Scarica la versione integrale della testimonianza
Transcript
Scarica la versione integrale della testimonianza
Adriano Rigouard Mi chiamo Adriano Rigouard, sono nato a La Spezia il 27 aprile 1925. Sono stato arrestato a La Spezia il 17 settembre del 1944 per attività in una squadra SAP, e portato presso la caserma del 21° Reggimento Fanteria, dove sono stato per due mesi. Ci sarebbe da parlare a lungo. C'erano già altri prigionieri, tutte le notti dovevamo salire sopra per gli interrogatori, ci davano un po' di botte, ma la cosa più tremenda era vedere ritornare gli adulti; dal lunotto che avevamo sopra la nostra porta noi ci schiacciavamo contro il vetro e vedevamo tornare giù delle persone tutte tumefatte. La faccia era come una polpetta di carne tritata, l'unica cosa che si vedeva era il bianco degli occhi. Gliene facevano di tutti i colori. Mi ha arrestato la Guardia Nazionale Repubblicana in seguito alla dichiarazione sotto tortura del nostro capo squadra. L'hanno picchiato, torturato e ha dovuto fare i nomi degli appartenenti alla squadra. Pensate che noi quel mattino siamo andati in sede, abbiamo portato via dei manifestini e due pistole, poi siamo tornati tranquillamente a casa, ingenui, senza che nessuno ci avvertisse o ci dicesse "andatevene". Era stata una mancanza di chi avevamo sopra di noi. Il mattino del 17 settembre hanno circondato il quartiere del Tavarro e ci hanno presi tutti. Ci hanno rinchiuso al 21° e lì abbiamo assistito a quelle cose. Molto probabilmente loro si sono accorti subito che noi eravamo l'ultima rotella e quindi non ci sottoponevano a grandi torture, ma gli adulti li hanno ridotti proprio in maniera inumana. Con la scossa elettrica gli pungevano i testicoli, gli facevano dei lacci e li sospendevano per i testicoli, gli mettevano una manichetta in bocca e aprivano l'acqua per riempirgli la pancia. Voglio dire questo, che oggi provo compassione e sono arrivato a comprendere coloro che mi hanno fatto arrestare, perché mi sono reso conto che la resistenza alla tortura esiste soltanto nei bei libri e nei bei film. Non è possibile resistere alle torture, c'è un limite. Se ne sei capace, e se ti danno il tempo, puoi ucciderti, sennò non c'è niente da fare, i tormenti sono tali che non puoi non parlare. Dunque ci hanno portato al 21°. Prima eravamo in otto, poi col passar del tempo il carcere si è riempito. Nella cella insieme a noi c’erano persone anziane che soffrivano di disturbi intestinali. Insomma, per farla corta, dovevano mangiare dove prima avevano fatto i loro bisogni. E’ un quadro che non è facile descrivere. Il 4 novembre ci hanno imbarcato su delle moto zattere e ci hanno portato al carcere Marassi di Genova, dove ci hanno consegnato alle SS. Alle SS hanno ricominciato da capo, sempre senza dirci i motivi per cui eravamo stati arrestati. Prima ero stato arrestato per appartenenza alla SAP, poi le SS mi hanno accusato di aver ucciso un colonnello della Guardia Repubblicana e di aver partecipato a fare saltare una batteria, tutte cose che erano successe quando io già stavo in carcere. Le cose erano andate così, tenendo presente quello che ho detto prima. Avevano preso tre persone, fra le quali anche un sacerdote, poi torturati ben bene li avevano portati davanti a noi a sostenere l'accusa. Mi dicevano "tu hai ucciso il colonnello" e io ovviamente cadevo dalle nuvole. Il prete allora diceva “non ti ricordi? te l'ho data io la pistola, le armi te le ho date io!” Io dicevo di no e allora quello delle SS, un pezzo d'uomo, mi ha fatto inginocchiare e mi ha preso a seggiolate. C'erano altri due testimoni che, sotto la minaccia della tortura, dovevano confermare. Io allora non ero un giova ne di grande resistenza e, a dir la verità, non avevo nemmeno acquisito dei grandi ideali che mi avrebbero potuto far sopportare, però chi mi ha fatto cascare le braccia e crollare il sistema nervoso è stato il prete, perché io lo conoscevo bene, era stato lui che mi aveva educato a certe cose. E allora ho preso e ho firmato. Quello che ho firmato era la mia condanna a morte. L'8 dicembre al mattino presto ci hanno caricati su un camion a rimorchio, ci hanno legati a due a due, la mia mano destra con la destra di un altro. Pioveva, era freddo e su questo camion scoperto siamo andati a Pavia, dove ci hanno messo su un pullman. Siamo passati da Milano, dove hanno caricato altra gente, poi abbiamo proseguito. Su questo pullman qualcuno aveva cominciato a tagliare la lamiera e qualche persona si è gettata, però dietro c'erano le macchine con i fari che li hanno visti e subito sono intervenuti. Dove battevano battevano, ci hanno fatto un sacco di ammaccature. Siamo arrivati a Bolzano. Quando siamo arrivati faceva giorno. Trovarmi all'aria aperta e vedere quel panorama, dopo tre mesi che non ci portavano nemmeno a prendere l'ora d'aria, come si fa di solito coi carcerati, mi sembrava una cuccagna, come essere in un altro mondo. Poi lì eravamo tutti Italiani, il capo blocco era italiano, e a parte il cibo che era sempre scarso per me è stata una buona parentesi. Mi ricordo che la sera ci arrampicavamo attraverso i castelli e ci andavamo ad affacciare sul muro perché di là c'erano le donne che a volte ci passavano magari qualche pezzo di pane tostato, pane secco, qualche drappo e persino dei ferri da portarsi durante il viaggio. Lì a Bolzano siamo stati cinque giorni. Ero nel blocco E, se ricordo bene, dove c'erano i perseguitati politici dal triangolo rosso. Con me ricordo i compagni Lubrano Franco, Azeloni Alfredo e Tartarini Bruno. Penso inoltre che nel lager di Bolzano siano arrivati i sacerdoti partiti con me da La Spezia, però non ne sono più tanto sicuro. Del lager di Bolzano ricordo la conta al mattino e alla sera e la faccenda di mettersi e togliere il cappello in maniera perfetta, con tempi perfetti. Qualcuno si è meritato le venticinque bastonate di punizione. Però è stato un periodo breve. Nel pomeriggio del 13 dicembre - data che ricordo perché era il giorno di Santa Lucia - ci hanno caricato sui vagoni. Dal campo siamo andati alla stazione merci. Avevamo seguito un torrente e avevo visto uno di quei capannoni che sono di solito negli scali merci delle stazioni. Ci hanno caricato abbastanza stretti in questi vagoni, con in mezzo cenere e turaccioli per i nostri bisogni. Ci avevano dato la nostra razione di pane, penso un etto di pane al giorno, ma ce la siamo mangiata subito andando alla stazione. Poi ci hanno rinchiusi dentro. Da bere niente. Quando siamo stati sul vagone, all'imbrunire siamo partiti. Ed ecco che sono saltati fuori scalpelli e martelli, e sono nati anche dissidi fra di noi. Io ero un ragazzo ma mi rendevo ben conto che conciato com'ero, non sapendo la lingua e non sapendo nemmeno dov'ero, no n sarei andato lontano. Altri sono riusciti ad aprire il ferro che chiudeva il portellone, e in cinque sono fuggiti. Non so da quanto tempo eravamo in viaggio. Se ne sono accorti, sono saliti sul vagone e ci hanno picchiato col calcio del fucile. Eravamo fermi su un binario morto e c'era una cassa fatta di strisce di legno. Hanno preso queste strisce che avevano dei chiodi sopra, e dove hanno colpito hanno colpito. Hanno rovinato anche un occhio ad uno e ci hanno conciato ben male. Dopo il tentativo di fuga hanno messo un soldato di guardia sopra il mucchio delle nostre feci. Non so quanto siamo stati fermi. Per la stanchezza, la fame e la sete non ci rendevamo nemmeno perfettamente conto se era giorno o notte. C’era solo qualche fessura dal portellone a dirci che era giorno. Poi eravamo così stretti che dovevamo stare o tutti in piedi o tutti seduti, incastrati l'uno nell'altro, cercando di non andare a finire nel mucchio delle feci. A un certo momento hanno gettato dentro un secchio di patate e io non so se ho mangiato, non ricordo più perché la ressa è stata tanta. Non so se dentro quel vagone sono sempre restato in lucidità. Siamo arrivati a Mauthausen. Era buio e noi non ci rendevamo conto né di dove andavamo né di cosa fosse. Quando siamo scesi avevamo sulla faccia un dito di patina gialla, di anidride carbonica. Dimenticavo di dire che dalla sete avevamo leccato il ghiaccio che si formava col nostro fiato nella parete di lamiera, di zinco. Siamo arrivati, ci hanno messo in colonna a bastonate e siamo partiti a piedi. Lì tutto funzionava a bastonate, prima picchiavano poi ti dicevano il perché. Non so come ho fatto a camminare per quella strada così lunga, in salita e faticosa, forse ho camminato fuori coscienza, fatto sta che quando l'ho rivista non ricordavo di aver fatto tanta strada. Per fortuna di bagaglio non ne avevo. Arrivati su ci spalancano i cancelli ed entriamo. Ai lati dell'entrata c'erano due file di persone con bastoni, nerbi, manici di piccone, badili, Gummi, fili dell'alta tensione, e cominciano a menare botte. Ci hanno poi spiegato che quando si passava davanti alle SS ci si doveva scoprire il capo. Noi eravamo coperti di stracci, non avevamo il cappello, avevamo giusto qualcosa che le donne ci avevano passato a Bolzano, forse un pezzo di tela. Ci hanno portato davanti a una baracca e ci hanno fatto schierare. Dalle cantine sotto c'era qualcuno che diceva “se avete qualcosa datecelo perché tanto vi tolgono tutto, vi tolgono tutto”. Eravamo un po' increduli, poi la cosa si è ripetuta e allora la gente salita a Milano che nelle valigie aveva di tutto ha tirato fuori ogni cosa, chi uova soda, la magnesia San Pellegrino, qualche pezzo di salame, tutti abbiamo cercato di ingoiare qualcosa. Poi è arrivata la squadra addetta che ci ha ordinato di spogliarci tutti. Era in piena notte. Spogliatevi nudi e lasciate tutto lì a terra. Io pensavo a mia madre, a quando mi diceva di togliermi dalla corrente, e a loro che ora ci facevano spogliare nudi. Ci siamo spogliati e abbiamo aspettato il nostro turno, poi siamo andati a fare la doccia. Un po' d'acqua calda, un po' d'acqua fredda. Dopo la doccia ci hanno tutti rasati, dalla testa a tutti i peli che avevamo sul corpo. Poi ci hanno disinfettato con la creolina e ci sembrava di essere delle torce accese. Poi ci hanno passato la biancheria. Sembrava una commedia, a chi hanno dato le mutande da bambola, a chi quelle della nonna, a chi il camicione da notte. Insomma era tutta roba che loro avevano accumulato nel tempo. A me è toccato un paio di mutande lunghe e una camicia abbastanza buona. Avevo degli scarponcini della divisa da marinaio. Non si erano accorti che m'erano rimasti ai piedi. Ero pieno di scabbia, avevamo avuto pidocchi a non finire e la mano dove mi avevano messo la manetta mi si era gonfiata. Allora mentre faccio per uscire mi hanno preso e in piena notte, camminando in mezzo a queste baracche appena illuminate dalla luce che c'era in tempo di guerra con l'oscuramento, mi han fatto capire che andavamo a Revier, all'ospedale. Io non volevo, volevo restare con gli amici, non ero ancora cosciente. Questo mi ha dato un paio di frustate e mi ha portato via. Sono arrivato al blocco 8, il Revier, e subito uno mi è saltato addosso, mi ha tolto le scarpe e mi ha dato delle scarpacce vecchie. Poi mi hanno portato in un castello dove erano già in tre ed era sporco perché era gente che aveva la dissenteria e avevano pulito soltanto con uno straccio. Mi hanno detto "mettiti lì" ma io esitavo. Loro non mi volevano perché erano già in tre ed erano stretti. Io ormai ero fuori coscienza, non so se ero ancora lucido, ma alla fine mi sono sdraiato. Al mattino è venuto il medico, mi ha guardato e mi ha pitturato tutto con della roba per la scabbia. Ricordo che lì ho passato il Natale, mi han dato un pane intero, un pane tedesco intero, però io ero sempre a calpestare che volevo andar via, volevo uscire, volevo andare dagli amici. Avevo solo una camicia e le mutande, perché all'ospedale non spettava niente di più, camicia, mutande e scalzi. Poi, quando si andava dal medico, anche se il male era al dito, bisognava andare nudi. L'ospedale era un posto molto pericoloso perché s'era sempre sotto la sorveglianza della selezione. Era pericolosissimo, oltretutto io avevo sempre questa fissazione di voler andare a riunirmi con gli amici. C'era un Francese che mi diceva "guarda stattene qua, cerca di star tranquillo e star qua", ma io non capivo il perché di quello che mi diceva. "Stattene tranquillo", mi tranquillizzava. A Natale ci hanno dato questo pane e due sigarette. Mi ricordo che han fatto persino l'albero, con delle figurine. C'erano mille contraddizioni, con le razioni di pane e di zuppa che ci toglievano i Kapò facevano la festa e si facevano il Natale. Passato il Natale secondo loro la scabbia era guarita e allora mi hanno portato a fare una doccia così ghiacciata che mi è venuto il mal della tarantola, ovvero ho dovuto saltare per levarmi il freddo di dosso. Mi è venuto in mente di far vedere al dottore che un fianco mi si era infiammato per aver dormito su un tavolaccio. Gliel'ho fatto vedere e mi hanno cambiato reparto, mi hanno portato in chirurgia. In chirurgia mi hanno tagliato dove c'era la suppurazione ed è stata la mia fortuna. Ho trovato un medico polacco che ha fatto di tutto per trattenermi il più possibile. Però il tempo è passato e allora sono dovuto uscire. Mi hanno portato alla quarantena. La cosiddetta quarantena per lo più era un magazzino, non di uomini ma di pezzi, perché noi eravamo Stück. Ein Stück, zwei Stück. Quando si andava in quarantena avevamo diritto ad avere una giacca e un paio di pantaloni. Non erano di quelli soliti a righe, erano per lo più vestiti militari che nella schiena, sulla giacca, avevano una finestra con le righe zebrate e una riga rossa. Altrettanto nella gamba dei pantaloni. Sulla giacca poi era fissato il triangolo rosso e il numero. Lì penso che mi abbiano immatricolato, ma per la verità non mi sono mai più ricordato con precisione dove sia avvenuto. Il mio numero era il 114.154, ma in tedesco non lo ricordo. Me lo avevano dato di latta, legato col fil di ferro. Questi blocchi di quarantena erano sempre pieni, perché arrivava anche gente da fuori e per dormire bisognava mettersi come dei pesci in scatola, testa e piedi, e formare un unico tappeto a completare il pavimento. Non rimaneva neanche un corridoio per camminare. Quando uno doveva uscire, doveva camminare sopra gli altri. Allora era un lamento e c’era chi bestemmiava in tutte le lingue. Lì era una babele: c'era gente di cento paesi e ognuno imprecava nella sua lingua. Allora si svegliata il capoblocco, Alles raus!, tutti fuori nella neve in piena notte. Sulla porta del blocco di quarantena c'era un certo numero di zoccoli, inzuppati di neve, bagnati. Chi ce la faceva metteva quelli, gli altri restavano scalzi. Ci si attaccava fra di noi, ci si sfregava, ci si massaggiava, poi facevamo i covoni, ci si ammucchiava, ci si fiatava nella schiena uno con l'altro con la speranza che altri si ammucchiassero, poi cercavamo di saltare sui piedi perché eravamo scalzi, per evitare di farceli congelare. Si doveva restare lì finché al capoblocco non girava meglio. Alla sera, prima di sdraiarsi, toglievano le ante delle finestre. Chi dormiva sotto aveva tutta l'aria addosso. C'è stato un poverino che era lì sotto a dormire e una notte, dovendo uscire, per non camminare sopra gli altri, è uscito dalla finestra. La sentinella dalla garitta lo ha fulminato. Bisognava tirare avanti. Al mattino bisognava andare a lavarsi nel Wascheraum, una baracca apposita sopra un poggio. Per salire c'erano degli scalini scavati nella terra, che però erano sempre riempiti dalla neve. Quindi salire lassù era un'impresa. Una volta entrati nella baracca, vi trovavamo tutti quelli che durante la notte erano morti. Li buttavano lì, nel Wascheraum. Scendere era più facile, ci si metteva col sedere per terra e si scendeva. Lì sono stato quindici o venti giorni, poi un giorno hanno chiamato il mio numero. Capire il numero era un’impresa. Io cercavo di usare la memoria ricordando chi avevano chiamato prima di me, così sapevo che dopo toccava a me. Mi hanno dato un paio di zoccoli aperti a metà. Mi hanno messo insieme a un centinaio di persone nella piazza principale del campo. Le quattro o cinque baracche riservate alla quarantena venivano tutte radunate in questa piazza. Ci hanno messi in fila e ci hanno portato a piedi a Gusen 2. Non era molto lontano, ma conciati come già eravamo non è stato facile. Lì sono stato mandato alla baracca 27. Bisognava subito cominciare il lavoro, che non era sul posto, ma bisognava arrivarci con un treno che ci portava sotto le gallerie di St.Georgen. Al mattino bisognava far la conta, poi metterci in fila per cinque, sfilare davanti alla SS che ci contava, poi salire su una piattaforma, che era grande tanto da contenere il numero di persone che sarebbero salite su un vagone. Nel tempo in cui il vagone passava di fianco a questa piattaforma, noi dovevamo riempire il vagone. Il treno camminava a passo d'uomo e a fianco c'erano le SS col lupo e - se era di notte - con il faro. Lavoravamo una settimana di giorno e una settimana di notte. Come il treno ci scaricava dovevamo correre verso le gallerie. Prima di entrare nelle gallerie di nuovo in fila a ricontarci. Il primo lavoro che mi hanno dato consisteva nel fare dei collegamenti elettrici sul motore degli aerei. Ero insieme ad un tedesco, ma siccome io il tedesco non lo capivo e il mestiere non lo conoscevo, questo ha un po' brontolato e mi ha mandato via. Allora mi hanno messo a mettere una corazza, uno schermo di protezione al serbatoio della benzina. Era una lastra abbastanza grande e pesante, bisognava portarla alla mola smeriglio e farle uno scasso per parte, poi bisognava darle una certa inclinazione col martello e farla brasare per chiudere la fessura, poi metterla sotto il serbatoio e avvitarla con un certo numero di viti. Queste viti molto spesso non combaciavano, allora ci voleva un punteruolo apposta e un martello per rimetterle a posto. Questo lavoro andava fatto rivolti dal basso verso l'alto. Il lavoro dopo un po’ mi ha demolito, mi ha distrutto, e mi ci voleva tutta la mia forza e tutta la mia volontà per continuare. Quando si andava al gabinetto in galleria c'era il guardiano, il kapò, che passava lì del suo passo e lasciava cadere un colpo con un arnese di piombo, fatto in filo di rame fasciato di piombo. Bisognava essere disposti a farsi rompere la testa o un orecchio perché il colpo bisognava prenderlo. E allora io preferivo trattenermi e portarmela al campo. Sennonché ormai ero ridotto in una maniera che non potevo più star seduto, perché ormai avevo soltanto le ossa dell'anca. Non avevo nemmeno la forza di stare in piedi e mi dovevo appoggiare sulla carlinga. Un mattino, dopo aver cercato di resistere per non andare al gabinetto, il bisogno è divenuto impellente Là quello che faceva più terrore di tutto era la diarrea. Mi sono detto "vado, bisogna che mi decida di andare". Nello sforzo di alzarmi mi sono tutto sporcato e sono diventato lo zimbello di quattro o cinque che poi mi hanno gonfiato di botte. In un modo o nell’altro sono riuscito ad andar fuori, a ripulirmi e ritornare sul lavoro. Devo dire che ho avuto fortuna, perché mentre finivo io finiva anche la guerra. Loro stessi ormai non avevano più la certezza della vittoria e non avevano più il fanatismo che avevano quando siamo arrivati. Ormai c’erano solo questi Kapò ignoranti che non capivano niente. Sennò Adriano non sarebbe ritornato. Ricordo che quando si ritornava al campo bastava che mi scontrassi con qualcuno e andavo in terra, mi sporcavo nella neve ormai in disgelo. Alzarmi poi era una tragedia, non ce la facevo finché non trovavo qualche compagno che mi dava un aiuto. Poi sul lavoro c'era la tensione di non sbagliare, perché gli errori venivano considerati sabotaggio e a seconda del tipo di errore ti toccavano dalle venticinque nerbate all'impiccagione. Ricordo un povero giovane di Udine - ormai il nome non lo ricordo più, ma stava ancora bene, perché era arrivato da poco - l'avevano messo a pulire con la randazza. Oltre alla fame e alla sete si era accumulato anche il sonno, perché quando si lavorava di notte il giorno in teoria si poteva riposare, in realtà c'erano mille cose da fare, la doccia, portare i vestiti all'autoclave, rinnovare la riga in testa, fare la barba, insomma si riposava poco e il sonno era arretrato. Questo giovane non so come ha trovato la maniera nascosta di dormire, forse si è seduto e si è addormentato. Lo hanno trovato e ce lo siamo portati in baracca impiccato. Con noi in galleria c'era qualche militare dell'aviazione, mentre non ricordo civili. Col cibo era una tragedia, perché ne veniva dato sempre meno. Quando siamo arrivati era un pane in tre, poi un pane in cinque, poi un pane in dieci. Si andava a tagliare il pane ed era un ammasso di muffa. Insomma mangiare diventava un'ossessione. L'interrogativo del mattino era quanto pane ci avrebbero dato. Tutta l'attenzione era al pane e a cercare di non prendere bastonate. Al mattino poi quando si partiva per andare a lavorare, chi non partiva veniva finito. A Gusen 2 non c'era la camera a gas e chi non partiva per andare a lavorare riceveva un'iniezione al cuore. Poi lo ammucchiavano davanti alla baracca. Un mattino, sentimmo tra il gruppo dei morti uno che ancora vivo chiedeva una coperta. Voleva una coperta e noi non siamo stati capaci di aiutarlo. Alla meno peggio è arrivato il giorno che non ci hanno più portato a lavorare. Non è più arrivato materiale ed è così che io sono ancora vivo. Ed è venuta la liberazione. Io mi trovavo sdraiato in baracca, a Gusen 2, ormai non mi reggevo più, sennonché il clamore mi ha spinto ad andare fuori, a gettarmi fuori dal campo. Abbiamo visto passare delle camionette di americani sulla strada. Le SS erano già fuggite prima, avevano lasciato a sorvegliare la guardia nazionale, quei vecchi col pennino, poi erano spariti anche loro, siamo rimasti abbandonati. La liberazione è stata in quei giorni di maggio, con quel bel sole. Non me lo sarei immaginato di poter essere rovinato in quella maniera. E’ passato un camioncino di quelli che portano le bibite, e io e Ciacchini, un compagno che era ridotto come me, ci hanno caricati e portato all'ospedale civile di Linz. Come mi hanno messo a letto non ce l'ho più fatta a stare in piedi. Per andare al bagno dovevamo portarmi in braccio. Avevo preso la TBC polmonare. Il 27 aprile 1945 avevo compiuto vent’anni. E’ stata la cosa più dolorosa, più dura, nella gioia della liberazione, quando un mattino mi misi a sfogliare la cartella che avevo ai piedi del letto, era scritto tutto in tedesco, non capivo niente, ma poi riuscii a leggere “TBC polmonare” in latino. E’ stato un trauma. Ho detto "non è vero!", perché io mi facevo un dato quadro della malattia, mi dicevo "ma io ho fame, io mangio!", e allora scappavo dall'ospedale, andavo fuori a chiedere da mangiare ai militari italiani. Insomma, anche se mi vedevo che rifiorivo, purtroppo era vero. Mi ci sono voluti cinque anni di sanatorio per rimettermi in piedi. Poi ho avuto la pensione, mi sono curato a casa e per fortuna sono uscite le cure che mi hanno fatto guarire. Da Linz ricordo che ci hanno prima radunati in una scuola su una collina, e poi ci hanno portato sul treno ospedale della Pontificia Opera di Assistenza. Da Bolzano mi hanno portato all'Ospedale Clementina di Bergamo. Lì c'era Roberto, un mio povero amico morente. Mi chiamava perché le mosche gli davano fastidio. “Adriano, la mosca, la mosca” diceva. Sono venute una sua zia e la madre a trovarlo e quando sono andate via mi hanno portato a casa con loro su dei mezzi di fortuna. Mi avevano raccomandato di ricoverarmi subito, così l'indomani sono entrato nell’altra vita, quella del sanatorio. Insomma, per me la guerra non era finita, aveva cambiato tutto. Se devo dire cosa è stato a mantenermi in vita, a darmi speranza, forse non sono stati gli ideali politici, perché non ne avevo ancora di così profondi. Avevo imparato l'abc della politica in montagna, con le canzoni della resistenza, ma noi eravamo vissuti all'apoteosi del fascismo, con l'impero, i vestiti, ci insegnavano la fierezza, e non avevamo confronti politici, non c'erano paragoni, pensavamo che tutto il mondo fosse così. Poi c'è stato il 25 luglio e qualcosa si è cominciato a intuire. Poi l'8 settembre. Vivevo in un rione come Migliarina, dove si è subito visto il voltafaccia. Prima tutti tacevano, nessuno ci aveva mai detto una parola, ma il 25 luglio si è tutto rovesciato. I primi a partire per la montagna furono quelli che si erano messi in evidenza il 25 luglio. Lì in montagna c'era il commissario e abbiamo cominciato ad imparare la politica. Quando ho sentito dire la terra a chi la lavora, il pane a chi lavora, io le avevo prese per parole d'ordine comuniste, invece a quanto pare erano parole di Sant'Agostino, che però la Chiesa non mi aveva mai detto. Allora ho cominciato ad essere un vero partigiano. Ma ciò che mi ha fatto resistere al lager sono stati i vent’anni, perché, non so se è un’impressione mia, nessuno accetta di morire, ma i giovani particolarmente. Là vedevo che i giovani che morivano avevano come un senso di stupore in viso, come a dire "guarda cosa mi è capitato!" Io sono sempre stato portato ad avere fiducia, se vedevo un uccellino pensavo "mi porta bene, mi porta speranza". E così quando ho visto la prima macchia di verde fra la neve a primavera. Era forse il mio carattere, forse si potrà dire che ero immaturo, non so, idealista, speravo in me, e speravo tanto di sognare mia madre. A volte, quando sul lavoro mi mancava l'energia, mi andavo ad accucciare sotto la carlinga e disperato mi sfogavo di pianto e invocavo mia madre. Sono stato fortunato a rimanere vivo.