
a
dolo
generico,
richiedendo l'art. 609 bis c.p. soltanto la coscienza e volontà di
costringere altri, mediante violenza e minaccia, a compiere o subire
atti sessuali.
Evento: è duplice, in quanto si realizza nel sottoporre il soggetto
passivo in uno stato psicologico di coazione e nel fargli compiere o
subire atti sessuali.
Offesa: consiste nella privazione assoluta o relativa della libertà
sessuale. Trattasi dunque di reato di danno62.
3.4 Il coniuge quale soggetto passivo del reato di violenza
sessuale
Appare evidente che il legislatore, non specificando in alcun modo
le caratteristiche dei soggetti passivi, ha inteso includere nella
fattispecie
anche
quelle
situazioni
di
violenza
sessuale
che,
realizzandosi nell'ambito familiare, hanno per soggetto passivo il
coniuge.
Questa presa di posizione è di notevole rilevanza, in quanto non è
sempre stato pacifico che la moglie potesse denunciare il marito per
violenza sessuale. Dagli anni trenta agli settanta, vi è stato un
indirizzo dottrinale che riconosceva nel matrimonio la fonte di
obblighi di mutua assistenza fisica e morale, fra questi includendovi
62
I reati di offesa si dividono tra reati di danno e reati di pericolo. Si definisce "reato di danno quello per
la sussistenza del quale è necessario che il bene tutelato sia distrutto o diminuito, mentre si definisce
reato di pericolo quello per il quale basta che il bene sia stato minacciato." F. Mantovani, op. cit., pag.
222.
60
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quelli relativi alla reciproca dedizione sessuale. Di conseguenza,
l'unione carnale in tale situazione era considerata un diritto, mentre il
reato di violenza carnale veniva relegato ai soli casi di costrizione del
coniuge ad atti sessuali estranei ai fini procreativi del matrimonio,
63
come quelli contro natura . Certa dottrina affermava che, tra
soggetti legati da vincolo coniugale, per quanto riguarda i rapporti
"normali", non vi poteva mai essere un delitto contro la libertà
sessuale, poiché la tutela di quest'ultima non trova giustificazione in
una situazione in cui il contatto carnale costituisce il sostrato della
relazione matrimoniale64. Altra dottrina sosteneva che, ad escludere il
reato di cui all'art. 519 c.p., valeva il diritto alla prestazione sessuale.
Infatti, posto che la costrizione, per costituire reato, deve essere
illegittima, l'esercizio del diritto al congiungimento carnale col
coniuge esclude l'illiceità penale65. Secondo questa dottrina, dunque,
il comportamento sessuale violento del coniuge poteva al più
integrare gli estremi della violenza privata o delle lesioni, ma non
quello di violenza carnale.
Tuttavia la giurisprudenza, e soprattutto la Cassazione, hanno
preso una posizione sempre netta nel riconoscere la punibilità della
violenza carnale tra coniugi, pur limitandone la punibilità ai soli casi
in cui si realizzi in modo violento. Con sentenza del 16 febbraio 1976,
la Cassazione motiva così il principio secondo cui commette il delitto
di violenza carnale il coniuge che costringa con violenza o minaccia
l'altro coniuge, anche non separato, a congiunzione carnale: "...
(omissis) orbene la legittimità del disporre del corpo dell'altro
coniuge per la soddisfazione della concupiscenza sessuale, l'ambito
63
P. Brignone, La violenza carnale nel rapporto tra coniugi, in nota a sentenza del 16 febbraio 1976,
"Cassazione penale", 1978.
64
R. Pannain, Delitti contro la moralità pubblica, 1952, pag. 38.
65
C. Gabrieli, Violenza carnale, "Novo Digesto Italiano", Vol. VII, pag. 1070.
61
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del relativo diritto e quello del contrapposto dovere, la sfera del
consenso alla deditio corporis prestato con il matrimonio, la rilevanza
del bene dell'inviolabilità sessuale, non vanno commisurati al
risultato della condotta, ma alla coazione spiegata per raggiungerlo.
Ciò va detto nei sensi che seguono, tra loro convergenti:
I.
L'illegittimità del mezzo impiegato per consentire il risultato
rende questo illegittimo, dato il principio dell'unitarietà della
fattispecie
criminosa,
che
non
tollera
il
frazionamento
dell'antigiuridicità, cosicché non è dato affermare che il
congiungimento violentemente o minacciosamente imposto da
un coniuge all'altro sia illegittimo nella causa (rectius: mezzo) e
legittimo nell'effetto (rectius: fine), divenendo penalmente
rilevante a titolo di violenza privata o ad altro titolo delittuoso
corrispondente alla condotta violenta o minacciosa.
II.
L'esercizio del diritto di congiungersi carnalmente col proprio
coniuge, quale effetto del matrimonio, non comprende il potere
di imporre con la violenza (fisica o morale) il congiungimento al
coniuge dissenziente, ma, in caso di dissenso ingiustificato,
costituente
ingiuria
reale
e
violazione
degli
obblighi
di
assistenza coniugale verso il coniuge respinto, questi può
ricorrere al giudice civile per ottenere sentenza di separazione
personale per colpa dell'altro coniuge. Ma non può mai farsi
ragione da sé esercitando il preteso diritto a detta prestazione,
di natura incoercibile, in forma minacciosa e violenta.
III.
L'inadempimento
da
parte
del
coniuge
dissenziente
del
cosiddetto debito coniugale, non determina di per sé la
legittimità della coazione all'adempimento del medesimo, quasi
come atto di auto-esecuzione forzata in forma specifica della
pretesa avanzata dal titolare del diritto alla prestazione
62
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sessuale
ingiustamente
responsabilità
negata,
dell'inadempiente
ma
per
è
le
solo
fonte
di
conseguenze
di
carattere civile e penale che l'ordinamento vi connette.
IV.
Il consenso alla deditio corporis prestato con il matrimonio non
ha carattere assoluto ed illimitato, né comporta un completo
asservimento, quasi a titolo di servitù personale, del proprio
corpo, in funzione permanente ed integrale del soddisfacimento
delle esigenze di piacere sessuale dell'altro coniuge.
V.
L'interesse all'inviolabilità sessuale nella relazione interconiugale non viene a mancare, sì da far venire meno la oggettività
giuridica del delitto all'art. 519 c.p., perché il coniuge non si
priva incondizionatamente verso l'altro coniuge del potere di
disporre del proprio corpo, né perde la naturale libertà di
negare la prestazione sessuale; il fatto che la resistenza sia
giustificata o ingiustificata non esplica alcuna influenza sulla
tutela apprestata a detta libertà, tutela che è intesa ad evitare
congiungimenti carnali coatti, indipendentemente dalla qualità
dei
soggetti
della
relazione
carnale
non
liberamente
consentita."
La Corte di Cassazione66 statuiva inoltre che "... (omissis) il
delitto di violenza carnale sussiste non solo quando vi sia una lotta
strenua, capace di lasciare segni sulla vittima, ma anche quando
questa si sia concessa solo per porre termine ad una situazione per
lei angosciosa ed insopportabile, poiché tale consenso non è libero
consenso, bensì consenso coatto, che ricade sotto la nozione di
violenza di cui all'art. 519 c.p. L'orientamento secondo cui la
66
Cassazione 16 novembre 1988, "Cassazione penale", 1990, pag. 66, e nello stesso senso sentenza 20
gennaio 1986, "Cassazione penale", 1987.
63
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congiunzione
carnale
violenta
realizzata
dal
coniuge
a
danno
dell'altro coniuge, non ricadrebbe nella disciplina dell'art. 519 c.p. è
erroneo, poiché non considera, affatto o nella debita misura, il
rispetto dovuto alla persona quale soggetto autonomo e alla sua
libera determinazione. Infatti il rapporto di coniugio non degrada la
persona di un coniuge ad oggetto di possesso dell'altro coniuge,
sicché, qualora esso si riduca a violenza ai fini del possesso del
corpo, costituisce fatto gravemente antigiuridico, che non può non
trovare sanzione nella norma dell'art. 519 c.p., la quale rappresenta
specificazione dell'art. 610 c.p., violenza privata, che tutela la
determinazione del volere."
Nonostante questa chiara impostazione della Cassazione, la
Corte di appello di Roma, con sentenza del 1990, motivava
l'assoluzione di un marito che aveva più volte con violenza abusato
della moglie, invocando la necessità di un dolo specifico per la
configurazione del reato di violenza carnale tra coniugi. Ma la
Cassazione, investita nel 1994 della questione a seguito del ricorso
della vittima, statuiva che "... (omissis) unico è il concetto di violenza
carnale e non suscettibile di connotazioni diverse tra estranei o nei
rapporti tra coniugi."
Anche sotto la vecchia disciplina vi era stata una equiparazione,
per quanto riguarda il diritto a rifiutare la prestazione sessuale, tra il
coniuge non separato e quello in corso di separazione. Si legge
infatti, nella sentenza del Tribunale di Latina del 13 marzo 1989: "...
(omissis) il reato di violenza o tentata violenza carnale può ben
essere consumato anche tra coniugi (nella specie dal marito), poiché
deve sempre riconoscersi a ciascuno di essi la facoltà di non
concedere l'amplesso; il rifiuto non legittima mai, ai sensi della legge
penale, il coniuge che l'amplesso desidera a pervenire ad esso
mediante l'impiego della forza. È questione ormai non più discutibile
64
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nell'attuale stadio della civiltà giuridica che si riconosce al coniuge
non
separato
la
facoltà
di
non
concedere
l'amplesso
(salva
ovviamente la diversa rilevanza agli effetti civilistici dell'eventuale
sistematico rifiuto); a maggior ragione legittimo devi ritenersi il
diniego opposto dalla vittima in pendenza di giudizio di separazione
personale tra coniugi, nel corso del quale, con provvedimento
provvisorio presidenziale, era stato fra l'altro disposto che il marito
dovesse lasciare la casa coniugale." Certa dottrina ed una costante
giurisprudenza avevano dunque chiaramente delineato, già sotto la
vecchia disciplina, la possibilità che il marito potesse essere accusato
del reato di violenza sessuale nei confronti della moglie, in quanto il
dovere di dedizione sessuale tra coniugi, contratto con il matrimonio,
non è coercibile ma è subordinato al libero consenso prestato di volta
in volta, onde la coercizione ad adempiere dà luogo a reato. Il
problema che poteva sorgere sotto la vecchia disciplina era, semmai,
quello di dover qualificare, di volta in volta, se il reato perpetrato ai
danni della moglie fosse di violenza privata, di atti di libidine o di
violenza carnale. A tale proposito, un esempio dell'inadeguatezza
della vecchia normativa si rileva nella motivazione della sentenza di
Cassazione del 15 maggio 1982, che così recita: "Nel reato di cui
all'art. 572 c.p., maltrattamenti in famiglia, restano assorbiti soltanto
quelli di percosse (art. 581 c.p.) e di minacce, i quali sono elementi
costitutivi della violenza fisica o morale propria del delitto di
maltrattamenti. Per tutti gli altri reati si ha concorso e non
assorbimento,
l'assistenza
qualora
familiare.
il
bene
Nella
giuridico
specie,
offeso
pertanto,
non
riguardi
legittimamente
l'imputato è stato ritenuto colpevole anche del distinto reato di
violenza privata lesivo della libertà morale, per aver introdotto
nell'ano della moglie il collo di una bottiglia, dopo aver denudato e
legato al letto la donna contro la sua volontà." La Corte ha
65
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correttamente motivato nel prevedere il concorso di reati e non
l'assorbimento. Tuttavia, "...(omissis) spettando alla Cassazione nel
rispetto del giudicato quanto alla misura della pena il potere-dovere
di dare ai fatti la corretta configurazione giuridica, ed apparendo
innegabile una loro attinenza alla sfera sessuale, non sarebbe stato
invero peregrino chiedersi se non si era trattato tanto di violenza
generica quanto di specifica aggressione alla libertà sessuale."
Secondo tali rilievi, sarebbe stato opportuno che la Corte avesse
appurato se la condotta integrava gli estremi di violenza carnale o di
atti di libidine violenti, anziché di violenza privata. L'autore conclude
comunque che "... (omissis) la conclusione fu esatta, tenuto conto
del complessivo clima in cui si verificò, e che porta a pensare più al
deliberato proposito di arrecare nuove sofferenze fisiche e morali più
che all'intento di soddisfare intenti libidinosi." Secondo la nuova
legge, tale condotta sarebbe stata sicuramente sanzionata con il più
grave reato di violenza sessuale, ex art. 609 bis c.p. Ciò per due
motivi.
Il
primo
in
quanto
l'atto
è
oggettivamente,
e
non
soggettivamente, idoneo a ledere la sfera sessuale della vittima, il
secondo perché la più ampia nozione di atti sessuali permette,
giustamente,
di
prescindere
dall'accertamento
degli
elementi
costitutivi del congiungimento carnale o degli atti di libidine.
Con sentenza del 11 marzo 1994, la Cassazione precisava
quanto segue: "... (omissis) perché possa configurarsi il delitto di
violenza carnale è necessario che al fatto il soggetto si sia
determinato a causa di una coazione di volontà mediante minaccia o
violenza." Nella specie la Cassazione ha annullato per vizio di
motivazione
la
sentenza
di
appello
che
aveva
accertato
la
responsabilità dell'imputato sulla base della dichiarazione della
moglie di essere stata costretta con violenza ad un coito orale. La
Corte ha rilevato che "... (omissis) considerata la particolarità del
66
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coito orale, sembra arduo ipotizzare l'esercizio di una violenza fisica
quale quella descritta dalla denunciante che ben a essa avrebbe
potuto in ogni caso facilmente reagire e sottrarsi al compimento
dell'atto da lei non voluto." Anche in questo caso, risulta palese che
la nuova legge sarebbe in grado di sanzionare il reato, in quanto la
condotta è riconducibile al reato ex art. 609 bis, che non fa
distinzione tra i vari atti sessuali e non subordina la sanzione alla
reazione attiva posta in essere dalla vittima.
Si
può
dunque
affermare
che
esiste
una
consolidata
giurisprudenza che ammette il reato di violenza carnale nei confronti
del coniuge, e che il reato stesso possa essere realizzato in concorso
con la fattispecie dei maltrattamenti in famiglia.
La nuova normativa introdotta con la legge n. 66 del 1996 ha
lasciato inalterato questo quadro, con il beneficio di aver eliminato
tutte le incertezze interpretative in materia di congiunzione e atti di
libidine, privilegiando la nozione aperta di atti sessuali e dando risalto
al bene giuridico protetto della vittima, ovvero la sua sfera sessuale,
e non alle intenzioni dell'aggressore, considerate giustamente del
tutto irrilevanti ad influire sul danno che il comportamento lesivo
arreca alla vittima. Si può quindi prevedere che, in tema di violenza
tra coniugi, potrà in futuro prefigurarsi una maggiore punibilità
laddove venga realizzato qualunque atto violento che, al di là dei
maltrattamenti, violi la libertà sessuale dell'altro coniuge.
3.5 Il segreto professionale
A prescindere dall'utilità o meno della denuncia penale, la
segnalazione del sospetto abuso da parte dell'insegnante, del
personale sanitario in servizio nei presidi pubblici o degli operatori dei
67
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servizi pubblici rappresenta un atto obbligatorio che espone a precise
responsabilità, anche penali, in caso di omissione.
In primo luogo vi è l'articolo 331 c.p.p. che stabilisce l'obbligo di
denuncia per il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio per
i reati procedibili d'ufficio. Le pene per chi omette la denuncia sono
previste dagli artt. 361 e 362 c.p.. Va inoltre tenuto presente che,
dopo le modifiche introdotte dalla legge 15 febbraio 1996 n. 66, sono
procedibili d'ufficio i più significativi tra i reati sessuali posti in essere
all'interno della famiglia.
Negli altri casi i reati sessuali sono procedibili a querela ossia su
richiesta della persona danneggiata, querela che deve essere
proposta entro sei mesi dal giorno della notizia del fatto che
costituisce reato (art. 609 septies, comma 2 c.p.) e che una volta
proposta è irrevocabile. Se si tratta di un minorenne che non ha
compiuto almeno i quattordici anni deve provvedere chi esercita la
potestà, ossia, di regola, uno dei genitori (art 120 c.p.). Se invece il
minorenne
ha
personalmente
più
di
querela
quattordici
oppure,
anni,
egli
nonostante
può
ogni
presentare
sua
volontà
contraria, può presentarla anche chi esercita su di lui la potestà. Per i
reati sessuali procedibili a querela, se risultano connessi con altri
reati procedibili d'ufficio (art. 609-septies, comma 4 n. 4 c.p.) condizione che si verifica abbastanza spesso, potendo ricorrere
l'ipotesi di minacce gravi (art. 612 c.p.), violenza privata (art. 6 c.p.),
lesioni personali (artt. 582, 583 c.p.), sequestro di persona (art 605
c.p.) - è prevista la procedibilità d'ufficio e l'obbligo di denuncia. La
presenza
di
queste
circostanze
può
non
essere
facilmente
identificabile al momento della denuncia. Quindi, per realizzare
un'effettiva tutela del minore, sarebbe opportuno che i soggetti
obbligati effettuassero sempre la denuncia, lasciando al magistrato la
68
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valutazione se nel caso esiste oppure no una condizione di
procedibilità.
In ogni modo, l'obbligo per il pubblico ufficiale o incaricato di
pubblico servizio sorge solo quando il reato è già delineato nelle sue
linee essenziali e quando vi sono elementi fondati tali da indurre a
ritenere che esso sussista. Una disposizione molto importante è
inoltre contenuta negli artt. 121 c.p. e 338 c.p. secondo i quali, in
caso di conflitto d'interessi con l'esercente la potestà o quando non vi
è chi abbia la rappresentanza del minore di quattordici anni, la
querela può essere proposta da un curatore speciale, nominato dal
giudice delle indagini preliminari su istanza del pubblico ministero o
degli stessi servizi che hanno per scopo «la cura, l'educazione, la
custodia o l'assistenza dei minorenni».
Infine, altro obbligo di segnalazione discende dall'art. 9 della legge
4 maggio 1983 n. 184, che riguarda la segnalazione al Tribunale per i
minorenni dei casi di "abbandono di minori". Infatti, l'abbandono può
essere anche di tipo morale; non sussiste, cioè, solo nel caso di
pesanti
trascuratezze
materiali,
ma
anche
in
presenza
di
comportamenti che possono pregiudicare un equilibrato sviluppo
psicoaffettivo del minore (e tra questi possono essere indicati gli
abusi sessuali).
L'art. 622 c.p. punisce la rivelazione del segreto professionale.
Obbligato al tale segreto è chiunque sia venuto a conoscenza del
reato nell'esercizio o a causa delle sue funzioni: ciò significa che
occorre un nesso di consequenzialità immediata tra l'informazione
ricevuta e l'espletamento della funzione o del servizio, cioè occorre
che la notizia di reato sia stata appresa nello svolgimento del lavoro o
della funzione.
Il problema si pone in particolare per gli esercenti una professione
sanitaria (fra i quali sono ricompresi psicologi e psicoterapeuti, anche
69
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quando operano come professionisti privati) che hanno l'obbligo di
inviare un referto all'autorità giudiziaria ai sensi dell'articolo 365 c.p.
Il discorso riguardo gli esercenti una professione sanitaria è
abbastanza controverso. Al medico la legge impone di inviare un
referto all'autorità giudiziaria tutte le volte che abbia prestato la sua
assistenza in casi che possono presupporre un delitto perseguibile
d'ufficio, e solo quando il paziente sia vittima o parte lesa; non
«quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento
penale come imputato».
Allora interviene l'obbligo del segreto professionale e viene a
cadere il reato di omissione di referto.
La controversia riguarda chi sia la persona assistita nel caso del
minorenne abusato, che ad esempio venga accompagnato alla visita
medica dal genitore abusante. Qualche autore ha sostenuto che,
poiché nel caso del minore, la richiesta di prestazione medica deriva
dal genitore, questi diventa anche titolare del diritto al segreto
professionale. Da altri è stato rilevato che assistito è il minore e che
quindi il medico sia liberato dal vincolo del segreto professionale nei
confronti del genitore. Tuttavia, è sostenibile anche che entrambi si
affidano al medico per un consiglio e per una terapia. Comunque,
tutte queste incertezze cadrebbero qualora la legge imponesse al
medico di segnalare il caso anziché all'autorità giudiziaria a centri
socio sanitari specializzati o a qualche settore appositamente
strutturato dei servizi sociali territoriali.
70
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Pericolosità sociale e
trattamento terapeutico
4.1
Dopo la condanna: rieducazione del condannato
La costituzione italiana al terzo comma dell’art. 27 sancisce: “le
pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”
La risocializzazione ed il reinserimento
del condannato devono
essere guidati dalla mano di esperti in sociologia, criminologia,
psicologia e psichiatria, non più attraverso un approccio generico
come in passato, ma con un’assistenza specifica e qualificata che
tenga conto del detenuto nei suoi diversi aspetti; ciò presuppone
l’intervento
di
esperti
che
in
campi
diversi
agiscono
per
il
raggiungimento del medesimo scopo.
Il Codice Rocco del 1931 introduceva la figura del Giudice di
Sorveglianza al quale veniva demandato il compito di controllo della
vita del carcere e della rieducazione dei detenuti, ma continuando a
svolgere le sue funzioni giuridiche, si limitava a rare visite formali
all’interno degli istituti.
71
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Nel primo dopoguerra si tentano le prime modifiche rivolte
soprattutto al recupero del detenuto. Dopo le prime innovazioni però
la pena torna ad essere afflittiva. Fino al 1964 quando si riprendono i
concetti di umanizzazione della pena che sfociano nel disegno di
legge n. 285 del 28 ottobre 1968 in cui vengono modificati
soprattutto i rapporti tra detenuti e comunità esterne. La possibilità
di contatti con l’esterno attraverso visite, colloqui, corrispondenza e
l’intervento
di
migliorano
le
persone
estranee
condizioni
all’Amministrazione
psicologiche
dei
carceraria,
detenuti
che,
nell’isolamento, potevano andare incontro anche ad un avvilimento
psicofisico e a patologie psichiatriche. Nello stesso disegno di legge
viene data maggior importanza al Giudice di Sorveglianza il quale
viene
proposto
solo
al
controllo
dell’attività
carceraria
e
al
coordinamento delle attività che favoriscono la rieducazione del
detenuto. Il Giudice di Sorveglianza viene quindi affiancato da
educatori,
assistenti
sociali
e
da
professionisti
esperti
in
psicopatologia e sociologia.
Decisivo passo in avanti si è fatto quindi con la legge n. 354 del
26 luglio 1975 che grazie al suo art. 80 (4°comma), introduceva la
nuova “figura dell’esperto” ampliando così la serie degli specialisti
che vanno pertanto dallo Psichiatra, al Pedagogista, allo Psicologo
Clinico, all’Assistente sociale.
La necessità di rendere più specifico l’intervento terapeutico sul
detenuto ha imposto una suddivisione di ruoli e di compiti, tutti rivolti
però ad un migliore funzionamento dell’ istituzione carceraria e ad un
più efficace recupero del detenuto.
Nel campo del trattamento come in quello della detenzione e
dell’inchiesta giudiziaria si propongono alcuni problemi che hanno
messo in crisi la criminologia clinica e che, se risolti, dovrebbero
72
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migliorare la prevenzione della delinquenza e il trattamento dei
soggetti colpevoli di aver commesso un reato.
I problemi che attualmente emergono sono soprattutto di ordine
diagnostico, classificativo e di previsione.
Una
corretta
diagnosi
e
quindi
un’idonea
classificazione,
consentirà la collocazione del singolo in classi, in modo tale che gli
individui di una classe siano simili anche alla luce di una corretta
valutazione delle previsioni del futuro comportamento.
I metodi finora utilizzati in criminologia si sono rivelati non del
tutto adeguati per fornire un’utile guida per l’applicazione della legge
e per adottare decisioni giuridiche e correttive in ogni passo di questo
complesso processo giudiziario. Tali inadeguatezze si ripercuotono
pertanto sulle decisioni dei Direttori degli Istituti penitenziari e degli
stessi Magistrati di Sorveglianza che per compensare tali disfunzioni
sono ben felici di essere supportati da vari esperti.
Tuttavia quanto fin’ora utilizzato nella diagnostica criminologica
può senz’altro costituire un valido presupposto per migliorare i
metodi di classificazione, costituendo comunque un punto critico per
l’adozione di decisioni più complete al fine di approntare programmi
più efficaci ed onesti nella giustizia criminale.
4.2 La pericolosità sociale:
il problema dell’accertamento
L'accertamento giudiziale della pericolosità sociale si articola in
due momenti: quello dell'analisi della personalità dell'individuo, con
accertamento delle qualità indizianti, da cui dedurre la probabile
commissione di nuovi reati e quello della prognosi criminale, cioè il
73
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giudizio sul futuro criminale del soggetto, effettuato sulla base di tali
qualità67.
Il codice non dice quali siano le qualità soggettive da cui deve
dedursi la pericolosità: l'art. 203 c.p. si limita a un mero rinvio
secondo cui "la qualità di persona socialmente pericolosa si desume
dalle circostanze indicate nell'art. 133", onde il giudizio di pericolosità
va effettuato con riferimento alla gravità oggettiva e soggettiva del
reato commesso ed agli elementi da cui si desume la capacità a
delinquere, i quali, visti in chiave prognostica, possono presentare un
significato diverso da quello che assumono in funzione della
responsabilità, in quanto vanno apprezzati come sintomo di probabile
futura recidiva. Si tratta comunque di un giudizio sulla personalità del
soggetto nel suo complesso ed ha per oggetto l'accertamento della
pericolosità non tanto al momento della commissione del fatto, ma
piuttosto in quello in cui il giudice deve decidere se disporre o meno
la misura di sicurezza ed altresì quello in cui essa deve essere in
concreto eseguita. Si dovrebbe pertanto evitare, con il superamento
delle presunzioni di pericolosità sociale, l'applicazione di una misura
di sicurezza a chi, pericoloso al momento del fatto, cessa di esserlo
prima di tale pronuncia. Autorevole dottrina fa notare come invece
non possa applicarsi una misura di sicurezza a chi, all'opposto, sia
divenuto pericoloso dopo la commissione del fatto per cause
sopravvenute, opponendosi a ciò il principio del nulla periculositas
sine crimine, che esige un'interdipendenza tra pericolosità e reato,
presupposto garantista indefettibile in un sistema di diritto penale a
base oggettiva.
Il problema fondamentale in materia è quello dell' individuazione
di criteri certi ed univoci per la delimitazione del concetto di
pericolosità: questa infatti è concepita come il risultato di una
67
Ferrando Mantovani "Diritto penale" Cedam 1992 pag. 699.
74
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prognosi sui comportamenti futuri, secondo un giudizio di probabilità,
non di certezza; ne discende che "la certezza deve essere nelle
premesse e nelle garanzie di univocità di un giudizio che sia orientato
a collegare il presente al futuro, nell'ambito di un' evoluzione
68
criminologicamente rilevante" .
Mantovani nota che "circa la pericolosità accertata, come in
generale per l'esame della personalità del delinquente, si lamenta
che il giudizio resta in gran parte affidato all'intuizione, quando non
anche all'ideologia del giudice. Ciò sia, anzitutto, per la genericità
degli
elementi
criminologica
dell'art.
del
133
giudice,
c.p.,
sia
sia
per
per
il
la
divieto
impreparazione
della
perizia
criminologica"69 ex art. 220 comma 2 c.p.p.
Si sono avuti in dottrina tentativi di individuare, a partire da tali
elementi, qualità soggettive indizianti di pericolosità70: in base agli
elementi previsti dall' art. 133 comma 1 (da cui si desume la gravità
del reato) il giudice potrà valutare se trattasi di un delinquente
crudele o di normale sensibilità, se si tratti di un delinquente che
cede facilmente al delitto o se vi cede solo spinto da grandi
prospettive, se si tratti di un delinquente passionale o di un
delinquente freddo; ma ai fini della prognosi criminale sono di
maggiore importanza gli elementi di cui al comma 2 (da cui si
desume la capacità a delinquere), per cui sono considerate qualità
indizianti di pericolosità sociale, ad esempio: riguardo ai motivi del
delinquere, l'attitudine a seguire impulsi sproporzionati rispetto al
mezzo criminoso usato e al di fuori di particolari situazioni ambientali
determinanti; per quanto riguarda il carattere del reo, l'essere
68
Giulio Catelani "Manuale dell' esecuzione penale" III° ed. pag. 574.
Ferrando Mantovani "Diritto penale" Cedam 1992 pag. 700-701.
70
Ferrando Mantovani "Diritto penale" Cedam 1992 pag. 701; NUVOLONE "Il sistema" Padova 1982
pag. 346.
69
75
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portato a superare le normali inibizioni sociali per aggressività o per
incapacità a resistere alle suggestioni esterne; per quanto riguarda le
condizioni di vita, l'incapacità psichica a svincolarsi da un ambiente
criminogeno; per quanto riguarda i precedenti penali, l'attitudine
radicata a commettere reati della stessa indole o aventi motivazioni
analoghe. In generale il giudizio di pericolosità sarà tanto più
negativo quanto più il reato commesso appaia come fenomeno
isolato nel complesso di una vita in contrasto con esso, così come
quando la condotta contemporanea e susseguente al reato ne
71
contraddica i motivi e sia in antitesi con essi .
La giurisprudenza a sua volta non ha fornito strumenti certi per
l'individuazione dei limiti del concetto di pericolosità sociale: la stessa
Corte di Cassazione ha in passato affermato che essa può essere
"desunta da situazioni che giustificano sospetti o presunzioni, purché
gli uni e le altre appaiano fondate su elementi obiettivi e su fatti
specifici ed accertati", per esempio la compagnia di pregiudicati,
l'omertà, la mancanza di uno stabile lavoro, denunzie penali
indipendentemente dall' esito, etc. (Cassaz. 9/4/68, 26/1/77, 9/3/77,
7/10/77).
A questi fattori si aggiunge l'impreparazione criminologica del
giudice ed il perdurante divieto di perizia criminologica posto dall'art.
314 del vecchio codice di procedura penale e ribadito dall'art. 220 del
nuovo, che ammette solo perizie psichiatriche, mentre vieta in fase di
cognizione le perizie volte a stabilire l'abitualità, la professionalità nel
reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità
dell'imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause
71
Arianna Calabria "Sul problema dell' accertamento della pericolosità sociale" in Riv. It. Dir. Proc.
Pen. 1990, 762.
76
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patologiche; ciò per finalità garantistiche nei confronti dell'imputato,
ma anche a riprova della perdurante sfiducia nei giudizi predittivi
delle scienze criminologiche.
Ma
innanzitutto
deve
rilevarsi
che
"il
riconoscimento
della
struttura probabilistica della pericolosità porta da sempre con sé
enormi
dubbi
sul
rispetto
del
principio
di
determinatezza
...
l'accettazione del concetto di pericolosità postula infatti 'a monte' una
risposta soddisfacente ad una questione non meno scabrosa, relativa
alla
stessa
ammissibilità
politico-criminale
del
ricorso
a
un
presupposto a struttura probabilistica in funzione della privazione
della libertà personale", con le conseguenti preoccupazioni di ordine
garantistico.
Un giudizio con conseguenze così profonde sulla libertà personale
non può essere lasciato al metodo intuitivo che sembra dominare
nella prassi; né d'altro canto sembra rintracciabile alcun metodo di
accertamento che possa garantire una esecuzione almeno uniforme
delle prognosi di pericolosità: non il c.d. 'metodo statistico' della
valutazione per tabelle, per l'incompletezza della base prognostica
che necessariamente esclude variabili personali che nel caso concreto
possono essere decisive; non il c.d. 'metodo clinico', che attraverso
l'intervento del perito individualizza maggiormente il giudizio ma si
traduce spesso in difficoltà di collaborazione costruttiva tra giudice e
periti e in soggettivismi derivanti dalla non omogeneità delle
premesse teoriche a cui questi ultimi si rifanno72.
La questione si fa più problematica nelle ipotesi in cui il giudice
ritenga di non disporre di elementi sufficienti per operare il giudizio
prognostico di pericolosità: Luigi Fornari fa notare come il problema
dei casi dubbi non possa ricondursi semplicisticamente alla scelta tra
72
Luigi Fornari "Misure di sicurezza e doppio binario: un declino inarrestabile?" in Riv. It. Dir. Proc.
Pen. 1993, 569.
77
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una delle due massime 'in dubio pro reo' e 'in dubio contra reum'. Si
è ricercata la soluzione in un'interpretazione teleologica della norma
che possa orientare il giudice nella scelta dell' ambito a cui ricondurre
i casi dubbi. Ma anche tale teoria basandosi su una distinzione tra
ipotesi di prognosi certa e casi dubbi postula che le scienze
criminologiche siano in grado di offrire un patrimonio di conoscenze
empiriche su cui fondare la prognosi stessa, assunto che è tutt'altro
che scontato.
Di fronte all'incontestabile inadeguatezza del criterio intuitivo ed
alla necessità di una cooperazione tra diritto penale e scienze
criminologiche ai fini dell'accertamento della pericolosità, Ferrando
Mantovani ha indicato come via preferibile, tra gli opposti estremismi
delle presunzioni legali e dell'accertamento caso per caso, la
tipizzazione di "fattispecie legali di pericolosità criminologicamente
fondate" o di indici di pericolosità individuati dalla legge in base alle
conoscenze acquisite dai criminologi in materia di comportamento
recidivante che guidino il giudice nel giudizio prognostico sulla
pericolosità,
rendendo
inoltre
"più
rigorosi
i
presupposti
di
accertamento fondati innanzitutto sulla gravità dei precedenti reati
del soggetto e del reato commesso". Tale soluzione ha il vantaggio di
offrire parametri comuni e preventivamente determinati e fonda il
73
giudizio sulla pericolosità su 'giudizi individualizzati' .
Certo si avrebbe una perdita di certezza legale rispetto al sistema
presuntivo, ma che dovrebbe essere compensata da una maggiore
certezza
73
scientifica
attraverso
l'auspicata
specializzazione
nelle
Ferrando Mantovani "Diritto penale" Cedam 1992 pag. 698: che "I giudizi individualizzati
costituiscono un indubbio progresso della scienza penale, ma presuppongono solidi punti di riferimento
criminologici e sostanziali omogeneità di visioni tra giudici e tra i periti, senza di che si legittima sotto un
apparente progresso, l' arbitrio".
78
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scienze
criminologiche
e
attraverso
l'ammissione
della
perizia
criminologica anche in fase di cognizione. Si eviterebbe così di
incorrere
nella
tanto
criticata
prassi
che
attualmente
vede
l'accertamento della pericolosità lasciato all'alternativa tra l'intuizione
del giudice (che dalla perizia trae una giustificazione pseudoscientifica) e la delega al perito di una decisione di tale rilevanza (con
relativa deresponsabilizzazione del giudice).
Bisogna quindi prendere atto della forte crisi del concetto di
pericolosità sociale che porta Giacomo Canepa a sostenere che "nelle
forme legali in cui è stato recepito, il concetto della pericolosità ha
perduto molto della sua concretezza, diventando spesso il simbolo di
una società la quale, anche se non più preoccupata soltanto di punire
il delinquente, tende ad assumere un prevalente atteggiamento di
difesa, isolando dal consorzio umano il delinquente stesso, appunto
perché pericoloso"74.
Secondo Bandini si deve "concludere che i risultati sono stati del
tutto fallimentari, non corrispondendo per nulla alle aspettative dei
teorici di questa dottrina"75: in primo luogo infatti non è possibile
predire la pericolosità con gli strumenti clinici fino ad ora utilizzati
tanto che lo psichiatra, nella formazione del suo giudizio, tiene conto
più di parametri giuridici (quali la recidiva, la gravità del reato, ecc.)
che di parametri scientifici; in secondo luogo l'introduzione della
pericolosità presunta nel nostro ordinamento si è rivelata una fonte
di arbitrii ed ingiustizie, non funzionali nemmeno ad esigenze di
difesa sociale, cui è conseguito un eccesso di discrezionalità conferita
all'autorità giudiziaria e ai periti chiamati a collaborare con essa nel
74
Giacomo Canepa "Aspetti criminologici e medico-legali della pericolosità sociale" in Rass. Criminol.
1970, 18.
75
Tullio Bandini "La valutazione psichiatrico forense della pericolosità" in Rass. Criminol. 1981, 62.
79
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disporre un trattamento psichiatrico fortemente stigmatizzante che
ha portato all'emarginazione di un numero rilevante di persone76.
Discrezionalità
che
però
si
è
ulteriormente
dilatata
con
l'abrogazione delle presunzioni di pericolosità, disposta con la legge
Gozzini, senza fornire parametri di giudizio alternativi.
Misure di sicurezza
La pericolosità sociale comporta l’applicazione delle misure di
sicurezza, che furono introdotte con il codice Rocco nel 1931 e si
distinguono in detentive e non detentive. Le misure di sicurezza
detentive sono a loro volta suddivise in psichiatriche, come le case di
cura e custodia in cui il soggetto viene riconosciuto affetto da vizio
parziale di mente oppure i manicomi giudiziari (OPG) in caso di
proscioglimento per vizio totale di mente, e poi ci sono quelle non
psichiatriche,
come
le
colonie
agricole
o
case
di
lavoro
per
delinquenti abituali, il riformatorio per un minorenne.
La pericolosità sociale va sempre accertata, nel caso di una perizia
psichiatrica, il perito si pronuncia sulla pericolosità sociale derivata e
correlata all’infermità mentale e non ad altri tipi di pericolosità
sociale. In caso di vizio di mente accertato il perito deve specificare
se allo stato (al momento dell’accertamento peritale) la patologia di
mente persista e sia tale da rendere il periziando socialmente
pericoloso.
Un’altra misura di sicurezza personale non detentiva è la libertà
vigilata con prescrizioni accessorie che il giudice ritiene opportune e
necessarie per consentire, allo stesso tempo, di attivare interventi
76
Stefano Maglia "Crisi del concetto di pericolosità sociale" in Riv. Pen. 1984, 871.
80
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terapeutici più idonei per la cura del malato mentale e di disporre le
opportune
cautele
di
controllo
e
di
contenimento
della
sua
pericolosità.
Le strutture alternative sono le Comunità terapeutiche funzionanti
sul territorio, cui già si accede in regime di arresti o di detenzione
domiciliare o la custodia cautelare in luogo di cura (S.P.D.C e
O.P.G.).
Il malato di mente socialmente non pericoloso non è soggetto alla
misura di sicurezza psichiatrica. Quindi viene prosciolto e non vi è
alcuna possibilità di intervento e di controllo sull’evoluzione della
patologia essendo uscito dal circuito giudiziario. Allo stato, tutto è
affidato alle iniziative e alla buona volontà dei singoli, quando invece
sarebbe almeno utile formalizzare una segnalazione ai servizi
psichiatrici della zona. In troppi casi il proscioglimento coincide con
l’abbandono sul territorio del malato di mente autore di reato. Il
perito, se ritiene necessario cure specialistiche urgenti, può chiedere
il ricovero in un servizio psichiatrico di diagnosi e cura (S.P.D.C.).
se
elevata:
proscioglimento
e
internamento in OPG
pericolosità sociale
se attenuata: libertà vigilata
Entrambe durano fino a quando
persiste
la
pericolosità
sociale
psichiatrica del prosciolto
b) vizio totale di mente e assenza di Proscioglimento e archiviazione del
caso; se il prosciolto era sottoposto
pericolosità sociale psichiatrica
ad una misura cautelare, ne viene
ordinata la cessazione
c)vizio
parziale
di
mente
+ Pena diminuita di un terzo, cui
segue l’internamento in casa di cura
pericolosità sociale
e
custodia,
in
presenza
e
persistenza di pericolosità sociale
psichiatrica elevata; oppure libertà
vigilata, in caso di pericolosità
sociale attenuata
d)vizio parziale di mente e assenza Pena ridotta di un terzo e nessuna
applicazione
della
misura
di
di pericolosità sociale
sicurezza psichiatrica
a)vizio totale di mente +
81
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Predizione
Da diverse ricerche in tema di predizione della recidiva è risultato
che:

i malati di mente non delinquono in misura superiore al resto
della popolazione;

non esistono rapporti di equivalenza tra malattia mentale e
pericolosità sociale, anche se persone con doppia diagnosi,
malattia mentale e abuso di sostanze risultano statisticamente
ad alto rischio di comportamento violento;

gli
strumenti
clinici
finora
utilizzati
per
predire
il
comportamento del malato di mente autore di reato si sono
rivelati imprecisi e inadeguati;

allo stato, non esistono dati psicologici e psichiatrici adeguati a
fornire previsioni a medio- lungo termine;

dall’irripetibilità ed unicità del comportamento umano, discende
l’impossibilità di prevedere condotte future con criteri di
probabilità e tanto meno di certezza;

frequentemente la predizione della recidiva si basa sulla
considerazione
delle
sole
caratteristiche
psicopatologiche
individuali;

spesso viene ignorato o sottovalutato l’aspetto dinamicoevolutivo della patologia mentale;

si tiene poco conto delle modificazioni a cui può andare
incontro il quadro psicopatologico;

spesso ci si pronuncia sulla pericolosità psichiatrica in base al
comportamento emesso, trascurando la connessione con la
malattia.
Il pregiudizio che il malato di mente autore di reato sia persona
socialmente pericolosa e debba essere neutralizzato attraverso
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l’internamento in manicomio criminale è un retaggio ereditato dagli
psichiatri positivisti.
In assenza delle conoscenze e degli strumenti terapeutici attuali, i
freniatri si preoccuparono da un lato di sottrarre il malato di mente
ad una carcerazione che ritenevano ingiusta, dall’altro di collaborare
al controllo sociale attraverso la struttura manicomiale. Essi erano i
fedeli interpreti ed esecutori della difesa sociale, assunta come
compito primario.
A norma del codice penale in vigore, l’accertamento della
pericolosità sociale psichiatrica rimane compito del perito.
Per assolvere a tale compito il perito deve tenere conto di alcuni
indicatori chiamati interni:

presenza o assenza di una sintomatologia psicotica;

insufficiente o assente consapevolezza di malattia (insight);

scarsa o nulla aderenza alle prescrizioni sanitarie;

mancata o inadeguata risposta a quelle pratiche;

presenza di disorganizzazione cognitiva e di impoverimento
ideo-affettivo e psico-motorio.
Il perito non può sottovalutare gli indicatori esterni come:

caratteristiche
dell’ambiente
familiare
e
sociale
di
appartenenza;

esistenza di servizi psichiatrici adeguati nella zona;

possibilità
di
re-inserimento
lavorativo
o
di
soluzioni
alternative;

alternative di sistemazione logistica;

grado di accettazione del rientro del soggetto nell’ambiente
in cui viveva prima.
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L’individuazione
di
indicatori
interni
riveste
importanza
fondamentale nel ritenere elevata la pericolosità sociale e nel
proporre un internamento in ospedale psichiatrico giudiziario.
Un paziente è più o meno ad alto rischio non solo perché portatore
di disturbi mentali, ma spesso per la povertà di risorse del contesto e
per l’assenza di un sistema a rete flessibile, che garantisca un
continuum terapeutico e assistenziale degno di un paese civile.
Viene infatti indicata all’interno dell’accertamento peritale oltre ai
criteri clinici utilizzati, anche la durata minima e massima del periodo
entro cui deve essere effettuato l’intervento e analizzato il percorso
fatto dalla e con la psichiatra del territorio.
In conclusione possiamo dire che il perito deve assumere sempre
più il ruolo consapevole e responsabile di mediatore tra il sistema
della giustizia e quello del trattamento, deve cercare di tradurre la
nozione di pericolosità sociale psichiatrica in quella di necessità di
cure e di assistenza specialistica, in regime di coazione o libertà
vigilata. Insistere perché vengano organizzate sul territorio strutture
a forte connotazione riabilitativa per malati di mente autori di reato.
4.3
La terapia dell’abusante
Nei confronti dell'abusante a danno di minori l'intervento punitivo
sembra essere quello più utilizzato. Ma si è diffusa una teoria che
ritiene che, per poter aiutare le famiglie incestuose, è necessario un
intervento terapeutico anche nei confronti dell'abusante. Sembra,
infatti, che per tutelare l'infanzia dalla reiterazione del crimine non
basti utilizzare la pena detentiva come deterrente, ma sia necessario
trovare il modo per far riemergere ed elaborare, negli autori della
violenza, i traumi infantili subìti (visto che la maggior parte degli
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abusanti sembra essere
stato vittima nell'infanzia di violenze
sessuali) o comunque per far recuperare loro una correttezza di
comportamento.
L'obiezione maggiore a questa proposta è stata quella che non si
può "curare" chi si rifiuta di collaborare. Alcune esperienze di
psicoterapie di abusanti non volontarie hanno però dimostrato che è
possibile
ottenere
dei
risultati
anche
senza
un'iniziale
piena
motivazione del paziente. Infatti la coazione può svolgere una
funzione insostituibile nell'avviamento della terapia; lo sviluppo di
quest'ultima, invece, è affidato alla capacità e alla possibilità dei
terapeuti di stimolare, nei soggetti coinvolti, una motivazione
autonoma al cambiamento, affrontando e superando le relative
resistenze.
Anche in Italia dagli anni Novanta si è cominciato ad operare in
questa direzione presso il Centro del bambino maltrattato di Milano,
dove
sono
stati
ottenuti
ottimi
risultati
anche
attraverso
l'accettazione di un esplicito collegamento fra contesto giudiziario e
terapeutico. Secondo questa corrente di pensiero, se venisse
privilegiata, nei confronti degli abusanti, la strada della terapia
piuttosto che quella della repressione i costi economici sarebbero
certamente molto elevati, essendo necessari terapeuti altamente
specializzati, ma sarebbero sempre inferiori ai costi che la società
deve pagare per le spese detentive di questi soggetti ed inoltre
sarebbero inferiori le loro probabili recidive.
Non tutti però sono convinti che sia possibile recuperare i legami
familiari tra il minore e l'abusante quando l'abuso sessuale si è
verificato, perché in questi casi il rapporto tra i due soggetti è stato
completamente compromesso. Ad esempio l'Associazione Artemisia
di Firenze, per scelta, ha deciso di non occuparsi dell'intervento
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terapeutico degli abusanti e svolge terapie di minori sessualmente
abusati non finalizzate al recupero di tale rapporto familiare.
Fondamentale
è
la
capacità
dell'abusante
di
assumersi
la
responsabilità di quanto accaduto. Ma l'ammissione dei fatti non
basta. Infatti non sono affatto infrequenti situazioni in cui, magari
parzialmente e con una certa minimizzazione, si arriva a questo
risultato. Tuttavia esso non è sufficiente per dare una decisiva svolta
alle distorsioni da cui è stata segnata la relazione con la vittima e il
complesso dei rapporti familiari. In fasi successive dovranno essere
affrontate, oltre alla negazione dei fatti:
- la negazione di colpevolezza: cioè l'essere stati animati da
precise scelte strategiche nel preparare e compiere l'abuso, ben
sapendo che proprio di questo si trattava;
- la negazione di responsabilità: cioè di intenzionalità libera per
quanto possibile da condizionamenti esterni, ai quali non può essere
attribuita che un'importanza marginale rispetto all'assunzione del
comportamento abusante;
- la negazione dell'impatto: cioè del fatto che quanto avvenuto ha
comportato conseguenze altamente traumatiche per il minore che vi
è stato coinvolto.
Dunque, non devono più rimanere all'abusante "scappatoie" come
l'attribuzione di pensieri incestuosi all'alcool, o alle più varie cause di
infelicità e rabbia, o alle presunte inadempienze della consorte; né
deve continuare l'illusione che il figlio, essendo piccolo, non abbia
capito il significato di quegli "speciali giochi" e che quindi possa
facilmente dimenticarli senza conseguenze. Egli deve prendere
coscienza che i danni inflitti al minore sono attribuibili soltanto ai
propri tratti patologici che invece, spesso, tende a considerare
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intrinseci al modo di essere della vittima in quanto conseguenza dei
comportamenti di questa: in tal modo cerca di trovare un'attenuante
al proprio comportamento.
Dopo un'approfondita elaborazione di questi temi, nel caso di
abuso intrafamilaire, si potranno valutare - ed eventualmente
rinforzare - le possibilità residue del genitore di riassumere il suo
ruolo affettivo. Per raggiungere questo risultato conteranno non
soltanto le buone intenzioni, ma anche le prove date nel passato
rispetto a tali funzioni: infatti, soggetti che avevano espresso in
precedenza anche buone attitudini di accudimento e di reale
vicinanza affettiva con al vittima e gli altri figli potrebbero riprendere
un ruolo parentale significativo. Riguardo all'intervento terapeutico
dell'abusante è importante il parere espresso da un endocrinologo, il
professore Aldo Isidori (37), direttore della cattedra di andrologia
all'Università "La Sapienza" di Roma, sulle terapie ormonali (in realtà
"anti-ormonali" come egli afferma) e sui loro margini di applicazione
in
caso
di
comportamenti
sessuali
violenti
sui
minori:
“Il problema della pedofilia è innanzi tutto più un problema di natura
psicologico- sociale che strettamente medico. Basti pensare che
nell'antichità i rapporti tra adulti e minori erano ammessi, codificati
all'interno di una cornice culturale definita, sicuramente differente
rispetto a quella attuale”. È in quest'ambito che sorge la definizione
di "pedofilia": deviazione rispetto all'istinto sessuale riproduttivo su
cui si innesta poi la sessualità adulta nelle sue componenti
psicologiche, simboliche e culturali. Il professore Isidori afferma:
È questo il motivo per cui l'unica forma di terapia in senso
strettamente medico (ossia di ripristino di condizioni di salute
"normale", in questo caso la corretta esplicazione dell' istintualità
sessuale) è quella psicologica. Le cosiddette "terapie ormonali", o
meglio anti-ormoni in quanto inibiscono ormoni specifici, non sono in
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tal senso terapie ma soltanto rimedi temporanei e reversibili: una
volta tolta la copertura farmacologica il problema si ripresenta
praticamente inalterato, poiché si agisce a livello sintomatologico e
non sulle cause. Comunque, la possibilità di ricorrere alla terapia
chimica (o per meglio dire al trattamento farmacologico) può
risultare utile, sempreché sia associata ad una terapia psicologica,
nei casi di comportamento violento lesivo della dignità psichica e
fisica del bambino.
Bisogna ricordare che, riguardo alla possibilità di utilizzare il
trattamento farmacologico nei confronti degli abusatori, si pone un
problema etico: la dichiarazione di Helsinki del 1964 afferma
chiaramente che non si può somministrare niente a nessuna persona
se non si ha il suo consenso. La Convenzione di Oviedo (nelle
Asturie) del 1997, inoltre, sostiene che è necessario il consenso
informato da parte dei soggetti coinvolti in interventi medici, che
possono ritirarlo in qualsiasi momento. L'art. 5, infatti, vincola
qualsiasi intervento ad una preliminare libera dichiarazione di
consenso da parte delle persone coinvolte, le quali devono essere
informate sullo scopo, la natura, le conseguenze ed i rischi
dell'intervento stesso. Se in altri paesi (come ad esempio Germania e
Stati Uniti) è prevista per legge la possibilità della castrazione
chimica - o comunque della somministrazione di una terapia in modo
coercitivo - nei confronti dei criminali sessuali (come gli stupratori
abituali) a prescindere dal loro consenso, in Italia tale tipo di
castrazione è incostituzionale: l'art. 27 della Costituzione italiana,
infatti, affermando al terzo comma che le «pene non possono
consistere in trattamenti contrari al senso di umanità», vieta
qualunque trattamento che violi l'integrità fisica (inclusi perciò
trattamenti cruenti, come la lobotomia e la sterilizzazione, e non
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cruenti, come l'uso di psicofarmaci e l'ipnotismo), in quanto
considerati inammissibili perché ledono la dignità umana e non
tendono, invece, come dovrebbe essere allo scopo rieducativo della
pena.
Il modello coercitivo, nell'ordinamento italiano, non è di per sé
previsto se non in specifiche ipotesi tipiche:
- quando il soggetto ha crisi acute della patologia di cui è affetto
ed è provata la sua incapacità di intendere e di volere (anche
parziale)
può
essere
sottoposto
ad
un
trattamento
sanitario
obbligatorio: ma questa non pare essere un'ipotesi concreta in cui si
può trovare un abusante;
- al fine di individuare, con le forme della perizia, patologie
sessualmente trasmissibili (ad esempio l'HIV) l'abusante è sottoposto
ad accertamenti coattivi, qualora le modalità del fatto commesso
possano prospettare un rischio di trasmissione di tali patologie nei
confronti del minore vittima dell'abuso sessuale (art. 16 L. 66/1996);
- il giudice può condizionare l'emanazione della sospensione
condizionale della pena alla partecipazione, da parte dell'abusante, a
trattamenti psicoterapeutici, ai quali però egli dovrà comunque
partecipare
volontariamente:
dunque,
se
vuole
ottenere
la
sospensione condizionale dovrà accettare il trattamento.
4.4
Il
trattamento
cognitivo
comportamentale
degli
aggressori sessuali
Gli
aggressori
sessuali
possono
essere
considerati
individui
portatori di una storia personale che li ha deformati sotto l’aspetto
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psicologico, o piuttosto, ha alterato un aspetto circoscritto del loro
comportamento. “quelli che lavorano a contatto con gli aggressori
sessuali non solo hanno il dovere di mostrare rispetto per i loro
clienti, in modo che essi siano portati a credere di avere le
potenzialità per cambiare, ma devono anche assumere l’onere di
educare la gente ad un atteggiamento più tollerante verso questi
aggressori, in particolare verso quelli che cercano di riabilitarsi. Non
si tratta di una tolleranza verso il loro comportamento aggressivo, sia
chiaro; tuttavia, dovremmo accettare queste persone come parte
dello spettro dell’umanità, verso la quale noi tutti siamo responsabili
e dovremmo considerarli come esseri potenzialmente in grado di
rispondere
ai
nostri
sforzi
di
riabilitazione”
(W.
Marshall,
D.
Anderson, 1999).
La sollecitazione è pertanto quella di analizzare e trarre deduzioni
operative circa motivazioni, pensieri, sentimenti e comportamenti
degli aggressori sessuali, troppo spesso poco chiari allo stesso
aggressore. Il trattamento utilizzato dagli autori (Marshall, Anderson
e Fernandez, 1999), spinge questi aggressori a guardare bene in
faccia i fatti e ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni, non
è un semplice approccio umano, ma un modo per coinvolgere gli
aggressori nel processo di cambiamento verso uno stile di vita
migliore, più soddisfacente e meno deleterio.
I reati sessuali costituiscono un problema molto serio nella società
del mondo occidentale. Mentre ci sono difficoltà nello stimare
l’incidenza e la diffusione degli abusi sessuali, i dati a disposizione
indicano con chiarezza che molte vite sono compromesse dagli
aggressori sessuali. L’elevata incidenza di questi fatti richiede
urgentemente un intervento
sistematico, convalidato e razionale.
Sfortunatamente, questo tipo di risposta è tutt’ora mancante,
sebbene vi sia stato negli ultimi anni un sensibile aumento
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dell’attenzione al problema. Sono almeno tre i campi nel quale
dovrebbero essere investite risorse e rivolte le energie: prevenzione,
assistenza alle vittime e interventi terapeutici per gli aggressori.
Lo sviluppo di programmi di prevenzione sembrerebbe un modo
ovvio di ridurre l’incidenza di questi comportamenti dannosi. Un
centro locale di protezione infantile in Ontario, Canada, ha preso
delle iniziative che ha portato a significativi risultati. Individuate
cinque scuole come oggetto di studio, il centro ha introdotto una
semplice attività formativa per mostrare che l’abuso sessuale sui
bambini era abbastanza comune e in genere commesso da un uomo
di cui il bambino pensava di potersi fidare. I bambini sono stati
informati che, nel caso avessero riferito tali abusi, sarebbero stati
creduti e aiutati. Nell’arco di due anni, il numero degli abusi sessuali
riferiti dai bambini di queste scuole, successivamente confermati
dalle indagini della Polizia, crebbe quasi del 300%. Questo è solo un
esempio, ma la speranza è quella di fornire ai genitori e alle agenzie
che operano con i bambini strumenti tali da individuare i potenziali
aggressori.
Nell’attuale approccio della società all’aggressione sessuale il
settore dove forse sono più sensibili le carenze è lo stanziamento di
risorse per l’assistenza alle vittime. Sono stati compiuti alcuni
progressi nel fornire aiuto alle vittime tramite le indagini criminali e i
procedimenti giudiziari, ma questi servizi rimangono piuttosto rari e
limitati. Spesso l’aiuto viene fornito da donne volontarie che tendono
a demotivarsi per mancanza di supporto. I servizi di assistenza alle
vittime, dal quale molto spesso ci si aspettano fondi per i trattamenti
terapeutici per le vittime e le famiglie, appaiono troppo spesso
sovraccarichi di lavoro per cui molte volte intraprendono un lavoro
straordinario fuori dall’orario retribuito.
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Gli interventi rivolti a diminuire il rischio di recidiva degli
aggressori sessuali serviranno, se efficaci, a ridurre il numero delle
persone abusate. Tali interventi dovrebbero abbinare in modo
efficace i trattamenti terapeutici e la reclusione in carcere. È noto che
questi uomini mettono in atto comportamenti illegali quindi sono
colpevoli e devono essere ritenuti responsabili di questi misfatti allo
stesso modo di coloro che compiono crimini di altra natura. Un
periodo di 3/5 anni sembra adeguato ad assicurare i mezzi e il tempo
sufficienti per coinvolgere questi uomini in trattamenti specifici.
Nel campo della ricerca e della terapia dei confronti degli
aggressori sessuali vi sono coloro che assumono un atteggiamento
punitivo e coloro ritengono che il trattamento terapeutico sia una
perdita di tempo. Queste posizioni sono portate avanti dall’attuale
approccio dei media e dalle idee alquanto provocatorie di alcuni
membri della società. Inoltre molto spesso gli stessi terapeuti si
focalizzano
sui
punti
deboli
dei
clienti
e
non
abbastanza
nell’incoraggiarli a credere nelle loro forze e nella capacità di
cambiamento.
Malgrado le analisi comportamentali dei problemi umani e le
procedure terapeutiche che derivano da questa analisi siano state
descritte nella letteratura fin dal tempo di Watson (1924), è stato
soltanto durante gli anni Sessanta che la terapia comportamentale è
emersa come approccio sistematizzato che offriva un modo unico di
concettualizzare e di curare il disagio umano. Il comportamentismo
fu denigrato come mera analisi della sequenza stimolo risposta che
ignorava la dimensione intrapsichica e che, fu detto, non capiva il
vero prodigio e la complessità del funzionamento della mente umana.
Le idee psicoanalitiche davano l’impressione di elevare la mente
umana a una ricchezza e a una drammaticità che ben si adattava a
quell’idea di sé stessi che le persone desideravano raccogliere.
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Già da Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) si cercava di attuare
procedimenti avversivi per curare l’alcolismo. Fu negli anni cinquanta
e nel decennio successivo che l’orientamento comportamentista fu
utilizzato in ambito clinico (teoria dell’avversione, ricondizionamento
masturbatorio, modellamento). Questo tipo di trattamento mira ad
eliminare risposte indesiderate ed il terapeuta deve assicurare che si
verifichino
risposte
alternative,
preferibilmente
incompatibili
in
presenza dello stimolo che le provocava. Inizialmente i primi articolo
che descrivevano gli approcci comportamentisti verso il trattamento
dei comportamenti sessuali aberranti comprendevano soprattutto
relazioni su casi dove per la maggior parte si utilizzava qualche forma
di terapia avversiva. In questa procedura si associava un evento
avversivo
ad
immagini
del
comportamento
da
eliminare
(condizionamento classico) oppure alla sanzione di qualche aspetto
del comportamento aberrante (punizione). Per esempio l’iniezione di
apomorfina (o di qualche altra sostanza che produce nausea) fu
associata alle attività sessuali (o a loro immagini) di omosessuali,
travestiti e feticisti. L’avversione faradica, in cui si associava una
sgradevole scossa elettrica al braccio o alla gamba a immagini o atti
sessuali aberranti, rimpiazzò l’apomorfina in quanto era difficile
prevedere quando si sarebbe verificato l’evento spiacevole (nausea).
Nell’insieme però c’è da sottolineare che la teoria avversiva, in
qualunque forma, non si è dimostrata di particolare efficacia nel
produrre cambiamenti duraturi, inoltre si rafforzava l’opinione che i
terapeuti
comportamentisti
erano
insensibili
ed
eticamente
sprovveduti.
Tuttavia, la terapia del comportamento, o almeno la sua forma
evoluta, cioè la terapia cognitivo-comportamentale, oggi rappresenta
un approccio sofisticato, eticamente consapevole, in grado di
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racchiudere tutte le caratteristiche ritenute necessarie di una buona
terapia (cordialità, sostegno, assenza di pregiudizi).
La
prevenzione
della
ricaduta
costituisce
la
struttura
e
la
motivazione per tutte le componenti del trattamento, coinvolge le
specifiche componenti che identificano i fattori di rischio al fine di
sviluppare strategie per evitare o affrontare rischi futuri. Esiste però
un problema. Poiché le valutazioni degli esiti del trattamento devono
attendere che aggressori trattati per un periodo sufficiente siano
rilasciati per un periodo abbastanza lungo (4 anni), non sorprende
forse che alla fine degli anni Ottanta si fossero conclusi pochi studi di
recidiva.
In una teoria interessante sul condizionamento proposta da
Marshall e Laws (1990) va ad accentuare il ruolo dell’apprendimento
sociale del comportamento deviante. I dati della ricerca dimostrano
che esperienze reali e ripetute di attività sessuali perverse hanno più
probabilità di fornire le basi
di condizionamento per lo sviluppo di
forme devianti di sessualità. In un’altra ricerca Marshall et all. (1993)
hanno descritto nei particolari, per quanto attiene allo sviluppo del
comportamento
sessuale
deviante,
l’importanza
dei
legami
di
attaccamento tra il bambino e i suoi genitori. Legami saldi di
attaccamento sono caratterizzati dalla presenza di un genitore
sensibile (Ainsworth, Blehar,Waters e Wall, 1978). Quando un
bambino non si sente sicuro con i suoi genitori, non ha l’opportunità
di utilizzare tali relazioni per acquisire fiducia in sé stesso, né di
sperimentare nella pratica le abilità necessarie per successive
interazioni con i suoi pari, in particolare le relazioni interpersonali che
consentono un’efficace gratificazione dei bisogni legati alla sessualità
e all’intimità. Infatti, un attaccamento fragile tra genitori e figlio
induce il bambino a sviluppare atteggiamenti timorosi o evitanti nei
confronti della vicinanza con un’altra persona (Lamb, Gaensbauer,
94
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Malkin e Shultz, 1985). I bambini insicuri sono capricciosi, ostili,
dipendenti, mancano di calore umano, hanno una bassa autostima e
dal punto di vista sociale, mostrano disagio o mancanza di abilità
(Grossman e Grossman, 1990). Queste caratteristiche tendono a
persistere nell’adolescenza e nell’età adulta e sono quelle che
rendono una persona incline a divenire un aggressore sessuale. È
stato riscontrato che i bambini che crescono in queste famiglie infelici
sono ad alto rischio di subire abusi (Finkelhor, Hotaling, Lewis e
Smith, 1990) perché sono vulnerabili nei confronti delle attenzioni e
dei premi offerti da un adulto abusante e perché i genitori esercitano
una scarsa vigilanza su di loro. Risulta che gli aggressori sessuali
hanno subito abusi da bambini, dal punto di vista sia fisico (Rada,
1978), sia sessuale (Dhawan e Marshall, 1996) più spesso di soggetti
non aggressori, inoltre la presenza di tali abusi durante l’infanzia è
predittiva di un comportamento generale di tipo antisociale (Loeber,
1990) e gli aggressori sessuali hanno spesso anche precedenti di
reati a sfondo non sessuale.
Secondo Bowlby e altri (Main, Kaplan e Cassidy, 1985), le
esperienze
relazionali
dell’infanzia
forniscono
le
basi
per
il
consolidarsi di uno schema interpersonale che impronta le relazioni in
generale. Il contenuto, la natura e gli esiti delle relazioni infantili
determinano non soltanto i desideri del bambino, le preoccupazioni,
l’intimità, ma anche il modo in cui questa è ricercata. Quando un
bambino vulnerabile viene abusato sessualmente da un adulto, in
particolare nel contesto di una relazione altrimenti gratificante,questa
esperienza può fornire al bambino inesperto un’impronta che lo
induce a cercare l’intimità, una volta divenuto adulto, attraverso una
relazione sessuale deviante.
Risulta essenziale che il lavoro con gli aggressori sessuali si
collochi all’interno di un’impostazione teorica di base che possa
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essere arricchita di informazioni mano a mano che si accumulano
evidenze provenienti da ricerche e interventi clinici. Nella misura in
cui comprendiamo l’eziologia e il mantenimento dei comportamenti
sessuali
violenti,
verremo
a
capire
come
evolve
il
normale
comportamento nell’arco della vita di ogni persona. Se siamo aperti a
questo concetto, ogni terapia che portiamo avanti con gli aggressori
sessuali può insegnarci molto su noi stessi, sulla nostra storia e sul
suo significato e, più di tutto, sulla nostra capacità di tolleranza verso
le persone, pur non accettando necessariamente alcuni aspetti del
loro comportamento.
4.5
Il colloquio psicologico come strumento di aiuto
Lo psicologo professionista ad indirizzo di psicologia clinica e di
comunità
è
colui
che
attraverso
l'uso
di
specifiche
tecniche,
metodologie e strumenti propri della sua professione (quella di
psicologo) permette ad una persona, una coppia, una famiglia, un
gruppo, un organismo sociale, una comunità di risolvere specifici
problemi come disturbi psichici, problemi e disagi psicologici e psicosociali, problemi relazionali ed affettivi, sintomatologie, problemi
organizzativi, ecc.
Per poter aiutare nella risoluzione di tali problematiche, lo
psicologo deve trattare il paziente (o il cliente) con alcuni strumenti
clinici.
Lo
strumento
preferenziale
dello
psicologo
è
il
colloquio
psicologico. Il colloquio psicologico si differenzia dal colloquio
psicoterapeutico o dal colloquio psichiatrico poiché è esclusivo della
professione di psicologo (soltanto gli psicologi possono elargirlo come
prestazione clinico- sanitaria). Dalla nostra esperienza clinica risulta
96
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che il colloquio psicologico è uno degli strumenti più efficaci per il
trattamento e la cura della maggior parte di pazienti con diagnosi di
disturbi mentali o problemi psicologici o psico-sociali e che, quale
metodo di intervento, potrebbe iniziare ad essere considerato tra i
più brevi con la maggiore efficacia a lungo termine.
Il colloquio psicologico è quindi un metodo di trattamento e di
cura della persona. Lo psicologo infatti utilizza il colloquio psicologico
permettendo una ristrutturazione delle rappresentazioni del paziente
ed attivando di conseguenza profondi processi di cambiamento nei
suoi modi di percepire quindi di agire ripristinando il normale
funzionamento dell'organismo all'interno del proprio contesto di vita.
Questo ovviamente non avviene per tutti nello stesso modo o negli
stessi tempi (statisticamente comunque molto brevi) poiché ogni
intervento è strettamente personalizzato. Lo psicologo valuta i
processi di organizzazione di una specifica persona e costruisce il
colloquio psicologico sulla base di tali informazioni.
Possiamo oggi iniziare ad affermare che il colloquio psicologico è
tra gli strumenti psicologici più efficaci per la risoluzione della
maggior parte di quei disturbi e problematiche un tempo considerate
psichiatriche.
Il paziente oggi può quindi avvalersi di strumenti clinico- sanitari
in setting di primo livello senza dover per forza iniziare percorsi di
trattamento psicoterapeutico lunghi ed onerosi per poter tentare di
risolvere situazioni di profondo disagio. I tempi del trattamento,
grazie
al
colloquio
psicologico,
sono
adesso
molto
ridotti.
Il colloquio psicologico quando ha effetto di cura funziona in
genere rapidamente, ovvero possiamo verificare subito (4-5 sedute)
se sta iniziando a produrre benefici. Lo psicologo che utilizza questi
metodi psicologici di intervento indicherà già nei primissimi incontri di
valutazione (2-3 sedute) i tempi massimi entro i quali raggiungere gli
97
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obiettivi concordati ed i tempi per ogni sotto-obiettivo. Lo psicologo,
quindi, non si accanisce a livello terapeutico e, qualora l'intervento
non produca gli effetti desiderati e concordati entro i tempi previsti
interromperà il trattamento consigliando, se richiesto, un metodo
alternativo ed un altro professionista. Il colloquio psicologico quindi,
per tempi brevi in cui è in grado di produrre cambiamenti radicali
rispetto al problema che viene presentato dal paziente e per la sua
efficacia a lungo termine, oggi, anche in contesti clinici privati, è
accessibile alla maggior parte delle persone.
4.5.1 I fattori che influiscono sul colloquio
Il colloquio, specie quello psichiatrico, è un atto medico completo,
che presuppone un rapporto interpersonale con finalità diagnostiche
e/o terapeutiche, possono esserci vari fattori che possono influenzare
la buona riuscita di questo come:

Le condizioni in cui si svolge la visita.

L’atteggiamento dell’intervistato e la sua personalità.

L’atteggiamento dell’intervistatore.
Alcuni fattori come l’ambiente, possono influenzare positivamente
o negativamente lo svolgersi della visita, infatti se questa ha finalità
diagnostico- terapeutiche potrà avvenire in ospedale o al servizio di
igiene mentale, questa a volte è preceduta da una lunga attesa che
fa aumentare l’ansia e l’aggressività, oppure può essere lo studio
medico o il domicilio dell’esaminando.
Se invece la visita ha finalità medico-legali l’ambiente potrà essere
o la casa circondariale o l’istituto ospedaliero o lo studio medico,
98
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considerando quindi le difficoltà che si possono trovare nelle prime
due istituzioni.
La richiesta della visita può essere effettuata dal paziente stesso,
e di solito in questo caso il paziente tende a collaborare, da una terza
persona, di solito un familiare oppure dalla società, quando ad
esempio bisogna valutare la pericolosità per sé o per gli altri del
paziente.
Il fine della prima visita è quello di stabilire una buona relazione e
di raccogliere informazioni sufficienti. Cercare che il primo colloquio
sia senza familiari è una buona cosa in modo da poter ascoltare solo
il soggetto senza l’interferenza di terzi. Prendere anche appunti su
quello che dice è molto importante in quanto anche l’operatore può
orientarsi anche a distanza di tempo dalla visita stessa e ricordare i
punti principali, per questo però dovremmo avere il consenso del
paziente o nel caso in cui il prendere appunti crei ansia allo stesso
dovremmo cercare di stendere una relazione il più dettagliato
possibile alla fine della visita.
Un
altro
fattore
molto
importante
è
l’atteggiamento
dell’intervistato nei confronti del medico e nei confronti del colloquio
che può influenzare lo stesso. Il criminologo deve essere consapevole
del fatto che l’intervistato, data la peculiare situazione in cui si svolge
il colloquio, può mostrare un atteggiamento, un modo di porsi e
mettere in atto delle strategie comunicative e relazionali, che
potrebbero condizionare l’andamento del colloquio se non fossero
riconosciute e gestite dall’intervistatore.
Nivoli
77
ha descritto una serie di atteggiamenti che il detenuto
sottoposto a colloquio criminologo può assumere:
77
Nivoli G. C., Il colloquio criminologico, Manuale del colloquio e dell’intervista, Mondadori, Milano,
1980.
99
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Ø Lo “sfruttamento”: il reo tenta di manipolare la situazione e il
ruolo del criminologo per ottenere benefici immediati. Quando
verifica che non gli riesce, può mostrare disinteresse od ostilità
verso l’esperto.
Ø
La
“rivendicazione”:
il
reo
riversa
sull’intervistatore
le
lamentele, i disagi e le proteste legate alla sua condizione, senza
tener conto delle esigenze del colloquio e del ruolo del criminologo
in quella circostanza
Ø
L’“intimidazione”:
il
reo
si
pone
in
contrapposizione
all’intervistato e considera la collaborazione al colloquio come un
compromesso inaccettabile.
Ø
Il “ruolo accomodante”: al contrario il soggetto in questi caso
si dimostra disponibile e zelante, ma solo ad un livello apparente e
strumentale
Ø
La “dispersione”, atteggiamento in cui il soggetto utilizza
l’estrema loquacità per eludere temi più coinvolgenti
Ø
L’“indifferenza”: viene ostentato distacco e disinteresse per il
colloquio
(atteggiamento
soprattutto
presente
in
soggetti
appartenenti ad organizzazioni criminali)
Ø
che
La “catarsi”, al contrario è l’atteggiamento di quel detenuto
si
lascia
andare
ad
una
partecipazione
eccessiva,
particolarmente emotiva, al colloquio e alla trattazione delle proprie
vicende e sentimenti personali
Ø
L’“identificazione all’ideale di sé”: l’intervistato in pratica
non racconta di sé come è realmente ma di come vorrebbe essere
idealmente.
Ø
L’“inversione di ruolo”: il soggetto cerca di ottenere il
controllo sul colloquio assumendo il ruolo dell’intervistatore (sceglie
i temi da affrontare, fa domande sul criminologo, ecc.)
100
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Ø
La “drammatizzazione”: il soggetto tende ad assumere
atteggiamenti da vittima, amplificando in modo eccessivo i propri
problemi per ottenere maggiore attenzione e indulgenza
Ø
La “seduzione”: è il tentativo di controllare e manipolare
l’esperto attraverso atteggiamenti compiacenti, miranti ad attrarre il
suo interesse al di là dello scopo precipuo del colloquio
Ø La “provocazione dialettica”: il soggetto si pone in una
situazione
di
competizione
con
l’intervistatore,
attraverso
il
sarcasmo o la critica, la messa alla prova della sua competenza,
ecc.
Ø
Il “patteggiamento”: in questo caso il soggetto si mostra
collaborativo per fini utilitaristici, ritenendo che ciò che offre
all’esperto gli permetterà di richiedere qualcosa come contropartita.
Si possono trovare, inoltre, soggetti che hanno un diverso modo di
esprimersi e di parlare ossia:

Soggetto che parla e dice; è il caso più facile in quanto parla
spontaneamente senza inibizione o ansia.

Soggetto che non parla; bisogna capire se non vuole parlare
o se non parla per timidezza per inibizione o ansia, questa
infatti
bisogna
cercare
che
rimanga
sotto
certi
livelli
altrimenti può diventare un grosso ostacolo.

Soggetto che parla e non dice; è il caso più difficile, bisogna
cercare di conquistare la fiducia del soggetto in modo da
non farlo parlare con frasi fatte, banalità, contraddizioni.
I casi più difficili sono infatti spesso quelli che parlano troppo in
quanto descrivono sempre la stessa idea più volte senza però
apportare nulla di nuovo. La loro logorrea è spesso sintomo di una
loro ansietà che ritroviamo poi in tutto il colloquio. Parlare così molte
101
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volte serve per ritardare i tempi del racconto di cose più importanti o
più dolorose.
Sempre in relazione all’atteggiamento dell’intervistato possiamo
notare l’utilizzo di meccanismi di difesa da parte di quest’ultimo che
possono essere inconsci o preconsci oppure delle misure di sicurezza
caratteriali.
I meccanismi di difesa sono molti, alcuni sono ad esempio
l’introiezione, proiezione, identificazione, fissazione, regressione,
negazione, intellettualizzazione e molti altri.
Per le misure di sicurezza caratteriali, spesso istintuali ma molto
spesso del tutto razionali, troviamo: il silenzio o indifferenza, la
ribellione, la colpevolizzazione, il patteggiamento, la rivendicazione,
la seduzione e molti altri.
Durante un colloquio molto importante risulta
l’atteggiamento
dell’intervistatore
che
non
deve
essere anche
essere
troppo
autoritario, altrimenti potrebbe determinare facilmente nel soggetto
l’insorgere di difese, come quelle appena citate, ma che, comunque,
si è visto essere utile nella raccolta anamnestica, momento in cui il
soggetto deve rispondere a delle domande poste dall’intervistato.
Il colloquio dipende molto dall’intervistatore che quindi deve
essere molto intelligente, non essere troppo giovane, in quanto
rischierebbe di non essere preso sul serio, un buon adattamento
sociale, introverso ed interessato ai problemi degli altri, cordiale,
sensibile ed avere un buon spirito critico.
Il metodo non direttivo è centrato sul cliente, l’intervistatore
interviene soltanto per ristrutturare, chiarire ed oggettivare la
situazione ed è ciò che si preferisce nella pratica clinica, dove si cerca
di evitare ogni forma di interrogatorio e di impostazione autoritaria.
102
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I punti fondamentali dell’atmosfera terapeutica sono che il
terapeuta deve essere realmente sé stesso durante il rapporto con il
suo cliente, genuino ed avere un autentico interesse per il soggetto.
Gli errori che si tendono a fare sono vari:

La tendenza a sopravvalutare.

L’atteggiamento
di
neutralità,
l’incapacità
di
prendere
decisioni positive o negative nette.

L’effetto alone (ossia la tendenza a giudicare una qualità
sulla base di giudizi che si hanno per altre qualità).

Proiezione.

Indulgenza.

Pregiudizio contagioso.
Quindi bisogna cercare di creare un’atmosfera di sicurezza per
ottenere la massima collaborazione da arte del paziente, in questo
modo si sentirà più libero di rivelarsi maggiormente e lo psicologo si
sentirà più libero di porre domande.
Alla fine di un colloquio è buona prassi chiedere sempre al
paziente se ha altro da aggiungere o se ha domande da fare, in modo
da non lasciarlo andare via con dubbi o domande a cui potrebbe
pensare fino all’incontro successivo.
4.6
Il colloquio criminologico
Il “colloquio” rappresenta lo strumento di intervento principale del
criminologo impegnato professionalmente nel contesto penitenziario
e, più in generale, il momento in cui maggiormente si concretizza
l’applicazione del sapere criminologico nell’ambito del sistema della
giustizia penale.
103
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In questo settore, infatti, il criminologo può essere chiamato ad
operare professionalmente, secondo la normativa attuale, in tre
distinti momenti78:
a. Prima della sentenza, in fase processuale: in questa fase
l’intervento professionale del criminologo è piuttosto limitato; infatti
non sono ritenuti ammissibili accertamenti peritali su soggetti
sottoposti
a
giudizio
al
fine
di
conoscere
“l’abitualità
e
la
professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere o la
personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti
da cause patologiche” (art 220 c.p.p.) poiché la valutazione della
personalità dell’imputato rimane competenza esclusiva del giudice.
D’altra parte è previsto (art.223 c.p.p.) che vengano ammesse, sotto
forma di “pareri delle parti”, perizie sulla personalità dell’imputato
effettuate da consulenti tecnici (tra i quali il criminologo) che il
Pubblico Ministero o le parti private hanno la facoltà di nominare
b. In fase di esecuzione della pena: il criminologo, in qualità di
“esperto”, ha il compito di effettuare “l’osservazione scientifica della
personalità del condannato”, così come previsto dall’ordinamento
penitenziario, attività considerata fondamentale per formulare il
programma
di
trattamento
individualizzato,
intra-murario
ed
extramurario.
c. Durante la detenzione: il criminologo offre una serie di
interventi trattamentali risocializzativi al condannato qualora questi
ne avverta la necessità e ne faccia richiesta (colloqui di sostegno, di
aiuto psicologico,group counseling, ecc).
In pratica l’attività del criminologo clinico consiste, secondo
79
Merzagora , in:
78
79
Ponti G. , “Compendio di criminologia”, Cortina Editore, Milano, 1990, pag:458,459.
Merzagora I. , “Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano, 1987, pag 18.
104
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a.
attività di osservazione, valutazione e prognosi, su mandato
dell’autorità carceraria o giudiziaria (ruolo tecnico istituzionale);
b.
interventi sul reo, in seguito a sua richiesta, per soddisfare
bisogni
di
aiuto
psicologico,
di
chiarificazione
interiore,
di
programmazione o di revisione dei progetti di vita, di consiglio ed
anche per effettuare attività programmate nell’ambito dell’istituzione
carceraria per finalità educative collettive, discussioni o dibattiti
(ruolo terapeutico o trattamentale).
In tutti i casi descritti, il colloquio rappresenta lo strumento
principale di lavoro del criminologo. Per lo specifico contesto in cui
viene realizzato e per il peculiare “mandato” che lo giustifica, il
colloquio criminologico si caratterizza in maniera particolare rispetto
ad altre forme di colloquio (clinico-diagnostico, terapeutico, di
orientamento, ecc.).
Definizione ed obiettivi del colloquio criminologico
Un colloquio, inteso in termini generici come “una conversazione
importante, che mira ad uno scopo determinato, oltre che al semplice
piacere della conversazione”80, può essere definito in base a:
1. il contesto in cui si verifica;
2. gli obiettivi che lo guidano;
3. le caratteristiche delle persone che vi partecipano.
Seguendo questi criteri possiamo definire il colloquio criminologico
come “una tecnica di comunicazione, che si svolge in una situazione
istituzionale, che ha come antecedente il fatto che l’intervistato abbia
commesso un reato, e che ha come scopo quello di fornire, ad altri
che hanno su di lui autorità, informazioni sulla sua personalità in
80
Bingham e Moore, cit. in Merzagora, I., “Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano,1987, pag 27.
105
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relazione alla genesi e alla dinamica del reato, alle indicazioni per il
suo trattamento, ed alla previsione del comportamento futuro.”81
Più precisamente con questa definizione ci riferiamo al colloquio
che il criminologo svolge più nella sua veste tecnica–istituzionale che
in quella più specificamente terapeutica trattamentale. Osserviamo
come
il
contesto
istituzionale,
giuridico
e
ancor
più
quello
penitenziario, connotano di specificità il colloquio criminologico,
stabilendone la natura e gli obiettivi. In primo luogo definisce i
partecipanti, in particolar modo l’intervistato che è un soggetto che
ha commesso un reato e che si trova in una condizione di restrizione
e limitazione della libertà personale. In questo senso differisce dal
cliente
o
paziente
volontariamente
comunemente
all’esperto
per
inteso
chiarirsi
e/o
che
si
rivolge
modificare
una
condizione di vita vissuta come problematica; nel caso del detenuto,
non è il soggetto a richiedere il colloquio del criminologo (ad
eccezione dei casi in cui il condannato richieda un intervento
terapeutico o di sostegno) ma questo avviene su formale richiesta
dell’autorità giudiziaria o penitenziaria; il contesto quindi determina
l’accesso al colloquio da parte dell’intervistato, prescindendo dalla
sua volontarietà, spontaneità e motivazione che rappresentano il
presupposto per molte altre forme di colloquio. Inoltre il colloquio
criminologico non implicando una “domanda” da parte di chi vi si
sottopone, non presuppone nemmeno che questi si trovi in una
condizione di disagio o di sofferenza da cui voglia liberarsi, come ad
esempio più comunemente avviene per un “paziente” in un colloquio
clinico. Appare evidente quindi che la natura istituzionale del
mandato determina anche gli obiettivi del colloquio criminologico che
non presenta finalità terapeutiche ma valutative. Secondo quanto
previsto dall’ordinamento penitenziario del ’75, infatti, il colloquio
81
Merzagora I., 1987, Op. cit, pag 28.
106
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(per il cui svolgimento l’art.80 prevede l’utilizzo di esperti tra i quali il
criminologo clinico) di fatto viene utilizzato per l’osservazione
scientifica della personalità dei condannati ed internati, al fine di
formulare le indicazioni in merito al trattamento rieducativo (art. 13,
comma 2, o.p.).
Il criminologo, attraverso lo strumento del colloquio, è tenuto a
fornire
al
proprio
committente
un
profilo
di
personalità,
del
condannato e dell’internato, in una prospettiva non tanto o solo
psicologica ma, più specificamente, criminologica. Infatti dovrà
essere dato rilievo all’analisi ai seguenti aspetti:
1. la “criminogenesi” (cioè dovranno essere indagati gli
aspetti individuali e sociali che hanno contribuito alla scelta
delittuosa);
2. la “criminodinamica” (i meccanismi interiori che hanno
condotto all’azione delittuosa);
3. la “pericolosità sociale” (previsione del comportamento
futuro in termini di probabilità di recidiva).
La
finalità
prettamente
valutativa
del
colloquio
e
il
tipo
di
committenza (i giudici e l’amministrazione penitenziaria) sono aspetti
che ovviamente incidono sull’atteggiamento sia dell’esperto che del
soggetto che vi si sottopone; l’esito dell’osservazione infatti, come
abbiamo visto, contribuirà a stabilire le decisioni della magistratura di
sorveglianza e in definitiva la condizione penitenziaria del detenuto.
L’intervento del criminologo è motivato, accanto all’interesse per il
soggetto esaminato, fondamentalmente da un’esigenza di difesa
sociale che non va sottovalutata quando si considerino il tipo di
relazione che può instaurarsi tra i due e la tecnica del colloquio
realizzabile. Il criminologo, soprattutto, deve essere consapevole
107
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della natura e delle implicazioni del proprio mandato, in relazione sia
al proprio atteggiamento che a quello del proprio intervistato.
4.7
I test psicologici
I test hanno costituito storicamente il campo privilegiato di lavoro
dello psicologo clinico. Fin dalla grande stagione della testistica, nei
primi anni del Novecento, lo psicologo ha trovato nei test - detti
anche reattivi mentali - la possibilità di sperimentare strumenti in
grado di analizzare aspetti particolari (test parziali) o caratteristiche
generali della personalità (test globali).
In campo clinico un test può essere somministrato a un paziente
quando il suo impiego è considerato utile per dare informazioni sulle
reali condizioni mentali o per il trattamento terapeutico.
Sulla decisione di effettuare il testing, oppure no, influisce la
quantità di dati che lo psicologo è riuscito ad ottenere durante i
colloqui. In ogni caso il ricorso al reattivo non deve mai essere
considerato una prassi routinaria per varie ragioni: in primo luogo
per il dispendio di energie che la somministrazione, la valutazione e
l’interpretazione richiede, e secondariamente per non far rientrare
questa
delicata
parte
del
lavoro
in
un
momento
inutile
di
"accanimento" diagnostico che non conduce ad informazioni nuove e
veramente importanti. In genere è necessario avere presente un
quadro di riferimento concettuale valido per orientare la pratica
psicodiagnostica.
Nell’ambito
clinico
gli
psicologi
utilizzano
prevalentemente test globali, in grado di offrire una ricostruzione
analitica ben articolata della personalità dell’utente.
I test di personalità hanno una notevole importanza per rilevare
problemi di natura nevrotica, ma sono altrettanto utili per esaminare
108
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soggetti con problematiche psicologiche più gravi, come border-line o
psicotici. È possibile evidenziare le attitudini del soggetto a sostenere
una psicoterapia e consigliare la scelta di progetti terapeutici a
orientamento analitica, oppure no.
I test possono essere in generale suddivisi in due grandi
categorie: questionari o inventari standardizzati e strutturati e
tecniche proiettive, ma non per questo meno fedeli e attendibili, pur
nel rispetto della individualità, che è caratteristica delle prove a
sfondo "umanistico". Le tecniche proiettive costituiscono lo strumento
principale per lo studio della struttura, dei meccanismi e della
dinamica della personalità.
Una batteria di reattivi in grado di fornire un buon quadro di
riferimento psicodiagnostico è composta sia da prove proiettive, sia
da altri test. Ora illustreremo le caratteristiche di un pacchetto
completo di reattivi.
La Scala Wechsler per la valutazione dell’intelligenza negli adulti
(WAIS)
La scala WAIS è stata elaborata da Wechsler e strutturata per
misurare le capacità intellettive per gli adulti. Lo stesso Wechsler ha
messo a punto altre due scale per la misurazione dell’intelligenza:
una valida per bambini dai quattro ai sei anni e mezzo (WPPSI) e
l’altra invece per ragazzi dai sette ai sedici anni (WISC). I test di
Wechsler hanno la stessa struttura di fondo: si suddividono in subscale in grado di valutare un vasto campo di funzioni e abilità
intellettive. La WAIS raccoglie sei test verbali, che globalmente
consentono di fornire un QI verbale (quoziente intellettivo espresso
mediante il linguaggio) e cinque test non verbali che attestano le
abilità di performance, definendo un QI di performance. Da tutti e
undici i sub-test deriva una valutazione globale del QI della persona.
109
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La Wechsler calcola il QI facendo riferimento alla media dei
punteggi parziali che sono stati ottenuti testando gruppi di soggetti
della stessa età. Si tratta di un deciso passo vanti rispetto al calcolo
classico del quoziente d’intelligenza negli adulti, che era ottenuto
mediante l’operazione:
età Mentale / età Cronologica x 100
In questo caso infatti la qualità della misurazione è molto più alta,
poiché
si
tiene
in
considerazione
un
campione
mediano
di
popolazione e quindi uno standard molto più adeguato. La scala
verbale è composta da un test di cultura generale, in cui vi sono
domande su vari aspetti della vita che dovrebbero essere noti a
qualsiasi persona adulta. Troviamo poi un test di comprensione, i cui
occorre spiegare il significato di certe situazioni pratiche. Serve a
misurare il grado di accettazione dei fini sociali e della comprensione
del vivere in comunità. Il test di aritmetica propone al soggetto la
soluzione di problemi a livello di scuola media. Nel test di analogia
invece l’abilità richiesta è quella di confrontare stimoli e di valutare in
che può essere considerata la loro similitudine. È quindi una prova
sulla formazione dei concetti. Ci sono poi altre due prove: una sulla
serie delle cifre, legata alla misurazione della memoria a breve
termine, e il test lessicale che consiste nella richiesta di definire
alcune parole di crescente difficoltà. La scala non verbale comprende,
come abbiamo già riferito cinque test: il primo è cifre e simboli. Si
tratta di un lavoro che richiede di operare in modo coerente per
cercare di ottenere il meglio riempiendo il maggior numero di caselle
contrassegnate da coppie di simboli e numeri. Nel completamento di
figure il soggetto deve invece analizzare una serie di figure e indicare
la parte che manca. Il disegno con i cubi richiede di riprodurre un
disegno, stampato a parte su un cartone, utilizzando una serie di
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cubi per bambini. Seguono poi la sistemazione di figure, in cui il
soggetto deve indicare la sequenza di storie disegnate su cartoncini e
la ricomposizione di oggetti, dove invece occorre mettere insieme le
parti di una immagine scomposta.
Attraverso la scala è possibile, naturalmente, avere informazioni
sulla qualità dell’intelligenza, oltre che sulla quantità, mediante una
buona valutazione globale delle sub-scale e l’integrazione dei dati.
Nonostante non siano mancati rilievi critici sui profili ottenuti dalla
WAIS, lo strumento mantiene una sua validità ed è utilizzato
variamente, specie combinato con altri test, sia questionari di
personalità, come l’MMPI, sia con test proiettivi.
Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI)
Il Minnesota Multiphasic Personality Inventory, conosciuto con la
sigla MMPI, è uno strumento diagnostico ampiamente utilizzato in
campo psichiatrico. Viene elaborato fra gli anni ‘40 e gli anni ‘50 da
Hathaway e McKinley, e consiste in una serie di affermazioni, rispetto
alle quali il soggetto deve rispondere scegliendo fra "vero" e "falso".
Dopo un periodo di sperimentazione in cui si sono provate
parecchie di queste affermazioni al fine di predisporle in un pacchetto
significativo dal punto di vista diagnostico, si è giunti alla forma
attuale, che presenta 550 items.
Items del tipo:
- Ho paura di impazzire.
- A volte ho l’impressione di essere un buono a nulla e di non riuscire
nelle mie cose.
- Penso che la gente stia volentieri con me.
111
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Il test rende possibile la realizzazione di dieci scale cliniche
realizzate mediante un grosso lavoro di sperimentazione sul campo.
Le dieci scale del MMPI prendono in considerazione:
Hs – Hipocondria.
D – Depressione.
Hy – Isteria.
Pd - Deviazione Psicopatica.
Mf - Mascolinità-Femminilità.
Pa – Paranoia.
Pt – Psicastenia.
Sc – Schizofrenia.
Ma – Ipomania.
Si - Introversione sociale.
Il merito principale del test consiste nel tentativo di descrivere i
tratti di personalità e le deviazioni patologiche in modo "oggettivo",
facendo ricorso a un confronto fra fattori senza però che lo psicologo
intervenga mediante "proprie" osservazioni, che potrebbero essere
arbitrarie, o comunque non sempre valutabili in termini generali,
superindividuali. È stato rilevato tuttavia che i test come il MMPI
presentino alcune difficoltà e siano ancora abbastanza distanti dalla
pretesa di "obiettività assoluta" che vorrebbero possedere. "È stato
riscontrato che molte persone tendono a rispondere alle domande del
test su basi diverse dal contenuto specifico della domanda. Per
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esempio, supponiamo che l’affermazione sia: "Io intervengo a un
party almeno una volta alla settimana". Se l’individuo risponde "sì" o
"vero", possiamo concludere senza riserve che egli realmente
partecipa spesso a riunioni con molta gente? Le ricerche compiute
inducono a pensare che risposte del genere non si possono accettare
come necessariamente vere, poiché possono essere determinate da
una certa interpretazione del test da parte del paziente o dall’assetto
del questionario. In questo caso il soggetto può avere un apparato di
risposta di desiderabilità sociale e ritenendo che partecipare spesso ai
party sia la cosa "giusta" da fare, risponde "sì" su questa base".
Anche il MMPI non è quindi indenne da critiche.
La sua semplicità e l’accordo con le principali categorizzazioni
psichiatriche, nonché la facilità di somministrazione e la comodità
della elaborazione, affidata spesso a un programma informatizzato
che riduce il lavoro da parte del clinico, ha consentito una larga
diffusione del test, anche se attualmente possiamo registrare un
deciso ritorno a prove più complesse, ma più ricche ed affidabili,
come il test di Rorschach.
Il reattivo di Rorschach
Il test di Rorschach appartiene al campo delle prove proiettive e
rappresenta il vertice massimo della diagnosi psicologica. Possiamo
affermare che non possa esistere una psico-diagnosi di rilievo senza
che il Rorschach faccia parte della batteria utilizzata. Il reattivo di
Rorschach è messo a punto dallo psichiatra svizzero Hermann
Rorschach dopo un lavoro di sperimentazione piuttosto consistente,
durato diversi anni. Esso si basa sulla presentazione di dieci tavole
che mostrano figure "ambigue" ottenute facendo "colare" alcune
gocce di inchiostro su un cartone, successivamente ripiegato. Le
macchie che si formano si prestano a numerose interpretazioni
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differenti. La prima Tav. è monocromatica, scura; la seconda e la
terza sono bicolori, rossa e nera; dalla quarta alla settima sono di
nuovo tutte monocromatiche, alcune più scure, altre tendenti al
grigio meno intenso (VII); le ultime tre sono policromatiche, con
colori pastello.
Prima e seconda tavola del Rorschach.
Ogni protocollo raccoglie tutte le interpretazioni che il soggetto
fornisce alle dieci tavole; dopo di ché lo psicologo analizza le risposte
tenendo conto di alcuni fattori: Localizzazione - Determinanti Contenuti – Frequenze.
Sulle tecniche di somministrazione e sulle
modalità di elaborazione delle risposte esiste una certa divergenza,
tollerata dalle società nazionali e da quella internazionale Rorschach,
che tuttavia non può prescindere da alcuni principi irrinunciabili,
senza il cui rispetto non è possibile accordare alla eventuale
psicodiagnosi un benché minimo elemento di validità. Il setting
Rorschach possiede cioè una sua ben precisa definizione all'esterno
della quale non solo il test è mal somministrato, ma i suoi risultati
sono da considerarsi nulli e quindi non validi al fine clinico, come del
resto per qualsiasi altra finalità.
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Il mondo affettivo, la capacità di controllo delle emozioni, i
meccanismi di difesa, rappresentano il nucleo della valutazione della
personalità effettuata mediante il Rorschach. La duttilità dello
strumento consente infatti di ottenere una indagine dinamica in
grado di cogliere le istanze profonde dei processi mentali.
Infine la valutazione è tesa a mettere in luce i rapporti del
soggetto
col
mondo
esterno,
e
quindi
la
sua
facilità
nella
socializzazione, la sua tendenza ad andare incontro agli altri o a
chiudersi a palla su se stesso. Lo stesso Rorschach aveva parlato di
soggetti con un Tipo di vita interiore extratensivo, rivolto all’esterno,
ai contatti sociali, o introversivo, più interessato alle proprio mondo
interiore, portato alla meditazione e alla introspezione.
Il Test di Appercezione Tematica (T.A.T.) di Murray
Il T.A.T. di Murray è una prova proiettiva che si basa sulla
invenzione di storie a partire da una serie di immagini. Nel processo
narrativo, ognuno di noi trasferisce aspetti della propria esperienza di
vita ed esprime anche elementi inconsci. In ultima analisi il T.A.T.
offre una buona base per creare delle immagini simboliche, evocate
da
disegni
dal
contenuto
ambiguo,
volutamente
sfumati
ed
enigmatici. La richiesta dello psicologo consiste nell’inventare una
storia per ciascuna delle immagini proposte. Per Murray "si tratta di
un metodo che permette di rilevare alcune delle particolari emozioni
dominanti,
dei
sentimenti,
dei
complessi
e
dei
conflitti
della
personalità. Un suo particolare valore consiste nel fatto che - come
afferma la psicologa D. Passi Tognazzo, una delle maggiori esperte di
psicodiagnostica del nostro Paese - possono venir esteriorizzate
tendenze rimosse o inibite che il soggetto non è incline a riconoscere
perché sono inconsce". Esistono immagini che vengono utilizzate
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universalmente, altre invece destinate a gruppi di età differenziati
(bambini e ragazzi, o adulti); un’altra diversificazione è legata al
sesso. Osserviamo tavole considerate valide per maschi e femmine e
tavole per soli maschi o sole femmine.
Dalla elaborazione dei contenuti delle storie si giunge a una
diagnosi psicologica molto ricca sul piano qualitativo, interessante
soprattutto per intraprendere un lavoro di tipo analitico. Sul piano
formale, quantitativo, invece il test offre molte meno garanzie di
affidabilità.
Per questo motivo il suo utilizzo in campo clinico è sempre
abbinato ad un’altra prova, spesso il Rorschach.
Prove grafiche
Le prove grafiche rappresentano degli esempi classici del lavoro
dello psicologo clinico. Vengono utilizzate soprattutto nell’indagine
della personalità in età evolutiva. Fra esse ricordiamo il test
dell’albero, ideato da K. Koch, particolarmente indicato per una
conoscenza di soggetti in età evolutiva. Suggerisce infatti utili
indicazioni sulla struttura della personalità, in riferimento all’io e
all’ideale dell’io, nonché sulle difese e sulla rappresentazione del
mondo familiare e sociale.
La somministrazione del test può essere individuale o gruppale e
consiste nella realizzazione di uno o più disegni di alberi.
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Un altro test grafico, spesso usato in una batteria clinica, è il test
della figura umana, di F. L. Goodenough e D. B. Harris. È utile per
conoscere elementi di personalità e modalità cognitive in età
evolutiva. Il suo impiego è valido sia per valorizzare le potenzialità
del soggetto, sia anche per mettere in luce le eventuali carenze che
manifesta, specie a livello affettivo.
La richiesta è quella di disegnare una figura di uomo, una di
donna e poi, infine, il ritratto di se stessi.
4.7.1
La
personalità
dell’abusante
attraverso
i
test
proiettivi
Molto spesso coloro che lavorano con pazienti abusanti hanno la
tendenza, come spesso troviamo anche nei media, di trovare
corrispondenze
molto
facili
tra
atti
delinquenziali
e
tipologie
psicopatologiche. Questa corrispondenza, così semplicistica però non
è possibile. Una ricerca fatta in Francia ha avuto un duplice obiettivo:
il primo, la valutazione del funzionamento psichico degli autori di
abusi sessuali e il secondo quello di individuare le caratteristiche
psicologiche
questi
considerate come positive per poter immaginare che
soggetti
potessero
trarre
beneficio
da
un
trattamento
psicoterapico individuale. Questo problema è molto importante, in
quanto una delle difficoltà maggiori è il problema della possibilità o
meno di questi soggetti di essere scarcerati e il problema del poter
prevedere la ripetizione degli atti di abuso.
Attraverso i test proiettivi è possibile capire perché c’è il ricorso
all’agito, perché c’è il ricorso alla violenza, perché ci sono dei moti di
tipo distruttivo, perché la sessualità è trattata in maniera particolare,
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ma perché quel soggetto ha scelto quella modalità di agito questo è
un dato che i test proiettivi, allo stato attuale delle cose, non
permettono di evidenziare. Una cosa che alla fine questa ricerca ha
evidenziato è la difficoltà dei test proiettivi di avere una capacità
predittiva. Noi possiamo, una volta che per esempio analizziamo i
protocolli di soggetti che hanno già commesso un atto di abuso,
capire perché lo hanno commesso, possiamo capire il senso e il posto
che ha avuto questo atto all’interno del funzionamento psichico del
soggetto,però la possibilità di prevedere con quale tipo di agito il
soggetto passerà all’atto è ancora molto incerta.
Nei casi di funzionamento al limite ritroviamo sia la scissione
dell’io che il diniego, due meccanismi di difesa che appartengono
anche all’organizzazione perversa. La scissione dell’io permette all’Io
di essere diviso in due compartimenti stagni, in una il principio di
realtà rimane inalterato, riconosciuto e rispettato, nell’altro c’è la
possibilità di mantenere vive le fantasie, i desideri e fantasmi che
non riconoscono limiti che l’altra parte dell’Io invece riconosce.
Una caratteristica delle personalità perverse è che si ritrova
sempre
un
feticcio
e
condotte
sia
psichiche
che
reali
volte
all’organizzazione di scenari feticisti all’interno dei quali un oggetto
viene iper-investito e acquista una forza erogena significativa,
importante e specifica. Se si volesse sostenere che i soggetti
abusanti rientrino nelle categorie delle organizzazioni perverse
dovremmo immaginare che l’atto di violenza sia equivalente del
feticcio o di uno scenario di tipo feticistico. In realtà negli abusanti
quello che noi troviamo è un difetto specifico e puntuale dell’attività
fantasmatica e possiamo vedere questo difetto sia nell’ambito dei
racconti che questi soggetti fanno dell’atto commesso, sia a livello
dei test proiettivi che confermano questa carenza specifica.
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Due aspetti specifici del funzionamento degli abusanti che sono
emersi dalla ricerca (Chabert C.) sono:
1. le caratteristiche specifiche del diniego. Si tratta di un
diniego
volto
depressione,
in
modo
di
una
rappresentazione
della
molto
difesa
importante
maggiore
depressione
contro
rispetto
rispetto
agli
la
alla
effetti
depressivi. Il soggetto che commette l’abuso, la violenza si
identifica in maniera fusionale indiscriminata con il soggetto
che sta abusando, ma con un aspetto particolare: con lo
sguardo dell’altro. È un’identificazione fusionale. Questo
elemento appena descritto ha a che fare cin una qualità
molto negativa della relazione che questi soggetti hanno
dell’imago materna. Nelle organizzazioni perverse troviamo
degli investimenti narcisistici molto importanti, che hanno
anch’essi, come l’eccitazione sessuale, un forte valore
antidepressivo. I soggetti abusanti sono carenti dal punto di
vista degli investimenti narcisistici.
2. l’organizzazione psicosessuale e le caratteristiche dell’Edipo.
Tutti i soggetti attraversano l’Edipo, ma non tutti vengono
strutturati. Questi tipi di personalità (perversa, abusante,
narcisistica…) hanno attraversato l’Edipo ma non ne sono
state strutturate: non sono abitate al loro interno dalla
dinamica tra desideri e difese, sembrano, in modo più
specifico, non poter riconoscere la triangolazione.
Nell’organizzazione perversa della personalità il divieto,il tabù
dell’incesto e la castrazione portano alla costruzione di una fantasia e
cioè quella che il figlio maschio sia l’oggetto sessuale della madre.
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Questo tipo di costruzione non avviene nei soggetti abusanti a causa
delle loro fragilità narcisistiche. Quello che appare frequentemente in
questi soggetti è la grande importanza della relazione con la madre,
una relazione marcata dall’abbandono, dalla perdita, dal disagio,
dalla sofferenza e questo sembra essere il perno centrale attorno al
quale ruota l’organizzazione della personalità e l’insieme della
problematica.
Quindi, mentre nell’organizzazione perversa della personalità
esiste una lotta possibile agli affetti depressivi nella relazione con la
figura materna attraverso l’eccitazione sessuale o l’iperinvestimento
della rappresentazione di sé, in questi soggetti non è possibile:
sessualità e perdita dell’oggetto sono presenti in una sorta di unica
massa indifferenziata.82
82
Convegno Desenzano 2001 a cura della proff.ssa Chabert Catherine.
120
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Il caso del signor G.
Mi è stato proposto, durante il mio tirocinio dal Dottore di
riferimento, di sottoporre il signor R., detenuto presso la casa
circondariale di Montorio (Verona), ad una serie di colloqui di sostegno
e terapeutici.
È nata da qui l’ispirazione per la mia tesi di quest’anno, appunto il
colloquio peritale, ossia l’insieme delle informazioni che psicologi,
psichiatri e i vari operatori cercano di ricavare dal soggetto per poi
tracciarne un profilo che può essere utile sia all’avvocato che al
giudice per modificare o definire la pena.
Dopo aver preso accordi con l’Avvocato di riferimento, ho chiamato
la casa circondariale per decidere il calendario dei vari colloqui che si
svolgeranno con cadenza settimanale per un’ora circa.
Dopodiché ho incontrato il Dottore che mi ha descritto il caso nei
minimi
particolari
sottolineando
sia
l’aspetto
emotivo
che
di
personalità del detenuto.
Primo incontro
Il primo incontro con il signor R. si è svolto all’interno della sala
avvocati, stanza in cui sono permessi i vari colloqui con avvocati e
psicologi. Io e la mia collega abbiamo deciso che il primo incontro
sarebbe servito come presentazione nostra e sua, visto che era la
prima volta che ci incontravamo e per cercare inoltre di stabilire una
buona alleanza e relazione con lo stesso.
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Sapevamo che la richiesta di questa serie di colloqui proveniva
direttamente da lui, in quanto era da un po’ di tempo che si erano
presentati sintomi quali insonnia e coliche dovuti ai suoi sensi di colpa
per quello che aveva commesso.
Abbiamo incominciato cercando di raccogliere qualche informazione
della sua vita quotidiana e delle sue giornate, visto che nel primo
incontro
avevamo
deciso
di
non
incominciare
subito
facendoci
raccontare della sua storia passata.
Il suo atteggiamento è stato fin da subito molto propositivo, infatti
ha incominciato subito a parlare delle sue giornate e di quello che fa
all’interno del carcere, ma appena c’è stata l’occasione ha cercato
subito di incominciare a parlare del passato. Abbiamo però deciso di
rimandare alla volta successiva avvisandolo che non c’era fretta e che
si poteva prendere tutto il tempo che voleva visto anche che, nel
ricordare alcuni suoi affetti, si è commosso più volte.
Ci facciamo raccontare delle visite che avvengono il lunedì in cui
vede il fratello, un’amica e la moglie che, finiti gli arresti domiciliari,
può venirlo a trovare da un mese e mezzo.
Il suo atteggiamento appariva relativamente rilassato, osservando i
movimenti del corpo non è parso particolarmente teso escluso quando
ha avuto i momenti di commozione che ha sudato di più. Le gambe
erano rilassate e non incrociate o accavallate e le braccia erano
aperte, la voce sicura.
Secondo incontro
Dopo un ritardo di mezzora, riusciamo a cominciare il nostro
colloquio con il signor R.. Lo vediamo particolarmente teso oggi, fa
fatica a parlare e continua a muoversi. Chiediamo il motivo di tanta
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tensione e R. ci spiega che è dovuta ad un filmato che stava vedendo
nella sala, una specie di documentario sulle carceri straniere.
Infatti si è sentito molto triste nel vedere le condizioni dei detenuti
nelle carceri e ha tenuto a sottolinearci che se non si sta dentro non si
può capire quanto male si sta.
Dopo un breve periodo però cominciamo con il racconto della sua
storia passata, ci racconta dei mal di testa che non gli danno tregua e
che non lo fa riposare la notte.
Ricorda i genitori come molto freddi, ma dice che erano così anche
con le sorelle, “era uno stile di vita”, ricorda le urla per la morte della
nonna (tipiche usanze siciliane) e della paura che gli è venuta (i
medici sostengono che lo strabismo gli sia venuto per paura!). A
quattro anni lo hanno mandato in colonia anche se lui non voleva.
Ricorda con molta sofferenza questo episodio, a tratti estremamente
lucido e particolareggiato nel ricordo.
E a questo punto si commuove, non riuscendo più a parlare, gli
diamo un rimando della situazione, spiegando che la sofferenza che
sente e che prova è dovuta tutta a ciò che ha passato. R. ha vissuto e
vive costantemente un abbandono da parte dei suoi genitori, si è
sentito rifiutato fin da piccolo e piange al pensiero.
Cerchiamo di calmarlo un po’, concludendo a questo punto
l’incontro visto che il tempo è scaduto e visto la difficoltà nel
proseguire.
Terzo incontro
Oggi si presenta sorridente, è molto più rilassato e disteso
dell’ultima volta. Ci parla subito del processo al quale è sempre stato
presente e di come ritiene troppo pesante la condanna della moglie
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(10 anni che dovranno però essere confermati nell’appello che ci sarà
ad aprile).
Ci racconta poi un po’ di fatti che riguardano la figlia, di come
questa si sia allontanata da tutti i familiari e non voglia vedere più
nessuno. Chiama ogni tanto la madre ma non
hanno un buon
rapporto in quanto la figlia ora chiama solo per le sue richieste. Ha
portato via tutto, case, oggetti di valore, macchine.
Ci racconta anche di un’amica della figlia che sembra avere molto
potere su questa. La figlia infatti viene descritta come molto malleabile
e dipendente e di come quindi si sia fatta trascinare in alcuni consigli e
comportamenti da quest’ultima.
Comincia a piangere e parla di alcuni colloqui fatti con un prete
grazie al quale ha preso consapevolezza dei comportamenti che ha
avuto, è riuscito a capire quello che ha fatto e ora se ne vergogna.
Pensa infatti che la pena se la meriti e che sia giusta.
Prosegue raccontandoci dei suoi pensieri di suicidio e di quando ha
provato ad attuarlo. Ha cercato di bere il detersivo, ma in carcere non
è nocivo apposta per prevenire ciò.
Cerchiamo quindi di avere un rimando positivo, lo facciamo
riflettere su ciò che perderebbe se decidesse di mettere in atto un
gesto del genere, parliamo quindi della moglie che le è sempre
rimasta vicino nonostante tutto.
Lui stesso ammette che l’unica cosa che lo ferma è l’amore per la
moglie. Dopo essersi commosso e visto che il tempo era finito lui
stesso finisce con un argomento positivo, che lo fa sorridere: il
detenuto che lo minacciava è stato trasferito in un altro carcere e,
come riconoscimento per avergli tenuto testa, è andato a salutarlo
prima di partire.
All’interno del carcere vigono regole che sono difficili da capire
dall’esterno: anche solo un saluto può racchiudere tutto il peso e il
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riconoscimento di un piccolo uomo che ha saputo tenere testa alle
minacce di un posto ormai ghettizzato che vive di leggi proprie.
Quarto incontro
È l’incontro prima di Natale, siamo un po’ preoccupate di trovarlo
molto giù di morale e triste, invece comincia subito a raccontarci dei
fatti della sua vita.
Ci racconta della ragazza rumena che ha conosciuto per strada. Lui
l’ha accolta nella sua casa perché era sola, le ha cercato un lavoro e
visto che la figlia era gelosa le ha lasciato per un po’ una delle sue
case. Per lui era più di una figlia.
Ho notato infatti che R. utilizza molto questo meccanismo, tende
ad aiutare sempre gli altri, ad avere sempre una parola o un gesto
gentile, come se aiutare gli altri lo facesse stare meglio e soprattutto
lo facesse pensare meno ai suoi problemi.
È stato così con la ragazza e gli succede spesso anche in carcere.
Utilizza uno spostamento del pensiero, se penso ai problemi degli altri,
e li aiuto, non penso al mio, e cerca di evitare il problema.
“Aiuto gli altri perché è l’unica cosa che posso fare e che mi riesce,
cosi mi sento meglio, sono egoista perché non ho pensato a mia
moglie, ma cado nella trappola di cercare persone che hanno bisogno
di aiuto”.
Riflettiamo allora con lui sul fatto che deve cominciare a dire di no,
dice che la moglie lo ha aiutato in questo e ha cominciato a dire di no
al cognato che chiedeva soldi. Fondamentalmente ha paura di ferire le
persone e di farle star male.
Parla poi del suo passato, della sofferenza che ha provato nel non
festeggiare nemmeno un compleanno e del senso di abbandono che
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ha provato quando i suoi non lo andavano a trovare in collegio. Lui
però non si arrabbiava mai, “incassava” e basta.
Racconta poi dei primi abusi che ha dovuto subire dal figlio del
datore di lavoro da cui andava (aveva più o meno 10 anni), e della
volta che ha subito un abuso da un gruppo di “amici” maggiorenni.
Non ha mai detto niente, se parlava in collegio lo picchiavano, e lui
ha imparato che “è meglio stare zitti”.
Quinto incontro
L’incontro avviene subito dopo Natale, G. infatti è molto giù,
comincia il discorso dicendo che è molto dura la vita nella sua sezione,
in più nella mattinata hanno visto un film che gli ha fatto ricordare la
figlia.
Ci parla dei molti colloquio che ha con Don Carlo, un diacono che va
a fare visita ai detenuti e con cui G. si trova molto bene a parlare
visto, sottolinea lui, che “la psicologa ti chiama una volta ogni due
mesi perché è sempre piena di appuntamenti”.
Con lui riesce a parlare di cose molto profonde che poi ci riferisce,
infatti ormai anche con noi non ha problemi ad aprirsi e a dirci tutto
quello che gli passa per la testa. Ci racconta infatti di come lui non si
fosse reso conto di quello che faceva visto che si era “innamorato”
della figlia, era diventata una cosa normale ci dice “il cervello si abitua
come i bambini musulmani con il corano”. Era geloso dei ragazzi che
sua figlia portava a casa.
Dopo tanti colloqui ci parla dei sensi di colpa che gli sono cresciuti
dentro, nei confronti della figlia ma anche della moglie che ha dovuto
subire tutto questo.
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A 11 anni la figlia viene portata via in un centro, dopo la denuncia
della psicologa che vedeva la figlia e che aveva accusato il padre di
violenze, poi viene trasferita in una casa famiglia fino ai 18 anni
quando torna a casa e comincia la relazione con il padre.
Usciamo molto provate da questo incontro, in quanto, in seguito, ci
ha raccontato molti dettagli della storia che
probabilmente non
eravamo ancora pronte a sentire.
Sesto incontro
Questa volta si presenta con degli appunti perché dice di non
ricordarsi tutte le cose che ci vuole dire. Ci racconta dell’incontro con
la moglie e del fatto che lei non sapesse nulla del suo passato.
Ci racconta dei due anni di terapia che ha fatto quando la figlia era
via di casa.
Ricomincia poi a raccontarci del suo passata, del fatto che a 4 anni
la madre lo ha mandato in collegio e di quanto ha sofferto per questo,
degli abusi che ha dovuto subire da grande quando è andato in un
altro collegio.
Il ricordo degli eventi passati muove in lui una grande sofferenza,
in quanto deve riaprire delle stanze nel quale aveva rinchiuso questi
ricordi per non pensarci più e, in questo lavoro, dice che lo stiamo
aiutando molto.
Prima del colloquio successivo decidiamo di andare a fare una
supervisione,
visto
che
l’argomento
cominciava
a
diventare
difficilmente sostenibile anche per noi.
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Settimo incontro
Questo incontro comincia molto male, G. sta male, ha passato una
brutta settimana e ha dovuto prendere varie pastiglie per stare calmo.
Dice di essere molto preoccupato per la figlia in quanto lui era un
grande punto di riferimento per lei e sostiene che la colpa di quello
che è successo è anche della figlia perché lo istigava molto.
Perde il filo del discorso varie volte.
Dice di essersi innamorato di sua figlia, la relazione è andata avanti
per sette mesi senza che la moglie si accorgesse di nulla, finché ha
intuito la cosa e gli ha preparato la valigia. Lui l’ha supplicata di farlo
rimanere, è rimasto ma da li le cose sono cambiate, ha capito quello
che aveva fatto, si sentiva sporco, non si era reso conto di essere suo
padre.
Gli trema la voce, le gambe, oggi è troppo difficile e decidiamo di
finire qua questo colloquio.
Ottavo colloquio
Ci racconta che è stato molto male dopo l’ultimo colloquio e che ha
dovuto prendere qualche pastiglia per stare calmo, si è fatto
modificare la terapia per i forti mal di testa che gli vengono.
Descrive poi l’incontro con la moglie, non gli ha raccontato nulla del
suo passato perché non se la sente, prova un forte senso di vergogna
quindi non riesce.
Anche la moglie vede ogni tanto Don Carlo che l’ha aiutata a capire
e a stare vicino al marito. Le uniche informazioni che ha della figlia
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sono quelle che le porta la moglie perché ogni tanto la sente al
telefono.
Poi torna sulla loro storia passata, dice che quando la figlia ha
voluto smettere la relazione lui si è sentito usato, in quanto ha
cominciato a pensare che stesse con lei solo perché le comprava tanti
vestiti e molto costosi.
Quello di sentirsi usato è un sentimento che ha già provato varie
volte anche con i familiari, in quanto G. era sempre molto buono e
disponibile con tutti. Non diceva mai di no e per questo molte volte gli
altri approfittavano di lui.
A questo punto decido di fargli una domanda sulla sua famiglia e, in
particolare, gli chiedo com’era e com’è il rapporto con la madre. Si
irrigidisce e mi risponde con un’altra domanda, come atto aggressivo
verso di me che mi sono permessa di chiedere una cosa così profonda
e forse così dolorosa. Lo calmo subito mettendolo a suo agio e
dicendogli che se non vuole parlarmene ora rimanderemo ad un altro
momento e che comunque sono informazioni riservate che servono
solo per aiutarlo.
Comincia a riferire che la madre è venuta solo quattro volte da
quando è in carcere (dato anche dal fatto che la madre abita molto
lontana da Verona).
Le cose che ricorda della madre sono molto negative, ogni volta
che lei ha cercato di avvicinarsi per farle una carezza lui la rifiutava,
“mi da fastidio quando si avvicina per darmi un bacio”. Non capisce
perché lo hanno messo in collegio così piccolo, ma nessuno glielo ha
mai spiegato.
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Nono incontro
Racconta delle brutte esperienze che ha avuto in passato, come
quella di trovare sua madre con un altro uomo, ma non ne abbiamo
mai parlato.
“Non capisco se il rifiuto che ho per lei è per il fatto che mi ha
messo in collegio o perché l’ho vista tradire mio padre”, questo è
quello che dice dopo averci raccontato i fatti, quindi ha una buona
capacità introspettiva e di ragionamento in quanto capisce da solo che
alcuni
avvenimenti
passati
possano
averlo
portato
a
certi
comportamenti.
Probabilmente per questo dice su alle donne, soprattutto quelle che
vestono in modo provocante, sua figlia vestiva così, ma non le diceva
niente per paura che si allontanasse da lui.
Gli chiediamo quale soluzione vede lui per alleviare questi sensi di
colpa che lo opprimono, ma ci risponde che non c’è soluzione, anzi
l’unica è quella di farla finita. Dice che forse se la figlia lo perdonasse
potrebbe pensare anche di andare avanti, ma non sa. Allora
interveniamo, sottolineando il fatto che non può stare li ad aspettare
sua figlia, ma anzi, deve fare qualcosa per primo, un cammino che lo
porti a continuare la sua vita una volta fuori dal carcere, ovviamente
senza la figlia.
Notiamo che ogni volta butta le cose negative su di sé, lui non
merita che la moglie vada a trovarlo o che faccia tutto il viaggio, non
riesce a guardare avanti, manca di iniziativa, leggermente depresso.
Su consiglio dell’avvocato e del medico decidiamo di avere un
colloquio anche con la moglie per conoscerla meglio e per farci una
nostra idea visto che G. parla molto di lei.
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Colloquio con la moglie
La moglie ci fa capire molto presto che vuole ancora molto bene al
marito nonostante quello che ha fatto, si interessa della foglia anche
se vorrebbe che fosse quest’ultima a parlare con lei.
Il marito le ha scritto duecento lettere, quasi una al giorno per dirle
cosa fa durante la giornata.
“Io non volevo credere alle cose che diceva mia figlia perché sono
sempre riusciti a tenermi nascosto tutto quindi ho cominciato a
cercare delle prove. La mia famiglia mi è contro perché vorrebbero che
lo lasciassi, ma non posso”, tuttora vive con il padre perché la figlia ha
le case di proprietà.
Ci racconta che all’inizio era molto arrabbiata anche con la figlia,
ora non più perché la vede come vittima, la sente ogni tanto anche se
la sente molto titubante, che non si lascia andare.
Dopo che ha saputo quello che è successo non vuole avere più
rapporti sessuali con il
marito, lo abbraccia, prova affetto ma non
vuole contatto fisico.
Non si sente di punirlo per tutto quello che ha passato quando era
bambino, comincia a conoscere anche lei piano piano il passato del
marito e quindi riesce a comprendere, ma non giustificare, ciò che ha
fatto.
Ci dice che ha parlato di noi durante una visita, che si trova bene e
che gli siamo utili per il suo cammino interiore.
Tornando a parlare della figlia ci racconta che questa la rimprovera
del fatto di non averla capita e aiutata, ma lei non capisce come ha
fatto suo marito a ricascarci dopo la terapia.
Ha sofferto molto quando le hanno portato via la figlia.
Nonostante tutto secondo noi la moglie è un buon punto di
appoggio e di partenza per quando uscirà dal carcere. È una moglie
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presente ma che ha ben in mente quello che ha fatto suo marito, gli
sta accanto pur sapendo che ha bisogno di aiuto. E’ l’unico motivo per
cui G. non si è ancora tolto la vita.
Decimo incontro
Ci mostra subito la lettera che ha ricevuto dal padre, non gli aveva
mai scritto. Lui lo interpreta dicendo che secondo lui si sono resi conto
di quello che gli hanno fatto passare da piccolo.
I suoi genitori li definisce INCOSCIENTI e IGNORANTI perché non
sapevano quello che facevano. Ha una foto di suo padre nella cella,
l’unica che ha voluto perché quella della moglie e della figlia non vuole
che altri le vedano, e dice di sentirsi protetto da lui quando la porta
nella tasca dei pantaloni.
Arriva a dirci che secondo lui i suoi genitori non si volevano bene,
suo padre picchiava sua madre anche davanti ai bambini e lui si
sentiva in colpa perché non aveva avuto il coraggio di mettersi in
mezzo per difendere la madre.
A questo punto cerca di cambiare discorso, si perde spesso in altri
discorsi, non capiamo se è una sua modalità o ha una difficoltà a
concentrarsi per più tempo su di un argomento che gli crea dei
movimenti emotivi.
Ci dice che con noi è riuscito ad affrontare in profondità i discorsi
sulla figlia, e per la prima volta si arrabbia molto con lei, dicendo che è
stata una bugiarda e che con quello che ha detto anche la moglie
rischia una condanna che non si merita.
Rimandiamo a lui questo momento di aggressività che finalmente
non lo fa stare zitto, per la prima volta non si è tenuto tutto dentro ma
ha parlato urlando.
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Dopo un’infanzia passata nel silenzio e un presente passato a
cercare di risolvere tutto da solo, finalmente comincia a capire che
non è solo.
Undicesimo incontro
L’ultima volta l’abbiamo lasciato con un compito, richiestogli ancora
vari colloqui fa ma mai eseguito. Gli chiedo di scrivere su un foglio
cinque aggettivi che descrivano il padre e la madre. Lui rimane basito
davanti a questa richiesta, gli spiego il motivo, e ci dice che è la prima
volta che gli chiedono direttamente di sua madre.
Il compito gli risulta molto difficile, infatti non capisce e ci scrive
ben sette fogli in cui ci racconta nuovamente la storia del suo passato.
A casa, dopo un’attenta lettura, il suo italiano lascia molto a
desiderare, riesco comunque a trovare delle descrizioni dei suoi
genitori.
Durante il colloquio dice che secondo lui questo esercizio gli è
servito per richiamare alla mente ricordi che ormai erano stati rimossi,
molto più profondi, chiediamo conferma di questa cosa e lui racconta
che alcune cose gli sono tornate in mente. Non ci vuole raccontare
come si è sentito mentre scriveva queste pagine, perché è stato
troppo male, ha risentito di forti mal di testa che l’hanno obbligato a
prendere
delle
pastiglie
da
cui
teme
fortemente
di
diventare
dipendente.
All’improvviso torna a parlare della psicologa da cui andava
parecchi anni fa, e ci dice che secondo lui ha perso molto tempo e
basta, visto che non è mai arrivato a nessuna conclusione e non è mai
riuscito a parlare a fondo della figlia.
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Poi torna a parlare dei ricordi del passato, di sua mamma, delle
sorelle, dei regali, insomma salta da un ricordo all’altro senza un filo
conduttore.
Racconta poi di un tentato suicidio della figlia (con delle pastiglie) e
di come abbiano fatto intendere, nell’incidente probatorio, che l’avesse
fatto per la loro storia, storia che in realtà doveva ancora nascere.
Il resto dell’ora la passa saltando da un ricordo dell’infanzia,
quando lo hanno portato con una prostituta, a ricordi del presente
sulla figlia e la moglie.
Dodicesimo incontro
Lamenta sempre forti mal di testa che lo fanno dormire poco
svegliandosi così spesso stanco. Ci parla di un sogno ricorrente in cui
qualcuno tiene una mano sulla sua bocca e lui non riesce più a parlare
e a muoversi. Prendiamo così l’occasione di soffermarci sui farmaci
che “non” prende, visto che li butta via ogni volta che glieli danno. I
farmaci gli servono per la lieve depressione che ha ma anche per
tenerlo calmo durante la notte.
Ci racconta infatti che spesso e volentieri sveglia i suoi compagni di
cella dal rumore che fa per il sogno che sta facendo.
La sua paura più grande è quella di rimanere dipendente dalle
pastiglie e di non riuscire più a pensare. Allora interveniamo facendogli
notare come questo non voler prendere le pillole sia un gesto punitivo
verso sé stesso e gli diciamo che la sua punizione l’ha già avuta, il
carcere.
Chiediamo se ha paura del processo che si sta avvicinando e del
fatto che potrebbe rivedere la figlia e se non è un po’ arrabbiato con
lei visto che G. sostiene che la figlia si sia inventata molte cose al
processo. Racconta che non teme di rivedere la figlia, che è invece
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molto preoccupato per la moglie perché non potrebbe mai perdonarsi
una possibile carcerazione di quest’ultima. La rabbia che tenta di
venire fuori invece è subito smorzata dal fatto che si è ormai reso
conto che era lui a non dover nemmeno incominciare ciò che ha fatto.
Ci ringrazia per gli incontri fatti assieme chiedendoci di poter
andare avanti ancora visto che è riuscito ad aprirsi come mai prima gli
era successo.
Dovrebbe essere il nostro ultimo colloquio, ma abbiamo chiesto
all’avvocato un prolungamento di incontri per completare il ciclo, visto
anche la richiesta di sottoporlo al test di Rorschach.
Allego poi qui di seguito la relazione che abbiamo scritto per
l’Avvocato come conclusione di questi tre mesi di lavoro, nella
certezza poi di poter proseguire gli incontri che il signor G. ci ha
direttamente richiesto.
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RELAZIONE PSICOLOGICA SUL SIGNOR R. G.
ATTUALMENTE RISTRETTO NELLA CASA
CIRCONDARIALE DI VERONA-MONTORIO
Ottenuta l’autorizzazione, vediamo con cadenza settimanale,
presso l’area trattamentale della casa circondariale di VeronaMontorio, il signor R. per un totale di 13 incontri di supporto
psicologico.
La richiesta degli incontri viene fatta direttamente dal signor R.,
indice di alta motivazione e di una consapevolezza del proprio
malessere, motivazione che si protrae inalterata per tutto il ciclo
degli incontri e che ha favorito l’instaurarsi di una buona
relazione terapeutica.
Il Signor R. a tutti gli incontri settimanali si presenta adeguato
alla situazione, in buone condizioni generali, pur tenendo conto
del setting in cui avvenivano gli incontri che di per sé, per le sue
caratteristiche formali, non favoriva l’instaurarsi della relazione
terapeutica.
Il livello intellettivo appare medio-basso, caratterizzato da un’
insufficiente scolarità e da un modesto patrimonio culturale.
Nonostante ciò, il Signor R. si è sempre impegnato e ha spesso
spontaneamente prodotto degli scritti di suo pugno che hanno
avuto una duplice utilità: per il soggetto è stato un utile mezzo di
descrizione dei fatti (visto che più volte ha palesato vergogna nel
riferirli alle sottoscritte); per noi hanno costituito ulteriore
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materiale su cui lavorare permettendoci di comprendere meglio i
fatti, le emozioni e gli stati mentali del paziente.
Il soggetto, per tutto il periodo di osservazione, appare con un
tono dell’umore sostanzialmente depresso, evidenzia sentimenti
di svalutazione e disistima in sé stesso.
La visione negativa di sé è da ricondurre all’interpretazione
altrettanto negativa delle proprie esperienze passate,
ciò che
porta il soggetto a vivere come insormontabili gli obiettivi seppur
minimi posti dal mondo che lo circonda, manifestando quindi
desideri di elusione e ritiro: la visione negativa del futuro
prevede
la
convinzione
che
le
difficoltà
del
presente
si
protrarranno anche nel futuro.
Il tema dominante dei pensieri automatici del soggetto è quello
della
perdita
e
del
fallimento,
intesi
come
irreversibili,
irreparabili, invalidanti, i valori del proprio sè ed ogni prospettiva
è inaccettabile nella dimensione passata, presente e futura.
Descrive più volte un senso di indegnità, aumentato in questo
ultimo periodo ripensando agli eventi passati, che lo riportano a
temi di pensiero riconducibili ad un pervasivo senso di colpa e di
danno arrecato alla moglie e alla figlia.
Rispetto ai reati contestatigli il signor R. dimostra una totale
ammissione delle proprie colpe.
Durante i mesi di detenzione e nel periodo del percorso
psicologico
con
noi
intrapreso
abbiamo
evidenziato
un
miglioramento della capacità riflessiva e della consapevolezza
della gravità dei fatti commessi e quindi un significativo aumento
del senso di colpa che lo tormenta e gli provoca oltre che
pensieri
suicidari,
a
volte
messi
anche
in
atto
ma
non
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concretizzatisi, anche manifestazioni psicosomatiche rilevanti,
come mal di testa e sensi di vertigine.
Emerge più volte nei vari incontri, il ricordo di eventi traumatici
come la colonia estiva nella quale viene mandato a soli quattro
anni e vissuta come un vero e proprio abbandono da parte della
madre e la successiva permanenza in collegio, con le ripetute
violenze
subite,
caratteristiche
di
che
hanno
personalità
condizionato
dagli
esiti
lo
sviluppo
di
significativamente
dolorosi e destabilizzanti, conseguenze delle quali non si può non
tenerne conto.
Buona parte degli incontri sono stati incentrati sulla storia
traumatica ed emotiva del soggetto, di come questa abbia
influito sui suoi rapporti con la moglie e sul suo modo di
relazionarsi alla figlia prima della carcerazione.
Con il soggetto è stato fatto un lavoro di ricostruzione del
passato, di presa di coscienza degli errori commessi, rivolto
anche a fargli raggiungere una maggior consapevolezza delle
proprie responsabilità rispetto alla figlia e al ruolo della moglie
(tra l’altro ascoltata anche in un incontro individuale), che si è
dimostrata una grande risorsa, indispensabile e necessaria per
l’equilibrio psicologico attuale e futuro del soggetto.
La relazione terapeutica creatasi è stata caratterizzata da fiducia
reciproca, ed i colloqui sono stati messi a disposizione del
soggetto, che li ha utilizzati come spazio per poter esprimere la
sofferenza causatagli dal rimorso e dal senso di fallimento.
Il signor R. non ha mai dimostrato né fatto trasparire segni di
aggressività o di rabbia nei confronti degli eventi che stavano
accadendo, ma ha sempre sottolineato come la colpa di tutto ciò
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che è avvenuto sia da imputare solo a sé stesso, dimostrando
quindi
una
maggior
consapevolezza
dell’accaduto,
una
disponibilità alla riparazione del danno provocato a sua figlia ed
una sua riabilitazione sociale.
In conclusione, abbiamo riscontrato come il signor R. abbia
maturato personalmente la necessità di cominciare questo
percorso di sostegno, condiviso anche dalla moglie, e che,
terminati ora i tre mesi messi a disposizione dall’autorizzazione,
abbia personalmente dichiarato di voler proseguire nel percorso
cominciato con le sottoscritte.
È infine importante evidenziare come la sua presa di coscienza di
malattia gli abbia consentito di comprendere meglio la gravità
dei suoi comportamenti e di maturare quella coscienza che gli ha
permesso di risarcire volontariamente la figlia, con la cessione
dell’intero patrimonio per garantirle una vita più serena.
Dott.ssa Irene Gecchele
Dott.ssa Valentina Martini
Verona 3 marzo 2009
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Conclusioni
Molti studiosi sostengono che per poter agire contro la persona
abusante, bisogna innanzitutto ammettere che l’abuso non è stato
ancora adeguatamente studiato, anche perché la società, e la
comunità scientifica al suo interno, ha sempre cercato di esorcizzare
questo problema o negando che esista, oppure cercando di relegarlo
nell'ambito delle mostruosità, ovvero di quei casi talmente rari e
aberranti da non meritare neppure uno studio sistematico.
Occorre
attivare
ricerche
serie
e
pianificate
sulle
ipotesi
di
trattamento dell’abusante, sulla possibilità di prevenzione. Il fatto è
che
l’abuso
si
può
evitare:
attraverso
un'educazione
seria
e
intelligente, una crescita armonica e un'attenzione profonda al
comportamento. E attraverso la creazione di una società in cui l'amore
non abbia bisogno di rivolgersi a oggetti impossibili, come sono
appunto i minori. Sapere o sospettare che un minore sia vittima di
abusi sessuali si rivela per un operatore (psicologo, medico, assistente
sociale etc.) un compito complesso e difficile; “riconoscere” un abuso
sessuale è per l’esperto come imbattersi in un avversario inafferrabile,
e solo se saprà con certezza, che cosa sia e come si sia manifestato,
potrà trovare un’appropriata strategia di supporto da offrire alla
vittima e un intervento di recupero per l’abusante.
Si tratta da parte dello psicologo di una “messa a fuoco” per cui non
è sufficiente una visione generale del fenomeno, ma una conoscenza
meticolosa ed attenta, che include l’analisi delle infinite combinazioni
delle età dei protagonisti coinvolti in tale atto,
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delle modalità, della
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durata, delle capacità, dei sentimenti, delle storie, delle relazioni, così
come dei motivi che hanno determinato la crisi dinamica incestuosa
che non lasciano spazio ad un approccio superficiale. Da ciò ne
consegue che l’interesse primario di qualunque intervento, sia esso
giudiziario che psicosociale, deve essere quello di farsi carico dei reali
bisogni-diritti del bambino, coinvolto in una storia di violenza e la
possibilità di recupero dell’abusante; disattendere tale obiettivo,
significherebbe rischiare di produrre nella vittima seri traumi (psichici,
sessuali e comportamentali) e nell’ abusante la continuazione di tale
crimine.
Detto
intervento
trova
la
sua
forza
in
un
concreto
coordinamento tra le istituzioni che hanno, da una parte, la funzione di
tutelare la vittima e dall’altra la funzione di terapia e di sostegno (sia
psichico che fisico) da offrire anche alla famiglia, nella quale il minore
è inserito. Tale intervento risulta sicuramente molto complesso, poiché
richiede la mediazione, spesso difficile ed estenuante sia tra gli
operatori psicosociali che tra quelli della Giustizia Minorile ed Ordinaria,
incluse tante professionalità distinte che talvolta faticano a svolgere il
lavoro in modo interdisciplinare.
Infatti è proprio il bisogno-diritto di protezione della vittima,
integrato alle esigenze di aiuto e recupero dell’intero sistema familiare,
che rappresenta il filo conduttore di tutto l’intervento, che inizia con la
protezione fisica e psicologica del minore, per passare infine, alla
valutazione delle cause che hanno determinato il comportamento
abusante, delle relazioni familiari che ne hanno consentito lo sviluppo
e delle possibilità esistenti di recuperare rapporti sani e funzionali, tra i
vari membri della famiglia, incluso l’autore del reato (Malacrea,
Vassalli, 1990).
L’intervento deve concludersi, solo se vi sono le condizioni per un
recupero dell’autore del reato, con il trattamento assistenziale e
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terapeutico della famiglia e con il sostegno di cure psicologiche per
tutti.
L’importanza dell’accertamento psicologico nei casi d’abuso sessuale
sui minori è senza dubbio fondamentale; questa fase rappresenta solo
l’inizio di un iter lungo e complesso che coinvolge lo psicologo, il quale
per quanto riguarda
l’intervento diagnostico, dovrebbe per primo
entrare in rapporto con le persone coinvolte in tale situazione ed
essere in grado di valutare la tensione emotiva e le esigenze
terapeutiche del bambino e della famiglia. Accanto all’indagine sul
bambino, l’impegno dell’esperto dovrebbe orientarsi a gestire gli
incontri con la famiglia per valutarne la struttura, la problematicità, le
aree disfunzionali, nonché verificarne le risposte emotive quando viene
confrontata con l’abuso.
Questo
delimitata
comporta
capacità
che
l’esperto
professionale;
abbia
da
un’approfondita
ciò
deriva
ma
l’impegno
all’interdisciplinarietà e al lavoro di gruppo in cui, nella stessa area
psicologica, operino, superando posizioni dogmatiche, le diverse
competenze e i diversi riferimenti teorici (ad esempio il testista, il
terapeuta
sistemico-relazionale,
l’analista
individuale
etc.).
Le
competenze dello psicologo vengono utilizzate dalla giustizia penale
nei casi di abuso sessuale intrafamiliare, in particolare in alcune
Procure, al fine di svolgere accertamenti psicodiagnostici sul minore ed
individuare una serie di indicatori di abuso e contribuire in modo
decisivo alla verifica dell’attendibilità della “parte lesa”, specie quando
non ci sono riscontri obiettivi (Forno, 1990).
Ci sono casi in cui l’abuso è celato da situazioni all’apparenza
tranquille
all’interno
delle
quali
la
personalità
dell’abusante,
apparentemente integra e l’esistenza di un legame affettivo tra lui e la
vittima, rende più difficile all’operatore definire l’esistenza e le
caratteristiche
142
dei
fatti
traumatici.
L’intervento
prende
in
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considerazione
vari
piani
d’analisi;
anche
se
l’intervento
dello
psicologo chiamato in causa subisce forti tensioni e un coinvolgimento
che in prima istanza potrebbe apparire anche di natura empatica, le
emozioni, i sentimenti che nel loro insieme possono essere causa
deviante di un approfondito esame clinico, la struttura di personalità
dello stesso psicologo viene sottoposta ad uno stress psichico, spesso
intollerante con il fattore deontologico. L’attenzione che il terapeuta
deve rivolgere è di particolare importanza anche nella decodifica del
profilo psicologico dell’abusante sia per l’accertamento che per la
pseudo-convinzione
che
possa
danneggiare
sia
l’abusato
che
l’abusante.
Molto spesso l’abusante cerca di contrastare attraverso difese di
onnipotenza l’illusoria convinzione o i confini dell’abuso stesso e di
non aver danneggiato la vittima. Per questo è importante che l’esperto
attraverso sedute e colloqui clinici cerchi di far introiettare a livello
inconscio nell’abusante un’alternativa valida alle sue manifestazioni di
aggressore su un’innocua preda sia di piccole capacità psichiche che di
fragilità corporea, e cercare di affidare la propria disperazione a
qualcuno; in questo caso è il terapeuta che deve far distanziare i suoi
vissuti forse di una sofferenza passata, di una delusione subita o di un
significato distruttivo su un essere indifeso. Allo psicologo si chiede di
lavorare attivamente sull’abusante per comprendere se una delle
cause possa essere l’eventuale mancata protezione della madre e se
essa sia stata realmente volontaria o inconsapevole (questa è una
delle cause che in contrapposizione al complesso Edipico non risolto
pone l’abusante in una posizione ossessiva di odio-amore verso la
madre). E’ preferibile che a questo punto il lavoro psicologico sia
svolto con un atteggiamento passivo ma nello stesso tempo volto a
comprendere l’abusante in esame. Questa introiezione della funzione
osservante dello psicologo è resa possibile dal suo modo di proporsi,
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attraverso il quale, con il susseguirsi delle sedute viene stimolato a
riscoprire nell’abusante un essere umano con bisogni e desideri propri
a ritegno di un suo simile più fragile e ingestibile. A questo punto il
lavoro
psicologico
farà
riemergere
nell’abusante,
inevitabilmente
ricollegate al proprio contesto familiare, aree d’ombra di un vissuto, di
un trauma o di violenza subita. L’accettazione di un codice di
comunicazione misto tra l’abusante e il terapeuta, sia sul piano delle
relazioni che su quello della percezione, possono portare a ricostruire
il quadro della personalità dell’abusante. L’esperto a questo punto del
lavoro terapeutico deve riuscire (sempre con la propria esperienza
professionale) a fare in modo che l’abusante perda il controllo dei suoi
meccanismi difensivi. Questo potrebbe essere la garanzia delle
rivelazioni che l’abusante potrebbe confidargli ma soprattutto nella
loro utilità come tappa per un’elaborazione psicologica. A questo punto
l’atteggiamento dello psicologo deve essere sia di tipo recettivo che
attivo.
Risulta, quindi, essenziale che il lavoro con gli aggressori sessuali si
collochi all’interno di un’impostazione teorica di base che possa essere
arricchita di informazioni mano a mano che si accumulino evidenze
provenienti da ricerche e interventi clinici. Nella misura in cui
comprendiamo l’eziologia e il mantenimento dei comportamenti
sessuali
violenti,
verremo
a
capire
come
evolve
il
normale
comportamento nell’arco della vita di ogni persona. Se siamo aperti a
questo concetto, ogni terapia che portiamo avanti con gli aggressori
sessuali può insegnarci molto su noi stessi, sulla nostra storia e sul
suo significato e, più di tutto, sulla nostra capacità di tolleranza verso
le persone, pur non accettando necessariamente alcuni aspetti del loro
comportamento.
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Appendice
- Legge 66/96 Norme contro la violenza sessuale
Si parla di abuso sessuale sia che si compiano atti sessuali
direttamente sul corpo del bambino, sia che quest’ultimo venga
costretto ad assistere a rapporti sessuali.
L’abuso sessuale nei confronti di minori rientra nella materia della
violenza sessuale, oggetto di una recente e radicale modifica ad opera
della L. 15 febbraio 1996, n. 66 (Norme contro la violenza
sessuale), nata dalla proposta di legge n. 2576 presentata il 23
maggio 1995 alla Camera dei deputati di tutti i gruppi parlamentari.
Questa legge ha permesso di considerare il reato di violenza
sessuale come un reato contro la persona e non contro la moralità
pubblica e il buon costume, secondo quanto stabilito dal Codice Rocco.
In questo senso il vero bene leso non è una generica moralità sessuale
di cui sarebbe titolare la collettività, ma il singolo individuo la cui
libertà viene gravemente e profondamente violata.
Le nuove disposizioni in materia di violenza sessuale tendono a
difendere da illecite invasioni nella propria sfera di libertà ogni
persona, maschio o femmina, adulto o minore. Una particolare
attenzione è riservata a quest’ultimo proprio in ragione della sua
inesperienza, della incapacità di esprimere un consenso realmente
libero e cosciente, degli effetti devastanti per un armonico equilibrio
psicofisico che precoci esperienze sessuali possono provocare.
Gli abusi sui minori possono concretizzarsi essenzialmente in tre
ipotesi di reato:
1. la violenza sessuale (art. 609 bis), di cui si rende autore “ chiunque
con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe
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taluno a compiere o subire atti sessuali” ovvero, anche senza
costrizione vera e propria, “induce taluno a compiere o subire atti
sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica
della persona offesa”.
L’elemento di base è, quindi, l’esistenza di una qualsiasi forma di
violenza, ivi comprese la semplice minaccia, l’abuso di autorità,
l’abuso di inferiorità fisica o psichica, che renda possibile il
compimento di un atto sessuale non libero.
L’atto
sessuale
è
da
intendere
non
esclusivamente
come
congiungimento carnale, ma come qualunque atto avente una
qualsiasi valenza sessuale (ossia idoneo a ledere la sfera di libera
autodeterminazione del singolo in campo sessuale: perfino un
bacio sulle labbra, quindi, può essere considerato tale, se non
voluto dal soggetto passivo).
Ovviamente la violenza sessuale compiuta su un minore comporta
un aggravamento della pena (art. 609 ter).
2. Atti sessuali con minorenne (art. 609 quater).
Il concetto di
minorenne che la norma prende in considerazione non è quello
comunemente in uso, relativo al compimento dei 18 anni: nel senso
che non tutti gli atti sessuali con minori sono vietati.
Il minore nei cui confronti possono essere compiuti gli atti puniti è
infatti colui che non ha ancora compiuto 14 anni: oppure, che non
ne ha ancora compiuti 16, se il colpevole è una persona a lui
particolarmente vicina, tipo l’ascendente, il genitore adottivo, il
tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, educazione,
istruzione, vigilanza o custodia il minore è affidato o che abbia con
quest’ultimo una relazione di convivenza.
Si può affermare che in questa ipotesi la violenza è, per così dire
“presunta”: l’atto sessuale rappresenta sempre un reato, a
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prescindere dalla prova di una qualsiasi forma di costrizione e,
addirittura, anche se dovesse sussistere il consenso del minore.
Viceversa, al di fuori di questa ipotesi, in linea di massima gli atti
sessuali compiuti su minori di età compresa tra i 14 e i 18 anni,
sono leciti (salva l’ipotesi in cui integrino una violenza sessuale);
come pure i casi in cui l’atto sessuale avvenga tra minori, a patto
che abbiano già compiuto i 13 anni e non vi sia tra i due una
differenza di età superiore ai tre anni (questo ovviamente per
tutelare la sessualità tra minori, salvaguardando così la loro
autonomia di scelta). Quindi 12 anni è il limite al di sotto del quale
il consenso del minore al rapporto sessuale deve ritenersi invalido.
La pena per gli atti sessuali compiuti, con le modalità tipiche della
violenza e della minaccia su persona infraquattordicenne, varia da
6 a 12 anni di reclusione. Quando il reato è commesso nei
confronti di minori di anni 10, la sanzione va dai 7 ai 14 anni.
3. Corruzione di minorenne (art. 609 quinquies), consistente nel
compimento di un atto sessuale “in presenza di persona minore di
anni quattordici, al fine di farla assistere”.
La Cassazione, con sentenza
6.10.1967, definiva il reato di
corruzione un reato di pericolo e non di danno; nel caso di atti
sessuali commessi in presenza di bambini non era necessario che
lo stesso percepisse con i propri sensi l’atto di libidine, bastando
un’apprezzabile probabilità di tale percezione.
La giurisprudenza formatasi sotto la vecchia norma aveva ritenuto
la sussistenza del reato in questione nel caso di atti di libidine
commessi in presenza del minore che dorme (Cass. 1.3.1967).
Successivamente però con sentenza del 25/2/1969 ha ritenuto che
il reato non sussistesse poiché in tal caso il pericolo di corruzione non
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deve essere confuso con il pericolo del risveglio del minore. Si è anche
affermato che il reato sussiste ogniqualvolta il minore abbia la
possibilità di percepire l’atto lascivo nella sua materiale realtà, non
potendo ravvisarsi un pericolo di corruzione nei casi in cui il minore sia
talmente piccolo da non poter distinguere i fatti concreti che
avvengono sotto i suoi occhi (Cass. 3.3.1969).
Non in tutti i casi in cui il minore è oggetto di abuso sessuale lo
psicologo che ne viene a conoscenza è obbligato alla denuncia alla
competente Autorità; l’obbligo è previsto solo ove il reato sia
perseguibile d’ufficio. Questo si verifica solo in alcune ipotesi:
1. con riferimento alla violenza sessuale vera e propria, solo fino a
che il minore non ha compiuto i 14 anni;
2. oltre i 14 anni e fino ai 16 solo qualora l’autore sia uno di quei
soggetti al minore particolarmente vicini (genitore, anche
adottivo, o il di lui convivente, il tutore ovvero altra persona cui
il minore è affidato per ragioni di cura, educazione, istruzione,
vigilanza
o
di
custodia:
ad
esempio
medico,
educatore,
insegnante, infermiere, sorvegliante di un Istituto penale ecc),
mentre è indifferente che si tratti di violenza sessuale o di meri
atti sessuali;
3. se il fatto è comunque connesso con un altro delitto per il quale
si deve procedere d’ufficio;
In base a queste norme, pertanto, il probabile abuso sessuale
denunciabile all’Autorità giudiziaria (in quanto procedibile d’ufficio) si
configura allorché un minore di 14 anni sia oggetto di vera e propria
violenza sessuale, da chiunque essa provenga; al di sopra di tale età e
fino ai 16 anni quando, indipendentemente dall’esistenza di una
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violenza, l’autore dell’atto sessuale sia una persona “particolarmente
qualificata”.
Per i reati sopra esposti che si configurano come perseguibili
d’ufficio in base alla legislazione attualmente vigente, lo psicologo che
ne venga a conoscenza nell’esercizio di un’attività sanitaria (se libero
professionista o dipendente di una struttura pubblica), e nell’esercizio
di ogni sua attività professionale (se pubblico ufficiale o incaricato di
pubblico servizio), ha per legge l’obbligo di presentare denuncia del
fatto-reato di cui è venuto a conoscenza “all’Autorità giudiziaria, o ad
un’altra Autorità che a quella abbia obbligo di riferirne”.
Per quanto riguarda l’adempimento in concreto dell’obbligo di
denuncia è consigliabile effettuare due comunicazioni di diverso
contenuto:
a. la prima al Pubblico Ministero presso la Procura della
Repubblica, ubicata di norma presso il Tribunale ordinario; si
tratta di una pura e semplice denuncia, come tale in grado di
provocare l’avvio, da parte del Pubblico Ministero, delle indagini
preliminari e l’eventuale adozione delle misure cautelari che
potrebbero essere ritenute necessarie;
b. la seconda al Giudice minorile presso il Tribunale dei
Minorenni (ed eventualmente, con il medesimo testo e per
conoscenza, al Servizio Sociale Minori competente per territorio)
finalizzata all’adozione, urgente, degli interventi di tutela del
minore; essa dovrebbe essere sufficientemente dettagliata e
redatta come una vera e propria relazione psicologica che
fornisca almeno le principali informazioni relativamente ai fatti
avvenuti, ai soggetti implicati e alle caratteristiche dell’ambiente
familiare della vittima, solo in questo modo il giudice è in grado
di adottare provvedimenti coerenti a tutela del minore;
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