Donne e gabbie sociali nel cinema di Marco Bellocchio e di Carl

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Donne e gabbie sociali nel cinema di Marco Bellocchio e di Carl
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Donne e gabbie sociali nel cinema di Marco Bellocchio
e di Carl Theodor Dreyer
di Nicola Cargnoni
Piccola introduzione
Analizzare e mettere a confronto le opere di due cineasti così apparentemente
diversi fra loro è impresa tanto ardua quanto affascinante.
Quando ho iniziato ad approfondire la presenza della figura femminile nel cinema
di Marco Bellocchio1, ho fin da subito manifestato il desiderio e l’intenzione di sviluppare
il tema integrando un discorso che riguardasse un parallelismo con l’opera cinematografica
del compianto regista danese Carl Theodor Dreyer2.
La domanda, più che legittima, che mi viene da farsi è «Perché proprio Dreyer?».
Premettendo che i film sono opere d’arte costruite con l’uso di immagini in
movimento (se si eccettuano alcuni sperimentalismi, come per esempio nel caso di Blue3 di
Derek Jarman4), è altresì vero che di questa arte spesso non ci rimangono che sensazioni
ben sedimentate nell’animo, capaci poi di (ri)chiamarsi tra loro e “svegliare” collegamenti
altrimenti impossibili.
Un primo dato che accomuna i due registi è puramente cronologico e, invero,
investe un ruolo del tutto romantico nella vicenda. Correva l’anno 1965: Marco Bellocchio
esordiva con I pugni in tasca 5 e Carl Th. Dreyer compiva la sua opera con il discusso
capolavoro Gertrud6. I due film sono agli antipodi per tematiche, stile, intenti, sviluppo,
forma e contenuto. Ma segnano un ideale passaggio di testimone tra due registi che, come
si vedrà, si somigliano molto più di quanto possa apparire a un primo sguardo.
Scandagliando meglio e andando oltre al fattore cronologico, mi sono reso conto che già da
una prima analisi emergono numerosi altri punti di contatto.
Se si va a ritroso nel tempo, scavando nel lavoro di Dreyer e andando a indagare
anche la filmografia meno nota e precedente La Passione di Giovanna d’Arco7, troviamo
fin dagli esordi un chiaro intento artistico e politico, volto allo sviluppo di alcune tematiche
che si ripeteranno nel cinema di entrambi i registi.
L’attacco alle istituzioni che emerge fin da Præsidenten8, film d’esordio del 1919, si
accompagnerà ad altri temi cari a Dreyer: la visione critica della famiglia si inserisce
Marco Bellocchio (Bobbio, 9/XI/1939).
Carl Theodor Dreyer (Copenhagen, Danimarca, 3/II/1889 - Copenhagen, 20/III/1968).
3
Gran Bretagna, 1993. Regia: Derek Jarman.
4
Michael Derek Elworthy Jarman (Northwood, Gran Bretagna, 31/I/1942 - Dungeness,
19/II/1994).
5
Italia, 1965. Regia: Marco Bellocchio. Con: Lou Castel, Paola Pitagora, Marino Masè,
Liliana Gerace, Pier Luigi Troglio, Jeannie McNeil, Gianni Schicchi. Montaggio: Silvano
Agosti. Fotografia: Alberto Marrama, Giuseppe Lanci. Musiche: Ennio Morricone.
6
Danimarca, 1964. Regia: Carl Theodor Dreyer. Con: Nina Pens Rode, Bendt Rhote,
Ebbe Rode, Baard Owe, Axel Ströbe, Anna Malberg.
7
Francia, 1928. Titolo originale: La Passion de Jeanne d’Arc. Regia: Carl Theodor
Dreyer. Con: Renée Falconetti, Eugène Silvain, André Berley, Maurice Schutz, Antonin
Artaud, Michel Simon.
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accanto a una forte condanna di tutte le limitazioni sociali e morali che il potere costituito
(quasi sempre religioso) ha imposto alla libertà personale degli individui.
Queste imposizioni si perpetuano fino a condizionare i protagonisti dei film di
Dreyer, tanto da estraniarli dalla realtà in cui vivono, scindendoli da essa e ponendoli in
posizione solitaria negli schemi sociali guidati dai dettami etico-sociali che guidano il
presente e il passato del regista.
Queste sono tematiche che ritroviamo quasi sempre anche nell’opera di Bellocchio,
oltre a ciò che ha provocato la scintilla iniziale: l’ampio uso della figura femminile, spesso
protagonista, nel lavoro di entrambi i registi.
Quello di Dreyer e di Bellocchio è un cinema “fatto di corpi”, dove l’uso della
macchina da presa è quasi sempre volto a un pedinamento costante, assillante e insistente
del corpo femminile, delle reazioni che esso provoca o desta, degli ingabbiamenti sociali a
cui è sottoposto e della capacità che esso ha di cambiare i destini dei comprimari. Un uso
“politico”, che in Dreyer trova le radici di quello che sarà il costante lavoro di
modellamento dei rapporti uomo/donna messo in scena da Bellocchio.
L’opera dei due artisti si accompagna alle conquiste sociali, etiche e morali che
avvengono nei rispettivi Paesi, soprattutto dal punto di vista di un’acquisizione di
consapevolezza dell’emancipazione femminile e del cambiamento della “cultura della
famiglia” in atto. Occorre inquadrare Dreyer nel contesto del Nord Europa degli anni
Trenta, Quaranta e Cinquanta, mentre Bellocchio vive i cambiamenti sociali nell’Italia dei
difficilissimi anni che vanno dai Cinquanta agli Ottanta del secolo XX. Ad accomunarli c’è
anche una dimensione laica del loro cinema, che per Bellocchio si traduce in una
professione di ateismo come rifiuto del metafisico, mentre per Dreyer la laicità consiste
proprio in una sublimazione della fede dei suoi protagonisti nel contesto filmico in cui
vivono; il che potrebbe sembrare contraddittorio, ma Dreyer è assai distante da
quell’etichetta di “cineasta religioso” che gli è stata applicata con troppa facilità dalla
critica contemporanea, la stessa che ha contribuito a tenere “in sordina” le sue opere
soffocandone l’immensità artistica.
Al di là di un paio di fortunate rivelazioni che si desumono da altrettante
dichiarazioni di Bellocchio, nelle quali il regista piacentino accenna molto vagamente a
Dreyer, si può constatare come entrambi i registi tendano a “lasciar lavorare” gli attori,
facendo in modo che essi assumano la forma dei personaggi, facendoli esistere più che
apparire. E la grandezza dei nostri artisti sta proprio nell’uso della macchina da presa come
strumento per cogliere questo passaggio dalla dimensione profilmica a quella diegetica,
lasciando che siano i “corpi” degli attori a “dare corpo” alle immagini, infatti
il regista avrà tutto da guadagnare a non imporre all’attore le proprie concezioni, perché
non è dietro comando che un attore può esprimere sentimenti autentici. Non si può
suscitare un commento con la violenza; esso deve nascere in modo spontaneo; attori e
registi devono lavorare insieme per farlo scaturire naturalmente 9.
Si può dunque giungere ad asserire che dietro allo sviluppo di entrambe le
cinematografie prese in esame c’è una solida comunanza di metodo, di intenti e di finalità.
Che si tratti dello stretto arco temporale del “dramma di un giorno”, splendidamente messo
Danimarca, 1919. Regia: Carl Theodor Dreyer. Con: Halvard Hoff, Elith Pio, Carl Meyer,
Olga Raphael-Linden, Betty Kirkeby, Richard Christensen, Peter Nielsen.
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DREYER C.T., Qualche parola sullo stile cinematografico in Id., Cinque film, Torino,
Einaudi, 1967, pg. 392.
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in scena nelle due ore di La Passione di Giovanna d’Arco, o che si tratti del “dramma di
una vita” mostrato in Vincere, ciò che emerge in Bellocchio e in Dreyer è l’ostentata
volontà di porre in essere la Passione e i conflitti che vivono i propri protagonisti e, con
essi, gli attori che li incarnano.
Passione, lacrime e femminismo da Giovanna a Gertrud
«Volevo cantare il trionfo dell’anima sulla vita»
[Dreyer su La Passione]10
Uno dei motivi più ricorrenti nel cinema di Carl Theodor Dreyer11 è l’ossessione di
una congrega di vecchi tesa ad avvelenare, risucchiare, condannare e assassinare la
giovinezza. La Passione di Giovanna d’Arco 12 è da considerarsi la summa di questo
discorso; ma il vampirismo generazionale è facilmente rilevabile anche in Vampyr13, dove
si manifesta in forma metafisica, ed è riscontrabile anche in altri lavori di Dreyer, come
Mikaël14, Præsidenten, La vedova del pastore15 e Dies irae16.
La Passione della Giovanna dreyeriana è fisica, psicologica, oltre che
spiritualmente tormentata; reagisce all’ambiente che la circonda ed è spogliata di qualsiasi
investitura divina. I volti degli inquisitori che la circondano sembrano “da documentario” a
causa della totale assenza di trucco, ma proprio questa assenza contribuisce a farli
diventare delle maschere.
Per Dreyer la funzione di questi volti distorti è quella di creare nel pubblico un
senso di empatia per le sorti di Giovanna. Per stessa ammissione del regista «il risultato del
primo piano era che lo spettatore riceveva gli stessi colpi che riceveva Giovanna,
tempestata dalle domande che la torturavano»17.
Ciò che emerge è l’intento, condiviso anche da Bellocchio in molti suoi film, di
provocare una reazione nello spettatore, facendolo partecipare e rendendolo portatore delle
DREYER C.T., Misticismo fatto realtà in Id., Cinque film, Torino, Einaudi, 1967,
pg.
356.
11
Per una biografia minuziosa e puntuale cfr. DROUZY M., Carl Th. Dreyer nato Nilsson,
Milano, Ubulibri, 1990. Per approfondire l’opera del regista danese vale la pena
segnalare in particolar modo GERMANI GRMEK S. e PLACEREANI G. (a cura di), Per Dreyer,
Milano, Il Castoro, 2004; BERNARDI A., Carl Theodor Dreyer. Il verbo, la legge, la libertà,
Recco, Le Mani, 2003. Il “castoro” di Pier Giorgio Tone risulta essere un buon testo, ben
argomentato e lucido, ma è comunque datato e, quindi, non aggiornato sui recenti
studi eseguiti sull’opera dreyeriana.
12
Sarà indicato il titolo in italiano solo per quei film che sono stati distribuiti e diffusi in
Italia con il titolo tradotto. Per tutti gli altri film (non distribuiti in Italia o tradotti solo
successivamente) sarà usato il titolo nella lingua originale del Paese di produzione.
13
Francia-Germania, 1932. Regia: Carl Theodor Dreyer. Con: Julien West, Henriette
Gérard, Jean Hieronimko, Maurice Schutz, Rena Mandel, Sybille Schmitz, Albert Bras, N.
Babanini, Jane Mora.
14
Germania, 1924. Regia: Carl Theodor Dreyer. Con: Benjamin Christensen, Walter
Slezak, Nora Grégor, Robert Garrison, Alexander Mürski, Grete Mosheim, Didier Aslan,
Karl Freund.
15
Svezia-Danimarca, 1920. Titolo originale: Prästänkan. Regia: Carl Theodor Dreyer.
Con: Hildur Carlberg, Einar Rød, Greta Almroth, Olav Aukrust, Kurt Welin, Emil
Helsengreen, Mathilde Nielsen, William Ivarson, Lorentz Thybolt.
16
Danimarca, 1943. Titolo originale: Vredens dag. Regia: Carl Theodor Dreyer. Con:
Thorkild Roose, Lisbeth Movin, Sigrid Neiiendam, Preben Lerdorff Rye, Albert Hoeberg,
Olaf Ussing.
17
DELAHAYE M., Intervista con Carl Theodor Dreyer in AA. VV., Cahiers du cinéma. La
politica degli autori. Prima parte: le interviste, Roma, Minimum Fax, 2010, pg. 239.
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istanze a favore di Giovanna. L’architettura espressionista delle inquadrature aiuta e facilita
gli intenti: i volti degli inquisitori, le stanze, i portoni, i mobili le si scagliano contro, la
incalzano, le piombano addosso grazie all’uso di angolazioni oblique.
Una serie di primi piani che caratterizzano la struttura stilistica e formale di La Passione di Giovanna d’Arco
In un articolo per il quotidiano Politiken del 19/XI/1933 Dreyer scrive che
«caratteristica di ogni buon film è una certa irrequietezza ritmica, raggiunta sia per mezzo
dei movimenti dei personaggi entro le inquadrature, che per mezzo del cambiamento più o
meno rapido di queste»18 dando corpo al concetto di “irrequietezza ritmica” che segna un
altro dei punti in comune tra il regista danese e Marco Bellocchio.
La struttura di Giovanna d’Arco si basa su una serie di conflitti, a loro volta
determinabili in altrettanti capitoli.
In un capitolo iniziale si potrebbe collocare la vicenda del primo interrogatorio,
dove Giovanna è chiamata a rispondere alle domande dei giudici nell’aula di un tribunale
ecclesiastico. In questo ambito si materializza il conflitto che oppone la Pulzella alla
Chiesa, metafora dell’opposizione tra il credente e la gerarchia.
L’azione passa nella cella di Giovanna, dove si materializza il momento del dubbio.
Il terzo momento, il più esteso e complesso, è bipartito tra la camera di tortura e, di
nuovo, la cella, e mette in scena il conflitto tra l’anima e la carne, tra lo spirito e il corpo.
Il quarto capitolo si svolge nel cimitero, all’esterno della cappella sede del
processo, dove si evidenzia il conflitto tra l’essere umano e la tentazione. Giovanna compie
l’atto di abiura19. Ancora una volta Dreyer sceglie di vestire il demonio tentatore in abito
talare, come già era successo in Pagine dal libro di Satana20, dove il diavolo si era incarnato
proprio nei panni di un inquisitore.
DREYER C.T., Il vero cinema sonoro in Id., Cinque film, Torino, Einaudi, 1967, pg. 357.
Rinuncia libera e perpetua, sotto la fede del giuramento, a cose, persone o idee, alle
quali prima si era aderito, e in particolare alla fede che prima si era professata [fonte:
Treccani.it].
20
Danimarca, 1920. Titolo originale: Blade af Satans Bog. Regia: Carl Theodor Dreyer.
Con: Helge Nissen, Halvard Hoff, Jacob Texière, Hallander Helleman, Ebon Strandin,
Tenna Kraft, Emma Wieth, Carl Wieth, Clara Pontoppidan.
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L’ultimo capitolo si pone come compimento del sacrificio di Giovanna. Superata la
tentazione e ritrattata l’abiura, la Pulzella si trova a dover fare i conti con il conflitto
supremo: l’agonia sul rogo. La sua morte, però, contribuisce a far deflagrare un ennesimo
conflitto, ossia quello della folla che si rivolta alla tirannia.
I cittadini di Rouen assaltano il castello dove sono asserragliati gli inglesi e i prelati
(molti dei quali proprio francesi, per altro), artefici della condanna. La rivolta viene
repressa nel sangue.
Il “crescendo” dell’azione porta la pellicola a partire dall’opposizione di un singolo
soggetto ai suoi accusatori, in un contesto strettamente dottrinale e teologico, fino ad
arrivare alla ribellione di un intero popolo.
Due momenti importanti della Passione di Dreyer: il corpo della Falconetti21 subisce delle vere torture fisiche,
realmente avveratesi in funzione del tutto profilmica all’insegna di un impressionante realismo che caratterizza la
cifra stilistica del film. Sull’attrice e sul valore della sua prova si tornerà in questa sede; qua è interessante notare
come Giovanna sia totalmente in balia dei propri aguzzini. Il taglio dei capelli, il salasso, lo sputo in faccia che si
vede in un’altra scena sono tutti gesti che allo spettatore possono apparire come profanatori. Nel momento in cui
Giovanna subisce la tonsura siamo già verso la fine della vicenda e lo spettatore ha già avuto modo di entrare in
empatia. La tortura e la mutilazione fisica si possono a maggior ragione considerare degli atti oltraggiosi, un
vilipendio alla “santa”
Nella “scelta” del soggetto della Pulzella d’Orléans Dreyer non aveva in mente
“solo” Giovanna d’Arco o, perlomeno, non aveva in mente lei in particolar modo, tant’è
vero che in un aneddoto racconta:
Quando arrivai in Francia, per girare un film per la Société Générale des Films, proposi tre
soggetti. Uno su Maria Antonietta, uno su Caterina de’ Medici e il terzo su Giovanna
d’Arco. Ebbi diversi colloqui con persone della Société Générale, ma non riuscimmo a
prendere una decisione sulla scelta del soggetto. Allora dissero “prendiamo tre bastoncini e
tiriamo a sorte”. Ero d’accordo. Tirammo a sorte. Io presi il bastoncino più corto: era La
Passione di Giovanna d’Arco22.
Il regista aveva evidentemente voglia di raccontare un soggetto che avesse al centro
una donna calata nella propria epoca e gravata del peso di dover far fronte alle proprie
21
22
Renée Falconetti (Pantin, Francia, 21/VII/1892 - Buenos Aires, Argentina, 12/XII/1946).
DELAHAYE, Intervista con Carl Theodor Dreyer, op. cit., pgg. 233-261.
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responsabilità e al proprio ruolo. L’attenzione, quindi, più che sul soggetto in particolare, si
focalizza sul modo in cui esso viene messo in scena. Con Maria Antonietta e con il tema
dell’inquisizione, del resto, Dreyer aveva già lavorato in Pagine dal libro di Satana,
partendo dunque avvantaggiato in questo senso.
Il destino ha voluto che Dreyer realizzasse un film su Giovanna d’Arco: ancora
inquisizione e tribunali, quindi, ma anche un’anticipazione di quel film su Gesù che il
regista non ha mai realizzato, portando il suo sogno con sé nella tomba.
Documentandosi sul volume del vescovo di Dubois, nel quale sono riprodotti gli
atti del processo, ciò che colpisce il regista è l’ingenuità delle risposte che Giovanna
fornisce al tribunale di vecchi teologi. Cercando di riprodurle nei dialoghi didascalici del
film, Dreyer riesce a ricavarne il carattere del suo personaggio: non una santa guerriera,
non una ispirata veggente, non una esaltata visionaria come l’avevano vista altri artisti, ma
una contadina umile e orgogliosa a un tempo, piena di fede, che offre il suo sacrificio per la
salvezza della patria e per portare a termine il compito affidatole da Dio.
Dreyer costruisce il suo personaggio debole e senza difesa, lontano dagli strepiti (e
stereotipi) guerrieri e retorici delle vicende che hanno visto Giovanna protagonista durante
la Guerra dei Cent’anni23. Questo viene risaltato e approfondito meglio nel momento in cui
Giovanna, sciolta totalmente dal mito e dalla leggenda, vacilla di fronte al dubbio,
piegandosi alla paura e firmando l’abiura. Più tardi, quando nella sua cella vede uno dei
carcerieri spazzare i suoi capelli e, con essi, la corona di spine che le era stata posta sul
capo, Giovanna coglie in quel gesto un intento sacrilego nei confronti del suo dolore e
della sua fede, (ri)trovando la propria forza di volontà e chiedendo a gran voce di poter
ritrattare l’atto di abiura, firmato solo perché «la paura del fuoco vinse l’animo mio»24.
«Il Sacro è nei Corpi», scrive Alessandro Cappabianca25, e il “corpo di dolore” della
Falconetti si fa portavoce della Passione vissuta da Giovanna. Non si tratta tanto di una
mistica immedesimazione dello spirito dell’attrice con quello di Giovanna, quanto della
capacità del suo corpo, torturato dal teatro-verità di Dreyer, di passare dal set allo schermo,
malgrado il filtro del personaggio.
Anche il finale di Dies irae è uno dei momenti più duri della visione del
cristianesimo, riprendendo in un qualche modo Giovanna d’Arco. Nel senso che questi
film forniscono uno spunto di valutazione di tutta la difficoltà che caratterizza il rapporto
che si interpone tra il “cinema di corpi” di Dreyer e il momento di pensiero riferito al
cristianesimo, cattolico o luterano che sia.
La Passione di Giovanna d’Arco è il risultato di un insieme di fattori più o meno
fortunati. Una sapiente regia, unita a un uso magistrale delle luci, dirige un cast (tra cui
compaiono Maurice Schulz26 e Michel Simon27) che è totalmente votato alla causa della
Per un approfondimento delle vicende che hanno coinvolto gli schieramenti in guerra
dal 1337 al 1453: ALLMAND C., La guerra dei cent’anni: Eserciti e società alla fine del
Medioevo, Milano, Garzanti, 1990. CONTAMINE P., La guerra dei cent’anni, Bologna, Il
Mulino, 2007. GARIN E., Medioevo e Rinascimento, Bari, Laterza, 2005. PICCINNI G., Il
Medioevo, Milano, Mondadori, 2004.
24
Dalle didascalie del film.
25
CAPPABIANCA A., Metafisica e crudeltà in GERMANI GRMEK S. e PLACEREANI G. (a cura di),
Per Dreyer, Milano, Il Castoro, 2004, pg. 70.
26
Maurice Schulz (Parigi, Francia 4/VIII/1866 - Clichy, 22/III/1955).
27
Michel Simon (Ginevra, Svizzera, 9/IV/1895 - Bry-sur-Marne, Francia 30/V/1975).
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buona riuscita del film. La scelta più singolare28, oggi impensabile per evidenti motivi
produttivi, è stata quella di girare le scene nella successione che avrebbero avuto sullo
schermo. Questa e altre stranezze dovevano servire a raggiungere un realismo quasi
assoluto e a far immergere gli attori totalmente nella parte, in base all’assioma dreyeriano
secondo cui «nel film gli attori non devono assomigliare a ciò che devono rappresentare,
bensì esserlo, nello spirito e nella mentalità»29.
Nessun trucco, nessun maquillage fu permesso alla Falconetti, che dovette togliersi
anche quello normale. Ciò che sarà sempre vivo nel lavoro di Dreyer, infatti, è lo sforzo di
determinare nell’attore l’adesione più totale al personaggio; di assimilare, di annullare,
quasi, l’uno nell’altro.
Si è già sottolineato l’immenso valore dell’interpretazione della Falconetti (nel suo
primo e unico lavoro cinematografico), ma occorre precisare che la scelta di farle
interpretare Giovanna d’Arco è stata una vera e propria scommessa da parte di Dreyer.
Renée Falconetti era un’attrice del teatro francese, quasi esclusivamente impegnata nelle
commedie. Le fonti parlando di lei come di «una donna dotata di un carattere piuttosto
schivo»30 e «psicologicamente fragile»31, e forse proprio grazie a questo Dreyer ha saputo
cogliere il potenziale drammatico che non era invece emerso in un primo momento.
Racconta il regista che
[…] durante questa visita parlammo. Fu lì che sentii che in lei c’era qualcosa cui si poteva
fare appello. Qualcosa che poteva dare, qualcosa, quindi, che io potevo prendere. Perché
dietro il trucco, dietro l’atteggiamento, dietro questo incantevole aspetto moderno c’era
qualche cosa. Dietro la facciata c’era un’anima. Allora le dissi che mi sarebbe piaciuto
fare, già il giorno dopo, una prova di ripresa con lei. «Ma senza trucco», aggiunsi, «con il
viso nudo». E così il giorno dopo venne, pronta, disponibile. Si struccò, facemmo le prove,
e sul suo volto trovai esattamente quello che cercavo per Giovanna d’Arco: una donna
semplice, molto sincera, ma anche una donna che soffre 32.
Al momento della sua uscita nelle sale francesi La Passione ha riscosso un discreto
riscontro da parte della critica, ma uno scarso successo di pubblico. In Danimarca sono
arrivate due copie che sono state nelle sale per non più di qualche settimana. Per giunta,
dopo qualche mese è andato a fuoco il laboratorio della UFA33 a Berlino dove Dreyer
(d’accordo con il suo operatore Rudolph Maté 34) aveva mandato l’unico negativo della
pellicola. Giovanna era stata dunque sottoposta a un rogo ben più grave e definitivo di
quello prettamente cinematografico.
Ma il destino (o il caso) ha sorriso ancora una volta, sebbene soltanto nel 1981,
dopo parecchi anni dalla morte di Dreyer, avvenuta nel 1968. Un membro del personale
Cfr. BERNARDI A., Carl Theodor Dreyer. Il verbo, la legge, la libertà, Recco, Le Mani,
2003, pgg. 135-136.
29
DROUZY M., Carl Th. Dreyer nato Nilsson, Milano, Ubulibri, 1990, pg. 121.
30
SOLMI, Tre maestri del cinema, op. cit., pg. 33.
31
BERNARDI, Carl Theodor Dreyer, op. cit., pg. 130.
32
DELAHAYE M., Intervista con Carl Theodor Dreyer in AA. VV., Cahiers du cinéma. La
politica degli autori. Prima parte: le interviste, Roma, Minimum Fax, 2010, pgg. 235236. Il corsivo è dell’autore.
33
La Universum Film AG, divenuta nota con l’acronimo UFA, è una società di produzione
cinematografica tedesca. Per essa hanno lavorato, tra gli altri, Fritz Lang e Friedrich
Wilhelm Murnau.
34
Rudolph Maté (Cracovia, Polonia, 21/I/1898 - Hollywood, Stati Uniti, 27/X/1964).
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dell’ospedale psichiatrico Dikemark Sykehus, che si trova in Norvegia nei pressi di Oslo,
si è accorto che nella cantina dell’istituto c’era un enorme stock di pellicole e altro
materiale infiammabile. La Cineteca nazionale di Oslo riceve le pellicole, ma decide di
esaminarle solo dopo tre anni. È il 1984 quando ci si accorge che quelle quattro bobine, su
cui è applicato il visto della censura danese datato 21/IV/1928, contengono l’unica copia
originale (e originaria) della Giovanna d’Arco di Dreyer.
Non è ben chiaro il motivo per il quale la pellicola si trovasse nelle cantine di un
istituto di igiene mentale, ma questa faccenda segna un altro inevitabile quanto affascinante
punto in comune tra Dreyer e Bellocchio, che agli ospedali psichiatrici ha dedicato buona
parte della propria vita, del proprio lavoro e della propria poetica.
Alcune foto del modello per la cittadella di Rouen, che fu realizzato dallo scenografo Hermann Warm 35. Nelle
ultime due foto: in una Dreyer osserva il modello esposto al Danish Film Museum, nell’altra si scava per piazzare
la cinepresa di Rudolph Maté
L’analisi del rapporto tra uomo e donna e delle dinamiche che regolano gli
incontri/scontri tra i due sessi porterà Dreyer a raccogliere i suoi frutti migliori con la
realizzazione di Gertrud. Prendendo le distanze da Drouzy, che riconduce le motivazioni di
tutti i film di Dreyer al presunto complesso freudiano causato dall’abbandono della madre,
si può tranquillamente asserire che con Gertrud il regista riannoda i fili rossi che
Hermann Warm (Berlino, Germania, 5/V/1889 - Berlino 15/V/1976). Lavorò per i
maggiori registi del cinema tedesco (tra cui Fritz Lang e Friedrich W. Murnau), nonché
per Carl T. Dreyer, ma la sua fama è legata essenzialmente alle origini
dell’Espressionismo cinematografico [fonte: Treccani.it]. Ha collaborato anche alla
realizzazione di Vampyr e di Il gabinetto del dottor Caligari.
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riconducono al motivo del femminismo, non nuovo nella sua cinematografia e assai diffuso
nei paesi scandinavi. Per altro siamo alla vigilia degli anni della contestazione e Dreyer è
un anziano cineasta che vive la temperie culturale del momento con lo stesso spirito
moderno e innovatore che lo ha sempre animato.
Il soggetto di Gertrud è tratto dall’omonimo dramma teatrale autobiografico di
Hjalmar Söderberg36 che, dopo una cocente delusione amorosa, «folle di dolore e di rabbia
lasciò Stoccolma per rifugiarsi a Copenhagen dove in un mese scrisse Gertrud»37. La cosa
curiosa, che dovrebbe servire a comprovare il preciso interesse di Dreyer per questo
soggetto, è che dopo aver realizzato Ordet nel periodo in cui pensava a un film su Gesù, il
regista abbia voluto onorare con l’ultimo film uno scrittore che in tutta l’ultima parte della
sua vita si è occupato di tematiche filosofico-religiose, abbandonando la propria opera
letteraria per diventare un biblista laico, scrivendo una serie di libri per prendere le
distanze da un’interpretazione cristiana della Bibbia.
Dal punto di vista poetico, infatti, Gertrud conferma l’adesione di Dreyer alle
tematiche kierkegaardiane. Il filosofo danese scrive che «senza la donna l’uomo è
un’anima instabile, un infelice, che non sa trovare riposo e non ha alcun rifugio» 38. E il
regista realizza un film con un’impalcatura narrativa basata più sui dialoghi che
sull’azione.
Gertrud (interpretata da Nina Pens Rode 39) è l’aristocratica e fierissima moglie di
un uomo di successo, ma durante il film si trova a dover fare i conti col proprio passato e
con quello degli uomini che ha amato. Si tratta di un film verbosissimo, che come tutti i
film del regista danese ha ricevuto una pessima accoglienza al momento dell’uscita, salvo
poi essere elevato al rango di “capolavoro” dopo qualche anno. Probabilmente capolavoro
è un titolo abusato almeno nei giudizi che riguardano Gertrud. Però si tratta di una pellicola
estremamente importante, che racchiude in sé un valore stilistico (e formale) notevole. Gli
elementi caratterizzanti sono le inquadrature fisse e i pochi carrelli, gli ambienti austeri e
per nulla barocchi, il suono in presa diretta. Tutto contribuisce ad avvicinare Gertrud al
tono della tragedia, com’era per altro nelle intenzioni del regista40.
L’essenzialità dei primi piani di Giovanna d’Arco è diventata qui la purezza
dell’architettura scenica, dei dialoghi, degli stacchi tra un “capitolo” e l’altro. Quello di
Dreyer è un «approdo senile alla tematica dell’amore» 41, ma il tema amoroso è visto e
analizzato nella sua valenza più pessimistica, perché «Non c’è felicità nell’amore. L’amore
è sofferenza»42. In Gertrud v’è una tragica concezione della vita in senso kierkegaardiano,
appunto, che si caratterizza più per le ombre che per la luce che l’amore proietta attorno a
Hjalmar Emil Fredrik Söderberg (Stoccolma, Svezia, 2/VII/1869 - Copenaghen,
Danimarca 14/X/1941).
37
BERNARDI A., Carl Theodor Dreyer. Il verbo, la legge, la libertà, Recco, Le Mani, 2003,
pg. 84.
38
KIERKEGAARD S., Aut-Aut, Milano, Mondadori, 2002. Riportata in BERNARDI, Carl Theodor
Dreyer, op. cit., pg. 85.
39
Nina Pens Rode (Kongens Lyngby, Danimarca 22/V/1929 – Frederiksberg 22/VII/1992).
40
Cfr. DELAHAYE M., Intervista con Carl Theodor Dreyer in AA. VV., Cahiers du cinéma.
La politica degli autori. Prima parte: le interviste, Roma, Minimum Fax, 2010, pg. 243.
41
OLDRINI G., L’umanesimo in Gertrud in Id., Gli autori e la critica, Bari, Dedalo, 1991,
pg. 56.
42
Dai dialoghi del film.
36
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sé. Ma per quanto tragico e doloroso possa essere l’amore, esso resta quanto di più
totalizzante, profondo e passionale ci sia nell’esperienza umana.
Ed è proprio di questa istanza che Dreyer decide di caricare la protagonista e
renderla portavoce di una concezione etico-filosofica dell’amore che l’autore danese
condivide. Gertrud è capace di slanci totalizzanti e di un amore incondizionato, mentre gli
uomini che si avvicendano nella sua vita sanno amare solo parzialmente.
L’assolutezza delle sue scelte, la sua fiducia sconfinata nell’amore, la mancanza di
fede religiosa e la totale dedizione a seguire i propri desideri più istintuali mettono in gioco
un meccanismo che conduce lo spettatore a vedere in Gertrud una novella Antigone, tanto
da indurre il presente lavoro di ricerca a un ardito paragone tra il personaggio dreyeriano e
la bellocchiana Giulia di Diavolo in corpo43.
Come per tutte le “eroine” di Dreyer, l’animo di Gertrud è gravato dal peso della
sofferenza patita e degli errori commessi. Sofferenza ed errori che portano la donna alla
scelta consapevole di isolarsi: «A me è rimasta soltanto la solitudine» ammetterà la donna
all’amico Gabriel, in uno dei numerosi dialoghi fitti che costellano la narrazione. Lei è
vestita di nero, a compimento di un percorso filmico che l’ha portata da colori chiari
(ancora più luminosi nelle sequenze in flashback girate in sovraesposizione) verso colori
sempre più scuri. È con l’amico Axel, l’uomo la cui amicizia non diventerà mai amore, che
Gertrud intrattiene un dialogo sul libero arbitrio.
Ed è sempre con Axel che, nel finale, Gertrud confida la sua certezza più assoluta:
«Nella vita non c’è altro che la giovinezza e l’amore». È rileggendo una poesia scritta da
ragazzina che la donna si rende conto che, già a sedici anni, aveva redatto il suo testamento
d’amore: «Guardami. Sono viva? No, ma ho tanto amato». In un film dove Dreyer
incredibilmente non mostra né la morte, né le casse da morto, è proprio attraverso l’attesa
della morte stessa che tutto acquisisce il suo senso e la sua grandezza. Gertrud confida
all’amico che l’epitaffio della sua pietra tombale sarà soltanto Amor Omnia.
La poesia giovanile della donna è antecedente rispetto alla storia narrata, e viene
letta solo nel momento in cui riceve la visita dell’amico e quando le rughe sui loro visi
testimoniano uno stadio di serena senilità avanzata. La poesia, inquadrata mentre Gertrud
la legge, rimanda agli “atti di scrittura” visti in tanti lavori di Bellocchio, e bene si inserisce
nella logica di una conquista d’identità da parte delle donne analizzate fino a ora.
L’anziana Gertrud dà vita a una delle tante antinomie del cinema dreyeriano: isolata
e sola per scelta, vive in una comunissima abitazione piccolo borghese, disadorna, ma in
netto contrasto con l’enorme ricchezza interiore della donna. Ancora una volta Dreyer
mette in scena la forza totalizzante dell’amore contrapposta alla pochezza di chi ama o
viene amato: si riafferma la fede assoluta nell’umanità e nelle pulsioni dell’anima, ma
emerge anche il pessimismo sulle reali possibilità che la potenza dell’anima possa
manifestarsi, estrinsecarsi.
Questo finale, che Dreyer aggiunge di sana pianta rispetto al dramma teatrale a cui
si ispira, come si è visto racchiude un po’ tutto il senso del film e, in parte, anche dell’opera
del regista, che sarebbe morto improvvisamente quattro anni dopo. Gertrud diviene quindi
l’involontario testamento intellettuale di Dreyer, ma anche in questo caso il destino ha
scelto al meglio per le sorti del cineasta.
Italia-Francia, 1986. Regia: Marco Bellocchio. Con: Maruschka Detmers, Federico
Pitzalis, Anita Laurenzi, Riccardo De Torrebruna, Claudio Botosso, Alberto Di Stasio,
Anna Orso. Montaggio: Mirco Garrone. Fotografia: Giuseppe Lanci. Musiche: Carlo
Crivelli.
43
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«Il duce ha sempre ragione»
«Ma di che ti lamenti Dalser. Hai avuto un figlio
dall’uomo che tutte le donne vorrebbero come
marito… o come amante»
[Da un dialogo di Vincere]
Vincere è probabilmente il lavoro dove Bellocchio sviluppa in maniera più estesa e
raffinata la tematica del corpo femminile legato, ingabbiato, incatenato e imprigionato
dal/nel contesto sociale in cui vive.
C’è molto cinema nel lavoro con cui Bellocchio ha voluto raccontare la sfortunata e
angosciosa vicenda di Ida Dalser e di suo figlio Benito Albino; c’è molto cinema inteso
come forte presenza di scene ambientate in sale cinematografiche o davanti a uno schermo,
così come v’è moltissimo materiale di repertorio che si riversa senza tregua sulla linea
diegetica del film.
L’idea probabilmente è quella di dare una connotazione storica agli avvenimenti e
lasciare che ciò sia affidato ai documenti, ai cinegiornali, alle immagini d’epoca; i film
proiettati nelle sale servono a scandire la linea cronologica, ma anche quella emotiva.
Perché, per quanto riguarda il “girato”, come al solito Bellocchio non ha tenuto
assolutamente conto di alcuna veridicità storica o del bisogno di aderirvi meticolosamente.
Il regista prende spunto dalla vicenda di Ida Dalser, una faccenda molto dubbia,
discussa e che però trova diverse conferme in sede di documentazione storica. La Dalser è
una donna nata e cresciuta in Trentino; negli anni a cavallo dello scoppio della prima
guerra mondiale pare abbia avuto una relazione con Benito Mussolini, al quale si è legata
con rito cattolico e da cui ha avuto il figlio Benito Albino.
Dopo l’ascesa al potere Mussolini non poteva permettersi di avere scheletri
nell’armadio e quella della Dalser è la storia di una donna prima perseguitata e poi
rinchiusa in un ospedale psichiatrico, nonostante fosse mentalmente sana, ma che finisce
con il lasciare il dubbio che infine sia impazzita realmente.
Dunque in Vincere si intersecano follia, gabbie sociali, manicomi, fascismo, eros e
potere. È una storia cui non manca nulla per attirare l’attenzione di Bellocchio, anche
grazie al contributo, qualche anno prima, delle ricostruzioni storico-letterarie di Marco
Zeni44 e di Alfredo Pieroni45 (che si era occupato della vicenda già negli anni Cinquanta), e
al dettagliato e avvincente documentario Il segreto di Mussolini46 di Fabrizio Laurenti e
Gianfranco Novelli.
Quella di Ida è una vita passata a rincorrere un’idea, più che un uomo, e questo è un
concetto che nella parte iniziale del film viene messo in risalto dal primo incontro tra i due:
Mussolini in fuga e Ida costretta a inseguirlo, fisicamente e sentimentalmente, ma senza
poter avere su di lui la presa necessaria ad averlo tutto per sé.
Cfr. ZENI M., L’ultimo filò, Trento, Effe e Erre, 2000; ZENI M., La moglie di Mussolini,
Trento, Effe e Erre, 2005.
45
PIERONI A., Il segreto di Mussolini, Milano, Garzanti, 2006.
46
Disponibile nell’archivio di Rai.it.
44
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La rapsodia corporale che coinvolge i protagonisti è ben raffigurata nelle due
sequenze che mostrano gli amplessi tra Ida (Giovanna Mezzogiorno 47) e Mussolini (Filippo
Timi48), dove la donna è preda di orgasmi liberatori e totalizzanti, mentre l’uomo mantiene
la sua fisicità plastica, incapace di “fondersi” ma, al contrario, lasciando intuire ciò che egli
diverrà nel corso della narrazione e anche nel corso della Storia: immagine.
Al termine di uno dei rapporti sessuali, il futuro duce è già “vittima” di quel
processo che lo porterà a scindersi completamente dalla realtà. Percorre la stanza immersa
in un buio virante al blu e si affaccia sul balcone di casa, in piena notte, completamente
nudo, richiamando alla mente la sequenza di La visione del sabba49, dove la moglie di
Davide vorrebbe poter compiere uno “slancio di follia” per conquistare il marito.
Ma quella di Mussolini è una follia visionaria su cui Bellocchio gioca
magistralmente, usando una serie di campi e controcampi e alternando l’immagine di
Filippo Timi affacciato al balcone a quelle (di repertorio) della folla che negli anni
successivi avrebbe invaso le piazze italiane per idolatrare il duce.
Ida è “esclusa” dal mondo di Mussolini fin da subito. Nonostante una regia che
pedinerà costantemente e in maniera dreyeriana la Mezzogiorno, nelle scene dove è
presente Mussolini la donna appare sempre ai “margini”. È evidente anche nella sequenza
della riunione della redazione dell’Avanti, dove Ida tenta di entrare per poter assistere alle
discussioni tra interventisti e pacifisti. Ma non potendo entrare nella sala della riunione, la
donna si arrampica su una parete divisoria, in un qualche modo anticipando alcune
sequenze in cui la ritroveremo, più tardi, a dover scalare le inferriate del manicomio in cui
è rinchiusa dopo la decisione di Mussolini di abbandonarla totalmente.
Dopo la rottura con l’Avanti!, Mussolini fonda Il Popolo d’Italia, rilevando una
vecchia tipografia milanese. In una sequenza che richiama in maniera vivida la gioia
distruttiva di I pugni in tasca (anche grazie all’aiuto della fotografia di Daniele Ciprì50 che
ha saputo de-saturare i colori in modo da ottenere una sensazione d’epoca), Ida, Mussolini,
Pietro Fedele e tutti gli altri gettano alle fiamme vecchi mobili e documenti, in un rito
purificatorio che ancora una volta usa l’immagine (e l’immaginario) di un grande fuoco
che si staglia nel buio della notte.
Ida è coinvolta in maniera totalizzante e vive un amore che la porta a spogliarsi di
tutto, in senso non solo letterale. Vende la propria attività commerciale e i propri averi per
aiutare l’amante nell’acquisto dei beni mobili e immobili per la fondazione del nuovo
giornale. La sciagurata crede nel giornalista, nel politico, ma soprattutto ripone una fiducia
smisurata nell’uomo che ora l’ha anche messa incinta.
Ma la svestizione è anche fisica: come una maja desnuda attende Benito che,
venuto a sapere dei sacrifici della donna, pretende di firmare una ricevuta. Ma a Ida non
interessa la firma dell’uomo, bensì vorrebbe un atto d’amore, una proposta di matrimonio,
anche solo un «Ti amo». L’essersi spogliata materialmente ed economicamente diventa un
atto di mercificazione, una sorta di compravendita amorosa.
Giovanna Mezzogiorno (Roma, 9/XII/1974).
Filippo Timi (Perugia, 27/II/1974).
49
Italia-Francia, 1988. Regia: Marco Bellocchio. Con: Béatrice Dalle, Daniel Ezralow,
Omero Antonutti, Jacques Weber, Corinne Touzet. Montaggio: Mirco Garrone.
Fotografia: Giuseppe Lanci. Musiche: Carlo Crivelli.
50
Daniele Ciprì (Palermo, 17/VIII/1962).
47
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L’entrata dell’Italia in guerra nel film corrisponde anche all’entrata in scena di
Rachele Guidi. Ida sarà costretta a comprendere e a farsi temporaneamente da parte, e ciò
coincide con l’inizio del delirio mussoliniano. Già interventista e soldato, ora l’uomo porta
avanti le due relazioni in maniera parallela.
La partenza per il fronte è il primo, decisivo passo verso l’allontanamento da Ida, la
quale nel frattempo partorisce e cresce il figlioletto Benito Albino Mussolini.
Ma un giorno, passeggiando, la donna apprende dai giornali che Mussolini è stato
ferito sul Carso. L’uomo è ricoverato in un palazzo adibito a ospedale da campo e la
sequenza della visita della Dalser è un condensato di visionarietà e di vicende umane che
s’intrecciano.
Ella giunge nel momento in cui i feriti stanno guardando Christus51, un kolossal (il
primo del genere religioso del cinema italiano) uscito proprio nel 1916 e diretto da Giulio
Antamoro52. Mussolini è accudito da Rachele Guidi, qui presente in veste di crocerossina.
Nello stesso momento all’ospedale giunge anche la visita del re Vittorio Emanuele III. Una
volta andatosene il sovrano, Ida si avvicina al letto dell’amante, provocando una furibonda
e bestiale reazione da parte di Rachele: questa aggredisce la Dalser, ansima, urla in maniera
disumana, ha la bava e le lacrime, mentre il personaggio della Mezzogiorno mantiene la
propria bellezza e la propria dignità, e con esse la fermezza delle richieste di non essere
abbandonata col figlio.
Italia, 1916. Regia: Giulio Antamoro. Con: Alberto Pasquali, Leda Gys, Amleto Novelli,
Amalia Cattaneo, Renato Visca, Augusto Mastripietri, Augusto Poggioli, Lina De Chiesa.
52
Giulio Cesare Antamoro, conosciuto anche come Gant (Roma, 1/VII/1877 - Roma,
8/XII/1945).
51
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Mussolini scaccia Ida, mentre allo spettatore rimane il dubbio su quale delle due
donne sia la pazza, quella realmente folle e bisognosa di cure. La reazione di Rachele non
evidenzia certo l’equilibrio mentale adatto a essere eventualmente contrapposto alla
presunta malattia mentale della Dalser.
Ancora una volta a fare da catalizzatore c’è uno schermo cinematografico sul quale
riprendono a scorrere le immagini della pellicola che era stata interrotta a causa della visita
del re: il Cristo viene deposto dalla croce, poi la Madonna e il corpo di Gesù assumono una
posizione che richiama la Pietà di Michelangelo.
Nell’inquadratura di Bellocchio lo schermo sovrasta Mussolini e questi sembra
essere accostato al Cristo conteso tra due donne, Maria e Maddalena, come Benito lo è tra
Rachele e Ida.
Ma in questa immagine balzano all’occhio altri due elementi: in primis la completa
subordinazione dell’uomo rispetto allo schermo, in una metafora che pone Mussolini su un
piano terreno/diabolico rispetto alla posizione divina e celeste del figlio di Dio; inoltre v’è
una contrapposizione tra immagine e corpo, lasciando presagire che presto quel corpo
verrà inglobato, inghiottito e incorporato proprio dall’immagine.
Le analogie tra cinema e realtà continuano nella sequenza successiva, dove Ida è al
cinema (ancora una volta) col piccolo Benito Albino e in sala c’è una scolaresca che assiste
alla proiezione di un film. Al suono ritmato e sincopato del pianoforte che accompagna la
proiezione, molti bambini si lasciano andare a uno sfogo “anarchico”, saltando e
muovendosi davanti allo schermo mentre la maestra li richiama. Molti di questi bambini
saranno soldati e partigiani durante gli anni della seconda guerra mondiale e Bellocchio
probabilmente vuole mettere in primo piano lo slancio di vitalismo innocente dei fanciulli
che vanno incontro al ventennio fascista. E il regista ritaglia anche uno spazio tutto per sé,
con un piccolo cameo sonoro: tra i numerosi richiami che la maestra fa all’indirizzo dei
bambini, sul finire della scena spunta anche un «Marco sei sempre tu».
L’ultimo tentativo di lusinga da parte di Ida avviene a Milano, all’Esposizione
Futurista del 1917, durante la visita che Mussolini compie in qualità di direttore di Il
Popolo d’Italia. Abbigliata a tema, la donna lo attira in una stanza, tentando di sedurlo
come vorrebbero fare le stesse avanguardie, ma viene respinta, rifiutata e ripudiata. La
scalata sociale e politica di Mussolini è ormai lanciata verso una strada che non ammette
ostacoli e pesi provenienti dal passato.
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Dopo alcune immagini di repertorio che mettono in scena i festeggiamenti per la
fine della prima guerra mondiale, l’inquadratura mostra in sovraimpressione un dispaccio
ministeriale del 14/II/1920, dove si comunica che Ida Dalser e suo figlio Benito Albino
Mussolini (attenzione al cognome con cui il bambino era stato riconosciuto) sono stati
“riaccompagnati” a Sopraponte, sobborgo di Trento, nella casa della sorella Adele e di suo
marito, ragionier Riccardo Paicher, e lì tenuti d’occhio notte e giorno da alcuni uomini.
L’allontanamento coatto di Ida da Mussolini, quindi, avviene in principio con una
“semplice” segregazione domiciliare. Ma anche nel piccolo sobborgo di Trento giungono i
tragici effetti dell’ascesa del fascismo. Durante una festa socialista irrompono con violenza
le squadracce delle camicie nere, mentre Ida osserva la scena dalla finestra di casa Paicher.
Nell’interno borghese si sta recitando il rosario, che continua imperturbato anche dopo aver
chiuso le imposte, mentre i fascisti portano disordine sparando in aria e picchiando
selvaggiamente i presenti alla festa, per poi andarsene via cantando All’armi.
In questo clima di reclusione e di febbrile sconvolgimento sociale, Ida sembra aver
abbandonato le velleità di fuga, ma nell’intimità delle sue stanze continua a rileggere le
vecchie lettere che l’amante le scriveva sette anni prima. La notizia che il 31/X/1922 si è
insediato il primo governo Mussolini arriva anche a Sopraponte e Ida l’apprende dalle
pagine del giornale fondato anche grazie alla sua completa spogliazione di beni.
Segue un’altra scena all’interno di un cinematografo. Ida è inquadrata frontalmente
mentre guarda lo schermo e la sua espressione racchiude una gamma di sentimenti che va
dallo sgomento all’angosciato, con una sfumatura di sguardo sognante. A un tratto, attorno
a lei gli uomini si alzano tutti in piedi col braccio teso: sullo schermo è apparsa l’immagine
del duce Benito Mussolini (quello vero) e i fascisti tributano il saluto romano alla loro
icona.
Ida […] si alza e si avvicina allo schermo, quasi per toccarlo e baciarlo. Il fascio di luce
del proiettore la investe, l’immagine di Mussolini sembra avvolgerla, ma questo sfugge
agli altri spettatori, i quali rivolgendo il loro sguardo allo schermo di cui anche lei è parte,
non la vedono, abbacinati come sono dalla visione del loro capo. La donna capisce così
che quell’uomo le è stato sottratto: è diventato un’icona destinata a concedersi
oscenamente ad uno stuolo infinito di amanti (non a caso, ha cessato nel film di essere
personaggio, sopravvivendo come pura immagine prima cinematografica – film nel film –
poi solo fotografica, quindi rigida statua). Quel corpo che prima le apparteneva è diventato
un “corpo mistico”, un “corpo moltitudine”, capace di rispondere alla profonda crisi
identitaria posteriore alla prima guerra mondiale53.
53
Ivi, pg. 156.
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L’emblematica inquadratura dove Ida è sovrastata e annullata dall’immagine
cinematografica del duce è il viatico verso la deflagrazione totale dei sentimenti e della
psiche della donna. In un dialogo con il cognato Riccardo, la donna non riesce a contenere
il proprio amore totalizzante nei confronti di Mussolini. «O lui o nessun altro» è la risposta
che dà al cognato che saggiamente le consiglia di dimenticarlo, di farsi una vita e di dare
certezze e solidità al bambino. La completa abnegazione di Ida verso Mussolini porta la
donna a credere che tutto quanto sta vivendo sia solo una “messa alla prova” per testare la
sua resistenza.
L’immagine di Timi/Mussolini giovane ritorna sulla linea diegetica soltanto in
forma onirica, mentre Ida sogna (o ricorda?) il proprio matrimonio religioso con l’uomo.
Nel momento in cui si scambiano gli anelli, lui la bacia spalancando la mano e carpendole
il collo per intero: anche questa inquadratura è il rimando a un atteggiamento carnale,
possessivo, materialista, ma soprattutto diabolico. Ida è totalmente soggiogata al cinico
Benito e quelle dita sulla gola rifiutano qualsiasi connotazione di sensualità, sprigionando
una sensazione di malessere e di empatia nei confronti della donna ormai assoggettata.
Nella Dalser si riaccendono tutte le antiche passioni che la animavano. Ciò la porta
a tentare di incontrare il ministro Fedele (di nome e di fatto) in visita al mausoleo di
Trento, ma questo è l’ultimo atto che Ida compie da donna libera.
Ida viene prelevata e (come si potrà intuire) pestata a sangue. Infatti nella sequenza
successiva è stesa sul letto dell’ospedale psichiatrico di Pergine, col volto completamente
tumefatto, dapprima circondata dalle stesse donne i cui visi hanno precedentemente
scandito i cambi di scena, poi visitata da alcuni uomini che la definiscono pazza e
paranoica semplicemente guardandola, in un clima di surreale incredulità da parte dello
spettatore. Ma le istituzioni psichiatriche erano ciò che Bellocchio mette in mostra, a
maggior ragione se la temperie sociale e politica è condizionata da un regime totalitario.
Dopo che Ida è stata visitata, le altre pazienti si lanciano in irridenti derisioni del
regime fascista, mentre le suore impongono il silenzio e l’ordine (anche con le camicie di
forza e con le corde) in una facile equazione dove il fascismo in generale è accostato al
manicomio. Mentre Ida è rinchiusa nell’ospedale di Pergine, un drappello di autorità
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accorre a casa Paicher per prelevare il piccolo Benito Albino. In quel momento il ragazzino
sta svolgendo i compiti scolastici, e più precisamente sta lavorando sulla poesia I due
fanciulli del Pascoli, che fondamentalmente racchiude un utopistico messaggio di pace e
fraternità. Quello del piccolo Benito è un vero e proprio rapimento di Stato; da quel
momento madre e figlio non si rivedranno mai più.
Per Ida non è assolutamente facile la vita in manicomio. Passa le giornate a scrivere
lettere a tutte le autorità: Mussolini, prefetto, Papa. Ma sono lettere che nessuno mai
spedirà. È in questo frangente che la si vede scalare l’enorme grata che separa il
manicomio dall’esterno, richiamando l’attenzione di alcuni ragazzini e lanciando nel vuoto
le lettere.
Ma anche in questo caso c’è una suora zelante che è pronta a recuperarle. Questa
sequenza è seguita da un video di repertorio che mostra Mussolini mentre gioca con un
cucciolo di leopardo all’interno della gabbia di uno zoo, in un’analogia che richiama la
facilità del “divertirsi” con qualcosa di innocuo e, soprattutto, ingabbiato.
Ida viene trasferita al manicomio di Venezia dove Bellocchio mette in scena
un’altra figura a lui cara, che è quella dello “psichiatra buono”. In questo caso la figura
dello psichiatra rimane però parzialmente ancorata ai dettami di un regime in cui è
immersa. Fra il dottore e Ida intercorre un bellissimo dialogo nel giardino del manicomio.
È sera e lo psichiatra sta passeggiando sul prato in un’atmosfera notturna e immersa nel
blu, mentre Ida è seduta su una pianta.
Ricorre ancora una volta, dunque, il tema della paziente psichiatrica che si cala
dall’albero, per porsi “sullo stesso livello” del medico, proprio come le pazienti di La balia.
Infatti con l’aiuto di una rete tesa tra gli alberi, Ida balza a terra. Quello dello psichiatra è
più un monologo, memorabile nella sua definizione della donna fascista:
«Lei sbaglia gridando continuamente la verità. Non che la verità non vada gridata, però è il
modo, è il metodo, è il tempo che non vanno. Questo è il tempo di tacere, il tempo di
essere attori. […] Il personaggio che lei deve interpretare per salvarsi non è della ribelle
sempre in agitazione. Ma della donna normale, la massaia, ubbidiente, remissiva,
taciturna, amante dell’ordine. La donna fascista».
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Il medico ammette che vorrebbe dimetterla, ma le consiglia anche di
tranquillizzarsi, di leggere Pascoli («Lo impari a memoria, la superiora lo adora»), di
andare in chiesa, di confessarsi e comunicarsi, perché «La Chiesa è la sola madre che ora i
fascisti temono».
Vincere pone in secondo piano tanto Benito Mussolini, quanto il figlio di Ida, per
concentrare tutta la sua attenzione su una donna che non è solo una semplice ribelle
testarda e impulsiva, ma è l’incarnazione di un’emancipazione femminile ante-litteram,
incapace di adeguarsi al ruolo di “massaia silenziosa/obbediente” e “angelo del focolare”
(la donna fascista), fino al punto di sacrificare consapevolmente la propria vita sull’altare
di un principio tanto astratto quanto utopistico: quello della legittimità sentimentale. Ida
Dalser è nell’economia del film di Bellocchio una “signora in nero” (perché condannata
sin dal primo fotogramma) che con disinvoltura, sensualità e passione, circuisce il cervello
e il corpo di un “contadino” che improvvisamente sembra sentirsi immortale (come
testimonia la prima sequenza del film). L’uso consapevole che Ida fa del suo corpo deriva
dal suo essere cosmopolita. Più che essere sedotta, ella seduce, e di conseguenza non può
(e non vuole) essere abbandonata54.
Ida viene presto spostata forzosamente da Venezia e riportata, ancora una volta (e
definitivamente), all’ospedale di Pergine. Qui la Dalser è interrogata da un consesso
formato da medici e autorità, dove un giudice deve decidere se interdirla definitivamente o
lasciare uno spiraglio.
Ciò che balza all’occhio, oltre al dreyeriano indugiare della macchina da presa sul
volto serio, lucido e determinato di Ida, è l’atteggiamento con cui si conduce
l’interrogatorio. Alla donna vengono poste domande che richiedono risposte ragionevoli e
razionali. È un paradosso quello che Bellocchio mette in scena: Ida è trattata da persona
sana, le si chiede di riflettere, di decidere razionalmente e coscientemente, ma davanti alla
sua (lucida) ostinazione verrà dichiarata definitivamente interdetta.
Ida Dalser è una donna sana di mente che vive scontrandosi con l’allucinatoria
follia collettiva di chi la circonda e di chi la vuole tenere rinchiusa e legata.
A lei non resta che scrivere ovunque le capiti: sulla carta, sulle stoffe, sui muri della
cella. Come l’Annetta di La balia, anche lei “immagina”, resiste ed esiste grazie
all’esercizio di scrittura, in questo caso l’unico strumento rimastole a disposizione per dare
concretezza ai propri pensieri e alla propria essenza.
La sua pericolosità aumenta in maniera esponenziale nel febbraio 1929. Dopo la
firma dei Patti Lateranensi è evidente che Mussolini non possa assolutamente permettersi
FOGLIATO F., Vincere in «Rapportoconfidenziale.org», 15/VI/2012 (ultimo accesso
08/X/2015).
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di far emergere la propria bigamia e, soprattutto, la paternità rifiutata, secondo la logica
dell’«antica minestra del Mussolini faccia dura ma cuore tenero»55.
Nel manicomio di Pergine si festeggia la firma dei Patti che, di fatto, sancisce
l’inizio della completa fusione tra lo Stato e le istituzioni religiose. La cinica follia
totalitarista si diffonde a macchia d’olio contagiando chiunque. Persino la suora
misericordiosa, che permetterà a Ida di fuggire dal manicomio, le chiede cos’ha da
lamentarsi: «Hai avuto un figlio da un uomo che tutte le donne vorrebbero come marito. O
come amante».
La follia collettiva si estende anche fuori dal piccolo mondo della Dalser. Con un
montaggio alternato Bellocchio accosta due sequenze, accostando le donne del manicomio
a Rachele Guidi. Questa è inquadrata mentre sta parlando teneramente con un interlocutore
sconosciuto. Dal tono e dalle parole si direbbe che stia parlando ai figli, ma un
allargamento del campo d’inquadratura mostra che la moglie del duce è in un pollaio e sta
dando da mangiare ad alcune galline; l’inquadratura torna nel parco del manicomio, dove il
verso di altre anatre e galline scandisce i lenti pomeriggi di Ida, ivi rinchiusa.
Filippo Timi torna sullo schermo, stavolta nei panni di Benito Albino adulto.
Insieme ad alcuni compagni di studi sta ascoltando alla radio il discorso che Mussolini
tiene a Taranto nel 1934. Successivamente il ragazzo è incoraggiato, istigato e spinto dagli
amici a lanciarsi in una grottesca ed esilarante imitazione del padre. Ripete il discorso
imitando anche le movenze del duce, sbarrando gli occhi, compiacendosi e rievocando la
follia collettiva delle acclamazioni, ponendosi in bilico tra caricatura e pura pazzia e, anzi,
lasciando più d’un dubbio su chi sia realmente insano di mente.
È in questo contesto che incontra casualmente lo zio Riccardo. Dapprima si tratta
solo di un incrocio di sguardi, poi c’è il contatto diretto all’interno di una sala
cinematografica. Sullo schermo scorrono le immagini di Vecchia guardia56, un film di
Blasetti che narra le origini dello squadrismo fascista. Benito Albino si siede alle spalle
dello zio, per coprire le proprie mosse alla vista di due scagnozzi che lo tengono
costantemente sotto controllo; consegna una lettera allo zio e questi la farà recapitare a Ida.
Sarà proprio la suora misericordiosa a fare da tramite, consegnando la lettera a Ida
e, più tardi, leggendola dopo averla trovata sulla scrivania della paziente. Mossa a
compassione, la suora si priva dei suoi paramenti: si assiste a un’altra spogliazione che
questa volta mette in atto uno scambio “alla pari”, da donna a donna. Ida, travestita da
suora, riesce a fuggire dal manicomio e a dirigersi a piedi da Pergine a Sopraponte dove, ad
aspettarla, ci sono la sorella Adele e l’affranto cognato, insieme al questore, che nel
frattempo ha ricevuto la comunicazione della fuga, e che ivi è giunto insieme a un nutrito
gruppo di poliziotti.
Per Ida svanisce l’ultima illusione di poter rivedere ancora una volta il figlio.
Totalmente svuotata e priva di forze si abbandona alle autorità che, ostacolate dall’intera
popolazione del paese, la caricano su un’automobile. Le ultime parole di Ida, «Non mi
dimenticate», sono rivolte a una donna del paese. Poi Ida si lascia andare, silenziosa, sul
sedile posteriore, mentre l’auto riparte fendendo a fatica la folla assiepata attorno a essa. La
donna ha lo sguardo nel vuoto, gli occhi vacui e sul viso sembra esserci solo
rassegnazione.
LUZZATTO S., Così il Duce distrusse la famiglia segreta in «Corriere della Sera»,
14/I/2005, pg. 35.
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Italia, 1935. Regia: Alessandro Blasetti. Con: Luisa Garella, Armando Falconi, Ada
Dondini, Luigi Pavese, Maria Denis, Barbara Monis.
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Improvvisamente volge uno sguardo in camera, sfonda la quarta parete e indirizza
allo spettatore un sorriso ambiguo, tanto seducente quanto ammonitore, così fisso e
immobile che catalizza totalmente su di sé l’attenzione, tanto da distrarre l’occhio da una
frase, dipinta su un muro, che si può leggere (da destra verso sinistra) attraverso il
finestrino della macchina: «Il duce ha sempre ragione».
Vincere è un altro splendido ritratto di una donna, madre, moglie e sorella che non
cede alla logica della rassegnazione. Quando viene portata via per l’ultima volta, Ida
sembra aver perso ogni linfa vitale, ma l’ultimo sguardo in camera è senza dubbio un
segno di continuità, di resistenza.
È un film che si pone anche in continuità con il discorso della paternità, avviato da
Bellocchio dieci anni prima con La balia. E se nel film del 1999 la genitorialità paterna era
legata al vincolo di una maternità ritrovata, in Vincere avviene l’esatto opposto: la paternità
rifiutata porta anche alla negazione della maternità. Nel frattempo c’è stato spazio per la
“resistenza laica” del padre in L’ora di religione, per il parricidio di Buongiorno, notte e
per la paternità problematica di Elica e del conte Gravina in Il regista di matrimoni.
La dimensione storica fa da sfondo alla vicenda personale e intima di Ida Dalser,
che Bellocchio estrapola soppesando la veridicità dei fatti. Ciò che interessa al regista è
mettere a fuoco quel solco insormontabile che c’è tra la follia di un regime, totalmente
asservito a un solo uomo, è l’ingabbiamento sociale di una persona (dietro alla quale ce ne
sono altre migliaia nella stessa situazione) lasciata completamente sola al suo destino e, di
fatto, resa pazza in seguito.
Bellocchio priva il fascismo di ogni base etica o morale, togliendo dalla narrazione
l’unico appiglio su cui poteva contare lo spettatore che, per caso, avesse voluto mantenere
un filo di indulgenza verso Mussolini: il regista, infatti, evita di coinvolgere in alcun modo
Arnaldo, fratello del duce, che nella vicenda Dalser avrebbe assunto un ruolo di mediatore,
talvolta (pare) interessandosi in maniera sincera delle sorti di Ida e del figlio, tant’è vero
che il tracollo avviene dopo la morte di Arnaldo Mussolini.
C’è anche molto cinema, in Vincere. Le sale cinematografiche, gli schermi negli
ospedali e l’uso del cinematografo come “rifugio” dell’anima sono elementi che, di fatto,
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stanno alla base del film. Non soltanto per il recupero di materiale d’epoca e di
contestualizzazione storica, ma anche per la dimensione simbolica che assume il cinema
durante i suoi primi anni di vita. Ciò si potrebbe accostare allo sperimentalismo che
Bellocchio conduce all’interno dei suoi lavori; del resto nel cinema italiano sono rimasti in
pochi a “osare” e men che meno della generazione del regista.
Ma in Vincere il cinema non è un luogo passivo, bensì un luogo di passioni, di
incontri, di consolazioni. È un luogo soprattutto di reazione, dove gli spettatori rispondono
fisicamente ed emotivamente agli stimoli derivanti dallo schermo. È davanti a Christus che
Mussolini vive un conflitto interiore tremendo e che assiste ai graffi tra le due donne. È nel
cinema che Ida si rifugia col figlioletto durante la guerra. È sempre davanti a uno schermo
che la Dalser si commuove e ride, sfogando le uniche reazioni emotive manifestate durante
il suo decennale ricovero coatto nel manicomio. Infine è al cinematografo che Benito
Albino incontra lo zio per far recapitare una lettera alla madre dopo tantissimi anni che i
due sono separati e non hanno contatti.
La sequenza finale è una delle più potenti ed emotivamente efficaci che si siano mai
viste al cinema. Benito Albino è ormai sfigurato dalla follia, rinchiuso nel manicomio di
Mombello, dove si praticavano cure insuliniche ed elettroshock57.
Il ragazzo sta imitando il padre, mentre la radio trasmette il discorso di Mussolini
che sta parlando in tedesco dopo la stipula del Patto d’acciaio con la Germania nazista.
L’imitazione è ai limiti dello spasmo facciale, mentre le urla e l’enfasi ricalcano la follia
del momento storico, più che del soggetto.
Stacco di montaggio: primo piano del vero Mussolini affacciato al balcone di
Palazzo Venezia il 10/VI/1940, durante l’annuncio della dichiarazione di guerra.
Primo piano sul viso completamente sfigurato di Filippo Timi.
Immagini di repertorio della folla acclamante.
Mussolini che urla “Vincere! E vinceremo».
Altra folla acclamante.
Repertorio d’immagini di bombardamenti, incendi, crolli, miserie, bambini morti e
piangenti, città in fiamme e distruzione.
Nuovo stacco di montaggio: si ritorna per qualche istante alla sequenza iniziale,
quella dell’orologio, mentre lo sguardo del giovane Timi/Mussolini è carico di interrogativi
(e di sincero timore) e si alterna, in ralenti, a quello di una bellissima Mezzogiorno/Dalser.
Il ritorno, nel finale, alla sequenza iniziale dell’orologio è, in effetti, coerente con la
poetica di Bellocchio, che nei suoi lavori mantiene sempre una circolarità di fondo, quasi
sempre manifestata come atemporalità. Tuttavia rimane il dubbio che quanto visto nelle
due ore di durata del film non sia altro che un sogno, un’allucinazione, o una fantasia della
donna che sta guardando (e ammirando) un giovane e promettente socialista, mentre questi
sfida Dio in una tenzone di cinque minuti. Lo sguardo di Mussolini, del resto, sembra
anticipare un dialogo che sosterrà con Ida: «Avrei voluto fare lo scrittore, il musicista, ma
sarei rimasto un mediocre, e ho il terrore del tempo che passa».
Nel 1935 Benito Albino era così sano da essere stato arruolato dalla marina militare.
L’impressionante somiglianza col padre, però, ha spinto le autorità a fare in modo che
il ragazzo fosse visibile il meno possibile. Cfr. ZENI, L’ultimo filò, op.cit.; ZENI, La moglie
di Mussolini, op. cit.; PIERONI, Il segreto di Mussolini, op. cit.
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Stacco di montaggio: immagini di una testa bronzea di Mussolini distrutta e
pressata.
Nuovo stacco: didascalie sui diversi destini dei protagonisti.
Vincere
Titoli di coda.
NICOLA CARGNONI, Figure femminili nel cinema di Marco Bellocchio e Carl Theodor Dreyer , tesi di laurea
in Storia del Cinema, corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Bari
“Aldo Moro”.
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