L`uLtimo giorno deL Lupo

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L`uLtimo giorno deL Lupo
L’ultimo giorno
del lupo
C.J. Box
L’ultimo giorno
del lupo
Traduzione di
Roberta Maresca
Titolo originale:Nowhere to Run
Copyright © 2010 by C.J. Box
This edition published by arrangement with G.P. Putnam’s Sons,
a member of Penguin Group (USA) Inc.
Traduzione di Roberta Maresca / Grandi & Associati
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni
dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono quindi
utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive
o scomparse, è puramente casuale.
Per la citazione a pag. 7:
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1999
Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)
ISBN 978-88-566-1800-6
I Edizione 2013
© 2013 - Edizioni Piemme Spa, Milano
www.edizpiemme.it
Anno 2013-2014-2015   -   Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
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Tre ore dopo aver levato le tende, reimpacchettato tutto
e spinto i cavalli più in alto sulle montagne, Joe Pickett,
guardacaccia dello stato del Wyoming, si fermò sull’orlo di un’ampia conca e frugò nel tascapane in cerca del
taccuino. I cacciatori con l’arco gli avevano descritto il
punto in cui avevano avvistato il wapiti ferito; confrontò i suoi appunti con il luogo in cui si trovava.
Studiò la conca con il binocolo e individuò i rami dei
pini che si allungavano sopra la fossa erbosa e le depressioni crateriformi di cui avevano parlato i cacciatori.
Era quello il posto.
Fino a quel momento era avanzato seguendo sempre
lo stesso ritmo: cavalcava finché i muscoli non gli si indolenzivano e le ginocchia cominciavano a fargli male;
quindi smontava e, per sgranchirsi un po’, conduceva a
piedi i due castroni Buddy e Blue Roanie (aveva scelto
un nome davvero poco fantasioso per un cavallo da soma roano scuro). Controllava spesso l’equipaggiamento e le bisacce sul dorso di Blue Roanie per assicurarsi
che il carico fosse ben bilanciato, e si fermava regolarmente in modo che lui e i cavalli potessero bere e riposarsi. Durante il secondo giorno di viaggio tutti i suoi
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vecchi acciacchi sembravano essersi risvegliati, e più
presenti che mai, adesso che aveva superato i quarant’anni.
In prossimità della discesa nella conca spostò il peso
sulla sella, schioccò la lingua e toccò i fianchi di Buddy
con gli speroni. Il cavallo si impuntò.
«Coraggio, Buddy» disse Joe. «Ora andiamo, testone.»
Ma Buddy girò la testa indietro, quasi volesse implorare Joe di non proseguire.
«Non essere ridicolo. Vai.»
Solo quando lo spronò con decisione Buddy rabbrividì, sbuffò e cominciò a scendere.
«Ti comporti come se ti stessi portando al macello.
Adesso piantala.» Si voltò per assicurarsi che il cavallo
da soma li stesse seguendo. «Tutto bene, Blue Roanie?
Non fare caso a Buddy. È solo un testone.»
Ma mentre scendevano, istintivamente Joe allungò
una mano e toccò il calcio della doppietta nel fodero da
sella per assicurarsi che fosse al suo posto. E slegò la
cinghia di cuoio che la teneva ferma.
Aveva deciso di fare una ricognizione a cavallo di
cinque giorni, prima che l’estate lasciasse il posto all’autunno e la stagione della caccia cominciasse sul serio, e
prima che al distretto venisse assegnato un nuovo guardacaccia al posto suo. Dopo un anno di esilio, finalmente poteva tornare a casa. Era più che pronto.
Durante il fine settimana aveva iniziato a raccogliere
tutte le sue cose per il trasloco e aveva programmato di
salire sulle montagne il lunedì per poi scendere il venerdì e sgombrare il suo alloggio di Baggs per il suo
successore, che sarebbe arrivato all’inizio della settimana successiva. Baggs (“Patria dei Baggs Rattlers!”) era
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una bella cittadina di montagna, ostile e rozza, vecchia
quanto lo stato in cui si trovava. Si estendeva disordinatamente nella valle del Little Snake River, sulle stesse
strade sterrate su cui un tempo aveva camminato Butch
Cassidy, ed era così isolata nel dipartimento da essere
nota come il “cimitero dei guardacaccia”: il paese in cui
venivano mandati nella speranza che si dimettessero, o
morissero. Il governatore Spencer Rulon aveva segregato lì Joe per alcuni “errori”, ma dopo aver ottenuto
un secondo mandato con un trionfo elettorale, aveva
fatto sapere che Joe non rappresentava più un ostacolo.
La fortuna aveva voluto che, nello stesso periodo, a
Phil Kiner di Saddlestring fosse assegnata una nuova
zona, per cui Joe aveva chiesto – e ottenuto – un posto
proprio nel suo vecchio distretto a nord, sulle Bighorn
Mountains nella contea di Twelve Sleep, dove viveva la
sua famiglia.
Malgrado fosse impaziente di tornare dalla moglie
Marybeth e dalle figlie, non poteva andarsene con la
coscienza a posto senza aver fatto le dovute indagini sul
wapiti segnalato dai cacciatori. Non sarebbe stato giusto nei confronti del nuovo guardacaccia, chiunque
fosse. Le altre denunce, le avrebbe lasciate allo sceriffo.
Joe Pickett era snello, di altezza e corporatura medie. Il suo Stetson grigio era macchiato di sudore e terra rossa. Alcuni capelli e peli argentei sulle tempie e sul
mento non rasato catturavano la luce del sole. Indossava Wrangler scoloriti, scarponi consumati con i lacci e
gli speroni corti, la camicia rossa della divisa con la toppa dell’antilocapra cucita sulla spalla e un distintivo sul
taschino con la sigla gf-54. In un cinturone porta-attrezzi che lo identificava come “joe” teneva le manette,
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lo spray contro gli orsi e la Glock calibro 40 semiautomatica d’ordinanza.
Mentre procedeva nella sua ultima ricognizione sulla
Sierra Madre del Wyoming meridionale, Joe aveva la
sensazione di tornare indietro nel tempo, di trovarsi in
un luogo dominato da un silenzio sconfinato e innaturale. A ogni sordo colpo di zoccoli il suo senso di inquietudine non cessava di crescere: una paura calma e
cupa lo invase, sentì i peli sulla nuca e sulle braccia rizzarsi, ogni suo senso mettersi in allerta.
L’assenza di rumori lo sconcertava. Era la fine di agosto, ma il normale sottofondo sonoro di quei luoghi era
ridotto al silenzio. Non c’erano insetti che ronzavano
nell’erba, né scoiattoli che chiacchieravano fra gli alberi
per segnalare il suo arrivo, né marmotte che fischiavano
ritte sulle rocce, né cervi o wapiti che frusciavano all’ombra degli alberi costeggiando i prati in cui brucavano,
né galli cedroni che borbottavano o spiccavano il volo.
Joe proseguì attratto da una forza irresistibile. Come se
la porta di una casa buia e abbandonata si fosse aperta
lentamente prima che lui potesse sfiorare la maniglia,
dandogli un benvenuto tutt’altro che caloroso. Malgrado il verde brillante dei prati o la sommessa esplosione
dei fiori, quell’infuocata mattina d’estate sembrava dieci
gradi più fredda di quanto fosse in realtà.
«Smettila di fartela sotto» si disse ad alta voce con
tono autorevole.
Ma non era il solo ad avere paura. Anche i cavalli
erano insolitamente nervosi e irritabili. Poteva sentire la
tensione di Buddy attraverso la sella: i muscoli dell’animale erano contratti e duri, i suoi respiri rapidi e brevi,
le orecchie dritte, all’erta. Imboccò un vecchio sentiero
di caccia poco battuto e coperto da un sottile manto di
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aghi di pino che si inerpicava a zig zag sulla montagna
e, mentre avanzava, il cielo fece irruzione attraverso la
volta verde degli alberi disegnando sul terreno strisce
di luce simili alle sbarre di una prigione. Doveva continuamente esortare e accarezzare il cavallo per spingerlo
a proseguire in quel bosco fitto. Immerso nella folta vegetazione, anche lui desiderò trovarsi in un luogo aperto dove lo sguardo potesse spaziare tutt’intorno.
Joe era ancora turbato dalla breve conversazione che
aveva avuto il giorno prima con un equivoco abitante
della zona: Dave Farkus.
Stava stringendo il sottopancia a Buddy quando Farkus era sbucato dai cespugli con una canna da pesca in
mano. Basso e nerboruto, con i basettoni e l’aria indolente, aveva esordito dicendo: «Vuoi davvero andare lassù?».
Quando Joe aveva risposto di sì, Farkus aveva aggiunto: «Sai, bevo qualche birra al Dixon Club con
quattro tizi che sono qui da molto prima che arrivassero gli operai delle società dell’energia elettrica, e di sicuro da molto più tempo di te. Un paio di loro sono
così vecchi da aver dimenticato un sacco di cose di queste montagne, molte più di quante noi riusciremo mai a
sapere. Per anni hanno portato lassù il bestiame e cacciato. Ma sai una cosa?».
Joe aveva sentito una morsa allo stomaco per il modo
in cui Farkus glielo aveva chiesto. «Cosa?» aveva risposto.
«Nessuno di quei vecchi tornerebbe più lassù. Dicono che da quando quella podista è scomparsa si sente
che c’è qualcosa che non va.»
«Mai fare troppo affidamento sulle sensazioni» aveva commentato Joe.
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«Non si tratta solo di sensazioni» aveva continuato
Farkus. «E tutte quelle effrazioni nelle baite della zona?
E quelle macchine ritrovate con i finestrini fracassati
all’imbocco dei sentieri? Ultimamente ce ne sono state
parecchie.»
«Ne ho sentito parlare» aveva ammesso. «Credo che
lo sceriffo Baird stia indagando.»
Farkus aveva sbuffato.
«C’è dell’altro?» aveva chiesto Joe.
«No. Ma tutti abbiamo sentito le voci che girano.
Sai, gli accampamenti saccheggiati. Le tende squarciate.
So che un paio di cacciatori con l’arco hanno cercato di
prendere un wapiti prima che si aprisse la stagione della caccia. Ne hanno colpito uno, ne hanno seguito le
tracce per chilometri, ma quando finalmente lo hanno
trovato, l’animale era già stato macellato e la carne era
stata portata via. È vero?»
Come molti cacciatori che infrangevano le regole,
quegli uomini erano andati nel suo ufficio e si erano
costituiti. Joe li aveva citati in giudizio per aver cacciato
fuori stagione, ma era rimasto incuriosito dalla loro storia. Sembravano sinceramente scossi da quello che era
accaduto. «È quello che hanno raccontato.»
Farkus aveva sgranato gli occhi. «Allora è vero. Ed è
per questo che stai andando lassù? Vuoi scoprire chi ha
preso quel wapiti. Be’, spero che tu ci riesca. Cavolo, a
nessuno piace l’idea che ci sia in giro qualcuno che ruba la carne degli altri. È uno schifo. E poi, hai sentito
tutte quelle stronzate sui windigo: da dove saltano fuori?
Spiriti maligni, divoratori di uomini... Ma questo non è
il Canada, grazie a Dio. I windigo sono lassù, non qui.
Se esistono. Ha-ha.»
Non sembrava una risata, aveva pensato Joe. Piutto16
sto un tic nervoso. Un modo per dire che lui non necessariamente credeva a ciò che aveva appena detto, a meno che non ci credesse Joe.
Joe aveva replicato: «Windigo?».
Uscito dal bosco, si ritrovò in una radura circondata
da tronchi scuri e si fermò a guardare e ad ascoltare. Socchiuse gli occhi cercando di capire cosa fosse a spaventare lui e i cavalli e sperò suo malgrado di vedere un orso,
un puma, un ghiottone o un serpente. Ma c’erano solo
montagne che scendevano a precipizio verso sud fino in
Colorado, come onde di un oceano ghiacciato, ciuffi di
nuvole soffici che correvano sopra di lui mostrandogli
sfacciatamente il loro vulnerabile ventre bianco e le tracce che lui stesso aveva lasciato nell’erba alta: impronte di
zoccoli parallele, mucchietti di letame fumanti. Nei paraggi non c’era nulla che portasse la firma dell’uomo e
non ne vedeva da un giorno intero. Niente pali della luce, niente torri di trasmissione né ripetitori telefonici.
L’unica prova del fatto che non stesse attraversando
quella regione selvaggia alla fine dell’Ottocento erano le
scie lasciate nel cielo dai jet, simili a bave di lumaca.
La catena montuosa andava da sud a nord. Joe aveva
programmato di arrivare in cima alla Sierra Madre per
mercoledì, terzo giorno di viaggio, e di attraversare lo
spartiacque continentale a circa tremila metri vicino a
Battle Pass. Era lì che i cacciatori avevano detto che il
wapiti era stato fatto a pezzi. Poi si sarebbe diretto verso il No Name Creek sul versante occidentale dello
spartiacque e sarebbe arrivato al suo pick-up e al rimorchio per i cavalli venerdì per mezzogiorno. Se tutto
andava bene.
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Il terreno diventava sempre più impervio. Selvaggio
e sconosciuto. Quel che sapeva della zona lo aveva visto da un elicottero e sulle foto aeree. La catena montuosa era austera e spettacolare, un susseguirsi di canyon, crinali rocciosi dal profilo dentellato e tratti di
fitta foresta vergine che non era mai stata disboscata;
ricavare strade per il trasporto dei tronchi al suo interno sarebbe stato troppo complesso e dispendioso. Il
panorama che si godeva dalla vetta era quasi monotono: montagne che si estendevano in ogni direzione a
perdita d’occhio, venature di pioppi tremuli che già diventavano dorati negli avvallamenti, alti circhi e laghi
montani simili a fiches da poker blu gettate su un tappeto di feltro verde, chilometri e chilometri di pini delle dune, molti dei quali ormai in fin di vita, color ruggine per gli attacchi degli scolitidi.
I circhi – depressioni semicircolari con pareti ripide,
piene di acqua di scioglimento e abbastanza grandi da
essere attraversate con una barca – erano abbarbicati
sulle montagne. Alcuni davano origine a minuscoli rigagnoli le cui acque confluivano formando torrenti. Altri non avevano sbocchi: vasche da bagno che si riempivano, si ghiacciavano in inverno e non si prosciugavano
mai.
Prima di quella ricognizione, Joe si era avvicinato a
quei luoghi solo una volta, un paio d’anni prima, quando aveva partecipato alla grande operazione di ricerca
della podista che aveva ricordato Farkus. La promettente atleta olimpionica Diane Shober aveva parcheggiato l’auto all’imbocco del sentiero ed era scomparsa
mentre si allenava lungo la strada che attraversava il
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canyon. Il corpo non era mai stato ritrovato. Il suo viso
però era diventato un’ossessione: appariva sulle centinaia di volantini artigianali che i genitori avevano affisso in tutto il Wyoming e il Colorado. Joe ripensava a
quel caso mentre cavalcava.
Essendo stato assegnato a distretti sparsi in tutto il
Wyoming, sia come guardacaccia sia come uomo di
punta del governatore Rulon, Joe aveva individuato per
ogni catena montuosa un proprio carattere distintivo.
Ammetteva che le sue impressioni potevano essere errate, e spesso erano state condizionate dall’umore del
momento o dalle situazioni in cui si era trovato. Di rado però aveva cambiato idea su una catena montuosa
una volta che ne aveva colto i vezzi e i ritmi. Quelle del
Teton Range erano montagne appariscenti, fredde ed
esangui, simili alle altezzose vette europee, tanto spettacolari da sembrare finte. Erano l’equivalente montuoso delle top model. Il Gros Ventre Range era un
ricco cimitero di storia umana – sia degli indiani d’America sia dei colonizzatori bianchi – che teneva stretti i
suoi segreti e si rifiutava di adattarsi all’era moderna.
Le cime del Wind River Range erano ciò che quelle del
Teton aspiravano a essere: maestose, incredibilmente
ricche di panorami e fauna selvatica, vaste e spirituali.
Le Bighorn, le montagne del Wyoming settentrionale
dove la famiglia di Joe lo stava aspettando, erano accoglienti, tondeggianti e sfrontate, un difensore di alto livello che non aveva perso la stoffa neanche dopo essersi ritirato.
Ma la Sierra Madre rimaneva un mistero. Joe non riusciva ancora a provare simpatia per quei monti e si sforzava di non lasciarsi intimidire dai loro pericoli, dalla loro posizione isolata e dalla loro spietata bellezza.
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La ricerca infruttuosa di Diane Shober aveva insinuato
in lui il germe dell’inquietudine. Quelle montagne erano come una bellissima donna che ti passa accanto in
auto con una pistola in grembo senza guardarti negli
occhi.
Una volta arrivato sul fondo della conca scese da cavallo per sgranchirsi un po’ e far riposare i cavalli. Come sempre, si domandò come facessero un tempo uomini e donne a stare in sella per ore ogni giorno. Non
c’era da stupirsi se bevevano tanto whisky, pensò.
Portò i cavalli in un boschetto in cui i pini delle
dune gradualmente si fondevano con i rari pini nodosi.
Tronchi e rami assumevano forme e direzioni bizzarre
con giunture grosse come palle da softball che sembravano ginocchia gonfie. Il boschetto si estendeva
per circa quattrocento metri, proprio come avevano
detto i cacciatori. Fermatosi ai suoi margini, Joe si
voltò lentamente e notò l’orlo della conca che si stagliava alto tutto intorno come il bordo di una ciotola.
Quello era il primo circo. Era sorpreso da quanto si
assomigliassero molti luoghi di montagna, da come
senza punti di riferimento creati dall’uomo, pali della
luce o torri radio, i territori incontaminati potessero
trasformarsi in un vortice di verde e rocce tutte uguali.
Avrebbe voluto che i cacciatori gli avessero dato coordinate gps ben precise, per essere sicuro di trovarsi
nel posto giusto, ma quelli erano della vecchia scuola
e non portavano con sé alcun navigatore satellitare.
Ma avevano descritto accuratamente la conca e il circo, così come il boschetto di pini che si trovava sul
fondo.
Sotto sotto Joe era convinto che, se davvero fra quel20
le montagne si nascondevano uomini che rubavano
wapiti e danneggiavano baite e auto, molto probabilmente si trattava di ex dipendenti delle società elettriche. Negli ultimi anni, mentre era in corso la trivellazione dei giacimenti di gas naturale a nord della città, le
aziende avevano allestito alcuni campi per gli operai:
agglomerati temporanei di roulotte disposte una accanto all’altra sulle distese di artemisia. Gli uomini – ed
erano solo uomini – vivevano addossati gli uni agli altri.
Quasi tutti avevano fatto centinaia o addirittura migliaia di chilometri per raggiungere quell’angolo remoto
dello stato meno popolato del paese e lavorare in quei
giacimenti di gas naturale. Ma bisognava essere gente
di un certo tipo per riuscire a vivere in quelle condizioni. Quando scendevano in città erano scontrosi, asociali, ben armati e pieni di contanti. Sembrava di essere
tornati nel selvaggio West. Per mesi Joe era stato chiamato quasi ogni sabato sera per aiutare la polizia locale
e gli agenti dello sceriffo a sedare risse.
Quando il prezzo del gas naturale era crollato e ne
era diminuita l’estrazione, i dipendenti erano stati lasciati liberi di andarsene. Rimanevano cinque o sei
campi abbandonati nel deserto di artemisia. Come nessuno sapeva da dove erano venuti, così nessuno sapeva
che fine avessero fatto quegli uomini. Joe riteneva plausibile – anzi, abbastanza probabile – che alcuni di loro,
ormai disoccupati, fossero rimasti su quelle montagne
ricche di cacciagione.
Legò i cavalli e camminò in cerca dei resti del wapiti.
Anche se i predatori si erano senz’altro già avventati
sulla carcassa, strappando via la carne e sparpagliando
le ossa, dovevano esserci tracce inconfondibili di pelle,
peli e corna. I cacciatori avevano detto che il wapiti
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aveva corna con sette punte, perciò nelle vicinanze dovevano esserci anche i palchi.
Mentre ispezionava il terreno, con la coda dell’occhio
notò qualcosa di strano. Si fermò e guardò attentamente
da una parte e dall’altra, visualizzando a ritroso il percorso che aveva fatto. “In natura” pensò “niente è perfetto.” E lui aveva visto – o pensava di aver visto – qualcosa che era troppo verticale, orizzontale, dritto o privo
di difetti per appartenere a quel luogo.
«Che cos’era?» si chiese ad alta voce. I cavalli drizzarono la testa e lo fissarono senza capire.
Tornato sui suoi passi, Joe comprese. Lì per lì si rimproverò: era solo un bastone che sporgeva dal tronco di
un albero a circa sei metri dal sentiero. Guardando meglio, si rese conto che non era un bastone, ma una freccia conficcata nel tronco. Era fatta a mano, non in serie:
un pezzo di corteccia dritto e levigato, con l’impennaggio di piume a un’estremità. L’unico posto in cui aveva
visto una freccia primitiva come quella era un museo.
La fotografò con la macchina digitale, poi si infilò un
paio di guanti di lattice, l’afferrò dall’asta e la smosse
delicatamente per estrarla. La esaminò con attenzione.
La punta era di ossidiana, accuratamente scheggiata e
attaccata all’asta con tendini animali. L’impennaggio
era di piume di tacchino selvatico.
Non aveva alcun senso. Gli uomini che erano andati
da lui si divertivano a cacciare, quasi fosse uno sport,
una passione, ma nessuno di loro si sarebbe mai costruito un oggetto di quel genere. Nessuno lo faceva. Da
dove veniva quella freccia?
Un brivido lo percorse. Si voltò lentamente e guardò
verso gli alberi. Non si sarebbe meravigliato se avesse
visto apparire guerrieri cheyenne o sioux.
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Dieci minuti dopo Joe trovò i resti del wapiti con i
palchi a sette punte. Anche se i coyote e i corvi stavano
banchettando con la carcassa era ovvio che si trattava
proprio dell’animale che i cacciatori avevano ferito e
seguito. I quarti posteriori erano spariti e i lombi erano
stati tagliati via. Esattamente come avevano detto i cacciatori.
Chi aveva preso la carne?
Fotografò la carcassa da diverse angolazioni.
Tornò ai cavalli, portando con sé la freccia. Ne avvolse la punta in uno dei calzini di scorta e l’asta in una
maglietta, quindi la ripose in una bisaccia. Vide che
Buddy lo stava fissando.
«Prove» gli spiegò. «Quassù sta succedendo qualcosa di strano. Potremmo trovare impronte su questa
freccia.»
Buddy sbuffò. Joe era sicuro che fosse una coincidenza.
Mentre se ne andava, si guardò indietro più volte,
senza riuscire a scrollarsi di dosso la sensazione di essere osservato. Quando fu di nuovo in cima alla conca,
l’aria era rarefatta e il sole picchiava inesorabile. Rivoli
di sudore gli colavano lungo la schiena.
Alcuni chilometri a sud-est un cuscino di nuvole
screziate di grigio e una colonna di pioggia collegavano
l’orizzonte al cielo. Sembrava che il temporale stesse
per raggiungerlo. Bene. La pioggia avrebbe rinfrescato
il pomeriggio e ripulito i cavalli dalla polvere.
Joe, però, non riusciva a smettere di pensare alla carcassa che aveva trovato. E alla freccia.
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Quella sera si accampò sulla riva di un lago a forma
di mezzaluna e legò i cavalli a un paletto ben visibile
dalla sua tenda, in una rigogliosa chiazza d’erba alta fino alle caviglie. Quando il sole calò e la temperatura
scese a 4-5 gradi, pescò cinque trote con la sua canna
da mosca, ne tenne una e la fece friggere insieme alle
patate su un piccolo fuoco. Dopo cena lavò i piatti alla
luce di una lampada e prese il telefono satellitare da
una bisaccia. Visti i problemi di comunicazione che
aveva avuto diversi anni prima quando era temporaneamente di stanza nella valle di Jackson Hole, aveva giurato di chiamare a casa tutte le sere, a qualunque costo.
Anche se non c’erano grosse novità da comunicare, era
la quotidianità la cosa importante, quella che lo teneva
in contatto con la sua famiglia e gli faceva sentire Marybeth più vicina.
Il telefono satellitare era molto più ingombrante di
un cellulare e Joe dovette togliersi il cappello per usarlo, perché l’antenna urtava contro la tesa. Il segnale era
buono e la chiamata partì. Scattò subito la segreteria
telefonica. Sospirò, un po’ seccato, poi si ricordò che
Marybeth aveva detto che avrebbe portato le ragazze
all’ultimo concerto estivo che si teneva nel parco della
città. Aveva sperato di sentire la sua voce.
Dopo il bip che invitava a lasciare un messaggio disse: «Ciao, ragazze. Spero che vi divertiate stasera. Vorrei tanto essere con voi, anche se non mi piacciono i
concerti. In questo momento sono in cima a una montagna, è un posto bello e solitario. La luna è così luminosa che riesco a vedere i pesci che saltano nel lago.
Mezz’ora fa un alce è uscito dagli alberi, è entrato nel
lago ed è rimasto per un po’ lì, nell’acqua alta fino alle
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ginocchia. È l’unico animale che ho visto, il che mi
sembra incredibilmente strano. L’ho guardato mentre
si faceva una bevuta».
Esitò, e si sentì un po’ sciocco per aver lasciato quel
messaggio così lungo. Raramente parlava tanto con loro di persona. Concluse: «Be’, sto per tornare. I vostri
cavalli stanno facendo i bravi e anch’io. Mi mancate
tutte».
Si spogliò e si infilò nel sacco a pelo dentro la tenda.
Lesse qualche pagina de Il grande cielo di A.B. Guthrie,
che era diventato il suo libro da campeggio, poi spense
la lampada. Restò sdraiato con le mani sotto la testa e
fissò l’interno della tenda buia. La sua arma d’ordinanza era nella fondina vicino alla sua testa. Dopo un’ora si
alzò e portò fuori il sacco a pelo e il materassino. Non
c’erano nuvole e la luna e le stelle erano luminose e
austere. L’alce era tornato nel lago e il suo profilo si
stagliava contro il chiarore azzurrognolo della luna.
“Dio, mi piace qui” pensò. “Eccome se mi piace.”
E si sentì in colpa per quanto gli piaceva.
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