Sogno e realtà

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Sogno e realtà
COMUNE DI
LASTRA A SIGNA
Assessorato alle Politiche Sociali
Sogno
e
Realtà
di
MAURO MARZI
A
nche quest’anno Mauro si è dedicato con anima e
cuore nella raccolta di testimonianze di vita dei cittadini anziani lastrigiani.
Testimonianze che ci arricchiscono, ci coinvolgono ed
incuriosiscono: mi auguro che questa lettura venga apprezzata dai più giovani, e che vivano queste storie di vita
immaginandosi come la loro età sia stata vissuta diversamente nel tempo.
Ringrazio con affetto e stima Mauro, che crede nella preziosità delle relazioni umane e che ci invita a riflettere
ogni volta su ciò che siamo stati e forse anche su ciò che
potremo essere.
Ringrazio inoltre la compagnia teatrale “Malmantile in
scena” per l’impegno e la dedizione; ed infine un abbraccio simbolico a tutti coloro che ci hanno fatto partecipi di
racconti in bilico tra “sogno e realtà”.
Angela Bagni
Assessore alle Politiche Sociali
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La camera d’aria
C
orrevamo verso Gavignano, la strada era sconnessa e
le bombe piovevano come pioggia dal cielo, se non
fosse stato tragico ci sarebbe stato da ridere! Davanti a me,
Fortino correva zigzagando da una parte all’altra della via
come volesse evitare le pozzanghere, in realtà cercava di
schivare le bombe che esplodevano vicine, vicine e ci ricoprivano di terra e polvere; era comico vedere saltare
Fortino ma per fortuna le bombe non ci colpirono, probabilmente anch’io correvo come lui, di certo è che avevo tanta paura; ci ritrovammo nella tinaia dell’ultima casa
di Gavignano distesi sulla paglia, impauriti ma vivi, rimanemmo a Gavignano per alcuni giorni, laggiù ci sentivamo tranquilli, eravamo giovani!
Io raccomodavo le biciclette, a quei tempi c’’era abbastanza lavoro perché le strade erano sterrate e quasi sempre i “fascioni” erano lisci, così le camere d’aria si forava
con facilità, inoltre per strada c’erano anche le bullette,
con tutti i calzolai di Malmantile! In officina raccomodavo le forature, raddrizzavo i raggi piegati, ogni ruota aveva trentasei raggi, diciotto da una parte e diciotto dall’altra, ne ho raddrizzati tanti! Poi cominciarono a circolare
i motorini, non ero adatto ad aggiustare il motore, ma le
forature delle gomme le raccomodavo ugualmente, alle
camere d’aria dei motorini mettevo le toppe di quelle
buone, appiccicose, di colore nero al centro e rosse dalle
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parti, mentre le forature delle biciclette, le riparavo con
toppe ritagliate da camere d’aria oramai vecchie e rattoppate. Lavoravo in una stanza di casa trasformata in officina, non c’era tanta luce perché la porta d’ingresso era situata sotto l’arco che univa la mia casa a quella del vicino.
Appena ebbi un po’ di soldi, per illuminare la stanza acquistai neon nuovi di zecca, erano moderni e facevano
una bella luce bianca; al centro della stanza misi dei ganci
al soffitto; ganci di ferro simili a quelli dove appendevano
i maiali, al posto delle corde ci attaccai alcune vecchie
catene di bicicletta, sistemate in modo da appenderci gli
oggetti che dovevo riparare, mi rimaneva più comodo,
con quel trabiccolo non dovevo piegarmi; sono alto, probabilmente con l’età sono abbassato? Fumavo più di un
pacchetto di sigarette “Popolari” al giorno, andavo a
comprarle dal Guarnieri, spesso mi capitava di mettere in
bocca sigarette che sapevano di “natta” (nafta), la “natta”
la usavo per togliere il grasso e con le mani sporche toccavo le sigarette. Vendevo anche le biciclette, le acquistavo a Firenze dall’Innocenti, oltre alle biciclette Innocenti,
vendevo anche l’Atala; una volta il proprietario dell’Atala
di Padova offrì un desinare in un ristorante di Firenze, ci
andai insieme ad altri meccanici della zona; come secondo ci servirono la bistecca, ma non era come quella del
Relli! La bistecca del ristorante sembrava una soletta, era
fine come una braciolina.
Una mattina presto, ero ancora a letto, (11/6/1944 esplosione di 11 vagoni carichi di tritolo, presso la società nobel a Poggio alla Malva) sentii uno scoppio talmente forte, si aprì la finestra di camera e il letto si spostò nel centro
della stanza, mi affacciai impaurito e vidi un fumo nero
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salire dal pinone, ricordo che anche altre persone corsero
in strada, c’erano i Piccini anche loro impauriti! Tutti
insieme ci dirigemmo di corsa verso il pinone per vedere
cosa fosse successo. Si seppe che vicino a Brucianesi era
scoppiato un treno carico d’esplosivo, dalla vetta della
collina si vedevano le fiamme e si sentivano le grida delle
persone di Brucianesi che correva verso la collina, alcuni
arrivarono fino in paese a Malmantile, erano impauriti!
Anch’io quella mattina ebbi paura! La zona in cima alla
collina si chiamavamo pinone perché c’era un pino immenso, per abbracciarlo servivano tre persone, dopo la
guerra lo buttarono giù o cadde da solo non me lo ricordo, mi ricordo che nel centro del tronco c’era un buco,
forse l’albero si era ammalato!
Oltre a riparare le biciclette imparai anche a montare le
docce per lo scarico dell’acqua dai tetti, sono salito sul tetto
di una casa di tre piani, a quei tempi era la più alta del paese, era in mezzo all’erta, salii senza paura e senza legarmi; a
mettere le docce guadagnavo più che raccomodare le biciclette, era più pericoloso ma non ci pensavo! La latta per
fare le docce la compravo dal Palagini a Empoli, spesso
compravo i fogli e gli piegavo a modino con le mani, a
seconda della misura della doccia; a quei tempi la lamiera
era solo zincata non stagnata come adesso! Pensa che a volte ho unito dei pezzettini di lamiera di venticinque centimetri, poco prima che smettessi di lavorare c’erano delle
docce già piegate anche di quattro metri. Sono salito su
tanti tetti, anche sul tuo! I tempi cambiano! Quando avevo
molto lavoro i ganci di ferro me li facevo fare da Natale, il
fabbro! Quello che suonava nella banda, dove suonava an7
che tuo zio Nappa; il Nappa era piccino e suonava dei
piattoni: za, za, za. Ti ricordi di tuo zio?
“Non fate altro che dire che vincete, invece rinculate
sempre” lo disse la Rita del Ceccana ad alcuni fascisti, io
ero lì presente, questi si alzarono in piedi e non so cosa ci
avrebbero fatto, si cercò tutti di rimetterli in bona dicendo che la Rita scherzava, c’erano anche alcuni tedeschi e
per fortuna loro non avevano capito bene quello che aveva detto, ma ce ne volle per tacitarli, c’era Leone che ci
aiutò, si vide brutta! Che tempi! Quanta paura e quanta
fame! Quello che disse la Rita era vero, da una parte
c’erano i tedeschi dall’altra gli alleati, facevano passare i
giorni per fargli logorare.
Mio babbo faceva lo stradino, e durante la prima guerra
mondiale era stato sul Piave, Cavaliere di Vittorio Veneto, medaglia d’oro, “il Piave mormorava calmo e placido
al passaggio”. Eravamo poveri e cibo ne avevamo poco,
anche se mio babbo era dipendente comunale lo stipendio era magro, ma almeno qualcosa riscuoteva. Mi ricordo bene... di tuo nonno Leoniero, vendeva il pane; noi
un po’ di pane lo compravamo: un semellino, un filoncino; tuo nonno arrivava a Malmantile la mattina all’alba
con due ceste piene di pane sistemate sulla bicicletta, il
pane andava a comprarlo al forno a Lastra, e lui spingeva
la bicicletta su per ilrimaggio con tutto il peso, lo faceva
in estate e in inverno, quel poveruomo durava tanta fatica! La bicicletta gliela riparavo io con i pezzi migliori. A
quei tempi... tutti si durava fatica.
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“Il mio canto libero”
A
l chewingum di Ponte a Greve ballavamo il bughibughi e ronck and roll, ascoltavamo la “Premiata Forneria Marconi”, i “Formula Tre”; era la fine degli anni 60,
vivevamo la spensieratezza dei figli nati dopo la guerra.
Durante la settimana lavoravo in pelletteria, il fine settimana a ballare nelle balere oramai in procinto di diventare discoteche, veri templi degli anni settanta.
Il servizio militare era obbligatorio, quindici lunghi mesi di
naia: prima il c.a.r.: quaranta giorni passati a Potenza, il resto
della naia a Maniago in Friuli, quindici mesi sprecati, forse
spensierati! Il ricordo è piacevole ma è un sogno lontano, a
Maniago vennero a trovarmi i miei genitori e mia sorella,
pranzammo insieme in un ristorantino tipico del Friuli; di
tanto in tanto da casa mi spedivano i soldi, durante la libera
uscita gli spendevo...,“il mio canto libero sei tu”.
“Quale sogno visse quel ragazzo della mia età? Ci potrebbero essere mille, o una sola risposta tra sogno e realtà,
ricordi mancati che portano fino agli anni settanta.”
La chitarra l’acquistai alla Ricordi, allegato c’era un libretto con le istruzione per imparare a suonare; lo leggevo e contemporaneamente provavo, provavo a far vibrare le corde; ascoltavo assiduamente i dischi dei Beatles,
imparai velocemente a cantare le loro canzoni in inglese.
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Dove vai ragazzo mio? Me lo chiedeva mamma la mattina quando uscivo, non ero Pierino la peste, ero semplicemente un uomo adulto che a modo suo affrontava la vita.
Prendevo la mia chitarra e andavo a suonare nel sottopassaggio che dalla stazione porta a piazza dell’Unità. “Yesterday love wassuch easy game to play”, ricordo che un
giorno una turista americana si fermò ad ascoltarmi, cantavo yesterday dei Beatles, si avvicinò, mi strinse la mano,
mi diede un bacio sulla guancia e mi allungò cinquanta
dollari, cinquanta dollari! Una fortuna! Di solito il bottino era magro, raramente qualcuno lasciava mille lire.
Cantavo tutti i giorni, non potevo stare senza cantare, i
Beatles negli anni sessanta/settanta erano i più ascoltati, io
suonavo le loro canzoni in continuazione: “penny lane”
“yellow submarine” le conoscevo tutte, le canto volentieri
anche adesso; poi nei primi anni settanta iniziai a cantare
anche le canzoni di Battisti “il mio canto libero sei tu”.
Dove vai ragazzo mio? A mamma accendevo la televisione e con la chitarra in spalla correvo in centro; a cantare
e suonare avevo imparato da solo, non so dirti se cantavo
e suonavo bene, ho sempre pensato di saperlo fare, la mia
voce era capace di interpretare tutte le canzoni non solo
quelle dei Beatles, anche quelle di Celentano; ma quelle
canzoni cantate male, a volte mi permettevano di mettere
in tasca anche cinquantamila lire, raro, forse, una volta!
Di solito erano dieci, quindicimila lire, forse! Suonavo e
cantavo di fronte ai ristoranti in piazza Signoria; ad una
coppia di sposi venuti in piazza a farsi le foto, intonai “besamemucho”, loro furono di manica larga: mi donarono
mille lire.
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Gli anni sessanta erano stati i miei anni, ma erano oramai
dietro le spalle; eravamo agli inizi degli anni settanta, forse! Ero già grande e una sera con il motorino, insieme ad
un amico decidemmo di andare alla Bussola a Forte dei
Marmi, volevamo ascoltare Mina cantare; Mina, la cantante! Entrammo nel locale e ordinammo una coca cola,
ma quando il cameriere ci mostrò il conto...: duecentomila mila lire, quella volta me lo domandò il mio amico:
dove vai ragazzo? Scappammo senza pagare.
Scrivo, dipingo sogni sognati per passare il tempo, forse!
per liberarmi il cervello, una scatola piena di fantasia da
mettere in poesia; le poesie che ho scritto durante gli anni
erano troppe, occupavano tanto spazio sono state gettate
via, perdute.
“Come l’autunno della vita getta via gli anni, ci saranno
altre poesie da scrivere, altre canzoni da cantare nel casellario scomposto dei giorni spinti dietro una sigaretta nascosta, un ricordo mancato, una bugia resa verità, la fantasia e
la voglia costante di cantare bruceranno gli anni e gli faranno evaporare come il fumo che esce dalla finestra.”
Mi ricorderò com’eri
della tua dolce tristezza,
le stelle splendevano su di noi, straniere.
Cara amica di sempre,
raccontavi le storie di sempre,
dei tuoi amici perduti per strade lontane;
mi guardavi con gli occhi di bimba vissuta,
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forse il tuo dolce sorriso
non mia ha detto la verità,
mentre i coriandoli volavano nel vento
nelle buie grandinate della nostra vita.
“Sogni clandestini di voluttuosa sessualità, realtà, fantasia
poco importa; l’importante è credere ai sogni che ci appartengono, solo così impariamo a volare.”
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Altri tempi
S
e vivessi di ricordi morirei, la mia vita l’ho già vissuta,
il tempo per me è cambiato ma anche la società nella
quale viviamo non è più la stessa. Firenze negli anni sessanta, settanta mi è appartenuta, la notte era la capitale del
mondo ed io c’ero, giovane baldanzoso; probabilmente
adesso non la riconoscerei, come non riconosco tutto
quello che c’è al di fuori di queste pareti.
La città di Firenze rappresentava il mondo, magari ristretto,
ma in quegli anni oltre allo svago vivevamo l’amicizia confidenziale e vera, condividevamo le gioie e le amarezze,
c’era rispetto. La droga era per pochi ricchi, noi giovanotti
del 1970 la conoscevamo per sentito dire, bevevamo qualche bicchiere in più e regolavamo i conti con una serie di
cazzotti, poi tornavamo amici più di prima.A Casellina stavamo a conversare in strada, le porte di casa rimanevano
aperte, eravamo tutti amici, probabilmentenon comprendo fino in fondo quello che sta succedendo oltre le pareti
di questo edificio, ma se guardo la televisione: “mors tua
vita mea!” dove sono finite le amicizie che duravano per la
vita? Dov’è la solidarietà fra le persone? Io perderò la testa
ma non riesco più a trovare traccia di solidarietà e rispetto,
la trovo solo nei ricordi che fanno morire.
Di tanto in tanto guardo la televisione, la notizia ricorrente
è quella che quasi ogni giorno viene uccisa una donna, è
diventata ‘abitudine, routine non ci facciamo più caso, un13
fatto di cronaca nera fra i tanti, pochi sconosciuti come me
ancora si indignano. Mi ricordo quando nel 1953 uccisero
Wilma Montesi, la notizia fece scalpore, c’era indignazione, rabbia; adesso ci stiamo abituando al peggio, l’assassinio
di una donna non stupisce, rimane una notizia persa fra le
altre. Sono stato giovane in una società meno violenta, il
risentimento per certi fatti era palpabile.
Le donne mi sono sempre piaciute e le ho amate a modo
mio, come si direbbe adesso: ero un uomo di mondo,
andavo spesso al night; ho frequentato tutti i night di Firenze dell’epoca: il “Pozzo di Beatrice” era un bell’ambiente, con belle ragazze e spogliarelli mozza fiato. Il
“Penny” era scarso ma era di proprietà di Mariolino un
mio caro amico, ci andavo spesso c’era un buon giro ma
era il più casinoso,succedeva di fare a botte. Il “River”
(River Club) era passabile ma niente di più!Sicuramente
il migliore era il “MoulinRouge” di Fulvio Pacini, era
situato all’inizio del parco delle Cascine, dal “Mulino”
passavano i migliori spettacoli del mondo, non i soliti
spogliarelli come negli altri night; al “Mulino” c’erano
belle donne con spettacoli di varietà internazionali. Mi
ricordo che, una volta presentarono uno spettacolo americano nel quale si esibivano i più bei travestiti del mondo, quando la presentatrice chiamò le “ragazze” le presentò dicendo, che: le ragazze avevano i seni come quelli
di Sofia Loren, il volto simile a Gina Lollobrigida, gambe
lunghe come Minnie Minoprio, e dalla vita in giù Marcello Mastroianni. Devo dire la verità: apparvero sei donne bellissime, al “Mulino” c’erano veramente spettacoli
grandiosi! Negli altri night solo spogliarelli con maggio14
ranza di donne francesi, spagnole, belle donne ma..., gli
spettacoli scarsi! Ora ci sono le chats, io preferisco ancora il contatto fisico.
A Firenze avevamo la più bella fra i transessuali italiani:”la
Romanina”; lei e la sua amica Silvia erano uniche, io ero
amico del fratello di Silvia, pensa che differenza! Lui era
un vero bombardiere.
“Mischiamo i ricordi: nei primi anni settanta il galà per la
consegna dei nastri d’argento del cinema si svolse a Firenze
sulle gradinate di piazzale Michelangelo appositamente allestite, fra i premiati c’erano Mariangela Melato, e altre
belle attrici del periodo, ma improvvisamente fra il pubblico si udì un brusio e l’occhio che illuminava il presentatore
si spostò verso le gradinate, dalla vetta della scalinata centrale con fare regale scendeva la Romanina, indossava un
magnifico abito da sera di colore celeste, i capelli come al
solito lunghi e biondissimi, era veramente bella! Alcuni
ospiti indignati dissero in modo spregiativo: “quella è il
simbolo di Firenze”, niente da dire! Firenze si meritava
quel magnifico simbolo! Anch’io ho quasi la tua età”.
Il mondo è bello perché vario!
Negli anni sessanta i locali si moltiplicarono oltre ai soliti
night, c’erano locali che sicuramente avrai conosciuto,
non so come si potevano definire: discoteche, club: “l’Arcadia”, il “Club 67”, il “Royal Club”, lo “ShereKhan”,
poi sulla costa romagnola “l’altro mondo di Rimini” favoloso! Quante volte ci sono andato! Quanti anni sono
passati? Mi struggo di ricordi, sembra siano passati secoli,
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alla vita non stiamo dietro passa troppo in fretta.
Lavoravo in pelletteria, facevo le borse, fra i miei clienti
alcuni erano di San Marino, attraverso la loro amicizia
ebbi modo di conoscere Little Tony, negli anni 60 e 70
Little era un mito, e quando si esibiva nei paraggi l’accompagnavamo, che mondo! Viareggio, Rimini! Little
Tony con la canzone ventiquattromila baci arrivò secondo al festival di Sanremo del 61, vinsero Luciano Tajoli e
Betty Curtis, me lo ricordo bene, fecero vincere una bella voce classica ma io tifavo Little Tony.
Erano altri tempi! Sarebbe meglio non ricordare altrimenti ci struggiamo come burro.
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Disteso planare
La dolcezza infinita
traspare dagli occhi,
pennellate di luce
albore di sogno.
Giovanna la rassomiglia
ragazza dai tratti francesi,
fanciulla leggera come ali di falco
nel disteso planare.
I contorni
sanno d’incanto
d’amara sorpresa,
hanno teso le mani alla vita.
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Prendiamoci per mano
Fiammiferi accesi
nei giorni spenti,
fiaccole votive
ad illuminare il palinsesto della vita.
Sono occhi sgargianti,
paure sopite dal sorriso,
passeggeri fuorilegge
sul treno delle banalità.
Quanti anni hai
bambino troppo grande?
non importa saperlo
èsufficiente comprendere il giuoco.
Nell’abbraccio dei giorni contati
il tempo scorre guardingo
attraverso lacrime, sorrisi
e giochi da inventare.
Prendiamoci per mano
corriamo nelle prateria insieme ai cavalli,
saranno cavalli con le ali.
Sarò capace a comprendere il sogno?
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Sarcina
D
a bambina non mi fu concesso di andare a scuola, la
scuola era cosa da uomini perché i giovanotti dovevano fare il militare in luoghi lontani; alle bambine, la
scuola a cosa sarebbe servita? Dovevano stare in casa,
pensare a maritarsi e partorire figli.
A sei anni andai come garzona a badare le pecore, tutti i
giorni insieme ad altri contadini andavamo in giro per la
campagna con il gregge, poi nelle ore libere dal gregge ci
recavamo nel bosco a fare la “sarcina” fascine di legna da
vendere ai fornai per accendere il forno, lavoravamo duro
e non guadagnavamo niente, c’era soltanto miseria e
fame. La tessera del pane non l’abbiamo mai presa, mio
padre andava a tagliare il grano in Puglia, qualcosa a casa
portava; noi cercavamo di arrangiarsi, quando ce lo potevamo permettere acquistavamo il grano di nascosto e di
notte quando non ci vedevano andavamo al mulino.
Mia zia era a servizio dal priore, guardava l’anziana madre del prelato; zia da quella posizione privilegiata conosceva tanta gente e mi aiutò a trovare un lavoro meno
faticoso, andai a servizio presso una famiglia, in un paese vicino Napoli, ero ancora una bambina, nella nuova
casa ci stavo... “bene”, ma ero lontano dalla mia terra,
dalla mia gente, spesso in solitario piangevo, quel genere di lavoro non era fatto per me; io ero abituata a girare
per i campi, soprattutto sentivo la mancanza della mia
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famiglia. A Napoli rimanevo tutto il giorno chiusa in
casa, le donne stanno in casa! Facevo le faccende: rigovernavo, stiravo ma soprattutto guardavo una bambina
della quale mi ero affezionata, come se io fosse già donna! Non avevo ancora dieci anni. In quella famiglia per
la prima volta ho saputo cos’era la befana, la mattina del
sei gennaio la signora mi disse di andare a vedere cosa
c’era appeso ad uno scaleo appoggiato alla parete, meraviglia! C’era un sacchettino con dentro una mela e un
mandarino, era la calza della befana, non avevo mai ricevuto tanta abbondanza solo per me; rimasi a servizio
per due lunghi anni, furono due anni di galera. Un giorno mia zia venne a prendermi, mi sentii liberata, finalmente tornavo nella mia terra insieme alla mia famiglia,
ma al ritorno la situazione non era migliorata e col tempo peggiorò; ogni giorno dovevamo inventarci nuovi
lavori, il podere non dava da mangiare a sufficienza, andavamo a lavorare dove capitava. Non lontano da casa
abitava una signora sola, io andavo ad aiutarla e lei di
tanto in tanto mi dava un poco di pane bianco, a tavola
mangiavamo sempre e solo pane di granturco.
La signora fece restaurare un vecchio fienile, vennero i
muratori e per me fu un’occasione di lavoro, andai a fare
il manovale, fu un periodo durissimo ero poco più che
bambina, ad impastare la calcina con la pala più grande di
me non ce la facevo, allora mi ingegnavo con le mani,
anche le “caldarelle” le riempivo con le mani, poi poggiavo i recipienti pesanti sulla testa e salivo la scala fino a
raggiungere i muratori, sulla testa portavo: sassi, mattoni,
ogni genere di materiale. La sera avevo le mani a pezzi,
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tutte screpolate con ferite profonde dalle quali mi usciva
il sangue, piangevo di dolore ma il giorno dopo dovevo
tornare a lavorare; per tamponare le ferite ed evitare che
mi uscisse ancora sangue, accendevo una candela e facevo
colare la cera dentro le “scoppiature”, in modo che si
chiudessero, il sangue non usciva ma il dolore restava, la
mattina seguente il lavoro sarebbe ripreso.
Il podere non era di nostra proprietà per cui metà del
raccolto lo prendeva il padrone, ma tutti ci dovevamo
impegnare; io insieme alle mie sorelle zappavamo le vigne, mietevamo il grano sotto il sole che ci cuoceva, per
la battitura il padrone era sempre presente e controllava il
raccolto sacco per sacco e la maggior parte del grano se lo
portava via accompagnato dal nostro risentimento.
Il podere confinava con la strada principale, io e mia sorella con le zappe più grosse di noi pulivamo la vigna,
zappavamo il granturco, di tanto in tanto si fermava qualche turista per vedere cosa facevamo, chissà cosa pensavano nel vedere due bambine piccole lavorare duro?
La domenica non lasciavamo mai la messa, per recarsi in
chiesa era obbligo il fazzolettino in testa, e poggiato su
una sottanina a pieghe cucita in casa, mettevamo il grembiulino, ai piedi calze di lana lavorate a mano che ci pungevano le gambe, ai piedi calzavamo scarpe che faceva
mio padre ritagliando i copertoni dei motorini. Gli altri
giorni camminavamo scalze,riuscivamo a camminare senza farci male anche nei campi dove il grano era stato tagliato, sotto i piedi si erano formati dei calli più resistenti
delle suola di cuoio.
Più grandicelle non era permesso andare alla fonte da sole,
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la famiglia aveva paura delle male lingue, per ciò ogni
volta che ci recavamo ad attingere l’acqua qualche parente più grande doveva accompagnarci, anche se non avevamo grandi possibilità di conoscere ragazzi da maritare.
Ricordo la prima volta che vidi l’uomo che poi sarebbe
diventato mio marito, venne al paese con un mio cugino
che si era trasferito a lavorare in provincia di Arezzo; io
quando vidi quell’uomo estraneo in casa scappai, ero timida, mi vergognavo, un ragazzo di fuori paese!
Col tempo imparammo a conoscerci, ma mia madre di quel
ragazzo in casa non era contenta, quando lui arrivava lei imprecava sperando che qualche giorno perdesse il treno e non
tornasse più, cosa avrei fatto in Toscana, in un paese lontano
dal nostro?
Il destino volle che con quell’uomo mi maritassi. Partii
per la Toscana, i primi tempi non furono facili, andai a
vivere in famiglia insieme alla matrigna di mio marito ed
i suoi tre figli, anche loro contadini; la situazione lavorativa non cambiò più di tanto, lavoro duro nei campi, anche quando rimasi incinta il lavoro era costante, lavoravo
da mattina a sera; per pranzo la matrigna preparava sempre pane olio e aceto, niente di più, niente di diverso,
mentre la cena era da dividere fra troppi. Mia suocera mi
voleva bene, ma iolavavo e stiravo per tutti. Con la pancia oramai grossa quando vedevo il solito pane olio e aceto vomitavo, non potevo avvicinarlo alla bocca; una vicina di casa tanto gentile, di nascosto mi portava un tegamino con dentro un poco di carne, “dopo che l’avrai mangiata nascondi il tegamino dietro il filare”, lei sarebbe
passata a riprenderlo per portarmelo di nuovo. La pancia
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cresceva ed io continuavo a portare i covoni da abbarcare, i vicini mi guardavano con pietà: tempi duri, duri! Da
Terranova ci spostammo a Morello,poi a San Romolo,
tre poderi differenti ma sempre tanto lavoro,anche se i
tempi erano cambiati per me poco era cambiato. Ogni
sera mungevo le pecore ne avevamo più di cento, alla fine
della mungitura le mani mi rimanevano della stessa dimensione dei capezzoli delle pecore; in inverno raccoglievamo le olive, iole raccattavo:mettevo una specie di
cuscino sotto le ginocchia perché non si congelassero,
curva e con le mani frugavo fra l’erba ghiacciataper ore e
ore.Non sono passati secoli, i ricordi e le cicatrici restano.
Erano tempi diversi da adesso, speriamoche i giovani non
ci ritornino.
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La fuitina
Q
uando partii militare sentivamo ancora la puzza della
polvere da sparo, la guerra era passata da pochi anni,
ed era la prima volta che lasciavo il paese in provincia di
Benevento per andare militare a Sondrio. Mi sembrava di
essere andato chissà in quale città del mondo!Il servizio
militare fu una vacanza, essere servito a tavola con il piatto
davanti! Mi trovai in una città con abitudini e stili di vita
completamente diversi dai miei, comincia a riflettere, a
soffermarmi sulle cose che vedevo e che avrei potuto fare,
sono un uomo caparbio, quando dico una cosa la faccio, e
guardo sempre avanti. Che sono caparbio lo dimostra il
fatto che prima di partire militare mi sono sposato contro il
volere dei miei genitori, ero innamorato di una ragazza di
due anni più grande di me; sul nostro amore non c’erano
dubbi, siamo rimasti insieme per sessantaquattro anni, poi
lei è partita per quel viaggio senza ritorno.
Eravamo giovani e innamorati non era possibile tornare
indietro; io dovevo partire per il militare, era necessario
anticipare i tempi. Era il 1947 si diceva che gli uomini
sposati non avrebbero fatto il militare, quindi se mi fossi
sposato non avrei lasciato il paese e la mia donna; decidemmo di sposarci ad ogni costo, fuggimmo insieme per
alcuni giorni, nel linguaggio del paese si chiama la “fuitina” e il matrimonio riparatore era d’obbligo. Io e la mia
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donna da soli ci recammo alla curia per il certificato di
nozze, i testimoni andai a cercarli in piazza, alcuni amici
ci offrirono lenzuola e biancheria, non eravamo esigenti
ci bastava quel poco che avevamo, mentre la zia di mia
moglie ci mise a disposizione una vecchia casa disabitata,
anche i genitori di lei dovettero accettare le nozze, perché la parte femminile era la più debole e la “fuitina”
l’avrebbe segnata, anche i padri padroni, di fronte alla
vergogna dovevano cedere al matrimonio riparatore.
Rispetto ad altri ragazzi della mie età sono stato fortunato, perché dalle mie parti la guerra la vedemmo passare
attraverso gli aerei che ogni tanto solcavano il cielo, e
sulla tavola un pezzo di pane c’è sempre stato.
Quello che in quegli anni difficili era comune a tutti, era
l’età nella quale cominciavamo a lavorare, ero piccolo!
Avevo circa cinque anni quando andai garzone, lavoravo
in una masseria e venivo pagato con i prodotti della terra:
tre o quattro quintali di grano l’anno, serviva alla famiglia
per mangiare; ero un bambino in tenera età ma stavo
bene! La scuola la frequentai solo pochi anni, mentre dal
primo lavoro come garzone, di lavori ne ho fatti tanti,
non potevamo stare senza lavorare, con cosa mangiavamo? Garzone nelle masserie, a undici anni mi dovevo
alzare alle due di notte per governare le bestie e dopo
poche ore recarmi nei campi a lavorare. Quando ero garzone inesperto portavo in giro un gregge con circa settanta pecore,con l’esperienza mi affidarono la stalla dove
alloggiavano otto pariglie di buoi; i buoi servivano per
arare i capi e per trasportare ogni genere di materiale, a
quei tempi i trattori non c’erano! E gli animali da tiro
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erano indispensabili. Ricordo che in una masseria durante l’inverno, il vitellino nato da poco lo tenevano in cucina vicino al focolare; mentre in un’altra masseria, una
notte ho assistito tre scrofe che partorivano, il proprietario mi ricompensò regalandomi un maialino.
Lavorai la terra fino a quando oramai sposato partii militare, ma al ritorno dal militare presi una decisione dura
per la famiglia appena formata, andai da solo a lavorare in
Sardegna e ci rimasi per cinque anni, lavoravo all’ENDEFAS un ente di bonifica di proprietà dello stato, ci occupavamo di bonifiche per impiantare agrumeti; disboscavamo, eliminavamo sterpaglie, ed ogni volta che avevamo bisogno di attrezzature nuove il direttore si recava a
Roma dal ministro e otteneva sempre il materiale che ci
serviva. Rimasi in Sardegna fino al 1956, quell’inverno fu
estremamente rigido, venne una nevicata che non mi potrò dimenticare, abitavo nel paese di Mammone la neve
in alcuni punti raggiunse i sei metri, si moriva di freddo.
Decisi di tornare, il paese in provincia di Benevento era
più caldo!
Cercai nuovi lavori ma i salari offerti erano bassissimi, alla
mia famiglia oramai ampliata quei pochi soldi non permettevano di vivere; mi venne in mente un mio cucino
emigrato in Toscana, gli scrissi, e lui dopo pochi giorni mi
invitò a raggiungerlo dicendomi che in Toscana c’erano
tante possibilità di lavoro, raggiunsi Lastra a Signa e nel
giro di pochi giorni trovai lavoro.
Io ero un ciuco non mi tiravo indietro, lavoravo forte
dove e quando c’era bisogno. Nel 1960 fui assunto alla
fornace del Carlini, dovevo lavorare per vivere, avevo già
26
un figlio di 15 anni e uno di tre giorni, a Benevento non
avevamo avuto neppure il tempo per battezzarlo; lo battezzammo a Lastra nella chiesa di Santa Maria. La mia
famiglia sarebbe stata più numerosa, ma purtroppo un
figlio nacque con grossi problemi e dopo un mese morì,
piansi tanto, non riuscivo a darmi pace.
La ditta Carlini costruiva laterizi, il lavoro era duro ed i
soldi appena sufficienti per vivere; lo feci presente ai titolari i quali si dimostrarono disponibili ad aiutarmi, mi offrirono un lavoro a cottimo: lavoravo, lavoravo giorno e
notte; di notte insieme ad altri operai vuotavamo i forni
che di giorno avevamo riempito. Eravamo più di ottanta
dipendenti, il lavoro era tutto manuale di conseguenza
servivano tanti lavoratori; poi verso la fine degli anni sessanta cominciarono a meccanizzarsi, i mattoni non gli
inserivamo più a mano, ma venivano fatti scorrere all’interno dei forni con nuovi nastri trasportatori, mentre per
riscaldare i forni, la nafta e la sansa prodotta dopo la frangitura delle olive furono sostituiti dal gasolio; acquistarono i primi carrelli elevatori i “lilliput” a batteria, dopo
pochi anni arrivarono i grandi carrelli elevatori i
“lilli”sollevavano fino a quattro quintali, i dipendenti da
ottanta passarono a diciotto. Poi tutto cambiò, il forno fu
chiuso e la produzione di mattoni sostituita con altri prodotti.
Lavoravo per vivere, mi sono sacrificavo ma non ho mai
permesso a nessuno di mettere in dubbio la mia dignità di
lavoratore. Ho attraversato gioie ed amarezze, sono arrivato a 86 anni.
27
Ultima fuga
S
e guardo in dietro, inevitabilmente affiorano i ricordi:
l’infanzia, l’adolescenza, le persone care; purtroppo
parte della mia infanzia e della prima adolescenza sono stati
turbati dal periodo buio del fascismo e poi della guerra.
Mio padre non prese la tessera del fascio e il sabato non ci
faceva andare a scuola, perché i bambini dovevano obbligatoriamente indossare la divisa fascista; avevamo paura
quando in paese arrivava il camion con i fascisti, babbo
scappava, temevamo che venissero a prenderlo e picchiarlo, succedeva spesso, altri uomini erano stati picchiati
semplicemente perché rifiutavano la tessera.
La guerra deflagrò con il suo carico di violenza e paura,
Brucianesi rimane dietro la collina del masso nero, le
bombe che scaricavano sul ponte di Signa non arrivavano
fino a noi, vedevamo gli aerei passare e sentivamo le
esplosioni vicine, in quegli anni fu un susseguirsi di fughe
verso luoghi che ritenevamo più sicuri. La prima fuga da
casa avvenne dopo lo scoppio dei vagoni di fronte alla
nobile “Nobel”, un esplosione terribile! Andammo sfollati in una cantina non lontana, in quel luogo ci ritrovammo in tanti e tutti pieni di paura. Per fortuna l’esplosione
avvenne di notte e per strada non c’era nessuno, altrimenti ci sarebbero stati altri morti, i detriti e il forte sconquasso chissà dove ci avrebbero spinto! La mia casa subì danni
rilevanti: la finestra di camera era finita sul letto, il porto28
ne di legno massiccio fu divelto, calcinacci in ogni dove.
Il paese non era sicuro, spesso i tedeschi venivano a fare
dei rastrellamenti ed il rischio delle bombe era diventato
reale; mio padre decise che saremmo andati sfollati in collina, in una colonica non molto lontana. Babbo di tanto
in tanto scendeva in paese per vedere se la nostra casa era
ancora in buone condizioni, i bombardamenti nelle zone
limitrofe erano costanti e qualche bomba era caduta vicina, vicina. Fu durante una di quelle visite che babbo rischiò di essere preso dai tedeschi e portato in Germania,
per fortuna una vicina che non aveva lasciato la casa lo
avvertì che stavano arrivando i tedeschi, babbo ce la fece
a nascondersi nell’abbaino e si salvò.
Purtroppo i tedeschi salirono in collina e presero possesso
della villa del Cappiardi, ci istituirono il comando di
zona; la villa era vicina al podere del Villano, il podere
dove noi eravamo sfollati, non ci sentivamo tranquilli;
infatti di lì a poco i tedeschi vennero a cercare gli uomini,
mio padre e gli altri ce la fecero a scappare,per ritorsione
presero mia sorella maggiore e la portarono al comando;
mio padre appena seppe che avevano preso sua figlia non
esitò, e andò di persona al comando tedesco, tutti immaginavamo cosa sarebbe successo sia a lui che a mia sorella!
Mio padre parlava un poco tedesco perché durante la
guerra del 15/18 era stato prigioniero in Germania, e
senza titubanze chiese ai militari dove fosse sua figlia. Al
comando c’erano soltanto tremilitari, e babbo a forza di
chiacchiere riuscì a farla liberare, fu la forza disperata di
un padre! Mia sorella era estremamente impaurita ed un
tedesco vedendola tremare le disse ridendo: ”tu… ave29
vi… paura”. Per fortuna ritornò a casa sana e salva, cosa
che non successe ad un’altra ragazza presa dalle SS e violentata nella villa poco distante.
La casa da sfollati era troppo vicina al comando tedesco
vivevamo in costante tensione, perciò decidemmo di tornare in paese, ma la guerra e guerra da tutte le parti; una
sera vennero alcuni tedeschi ad avvertirci di stare tranquilli e di non uscire in strada, avrebbero minato il masso
della Gonfolina: “voi… non… uscire… di… casa”; volevano sbarrare la strada agli alleati mentre loro si sarebbero
spostati verso Artimino. I tedeschi di stanza nella zona
erano pochi, probabilmente facevano da vedetta. La sera
restammo in casa in attesa dello scoppio, l’esplosione fu
tremenda ma il masso della Gonfolina non cadde, sulla
strada c’erano soltanto detriti.
Avevamo dei parenti ad Empoli, ci avvertirono che la zona
dove abitavano era stata liberata e che c’era da mangiare per
tutti, razionato ma veniva dato pane e pasta, allora decidemmo di partire sfollati verso Empoli. Partimmo da Brucianesi a piedi alle otto di mattina, dovevamo fare attenzione perché sulla collina di fronte c’erano ancora i tedeschi
appostati e sparavano a tutto ciò che si muoveva, prendemmo la strada attraverso i boschi, il sentiero che dalla fonte
degli Innocenti porta a Piandaccoli sulla collina di Malmantile, poi scendemmo fino a Turbone, desinammo da
alcuni parenti e ci rimettemmo in cammino verso Empoli,
dovevamo stare vigili e nascosti perché sul Monte Albano
c’erano ancora molti tedeschi, se ci vedevano! Arrivammo
ad Empoli dopo un giorno di cammino, restammo ospiti
fino a quando anche Brucianesi fu liberata.
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Passarono gli anni, la vita quotidiana era cambiata, già
grandicella imparai a fare la calzettaia a domicilio, avevo
due macchine per fare le maglie, fra Lastra a Signa e Signa
c’era molto lavoro: maglifici, cappellifici, mentre a Malmantile decine di calzaturifici, le donne aggiuntavano a
domicilio;lavoravamo molto ma eravamo liberi; erano
altri tempi! Il lavoro era tanto e gli svaghi pochi, anche i
miei genitori come altri genitori dall’ora con le proprie
figlie erano severi, temevano le chiacchiere della gente!
Però fra vicini c’era vera solidarietà, le porte erano sempre aperte come si fosse una grande famiglia; spesso in
estate i fontanelli dell’acqua rimanevano a secco e dovevamo andare ad attingerla al pozzo non proprio in paese,
noi donne tutte insieme con in mano le “mezzine”, uscivamo e la porta incuranti la lasciavamo aperta.
Per mio padre c’era una festa alla quale non poteva mancare: la fiera di giugno a Malmantile, per lui era una ricorrenza imperdibile, anche se a volte mia madre era restia ad
andarci, noi ragazzevolevamo andarci ma… non sempre
ci andavamo! A quei tempi bastava poco per divertirsi.
Purtroppo nel 1966 l’acqua del fiume che accarezza Brucianesi ci riservò un’amara sorpresa, un’ulteriore fuga dal
paese. Brucianesi è distesa sulla riva sinistra dell’Arno, in
uno dei luoghi più bassi del Comune, la strada principale
non di rado si allagava, e non sempre a causa della piena
dell’Arno,la maggior parte delle alluvioni della statale era
causata dal rio che scende dalla collina per sfociare in
Arno. Brucianesi era un paese a rischio alluvione ma ci
stavamo bene, anche i mezzi che percorrevano la statale
sessantasette sapevano che quando arrivavano all’altezza
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del paese potevano imbattersi nell’acqua alta. Ma quel
quattro novembre del 1966 la piena si trasformò in una
disastrosa alluvione, quell’evento tragico causò la nostra
ultima fuga verso un altro luogo. Anche il 3 novembre
1966 come gli altri giorni ero andata a lavorare nella fabbrica del Camerlinghi a Lastra a Signa, era una fabbrichetta con solo cinque operaie, avevo lasciato il lavoro a domicilio perché in fabbrica guadagnavo di più, in famiglia
avevamo avuto un grave lutto, le disponibilità economiche erano diminuite. Era la sera prima della festa dell’Unità d’Italia, mia cugina che abitava a Lastra a Signa insisteva perché rimanesse ospite da lei, si era fatto tardi a lavoro.
Io preferii tornare a Brucianesi, come sempre passai da
Ponte a Signa, in quei giorni era piovuto molto ma l’acqua dell’Arno era bassa non pensavo alla piena. Rientrai
tranquillamente a casa, cenammo, poi verso mezzanotte
sentimmo un compaesano parlare a voce alta per strada,
avvertiva che al ponte c’era un anticipo di piena, non
demmo molto peso alla notizia e andammo a letto. Verso
le due di notte fummo svegliati dalle campane, il prete
avvertiva che stava per arrivare la piena, ci fu una gran
confusione generale, mia sorella convinta che fosse mattina e il prete stesse suonando per invitare a messa, si vestì
in fretta per recarsi in chiesa; scendemmo in strada, dicevano che stava per arrivare l’acqua alta, svegliammo mio
fratello e cercammo di portare più cose possibili al piano
superiore, l’acqua arrivò verso le sei del mattino; arrivò
con una forza impressionante, portava via tutto quello
che trovava: dalla ceramica poco distante portò via legni,
balle di segatura, ogni genere di oggetto scorreva violen32
temente sull’acqua, noi avevamo posizionato una vetrina
sulla tavola e tutte le volte che c’era il risucchio dell’onda,
la vetrina sbatteva nel soffitto del piano superiore dove
c’eravamo ritirati, per fortuna al secondo piano avevamo
portato le cose essenziali, anche le macchine da calzettaia
si salvarono, l’acqua rimase in casa per due giorni, l’altezza dell’acqua all’interno aveva superato i due metri. I primi aiuti ce li portarono con la barca! Poi rimase il fango
imbevuto di gasolio e una puzza insistente di pesce. Dalla
finestra che guardava sull’Arno, ho visto passare di tutto,
per fortuna in quel punto l’argine resse, altrimenti Brucianesi sarebbe stato spazzato via, l’acqua arrivò dal masso
della Gonfolina dove l’argine era più basso.
Dopo l’alluvione ci trasferimmo a Lastra a Signa, la casa di
Brucianesi era umida, mamma si ammalò, fu la nostra
ultima fuga.
33
Germoglio sotto la neve
L
’inverno stava arrivando insieme alla prima tramontana, la montagna lo anticipa sempre! La stagione finale
era nel vivo, ma di lì a poco la neve avrebbe dato inizio al
risveglio che matura sotto la sua coltre candida.Fu in
quell’ottobre del 1943 che entrai in seminario, ragazzo
che si preparava ad una nuova vita, come germoglio sotto
la neve iniziai a crescere nella consapevolezza del cielo
oltre le nuvole e della terra sulla quale gli uomini poggiano i piedi.
Abitavo a Piancaldoli un paese piccolissimo, mentre il seminario si trovava nella vicinaFirenzuola, rimanevo nel mondo
chiuso e solidale della mia montagna, in quel tempo difficile
di guerra noi eravamo situati a di la dellalinea gotica, spartiacque fra i due fronti. Il seminario di Firenzuola rimase un
breve passaggio semplice ed intenso della mia vita, nell’inverno del 1944 Firenzuola fu bombardata, anche il seminario insieme ad altrecase del paese fu raso al suolo; prima che
arrivassero gli aerei fummo avvertiti che ci sarebbero stati dei
bombardamenti ed il Rettore ci fece tornare presso le nostre
famiglie per poterci meglio proteggere. La guerra era dura,
spietata, non risparmiava nessuno, anche vivere in montagna
era difficile ma fra la gente provata c’era solidarietà, rispetto
a volte giocosa ironia, noi ragazzi della guerra sapevamodivertirci con semplicità. Della guerra ho ancora un martellante ricordo: il cannone che tutte le notti sparava un colpo
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ogni quindici minuti, un rimbombo dimorte che mi è rimasto nella mente come ticchettio di sveglia a ricordare ciò che
non dovrà più accadere, era il cannone degli alleati che preparavano il terreno per superare la linea gotica. La guerra
stava finendo, i paesi vicinierano stati liberati, Piancaldoli era
stato dimenticato!Fu così che una delegazione di uomini
decisero di traversare la linea gotica ormai abbandonata, per
recarsi dagli alleati ad avvertirli che i tedeschi erano già fuggiti anche da Piancaldoli. Quando in paese arrivò la fanteria
americana attrezzata per combattere, noi ragazzi iniziammo
a ridere perché oramai tutti i tedeschi erano fuggiti, praticamente ci eravamo liberati da soli, fu un momento di giovanile spensieratezza.
Il seminario di Firenzuola era stato completamente distrutto, noi seminaristi restavamo in attesa di una convocazione da parte del Rettore per comprendere quale sarebbe stato il nostro futuro, purtroppola notizia che ricevemmo fu di diverso avviso, ci comunicarono che il Rettore erastato trovato morto; era fra la fine del 1944 ed i
primi giorni del 1945, la miascelta sarebbe cambiata?
Quale strada avrei preso? Quasi per miracolo una mattina
dello stesso anno il Rettore si presentò in paese, a quei
tempi circolavano voci a raccontare fatti di ogni genere,
fra tante notizie di mortefinalmente una voce di vita. Il
Rettore convocò i ragazzi che erano stati in seminario per
farci una proposta, ci disse: che se l’avessimo voluto, potevamo proseguire gli studia Firenze.
Per arrivare ad essere prete dovevamo fare le scuole medie, in seguito il liceo classico, alla fine quattro anni di
università teologica, per un ragazzo erano prove impe35
gnative e importanti; alcuni docenti ironicamente ci dicevano che la nostra vocazione sarebbe stata messa allaprova dalle regole e dalla disciplinache imponeva lo studio teologico e la vita in seminario, in un momento importante della crescita individuale, quanti di noi sarebbero
riusciti a diventare prete?
Prosegui gli studi e, con l’inizio dei corsi di teologia ebbi il
primo approccio con il territorio di Lastra a Signa, non
immaginavo che in futuroa Lastra avrei passata una parte
importante della vita. I quattro anni del corso di teologia gli
feci nel seminario di Lecceto, nella frazione di Malmantile
“vicino a casa tua”. Ricordo che a Firenze avevamo un
bravo economo, si chiamava Guarnieri ed era nato a Malmantile, le mie conoscenze sul paese si esaurivano lì. A
Malmantile arrivavamo a Luglio e restavamo fino alla festa
del Diotto, cioè l’otto settembre nascita della Vergine Maria; per l’occasione ogni annoa celebrare la messa veniva il
Cardinale Elia della Costa. C’è un aneddoto che mi piace
ricordare: nel podere che confinava con la chiesa c’era un
filare di viti con uva particolare, uva che al Cardinale piaceva molto, il filare di viti venne chiamato “filare del Cardinale” ma ogni volta che il Cardinale arrivava alseminario
l’uva stranamente era già stata vendemmiata.
Nel luglio del 1954 terminai gli studi teologici: la teoria e
la conoscenza scritta erano terminati, passavo alla pratica,
una nuova e proficua stagione di conoscenza terrena, di
spiritualità fra la terra e il cielo. Divenni prete, appena
pochi mesi dal mio diventare pastore di Dio mi furono
assegnate tre piccole parrocchie nel comune di Firenzuola ai confini con l’Emilia Romagna, tornai in montagna,
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alla mia gente con nuova consapevolezza, ero cambiato,
le persone che mi conoscevano bambino, da prete avevano nei mie confronti una timidezza riverenziale; devo
ammettere che mi sono fatto prete quando ero già prete,
perché in quegli annimi confrontai costantemente con
tutti, nella veste di pastore di una intera comunità, fu il
mio primo bagaglio di conoscenze materiali, di timori, di
paura di non farcela e di coraggio per andare avanti nel
nome di Dio, comprendevo con occhi da adulto cos’era
la quotidianità fra cielo e terra; erano paesi ancora fuori
dal mondo ed il prete come il dottore, per la gente comune rappresentavanoun punto di riferimento sotto ogni
aspetto; ricordo che avevo un dispensario medico e di
tanto in tanto lo consultavo per comprendere come curare anche le ferite del corpo oltre a quelle dell’anima. A
Firenzuola ci rimasi per dieci anni,ammettoche dopo
quell’esperienza ero prete sotto ogni aspetto, anche se
non c’è un periodo finale alla crescita e alla comprensione, perché il linguaggio ed il confronto costante, sono il
necessario partire per incontrarci e diventare ogni giorno
più grandi nel cuore e nell’anima; oggi invece dicomprendere etrascendere attraverso la conoscenza terrena o
la voce del cielo,molti si appaganonella solitudine virtuale di un linguaggio indefinito ed incerto, mancano: la
spontaneità della parola detta con semplicità, il dialogo
diretto, il guardarsi negli occhi per capirsi. Nell’essere
umano c’è un modo di porsi di fronte agli altri che non
può essere sostituito da un cristallo più o meno trasparente, anche nell’anima che trascendeci sono occhi che ci
guardano e si riflettono nei nostri.
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Nel 1968 arrivai a Lastra a Signa, mi fu affidata la parrocchia della Natività,ma la chiesa era ancora in costruzione,
alloggiai in un appartamento vicino, mentre a fianco di
quella che stava per diventare la chiesa avevamo una stanza,
un piccolo edificio dove pregare e svolgere l’attività pastorale; era un periodo di movimento, di costante confrontodelle idee; in canonica avevamo un ciclostile ed i ragazzi
delliceo venivano a ciclostilare i volantini, c’era veramente
una grandevoglia di confrontarsi, a volte con degli eccessi
ma tutti cercavano una soluzione per costruire un domani
migliore. Lastra a Signa erauna realtà più grande rispetto ai
piccoli comuni di montagna,a Lastra c’erano tanti giovani
ed anch’io avevo voglia di esprimere la fede, la passione per
il mio “lavoro”e lo potevo fare, lo facevo in un contesto
diverso, nelnuovo quartiere della Corea, un insediamento
che stava crescendo,case popolate da giovani coppie, famiglie che si stavano formando, ero chiesa in una comunità di
persone attive, in un periodo di movimento sociale e culturale. La chiesa della Natività fu completata nel 1972 e
voglio sperare che da quel giorno la chiesa della Natività sia
diventata la casa di tutti.
In quegli anni iniziò il mio rapporto costruttivo con il
territorio, più volte mi trovai a frequentare il centro sociale per anziani, inizialmente cominciai a dire messa nella casa di qualche anziano volenteroso, poi, col tempo si
sviluppò un rapporto costante, la tradizione religiosa era
nelle coscienze delle persone che abitavano la struttura,
fra la semplicità delle credenze popolari e la fede verso
Dio. Una volta alcune signore del centro mi chiesero se
potevano cantare le canzoni semplici che conoscevano,
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acconsentii immediatamente, pensavo cantasserogl’inni
ricorrenti che si cantano durante la messa o il vespro, con
mia meraviglia intonarono canti e salmi in latino.
In quel periodo al centro sociale come direttrice c’era
Anna Bini, una donna in gamba!Riusciva ad aggregare
con armonia, fu in quegli anni che fra me, i ragazzi che
mi accompagnavano e gli anziani si istaurò un legame che
ancora oggi va avanti.Io credo nella volontà degli esseri
umani, nellaloro voglia di comprendere, purtroppo viviamo un periodo di cultura veloce, l’incomododella
comprensione spesso è un disturbo da eliminare, ma la
crescita avviene attraverso il ragionamento lento fatto di
conoscenzae rispetto, il ragionamento comprensivoche ci
porterà verso mete spirituali e materiali fatte a misura
d’uomo, nella consapevolezza del cielo e della terra.
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Un ragazzo del Quaranta
T
rentacinque anni alle dipendenze della Galilei; ero un
ragazzo in quel lontano 1940, avevo quattordici anni!
Se guardo quei giornicon gli occhi di adesso sono lontanissimi, ma lungo quel percorso giovanile mi formai, crebbi
sotto ogni puto di vista, imparai aportare avanti con impegnoe coerenza le mie idee; partecipavo a tutte le battaglie
indifesa dei diritti dei lavoratori, mai, mi sono tirato indietro: membro della commissioneinterna, del consiglio di
fabbrica. Noi, sindacalisti della Galilei fummo i primi in
Italia a pensare all’assemblea permanente e metterla in
pratica,l’intera giornata dentro la fabbrica a difendere il posto di lavoro; ci impegnammo in quell’azione quando la
Galilei fu inserita fra i rami secchi della Montedison, c’era
il rischio che ci licenziassero.Portammo avanti l’occupazioneper settimane, ma alla fine riuscimmo a salvare i posti
di lavoro. Le iniziative in difesa dei lavoratori in trentacinque annisono state tantee le ho affrontate nel rispetto della
dignità sociale, umana e politica. Lottammo per mantenere
in un reparto la produzione dei telai anziché produrre attrezzature da usare per allestimenti militari, facemmo
sciopero,manifestazioni pubbliche, perdemmo tante giornate di lavoro e lo stipendio ne risentì. Ho avuto una costante nel lungo percorso della mia vita, ho combattuto per
un’idea che stesse dalla parte dei più deboli.
Il mio istinto solidale, la mia vocazione politica hanno un
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valore che non metto in discussione, purtroppo a volte i
miei continui impegni mettevano in discussione il rapporto quotidiano con la famiglia, devo ringraziare mia
moglie e le mie figlie perché hanno sempre compreso
cosa significa rispettare un ideale che sta dalla partedella
collettività.
Nel 1975 mi chiesero di candidarmi a sindaco di Lastra a
Signa, sarebbe stata una nuova esperienza, ma anche un
ulteriore impegno; accettai! Sono coerente con le mie
scelte politiche, che a volte ho sostenuto criticamente, la
politica è una cosa da non sottovalutare perché rappresenta il presente proiettato verso ilfuturo, di volta in volta
da costruire in modo migliore. Da quel 1940 erano passati trentacinque anni, sarei potuto andare in pensione
ma, insieme alla possibilità della pensione, iniziò l’avventura di sindaco. I primi tempi furono difficili, fatti di riflessioni, di paura di non farcela, rientravo a casa con un
senso di impotenza, mi sembrava di avere la testa vuota,
priva di idee, ero quasi propenso a tornare a lavorare alla
Galileo. Con caparbietà decisi di continuare, iniziai a
pensare allapossibilitàdi fare cose importanti che servisse
all’intera collettività, fu così che la paura iniziò a lasciare
spazio all’impegno costante di sindaco del mio comune; è
stata un’esperienza bellissima, non mi pento della scelta
che feci, probabilmente se ne pente Laura che mi ha dovuto aspettare e sopportare, ma Laura è ancora al mio
fianco! Non c’era orario né giorni festivi.
Mi organizzai mentalmente pensando a quali fossero le
cose principali da realizzare, secondo un piano razionale
ed efficace che guardasse ai bisogni e alle necessità dei
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cittadini, c’era l’acquedotto da rendere operativo su tutto
il territorio e il metanoda portare a più case possibili; le
risorse a disposizione erano poche, ma i lavori andavano
fatti;ci impegnammo affinché i soldi che avevamo a disposizione risultassero sufficienti,adottammo il sistema
della redistribuzioni delle risorse e valutammo le priorità.
Mi costruii un programma mentale e di volta in volta lo
portavo in giunta per sottoporlo agli altri componenti.Fra
le infrastrutture in cantiere da poco iniziate, c’era la realizzazione del centrosociale, impegno che si era preso la
precedente amministrazione guidata da Gerardo. La progettazione fu affidata all’architetto Perra, il quale divenne
anche direttore dei lavori, mentre la costruzione materiale fu affidata all’impresa edileBerti Sabatino di Prato. I
lavori veri e propri iniziarono nel 1976 e terminarono
nel 1979, anno in cui venne fatta l’inaugurazione ufficiale. La realizzazione del centro fu consentita grazie ai mutui a tassi agevolati che ci concesse l’Istituto di Previdenzae ilrilevante contributo che ci erogò la Regione Toscana. La cifra fu contenuta non superò i due miliardi.La
struttura andava a risolvere iproblemi di una categoria di
persone indifese come gli anziani.
L’idea fondante che perseguimmo fin dalle prime
battute,era quella che il centro una volta terminato non
divenisse un ospizio, ma un condominio aperto dove gli
anziani potevano muoversi in libertà. Allestimmo il primo piano e lo cedemmo ai primi inquilini, volevamo dimostrare che non era una casa di riposo, ma uno spazio
aperto, un paese nel paese, dove vicino c’era il supermercato, al piano inferiore la mensa funzionante, della quale
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gli inquilini del centro a loro scelta potevano usufruire;
c’erano anche il centro socio sanitario e la palestra, tutti
insediamenti facili da raggiungere. Con l’esperienza acquisita, già nei primi mesi furono fatti degli accorgimenti:
fu tolto il gas e messo i fornelli elettrici per rendere più
sicuri gli alloggi, fu fatta una convenzione con la mensa
perché gli anziani potessero avere tariffe agevolate. Quando i cittadini si resero conto qualera il ruolo del centro
sociale, furono registrate decine e decine di richieste, fu
necessario attivare una lista d’attesa. Dopo sei mesi
dall’apertura del primo piano fu aperto anche il secondo,
e la dottoressa Anna Bini divenne la prima direttrice che
con impegno costante caratterizzò il centro sociale. Fu
istituita una commissione composta dalle forze politiche
e dalle associazioni presenti sul territorio; la commissione
stilò un regolamento, e valutava le domande d’accesso.
Ritengo che la scelta di portare avanti la costruzione del
centro sociale fu giusta, con il tempo sono state fatte variazioni e aggiornamenti ma il centro rimane un fiore
all’occhiello dell’Amministrazione Comunale.
Dopo la realizzazione del centro iniziai a pensare ai giovani, anche loro purtroppo erano e rimangono fra le categorie in difficoltà, pensammo a come poterli aiutaread
aggregarsi,affinché superassero il senso dell’io che si stava
insinuando: luoghi d’incontro, condivisionee opportunità di svago; mettemmo in ponte un altro grosso progetto,
la realizzazione di un centro sportivo polivalente, servivano sacrifici ed impegni economici non indifferenti;
dopo vari tentativi riuscimmo a stilare un progetto e con
coerenza attraverso contrattazioni e ricerche riuscimmo
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ad ottenere un prestito dall’Istituto di Credito Sportivo
che ci offrì tassi contenuti; premiavano il nostro impegno
e larisolutezza nel realizzare l’opera nel più breve tempo
possibile. In pochi anni ce la facemmo a costruire il palazzetto dello sport con relativa pista d’atletica e campo sportivo, oggi sarebbe stato impossibile!Inoltre ristrutturammo altri campi sportivi fra gli altri quello della Guardiana,
e gettammo le basi per la realizzazione della piscina.
Mi era rimasto un cruccio, un pensiero costante: avevamo
aiutato gli anziani ed i giovani,ma c’erano persone ancora
più fragili e indifese,le persone non autosufficienti.
A Lastra c’era la grande fabbrica dell’Afa Columbus che in
quegli anni aveva grossi problemi, tanto che la proprietà decretò il fallimento, furono fatti tentativi per cercare di mantenere l’attività sul territorio, purtroppo non fu possibile,
anche chi aveva fatto delle proposte per cercare di recuperarla alla fine si ritirò. Pensai da subito alla struttura situata al
centro del paese, immaginavo a cosa potesse servire! Con
sacrificio decidemmo di acquistarla, i sindaci che si sono succeduti dopo di mehanno realizzatola struttura attuale.
Sono rimasto sindaco per più di dieci anni, impegno e sacrificio, è stata un’esperienza forte e costruttiva, forse ho
fatto degli errori ma con la consapevolezza di lavorare sempre per la comunità di Lastra a Signa, non sta a me dare
giudizi sul mio operato. Ricordo alcune discussioni con il
sindacato quando decisi di mettere i primi orologi marcatempo per controllare gliorari d’ingresso, non volevo essere burbero o severo volevo venissero rispettate le regole,
non c’è la volontà di negare quando esiste la correttezza.
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“La semplicità, il carattere apparentemente burbero, il
pugno alzato e la politica fatta per le persone, le decisione
difese con fermezza. Maestro di vita per chi come me si
affacciava alla politica, i gesti e le parole di Corrado hanno segnato anche il mio tempo in modo positivo: fra ideale ed impegno rivoltoverso i più deboli.”
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Due anni di piacevoli incontri, di dialoghi sinceri: sentimenti e
tormenti, storie di vita da non dimenticare, passaggi storici e
culturali che hanno caratterizzato il percorso terreno di tanta gente. Uomini e donne insieme al loro vissuto, attraverso il tracciatoquotidianoche rimarràscritto ad indicare il segno indelebile deltempo a rappresentare la loro e la nostra vita passata, presente e
futura, fonte di reale conoscenza per le nuove generazioni.
Grazie sincero a tutti
Grazie di cuore a Angiolina, Corrado, Marcella, Mario, Orlando, Piero, Don Poli, Silvano per la fiducia che mi hanno concesso, per gl’insegnamenti e le esperienze di vita che mi hanno regalato, rimarranno come traccia indelebile nel mio percorso terreno
sia materiale che spirituale.
Grazie a Angela, Claudia, Gianpiero, Giovanna, Leonora per
avermi datola possibilità di accedere al Centro Sociale, all’R.S.A.
e alla Fondazione San Sebastiano Misericordi di Firenze. Grazie
per l’insostituibile supporto che mi è stato dato in ogni fase degli
incontri.
Mauro Marzi
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Finito di stampare nel mese di luglio 2013
presso la Tipografia NOVA - Signa (Fi)