Materiali didattici di approfondimento

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Materiali didattici di approfondimento
Metodologia e tecnica della ricerca archeologica
Prof Enrico Acquaro
Materiali didattici di approfondimento
Correlati alle videolezioni del Prof Enrico Acquaro
realizzati in collaborazione con la Dottoressa Anna Chiara Fariselli
Lezione 9 - Metodi di scavo: lo scavo stratigrafico ed il matrix di Harris.
Una volta enunciate le differenti strategie note per l'organizzazione dello scavo è opportuno affrontare il problema dei
procedimenti, o metodi, attraverso i quali questo può essere condotto. La scelta della procedura esercita, infatti, un
condizionamento ben più incisivo, ed ha effetti ben più radicali sull'andamento e sulla comprensione finale dello scavo, rispetto
all'entità delle conseguenze che derivano, invece, dalla predilezione per l'una o l'altra tattica di inquadramento della ricerca sul
campo. L'impiego di uno specifico procedimento rappresenta, del resto, un'operazione definitiva, in quanto non lascia alcuna
traccia sul terreno e non è in alcun modo reversibile. Risulta perciò essenziale, da questo punto di vista, chiarire
preliminarmente quali siano gli obiettivi primari di uno scavo archeologico. Va premesso che, trattando di queste tematiche,
non è possibile prescindere dalle considerazioni avanzate da altri ed, in specie, sembra d'obbligo richiamare gli insegnamenti di
Andrea Carandini che è, di fatto, il primo archeologo italiano che abbia sentito l'esigenza di affidare ad un "manuale
specialistico" di agile fruizione i principi teorici della stratigrafia. In molti casi, sarà quindi inevitabile riproporre espressioni
adottate dallo studioso, che hanno ormai acquisito una valenza tecnica generale, come pure sembra utile ricalcarne le
simulazioni grafiche, per la loro estrema efficacia esemplificativa.
Philip Barker sostiene che il fine ultimo di ogni attività di scavo dovrebbe essere sempre quello di raggiungere lo "scavo
totale": chi si cimenta nell'esplorazione archeologica di un sito, cioè, dovrebbe aspirare alla comprensione profonda di ogni
"strato ed elemento in cui si imbatte" ricercandone, quindi, le cause (umane, animali, naturali), le modalità (accidentali,
intenzionali) ed i tempi di formazione. L’indagine di scavo deve essere, dunque, quanto più possibile analitica e prevedere la
valutazione equanime di ogni singolo rinvenimento, anche il meno appariscente, per la comprensione generale della situazione
messa in luce.
L'archeologia moderna deve molto alla geologia, ed in specie ai progressi fatti dalla metà del XIX secolo per quello che
concerne l'introduzione di concetti esplicativi nello studio delle formazione dei depositi sedimentari e nell'impiego di criteri di
datazione forgiati a partire dalle leggi generali dell'evoluzione. Come la disciplina geologica, ai cui fondamenti si ispira, anche
la scienza archeologica investiga sulle mutazioni del paesaggio e mira alla ricostruzione, non importa se su ampia o ridotta
scala, delle diverse fasi di vita dell'area in esame. Nella realtà l'ambiente in cui l’uomo vive è soggetto di continuo all'azione di
forze diverse - efficacemente sintetizzate in agenti di 1) erosione/distruzione; 2) movimento/trasporto; 3) deposito/accumulo che creano stratificazioni di terreno. Tuttavia, se la stratificazione geologica è determinata dal succedersi di processi naturali
(dilavamenti, alluvioni, depositi, erosioni, frane), la stratificazione archeologica è caratterizzata, invece, dalla commistione e
sovrapposizione di eventi naturali e di azioni umane (di trasporto, scavo, costruzione, distruzione) ed, in tal senso, rientra
nell'ambito di una fenomenologia molto più complessa.
Evidentemente, accingendosi allo scavo di aree in cui sia attestato un insediamento antico ci si dovrà attendere una
pluristratificazione, che sarà tanto più articolata quanto più lunga e coerente è la prosecuzione della vita nel sito. Le tracce di
attività umane identificabili nello scavo rappresentano, in un certo senso, episodi di violazione delle sequenze geologiche
naturali che si ripropongono intatte al fondo o all'esterno di questi poli di "concentrazione di strati".
Il concetto di stratigrafia archeologica interviene, appunto, in rapporto allo studio dei risultati concreti di questo articolato
incrociarsi di avvenimenti di varie origini e proporzioni. Compito dell'archeologo, in sostanza, non è soltanto quello di
"scoprire" antiche vestigia, ma è soprattutto quello di "documentare" e "interpretare" quanto riporta in superficie penetrando
nel dettaglio. Da questa prospettiva, lo scavo è un intervento simile alla lettura di un libro le cui pagine vengono
progressivamente sfogliate e "vissute" fino all'epilogo, ed il ricercatore che lo conduce avanza a poco a poco nella conoscenza
compiendo un lento cammino dal noto all'ignoto.
Il filo conduttore di ogni esplorazione sul campo, infatti, è quello di asportare strati di terreno successivi procedendo dall'alto
verso il basso, nel senso contrario, cioè, a quello secondo il quale si è formata, nel tempo, la stratificazione. La cosiddetta
"legge della originaria sovrapposizione", di matrice geologica, del resto, stabilisce che gli strati più alti sono anche i più recenti.
Ciononostante, le categorie concettuali che regolamentano l'esame dei sedimenti in campo geologico richiedono opportune
reinterpetazioni quando si tratta di affrontare problemi di natura archeologica. Alla definizione di una stratificazione
archeologica partecipano anche azioni in negativo, di taglio o asportazione di terra piuttosto che di accumulo. In questi casi come evidenziato ancora una volta da una celeberrima e spesso riproposta sezione esemplificativa di Mortimer Wheeler - non è
infrequente che un reperto conservato nel riempimento di una fossa sia molto più recente dei materiali pertinenti agli strati
interrotti dal taglio della buca stessa e dunque, a rigor di logica superiori, in senso spaziale, al terreno di colmata.
Ancora, come noto, è possibile rilevare una cronologia assoluta dello strato archeologico determinata dal reperto più recente in
esso contenuto, principio applicabile, però, solo se lo strato è sigillato, ossia del tutto immune da episodi di inquinamento
posteriori. Sebbene sotto questo aspetto si riscontri una certa vicinanza, nei principi generali, con la legge geologica della
successione faunistica, in base alla quale gli strati sedimentari, anche fuori dalla giacitura iniziale, sono datati dai fossili che
contengono, ben più accreditata in archeologia è la cronologia relativa dello strato di terreno, che si deduce in rapporto alla
collocazione spaziale, relativa per l’appunto, degli altri strati, superiori ed inferiori. Infine, se in accordo con la cosiddetta legge
dell'originaria orizzontalità i depositi sedimentari di formazione subacquea si dispongono sempre su un piano orizzontale, al
contrario le superfici degli strati archeologici sono generalmente disomogenee ed incoerenti, e quasi mai piane.
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Detto questo, sembra evidente che il procedimento di scavo più corretto possa essere soltanto quello stratigrafico che, di fatto,
isola e analizza le singole azioni, umane e naturali, positive e negative percepibili sul terreno.
Nello scavo arbitrario, di contro, non tenendo conto della disposizione nello spazio delle diverse tracce di attività - nel senso
più ampio del termine - e delle relazioni fra queste, non ci si propone di distinguere e segnalare le varie tipologie di
metamorfosi del paesaggio, ma in genere si persegue l'obiettivo di raggiungere rapidamente una particolare situazione
archeologica, o di liberare ed esporre una struttura indipendentemente dal suo contesto stratigrafico.
Uno degli esempi più di frequente portati dagli studiosi per mostrare i danni del procedimento arbitrario è quello dello scavo
"che segue i muri", dai tempi di Mortimer Wheeler presentato come il più grave ed irrimediabile errore per l'archeologo che
voglia realmente comprendere la dinamica strutturale di un monumento. L'indagine condotta lungo il profilo della struttura,
infatti, distrugge le sequenze stratigrafiche a questa collegate, impedisce la corretta percezione delle fasi di esistenza, e rende
impossibile recuperare alla conoscenza la situazione precedente come pure quella successiva alla realizzazione del muro.
In uno scavo non stratigrafico la rimozione del terreno può svolgersi in forma massiccia e disordinata (sbancamento) o
secondo una regola predeterminata, ad esempio attraverso l'asportazione di "fette" di terra più o meno spesse a seconda delle
circostanze. Tale metodo, detto per livelli o plana, in base al quale si procede abbassando orizzontalmente l'intera superficie di
scavo con tagli di spessore arbitrario, può avere una plausibile applicazione soltanto in assenza di sequenze stratigrafiche
conservate, ad esempio, quando si debbano asportare livelli di formazione naturale, oppure laddove uno strato risulti talmente
voluminoso da non poter essere rimosso in un'unica volta, o ancora, quando l'accumulo di terreno sia talmente uniforme ed
omogeneo che le differenti fasi di deposizione siano illeggibili; infine, quando si vogliano rimuovere dei reperti giacenti tra la
superficie di uno strato e quello superiore, la cui appartenenza all'una o all'altra fase sia dubbia. Al di fuori di tali circostanze,
tuttavia, questo procedimento è quasi sempre sconsigliabile perché, di fatto, creando livelli del tutto arbitrari, determina la
perdita delle informazioni su rapporti e connessioni fra i singoli strati. In situazioni di scavo non alterato, quindi, procedere per
piani - il che equivale a dire senza tenere conto delle differenti caratteristiche del terreno, e senza cercare di leggere ogni
mutamento visibile come segnale di una modifica intervenuta a spezzare l'equilibrio del precedente "stato" archeologico - può
rivelarsi molto rischioso al momento di valutare complessivamente i dati.
Ma cosa significa, nella pratica dell'intervento sul campo, scavare stratigraficamente? Il concetto di scavo stratigrafico come si
è avuto occasione di precisare, già noto ai più illuminati ricercatori del primo Novecento, è stato ampiamente sperimentato da
Mortimer Wheeler, sebbene all'interno di una organizzazione spaziale troppo rigida e limitata. Nell'Italia degli anni Quaranta,
d'altra parte, veniva applicato su una ben più vasta scala operativa negli scavi liguri di Nino Lamboglia, e dallo stesso studioso
coraggiosamente difeso nell'ambito delle polemiche innescate dal versante accademico nel corso dei successivi decenni. Nella
premessa alla pubblicazione delle campagne di scavo ad Albintimilium l'archeologo dichiarava, appunto, di aver preferito ai
precetti dell'archeologia classica e monumentale quelli "dell'archeologia preistorica e provinciale...preoccupandosi di sfruttare
sino in fondo il terreno scavato e di dar valore al particolare senza alcun preconcetto di ordine estetistico...non esiste altra via
che...scavare stratigraficamente ogni metro di terreno, passare al vaglio e raccogliere tutto ciò che è rappresentativo di un'età
e di una facies". L'unico vero limite della procedura di Lamboglia risiedeva, non tanto nella scelta di non numerare le strutture
murarie, che venivano comunque identificate da lettere, ma nel fatto che fossero ignorati gli strati negativi, ossia le cosiddette
"superfici in sé", e venissero riconosciuti come tali solamente gli strati di deposizione veri e propri. Contemporaneamente a
quelle fruttuose esperienze di ricerca, il lavoro svolto da Luigi Bernabò Brea nel giacimento preistorico ligure delle Arene
Candide, che pure teneva conto della complessa e lunga successione stratigrafica, veniva modulato, in qualche porzione dello
scavo, su una tecnica mista: "nei punti più delicati - scriveva l'illustre archeologo - si sono praticati tagli più sottili e quindi più
numerosi per meglio seguire l'andamento del deposito". È proprio all’archeologia preistorica, del resto, che indaga su depositi
per lo più privi di intrusioni strutturali permanenti, ed in cui l’impronta dei fenomeni naturali è macroscopica rispetto alle tracce
dei manufatti umani, che va rivendicato il merito di aver provocato un salto di qualità nella pratica dello scavo archeologico
concentrandosi proprio sullo studio tipologico dei terreni.
Le remore imposte dalla vetusta concezione dell’archeologia monumentale, della cui miopia si lamentava Nino Lamboglia,
cominciavano ad essere realmente superati nel corso degli anni Settanta, quando, come si è già avuto modo di ricordare, la
metodologia della ricerca archeologica mondiale entrava in una stagione particolarmente fortunata e densa di fermenti. La
prima rigorosa teorizzazione del procedimento stratigrafico visto nella sua applicabilità all’indagine sul campo rimanda agli
studi di Edward C. Harris. Ancora una volta, quindi, va alla scuola anglosassone il merito di aver introdotto e soprattutto
sistematizzato la più radicale ed incisiva innovazione di metodo nel campo delle tecniche della ricerca archeologica. Fu lo scavo
urbano svoltosi a Winchester, con i più di diecimila strati archeologici individuati, infatti, a rendere necessaria la definizione di
un adeguato strumento concettuale di lettura e classificazione.
Il principio che sottende al metodo di Harris riguarda, appunto, la numerazione dei singoli fenomeni rintracciabili sul terreno
come Unità Stratigrafiche (US) distinguibili in unità positive (di costruzione), negative (di distruzione) e verticali (muri). In
questa prospettiva, lo scavo assume il fine di interpretare la stratificazione e decifrare le eventuali connessioni, ma anche
l'assenza di collegamenti fra le singole unità che compongono complessivamente la stratificazione stessa. Vale la pena di
rimarcare che i continui mutamenti del terreno oggetto della speculazione archeologica rimandano a due principali tipologie di
fenomeni: episodi di distruzione (erosione o asporto) e di costruzione (accumulo). Tali avvenimenti sono fra loro strettamente
correlati. Ad ogni azione in positivo, quale, ad esempio, l'innalzamento di un edificio, ne corrisponde una in negativo, come il
livellamento del terreno, l'apertura di una cava a poca distanza, lo scavo della trincea di fondazione e così via. Tutte le
"azioni", ossia le fasi in cui si svolgono "movimenti" di terra e si verificano, in sostanza, "alterazioni" di qualsiasi tipo dello
stato precedente, possono essere definite "strati", mentre gli intervalli fra le diverse attività, vale a dire quelle che si possono
chiamare "interruzioni del movimento" rappresentano le "superfici" degli strati, note ai geologi come "interfacce". Tali
superfici, sulla cui esistenza ed importanza si è prima di altri soffermato il citato archeologo inglese, sono di straordinario
interesse perché corrispondono ai momenti di pausa fra le varie azioni che determinano, di norma, l'incremento della
stratificazione. In termini storici i periodi di "inattività" - quelli, cioè, in cui la stratificazione non procede - indicano, infatti, la
fase d'uso del contesto archeologico in esame, sia questo una struttura, o uno strato. L'introduzione del concetto di interfaccia,
quindi, come anche il rilievo, per così dire, della necessità di riservare pari considerazione alle unità stratigrafiche positive e
negative, ha determinato una vera e propria rivoluzione dei princìpi metodologici che regolano la pratica dello scavo
archeologico. Il taglio di una fossa di fondazione o di spoliazione, quello di una sepoltura o di una buca di palo crea un'unità
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stratigrafica negativa ed ha lo stesso valore documentale del suo riempimento: numerarlo, significa dunque tenere conto delle
variabili cronologiche che possono presentarsi in deroga alla già citata legge geologica dell'originaria sovrapposizione.
Ogni strato possiede, per definizione, una serie di peculiarità e caratteristiche fisiche che gli archeologi stratigrafi si sono
preoccupati di segnalare al fine di indicare passo dopo passo le metodiche più corrette per la esecuzione pratica dello scavo.
Gli elementi di cui è necessario tenere conto sono quindi: la superficie, il contorno, il rilievo, il volume, la posizione topografica
(cioè la collocazione tridimensionale dello strato nello spazio), la posizione stratigrafica relativa (cioè quella in relazione alle
superfici degli altri strati).
I rapporti spaziali potenzialmente evidenziabili fra le diverse unità di strato rientrano perciò in tre categorie di relazioni:
sovrapposizione, correlazione e mancanza di rapporto che talvolta può essere interrotta da unità stratigrafiche posteriori. In
termini temporali si tratta di verificare, nello specifico, e quando essi siano presenti, rapporti di successione (copre/ coperto
da; si appoggia a/ gli si appoggia; taglia/ tagliato da; riempie/ riempito da) o contemporaneità (uguale a; si lega a).
Di fatto, la teorizzazione di Edward C. Harris interviene in forma incisiva, più che sulla definizione del procedimento di scavo,
che resta evidentemente quello stratigrafico, sulla fase di registrazione dei dati archeologici e sul raggiungimento, nella
interpretazione della stratigrafia, del maggiore dettaglio possibile. La novità principale del metodo, infatti, consiste nel ricorso
ad uno strumento di documentazione, quello delle schede di Unità Stratigrafica, che rappresenta un supporto ed un
complemento oramai imprescindibile del consueto giornale di scavo (sul tema specifico si ritornerà più avanti). Le schede,
numerate in sequenza a seconda della fase di scoperta e demarcazione sul terreno - piuttosto che in base al reale rapporto
temporale che intercorre fra i singoli strati visibili in sezione, come invece si verificava nella adozione della strategia di
Mortimer Wheeler - contemplano una serie di voci finalizzate alla descrizione quanto più possibile particolareggiata dei singoli
strati, positivi e negativi, e delle strutture di volta in volta messi in luce.
Il passo successivo, che rappresenta altresì un fondamentale ausilio alla lettura delle sequenze stratigrafiche, è il cosiddetto
matrix o diagramma stratigrafico di Harris. Lo scopo del diagramma è, in sostanza, quello di mettere in fase e ricostruire,
secondo uno schema sintetico, i diversi rapporti fra le singole unità stratigrafiche per arrivare alla definizione di un vero e
proprio grafico, appunto, dal quale siano rapidamente percepibili le relazioni, o l'assenza di legami, fra gli strati scoperti e
numerati nel corso dello scavo.
L'utilità del matrix risiede certo nel fatto di rendere rapidamente e contemporaneamente accessibile ogni informazione sulle
diverse unità stratigrafiche e sui vari rapporti intercorrenti senza dover consultare piante, sezioni e schede, ma fornendone
una visualizzazione generale. È anche vero, però, che l'impiego della procedura durante lo scavo, cioè la redazione del grafico
sincronicamente all'esecuzione pratica dello scavo stesso, rappresenta un'importante guida metodologica poiché indica l'ordine
nel quale le singole unità stratigrafiche vanno asportate.
Dal punto di vista meramente tecnico vi sono, inoltre, alcune regole da seguire nella composizione grafica del matrix che ne
sottolineano la finalità principale, cioè quella di evidenziare l'ordine cronologico e spaziale fra le diverse componenti della
sequenza stratigrafica: la lettura, difatti, deve essere unidirezionale e procedere dall'alto in basso, o viceversa, attraverso il
tracciato di linee di collegamento continue fra i numeri di US. L'importanza della corretta applicazione di queste complesse
procedure è dimostrata dall'edizione di veri e propri manuali di sussidio che si offrono a complemento del volume inglese, con
l'obiettivo di agevolare la compilazione del diagramma stratigrafico di Edward C. Harris, come è il caso, ad esempio, del
recente Esercizi di matrix, scaturito dal patrimonio di esperienze sul campo di alcuni archeologi italiani militanti. Al fine di
evitare confusi intrecci fra i diversi simboli ed i vari numeri di unità stratigrafica è opportuno proporre questi stessi rapporti in
forma del tutto sintetica, ossia indicare esclusivamente le connessioni essenziali escludendo le informazioni ridondanti. Per
usare le parole chiarificatrici degli autori summenzionati, nel grafico finale "ogni US avrà sotto di sé solo la più recente delle US
più antiche con cui ha contatto e sopra solo la più antica fra quelle più recenti che sono a contatto".
Muovendo da questo sistema è possibile realizzare ulteriori accorpamenti di unità stratigrafiche che rimandano al medesimo
contesto di eventi - riproducendo, ad esempio, tutte le unità che indicano le sequenze di una costruzione o tutte quelle che ne
riguardano, invece, la distruzione - e creare ancor più sintetici grafici destinati ad evidenziare fase per fase le attività prodotte
sul sito. Questo stadio del lavoro, che si accompagna al momento dell'interpretazione globale dei dati, ha lo scopo di
ricostruire e marcare interi periodi archeologici del contesto in esame.
In tal senso, la creazione di "unità di attività", cioè la riunione in gruppi omogenei delle unità stratigrafiche collegate, diviene
una tappa imprescindibile nell'ambito della decifrazione di stratigrafie complesse. La periodizzazione del matrix, che altro non è
se non la sua segmentazione orizzontale "in avvenimenti e periodi", rappresenta il completamento ineludibile della scelta
harrisiana.
Se la procedura adottata da Edward C. Harris ha segnato senza dubbio un fondamentale avanzamento nell'ambito della
formulazione di una metodologia tecnica correntemente fruibile, d'altro canto, la visione "astratta" delle operazioni di scavo
che si accompagna all'utilizzo del diagramma matrix in archeologia ha sollevato, al tempo stesso, alcune perplessità, proprio a
causa dell'irreale senso di ordine e regolarità che questo introduce. La ricostruzione virtuale delle sequenze stratigrafiche
realizzata secondo i dettami di E. C. Harris, difatti, rischierebbe di appiattire e costringere entro schemi insoddisfacenti quei
processi di formazione degli strati archeologici che sono, in realtà, estremamente elaborati, o per meglio dire, tende a
semplificare all'eccesso la variegata fenomenologia che si accompagna alle continue trasformazioni della fisionomia del
paesaggio antropico. Quello che è, quindi, un complesso dinamismo di rapporti morfologici ed evolutivi deve essere recuperato
e mantenuto - secondo una corrente di pensiero cui sembra necessario dedicare nel prosieguo alcune righe - nella fase
ricostruttiva dei dati di scavo, e proprio questa esigenza non sarebbe sufficientemente esaudita dalla statica metodologia "della
matrice". Scavi protostorici condotti in Veneto, in particolare, sono stati negli anni Ottanta un importante banco di prova per la
sperimentazione di una tecnica che consentisse il recupero dell'intero meccanismo deposizionale dei singoli strati archeologici.
Il fulcro di questa nuova filologia dello scavo archeologico è nella riflessione che il processo di deposizione degli strati sia
continuamente in atto e vada quindi considerato in fieri anche durante lo scavo. A tal proposito, si suggerisce di effettuare lo
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studio dei "meccanismi deposizionali e post-deposizionali" degli strati archeologici seguendo i parametri relativi ai processi
sedimentari delle ere geologiche, piuttosto che ripetendo le sterili astrazioni introdotte dal sistema di Harris; la costituzione di
un nuovo strato, infatti, non è altro che il frutto della distruzione di quello precedente, in quanto la stratificazione archeologica
è l'effetto della metabolizzazione incrociata di fenomeni naturali ed attività umane. Questa insoddisfazione metodologica, per
la quale è stato usato come "cassa di risonanza", fra altri contributi, un importante convegno patrocinato da Giovanni Leonardi
nel 1991 sui Processi formativi della stratificazione archeologica, ha portato, quindi, all'applicazione della microstratigrafia allo
scavo ed alla creazione di diagrammi stratigrafici corredati, per ogni strato archeologico, dalla cosiddetta "formula geneticoprocessuale", cioè dalla indicazione della possibile causa e dei modi di formazione delle singole unità stratigrafiche. La
ricostruzione "dinamica", vale a dire in chiave geomorfologica, della sequenza stratigrafica diviene, quindi, un'operazione
estremamente delicata e lunga.
Tale minuziosa formalizzazione del diagramma stratigrafico corrisponde senz'altro, al raggiungimento del più elevato dettaglio
nella documentazione, ed è fuor di dubbio che si tratti del più accurato sistema di ricostruzione analitica dei dati di scavo. Si è
già avuto occasione di notare, del resto, che in uno scavo di contesto pre-protostorico, in assenza di strutture permanenti e
dove sono gli strati di terreno a fare la storia del sito, lo scavo microstratigrafico è probabilmente la procedura più adeguata
per la comprensione profonda degli eventi. Tuttavia, è altrettanto ovvio che si tratta di un procedimento laborioso e tale da
rendere sempre più necessaria la collaborazione di discipline e figure collaterali agli archeologi come, ad esempio, quelle di
geologi e geoarcheologi. Questo fatto potrebbe costituire, per assurdo, un limite all'adozione della procedura.
Nell'acquisizione dei parametri metodologici dello scavo stratigrafico su cui ci si è soffermati è insito, però, anche il rischio di
un eccesso di tecnicismo nella conduzione dell'attività sul campo. A ben guardare, infatti, la natura prettamente "fisica" dei
collegamenti fra i vari strati rende teoricamente possibile effettuare uno scavo anche in assenza di una preparazione storica
adeguata, e definisce lo scavo stratigrafico come un'operazione del tutto scevra da implicazioni di ordine contenutistico o da
condizionamenti culturali, caratterizzandola come un intervento squisitamente tecnico. Come si è visto, d'altro canto, proprio
questo aspetto è ritenuto dagli archeologi che propugnano l'applicazione del metodo stratigrafico su vaste aree una delle
principali norme per eseguire correttamente lo scavo. Estremizzando i termini della questione, si potrebbe presentare così, il
rischio di alienare l'attività sul campo da quello che è il movente precipuo della ricerca storica, e si potrebbe cadere nell'errore
di trasformare lo scavo in un'operazione meccanica di riconoscimento e rimozione di strati di terreno diversi. In realtà, questo
eccesso di pragmatismo può essere facilmente evitato una volta che si avvii la fase immediatamente successiva allo scavo
manuale, quella, cioè, dell'interpretazione e messa in fase dei documenti. Va detto però, che molti degli archeologi moderni
che operano sul campo esprimono ragionevolmente una forte tensione verso la percezione della "microstoria" del sito che
scavano piuttosto che verso la ricomposizione di problematiche di ampio respiro, nonostante sia proprio l'esistenza di grandi
interrogativi storici a stimolare l'avvio della ricerca archeologica. In conclusione, se chi scava opera essenzialmente in quanto
studioso di processi "storici", deve necessariamente diventare anche un "tecnico". Il mestiere dell'archeologo è quindi simile a
quello di un analista metodico, paziente e puntiglioso con ben pochi tratti comuni agli avventurieri romantici che ne vestono i
panni nell'immaginario collettivo. Allo stesso modo, lo scavo è un'operazione scientifica minuziosa, che talvolta non risparmia
fasi noiose e oneri poco creativi, e sembra piuttosto simile ad un rompicapo che ad un'avventura spettacolare, ma nonostante
questo, come in tutte le indagini investigative, è nella fase della sintesi e nel raggiungimento di risposte, anche se talora
parziali, che risiede l'aspetto più appagante dell'esplorazione.
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