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NODI FORMATIVI
I Nodi formativi si presentano come nuclei concettuali collegati ai Progetti didattici del Sito ( Vedi
Aree Disciplinari). I Nodi, unitamente ai Progetti didattici, possono essere utilizzati per progettare e
strutturare Unità Didattiche di Apprendimento.
GIOCARE
1. Generalità
Gioco, giocare hanno un ampio spettro semantico, più ampio
ancora in altre lingue come il tedesco (spielen) il francese (jouer)
e l’inglese (to play) che comprendono anche l’esercizio di
strumenti musicali (jouer le piano, le violon ecc). Si parla di gioco
a proposito dell’infanzia ma anche a proposito di tennis, calcio e
gli sport in genere. Gioco è anche il gioco d’azzardo, così come lo
sono il bridge, il tresette, il poker ecc. Gioco è anche l’oscillare di
un perno nel suo alloggiamento o una burla ben riuscita (“mi ha
giocato ancora una volta”).
Qui il gioco ci interessa solo per i suoi aspetti formativi, nei bambini ma non solo. Anche entro
questi limiti possiamo distinguere:
- il gioco fine a se stesso (che possiamo chiamare esplorativo)
- il gioco con finalità esterne ad esso: conseguimento di un
premio, vittoria in una competizione, piazzamento in una
classifica e simili (gioco competitivo).
Trattiamo per primo questo secondo tipo, che ci sembra meno
interessante per la formazione, dedicando poi più attenzione al
gioco esplorativo.
2. Il gioco competitivo
Non è evidente se si instauri autonomamente nei bambini
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(sempre tuttavia dopo quello esplorativo) o se ciò avvenga per
pressione culturale, cioè ad opera degli adulti. Se negli animali
(mammiferi) il gioco infantile assume (per noi) l’aspetto di una
competizione o di una preparazione ad essa, non sembra tuttavia
che i giocatori lo vivano così, stando alla reciprocità dei
comportamenti che si osserva per esempio nei cuccioli di molte
specie. Anche nei bambini del resto, prima di essere competitivo
e selettivo, il gioco è divertimento, attività disinteressata anche se
in qualche modo basata sul confronto. Non importa l’esito,
importa l’azione, il tempo riempito e qualificato da questa. In
questa fase che, forse primaria, non si estingue tuttavia con
l’infanzia, il gioco competitivo mantiene alcune caratteristiche di
quello esplorativo (esplorare per esempio o verificare certe
capacità individuali). Quale valore formativo assegnare al gioco
competitivo? Una critica, oggi diffusa, alla cultura ipercompetitiva
in cui siamo immersi, coinvolge nella sua negatività anche i giochi
competitivi?
Non sembra sia così neppure tra gli estremisti della non
competitività. Si parla, invero, di sport non competitivi e si
praticano anche, ma nessuno condannerebbe una gara di corsa o
una partita di pallone perché c’è chi vince e c’è chi perde. I
vantaggi, fisici e psichici di un gioco competitivo, condotto senza
eccessi e fanatismi, prevalgono, nella sua valutazione ai fini
formativi, sulla considerazione che viene così trasmesso un
modello che in altri
contesti
pensiamo meriti
la nostra
opposizione. D'altronde la scuola propone questo stesso modello
in forme ben più discriminatorie, a fronte delle quali un successo
nel gioco risulta spesso compensativo di latri insuccessi. La
pluralità delle situazioni competitive che la scuola offre ai suoi
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frequentanti compensa di per sé la negatività che si vuole
attribuire al modello. Negatività, del resto, ideologicamente
Relativizzare fondata e quindi bisognosa di energiche correzioni relativistiche.
Meno difendibili delle competizioni tipo vinca il migliore appaiono
quelle finalizzate al conseguimento di un premio. Il modello si
ritroverà più tardi nei concorsi per un posto di lavoro o per un
avanzamento di carriera. Anche se il modello concorso è
difficilmente sostituibile sul piano dell’efficacia selettiva, resta
preminente il danno psicologico e sociale inflitto – spesso
ingiustamente – ai perdenti. Nei gradi inferiori della scuola questo
modello gioca un ruolo assai marginale, man mano che si
procede nel cammino scolastico, gli strumenti di verifica e
valutazione sempre più si avvicinano a quelli dei futuri concorsi.
Da un lato si potrebbe dire che preparano ad essi cioè rafforzano
l’individuo in vista dei probabili insuccessi di domani, dall’altro che
indeboliscono ulteriormente i più deboli, fino a farne dei perdenti a
priori o dei contestatori per principio.
3. Il gioco esplorativo – prima fase
Da quando gli mettono in bocca il primo ciucciotto comincia, nel
bambino, il gioco esplorativo. Questo ha notoriamente due facce:
esplorazione dell’oggetto, esplorazione di sé, del proprio corpo
attraverso l’oggetto. E quando l’oggetto fa parte del proprio corpo,
come quando il bambino ciuccia il suo pollice?
Si ha probabilmente uno sdoppiamento del sé, oggetto esplorato e soggetto esploratore a un
tempo. (La condizione di sdoppiamento si normalizza poi per esempio quando ci alleniamo per
una certa attività e osserviamo i nostri progressi). Potremmo
Simulare
andare ancora oltre: il bambino che ciuccia il suo ciucciotto simula
(a se stesso) il comportamento di suzione del latte materno.
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Manca il soddisfacimento di un appetito, lo sostituisce il
soddisfacimento dell’azione. Il bambino sa di simulare?
Conoscere
La domanda è mal posta. I processi del conoscere
intellettualmente e dell’accumulo del sapere sono appena iniziati:
dopo qualche tempo il bambino comincia a sapere e si procura
intenzionalmente il piacere della suzione.
Lo stesso possiamo immaginare che avvenga per forme
esplorative più evolute, quali si manifestano nell’uso delle mani e,
in misura minore, dei piedi. L’esplorazione orale permane ancora
per qualche tempo, come Freud ci ha insegnato; ben presto
tuttavia la scoperta propriocettiva dell’abilità manuale concentra
l’attività esplorativa su questi arti privilegiati. E il gioco esplorativo
propriamente detto ha inizio. E durerà molti anni, per alcuni
addirittura forse tutta la vita. Per un pianista per esempio.
4. Il gioco esplorativo – seconda fase
Ripetere
Caratteristica di questa che artificialmente abbiamo distinto come
seconda fase è l’iterazione. Possiamo intendere l’iterazione (di un
gesto, di un’azione) come una copia differita nel tempo. Il
bambino ripete indefinitivamente un medesimo comportamento
quasi imitando se stesso.
Lo scopo (ma perché lo cerchiamo?) probabilmente quello di
acquisire la competenza di quel comportamento o di sperimentare
la reazione di un oggetto o… il semplice piacere ritmico
dell’iterazione (si pensi ai movimenti ripetitivi e stereotipi in una
discoteca o in un concerto rock).
Ipotizzare
A mano a mano il gioco esplorativo si fa più complesso e produce
i primi germi del pensiero ipotetico (“chissà se battendo più forte
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questo coso si rompe?”), del pensiero analitico (“e quest’altro
Analizzare
Osservare
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chissà come è fatto dentro”), di quello osservativo (“questo invece
Sperimentare
si e muove da solo”) o sperimentale (“se faccio così, lui che
farà?”). Nel gioco infantile sono prefigurati, in forma operativa, gli
stili di pensiero che l’individuo svilupperà coscientemente nei
periodi seguenti, in particolare nella scuola. Così enunciata,
questa ipotesi suona piuttosto come un dato di fatto, mentre ci
manca ovviamente il riscontro di coscienza. Anche questa è
ancora in via di formazione e tutto ciò che da adulti possiamo fare
è formulare ipotesi. Pensiamo comunque che la scuola, quella
dell’infanzia in particolare, poi anche quella primaria fanno bene a
considerare il gioco come l’attività formativa per eccellenza in
questa fase.
5. Il gioco esplorativo – terza fase
Consideriamo questa – artificiosamente distinta – terza fase come
permanente, tale per lo meno da meritare una collocazione
permanente nella vita dell’individuo.
“L’età non rimbambisce, come si suol dire, ci trova ancora veri
bambini.”
(Goethe, Faust I)
Conservare il puer nel senex, per usare il linguaggio della psicanalisi: uno dei
principali compiti formativi della scuola. Il puer
è la nostra capacità di
esplorare, osservare, sperimentare, quel saper giocare, spontaneo nei
bambini, ma troppo spesso cancellato dagli altri saperi cui la cultura costringe
il precoce senex. Si dice che la vita spesso ci invecchia anzitempo, forse però
è la scuola che non ci fornisce un adeguato antidoto. Ammesso anche che la
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scuola ci prepari al tempo lavorativo (il che è peraltro ancora da dimostrare),
che cosa fa per prepararci ad affrontare il tempo libero (che in termini di
durata tende sempre più a sopravanzare l’altro)? La gestione del tempo
libero, in particolare nell’età del pensionamento, sembra non riguardarla; solo
in tempi relativamente recenti, per esempio con le università della terza età,
la società comincia a farsi carico di questo problema, quando invece se ne
dovrebbe occupare fin dall’inizio del processo formativo. E come?
Salvaguardando nell’individuo la dimensione infantile del gioco
esplorativo e del suo agente motivante: la curiosità. Anche il
sapere può farsi gioco. Il piacere della scoperta (non importa se
dell’acqua calda), del confronto con la scoperta altrui, l’esercizio
(ludico) del pensiero e così via: tutto questo può essere vissuto
en jeu e la scuola potrebbe fare molto in questa direzione. Se
cominciasse a proporsi essa stessa come un gioco, certo molto
Motivare
serio perché ne va del nostro futuro, ma pur sempre gioco. Serietà
e divertimento non si oppongono l’un l’altro; a mediarli c’è
l’interesse, il grande cruccio di ogni insegnante: i ragazzi sono
distratti, non si interessano… Il problema è metodologico.
Nessuno ha in tasca soluzioni prefabbricate, ma la scuola
dovrebbe concentrare i suoi sforzi su questo punto: conservare
nei ragazzi, anzi potenziare, il piacere che provavano, pochi anni
prima, nel smontare il giocattolo preferito.
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