l`EstroVerso n.4 2013

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l`EstroVerso n.4 2013
Anno VII - Numero 4
Novembre - Dicembre 2013
l’EstroVerso
Apes…
debemus
imitari
Grazia Calanna
Abitiamo un tempo imperfetto. Viviamo dentro
vespai virtuali, liberamente ingabbiati nella
trappola delle fugacità
dove tutto si consuma
nell’attimo di un click.
Tutto, finanche la cosciènza. Perdiamo la
consapevolezza di noi
stessi e, con essa, irrimediabilmente, del mondo
esterno col quale, in
briciole, smettiamo di
collegarci.
Accade. Accade perché
non c’è tempo per rimediare, non c’è tempo per
fermarsi a rapporto con
la propria identità. Preferiamo rimandare. Preferiamo la sconnessione
(dal reale). Suggerisce
Seneca: per guadagnare
una conoscenza profonda (fruttuosa) occorre
fare come l’ape (l’insetto
libero che comunica
danzando). Simbolo di
dinamicità pensante che
librandosi, dopo scrupolosa osservazione, sceglie gli elementi adatti
da ogni fiore, li colloca
con ordine nei favi e, più
avanti, li assimila, tramutandoli in una mistura
omogenea e nuova (del
reale).
Periodico d’Informazione, Attualità e Cultura - Direttore Responsabile Grazia Calanna
Antonia Pozzi, Flaubert negli anni della
sua formazione letteraria
di Andrea Cirolla
Si tratta di un saggio considerato e apprezzato a lungo, anche molti anni dopo
la sua uscita, da studiosi di
prim’ordine dell’opera
flaubertiana. Primo tra questi è Jean Bruneau, che lo
inserì in bibliografia nel
suo lavoro sui debutti letterari di Flaubert (Les Débuts
littéraires de Gustave
Flaubert,
Armand Colin,
Grafica di Nino Federico
Paris 1962) e ne citò interi
brani, approvando le analisi dell’autrice. Ma prima ancora Luciano Alboreto, con Il rapporto vita-poesia in Flaubert (19571958); e successivamente Sergio Cigada, nel suo Il pensiero
estetico di Gustave Flaubert (1964). Da decenni relegato nelle
bibliografie, e sposato nel volgere del tempo al magro destino
della marginalizzazione (in questo senso si esprime Chiara
Pasetti che cura, del volume, una bibliografia ragionata, analizzando le fonti della tesi e i suoi rapporti di valore nell’ambito
degli studi flaubertiani), Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, tesi di laurea di Antonia Pozzi, ha ritrovato
alla fine degli anni Novanta un degno posto nel dibattito critico, sull’onda di quella che può dirsi una Pozzi renaissance,
ossia la riscoperta e la fortuna, doppiamente postuma, della sua
poesia. “Degno”, ma «sempre entro un’ottica specifica, alla
luce cioè “delle problematiche filosofiche ed estetiche che pone, sullo sfondo del movimento di idee che genericamente possiamo chiamare banfiano”» (così di nuovo Pasetti, citando
Gabriele Scaramuzza, attento studioso della Pozzi e di tutta
l’orbita “banfiana”). Il Flaubert si è ritagliato un posto nel
dibattito, ma un posto anche nelle librerie, dopo i decenni di
latitanza sopra accennati. La prima edizione è remota: risale al
1940, quando, basandosi sul solo dattiloscritto della tesi contenente segni grafici di lettura ed emendazioni dell’autrice e di
suo padre Roberto Pozzi, effettivo curatore, fu pubblicata da
Garzanti con premessa del relatore (Antonio Banfi). Sono dovuti
passare ben settantadue anni prima di vederne la ristampa: uscita
alla fine del 2012, la si deve a Scheiwiller (introduzione e commento di Alessandra Cenni). L’edizione che qui si presenta segue quella
di pochi mesi, ma suona come un lavoro senza precedenti, risultato
di una notevole e necessaria fatica, della raffinata perizia filologica
del suo curatore (che ha collazionato manoscritto e dattiloscritto
analizzando ed evidenziando relazioni e varianti; riscontrando citazioni, bibliografia e riferimenti in nota), cui si deve anche
l’informatissima introduzione e una nota biografica.
(segue a pag. 33)
Allo Specchio di un quesito
“Chi ha da dire qualcosa di nuovo e di importante, ci tiene a farsi capire. Farà perciò tutto il possibile per scrivere in modo semplice e comprensibile. Niente è più facile dello scrivere difficile”,
parole di Karl Popper per chiederti qual è la tua
più intima definizione di scrittura?
Riccardo Gazzaniga
All'inizio della mia carriera letteraria, quando scrivevo i primissimi racconti, avevo idea che per conquistare i lettori
servisse proprio una scrittura difficile. E così il mio stile era
"eccessivamente barocco", secondo alcuni critici. Beh, avevano
ragione. C'erano troppe subordinate, abusavo di similitudini (con
una tremenda propensione a quelle "animalesche"!), esageravo con
gli aggettivi inutili. Era come se covassi l'inconsapevole bisogno di
dimostrare qualcosa, di far vedere che ero bravo a scrivere. Che
sapevo usare le parole, anche se non avevo una laurea e facevo il
poliziotto, l'operaio dello Stato. Insieme alle critiche, per fortuna,
arrivarono anche tanti complimenti per come gestivo la suspense,
per le trovate narrative, per la costruzione dei miei personaggi e
l'empatia che raggiungevo rispetto a ciascuno di loro. Quelle prime
opinioni, che venivano da lettori comuni, mi liberarono di un peso:
nessuno mi chiedeva di essere difficile, ma solo di raccontare le mie
storie e questo era ciò che io desideravo da sempre.
(segue a pag. 25)
Pollock e gli irascibili. La scuola di New York.
L’intuibile esito di “un’intuizione” di Laura Cavallaro
Strana cosa l’“intuizione”, sopraggiunge senza preavviso e con una potenza tale da stravolgerti e lasciarti
inquieto di fronte ad una scelta: seguirla o lasciarla andare. Il filosofo francese Henri-Louis Bergson, a proposito della spontaneità dell’intuizione, affermava che emanasse “da una facoltà affatto diversa da quella di
analizzare”, piuttosto dovesse essere “l'atto semplice che ha dato l'avvio all'analisi, e che dietro all'analisi si
nasconde”. Per uno scienziato come Isaac Newton l’intuizione scaturì da una mela caduta da un ramo, per
un artista come Jackson Pollock, il più popolare tra gli irascibili newyorkesi, fu una goccia di colore caduta
sul pavimento. Nel 1947 in poco più che una manciata di minuti, Pollock, definito il padre dell’Action
Painting, aveva inventato il “dripping”, cioè la sgocciolatura, quella tecnica che consisteva nel versare il
colore, spesso misto a sabbia o altro materiale, sulla tela stesa sul pavimento direttamente dalle latte o per
mezzo di bastoncini e pennelli induriti. Notevole cambiamento che annullò tutte le regole artistiche eccetto
una “non avere regole” e che gli permise di diventare un mito, passando dalle “stalle”, o meglio dal fienile
– laboratorio di Springs, alle “stelle” del firmamento artistico.
(segue a pag. 6)
2 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Achille Glisenti
Società&Sapere
L’amore per i cani
di Fabrizio Bernini
I cani sono oggi per legge definiti come “animali d’affezione”. Il fatto
è dovuto all’ormai pressoché diffusissima usanza di tenere con noi
queste simpatiche bestiole tra le mura domestiche. Di condividerne
momenti della vita e di creare un legame più profondo rispetto a un
rapporto con altri animali che per diversi motivi vivono separati da noi.
Mi sorge un terribile dubbio però: loro, i cani, saranno così d’accordo
riguardo al sentimento? No, perché ci sono cose che mi fanno pensare
al fatto per cui il rapporto d’affezione in questione sia tutto sbilanciato
da una parte: da quella dell’uomo. Ci sono segnali che quotidianamente osservo, e che tutti possono notare con un po’ d’attenzione. La mattina, per esempio. Ogni giorno io percorro un buon tratto a piedi per
andare al lavoro, circa un chilometro e mezzo, e le scene che si ripetono mi fanno quantomeno riflettere. Appena fuori dal portone di casa
mi imbatto nella donna di mezza età, in tuta, che compie la sua mattutina camminata veloce per restare in forma, e che tira con sforzi immani
il proprio cane di media taglia, che giustamente e per natura odora ogni
angolo, ogni cosa, che per lui è sinonimo di conoscenza, di segnale
istintivo, di rapporto attraverso i sensi del mondo. Lo facciamo anche
noi. Ecco. Ma il tanto amato cane viene orribilmente strozzato dal collare che si torce terribilmente, e la corda del guinzaglio si tende tanto
da spezzarsi quasi, nello stesso istante in cui l’amorevolissima
“proprietaria” sbuffa infastidita e si lascia andare ad aperte dichiarazioni di affettuosa comprensione del tipo “dai, muoviti!”, “e cammina!”,
oppure con un afflato sentimentalissimo che fa digrignare le mascelle e
quasi esplodere le vene del collo, del tipo “mi hai stancato, chiaro?”.
Mi lascio alle spalle così tanta dimostrazione d’amore per proseguire
verso un incrocio e imbattermi in un uomo vestito di tutto punto e impegnato in una conversazione di lavoro al telefono. Peccato che il soggetto in questione non si sia accorto che il piccolo bassotto al guinza-
glio che tiene con l’altra mano si sia accucciato un momento per
espletare i suoi impellenti bisogni corporali, e viene perciò trascinato sul marciapiedi, pancia in giù, sforzandosi miserevolmente di
riuscire in quello che probabilmente ha dovuto tenere per tutta la
notte, con le zampette che cercano in tutti i modi un appiglio, le
unghie che raspano sui sampietrini e si logorano nel vano tentativo
di bloccare il trascinamento. Niente, il nostro quadro dirigenziale,
con tono di voce altissimo, continua la sua sacrosanta telefonata di
lavoro, indefessamente prodigo ai suoi doveri, incurante della bestiola che cerca nei passanti uno sguardo di comprensione. Colpito
ancora una volta da così tanti riguardi nei confronti di un cane,
sempre più commosso e conciliato con il mondo, mi muovo spedito fino a imbattermi nel giovane energumeno dai bicipiti possenti
che cammina dritto e sicuro al centro della strada con il suo pitbull
dalle zampe potenti. Con un gesto improvviso il muscoloso proprietario colpisce violentemente l’animale sul muso, in modo ripetuto, sottolineando frasi autorevoli che vogliono far capire al cane
che gli ordini si rispettano e che le botte sono il giusto compendio
per chi, come lui, ha impunemente trasgredito un ordine perentorio. Ancora due o tre schiaffoni e la bestiola si rimette in carreggiata. Ah, la terribile colpa del simpatico quattrozampe era stata quella di aver indugiato troppo (qualche secondo) in reciproci annusamenti con un esemplare femmina appena incrociata. Al colmo ormai di così tanta umanità e amore non posso far altro che proseguire verso il lavoro, ripensando a una frase di mia madre, in un discorso di qualche tempo fa, rispetto al fatto che l’amore non è mai
un fatto unilaterale, eccola: “i cani vanno bene perché non parlano,
perché se parlassero e fossero persone allora non andrebbero più
bene”. Amen.
3 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Società&Sapere
L’ANGOLO DEL COMMERCIALISTA
Lo Spesometro
di Danilo Lizzio - [email protected]
Con provvedimento del 02.08.2013, l’agenzia delle entrate ha
modificato le specifiche tecniche ed istituito la modulistica per la
trasmissione delle operazioni iva relative al periodo d’imposta
2012 e seguenti. Il provvedimento in esame ha recepito anche le
modifiche richieste dagli operatori del settore in termini di semplificazione dei dati oggetto di trasmissione. Pertanto a partire
dall’esercizio 2012, la comunicazione dei dati è obbligatoria per
tutte le operazioni fatturate, senza limiti di importo. Il limite precedentemente fissato in euro 3.600, resiste esclusivamente per le
operazioni aventi ad oggetto cessioni di beni e prestazioni di servizi per i quali non esiste obbligo di emissione di fattura (es.
scontrini o ricevute fiscali). Sono obbligati all'adempimento dichiarativo tutti i soggetti passivi Iva (anche stabili organizzazioni
in Italia di soggetti esteri, nonché non residenti con rappresentante fiscale o identificati direttamente), che effettuano operazioni
rilevanti ai fini Iva.
In particolare sono obbligati i seguenti soggetti:
Imprese e Società in contabilità ordinaria;
Imprese e professionisti in regime di contabilità semplificata;
Enti non commerciali, limitatamente alle operazioni effettuate nell'esercizio di attività commerciali o agricole;
Non residenti, sia con stabile organizzazione in Italia,
ovvero operanti tramite rappresentante fiscale, nonché identificati direttamente;
Curatori fallimentari ed i commissari liquidatori per conto dell'impresa fallita o in liquidazione coatta amministrativa;
Soggetti che si avvalgono della dispensa da adempimenti per le operazioni esenti ai sensi dell'art. 36-bis, D.P.R.
633/1972;
Soggetti che applicano il regime fiscale agevolato per le
nuove iniziative imprenditoriali e di lavoro autonomo, cosiddetto
“forfettino”.
Sono invece esclusi dall'obbligo:
i contribuenti che applicano il regime dei minimi;
gli enti non commerciali non soggetti passivi Iva (in
quanto sprovvisti di partita Iva) e gli stessi enti titolari di partita
Iva, ma solo per acquisti o cessioni estranei alla sfera commerciale;
lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri organismi di diritto pubblico, ma in relazione ad operazione effettuate e ricevute nell'ambito di attività istituzionali (quindi in carenza di soggettività passiva).
In generale devono essere inserite nella comunicazione tutte le
cessioni di beni e le prestazioni di servizi rilevanti ai fini iva e le
relative note di variazione in addebito o in accredito.
In particolare le operazioni oggetto di comunicazione devono
essere in possesso dei seguenti requisiti e deve trattarsi di operazioni:
imponibili alle varie aliquote;
non imponibili quali cessioni ad esportatori abituali (art.
8, co. 1, lett. c, D.P.R. 633/1972);
assimilate alle cessioni all'esportazione (art. 8-bis, 8quater, 71 e 72, decreto Iva);
per servizi internazionali (art. 9, decreto Iva);
classificabili come "triangolazioni comunitarie" (art. 58,
D.L. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con modif. con L. 29 ottobre
1993, n. 427);
esenti (art. 10, decreto Iva);
soggette al regime speciale del margine (rivenditori di beni
usati, di oggetti d'arte, di antiquariato o da collezione di cui all'art. 36,
D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, conv. con modif. con L. 22 marzo 1995,
n. 85), limitatamente alla parte costituente base imponibile Iva;
soggette al regime del reverse charge;
le operazioni non soggette ad Iva per mancanza del requisito
di territorialità, ma soggette all'obbligo di fatturazione;
operazioni di leasing e noleggio;
acquisto di carburanti certificati da schede carburanti.
Gli acquisti di carburanti mediante l’utilizzo di carte di credito restano
esclusi dalla presente comunicazione, in quanto acquisiti dall’agenzia
delle entrate attraverso la comunicazione degli operatori finanziari prevista dall’art. 21, comma 1 ter del decreto legge n. 78/2010. Pertanto,
andranno inclusi nello “spesometro” esclusivamente gli acquisti documentati da schede carburanti. Il contribuente, per tale fattispecie ha la
possibilità di riportare tali dati con la modalità del documento riepilogativo, contrassegnando la relativa casella nel quadro FA o FR. Pertanto per i periodi 2012 e 2013 non sono oggetto di comunicazione le operazioni di importo inferiore ad euro 3.600,00, al lordo dell’IVA, per le
quali non vi è obbligo di emissione di fattura e certificate con scontrino
o ricevuta fiscale. Una delle principali novità introdotte, dal provvedimento in esame, riguarda la possibilità di trasmettere i dati in forma
analitica o aggregata. La scelta di comunicare i dati in forma analitica
o aggregata spetta al contribuente, con il solo obbligo che la scelta vincola l’intero contenuto del modello. In altri termini, il contribuente è
libero di optare, a seconda della propria convenienza, per la trasmissione dei dati in forma analitica o aggregata, ma fatta la scelta, tutti i dati
contenuti nel modello andranno esposti secondo l’opzione scelta. Resta
inteso che l’opzione resta valida solo per l’anno oggetto di comunicazione, avendo facoltà il contribuente di cambiare modalità di trasmissione dei dati nelle annualità successive.
Si evidenzia, che la scelta di inviare i dati in forma aggregata non è
consentita per le operazioni di:
acquisto di beni da operatori sammarinesi;
acquisti e cessioni da e verso produttori agricoli;
acquisti di beni e prestazioni di servizi legate al turismo.
Sono escluse dall’obbligo di comunicazione:
le importazioni;
le esportazioni dirette, anche in triangolazione o con consegna
dei beni in Italia al cliente non residente;
le operazioni intracomunitarie oggetto di compilazione del
modello intrastat;
le operazioni effettuate nei confronti di operatori economici
aventi sede, residenza o domicilio in Stati a fiscalità privilegiata
“Black-List”;
le operazioni escluse ex art. 15 dpr iva;
le operazioni oggetto di comunicazione obbligatoria
all’Anagrafe tributaria (es. contratti di assicurazione, fornitura di energia elettrica, ecc.).
Il termine per l’invio della comunicazione e così suddiviso:
Anno 2012: Contribuenti con liquidazioni iva mensili 12.11.2013; Altri contribuenti 21.11.2013.
Anno 2013 e seguenti: Contribuenti con liquidazioni iva mensili 10
aprile dell’anno successivo a quello di riferimento; Altri contribuenti
20 aprile dell’anno successivo a quello di riferimento.
La comunicazione dovrà essere trasmessa esclusivamente per via telematica (Entratel o Fisconline). Ulteriori modifiche o variazioni saranno
4 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Società&Sapere
Santuari di narcisismo
e falò della vanità
Giorgio De Chirico
di Raffaella Belfiore
Ammetto di avere ben poca dimestichezza con computer e
social network e di non ambire a record da medaglia d’oro
di lunga navigazione sul web. Mi tengo a debita distanza
anche dai finti moralismi di maniera improntati a delle
paternali che molto spesso non sono altro che proiezioni
delle nostre insicurezze. Ma, tra “stati”, “tag” e “tweet”, si
è insinuata l’ultima moda del vuoto apparire fine a se
stesso: il video del pre-diciottesimo, regolarmente postato
su Facebook o su You Tube. E di fronte a tale tramonto
della dignità non posso esimermi dal fare qualche
considerazione. Innanzitutto, cosa sperano di ottenere
queste ragazze e questi ragazzi attraverso l’ostentazione di
labbra e bicipiti ipertrofici? Un biglietto d’ingresso nel
magico mondo dei lustrini e dello spettacolo?! Il più delle
volte, peraltro, le immagini in questione somigliano a
delle vere e proprie gallerie degli orrori in cui lo squallore
e il trash fanno da padroni assoluti. Silhouette non proprio
esili strizzate come cotechini in abitini di satin rosso
fiammante, adolescenti che per un attimo di notorietà sono
disposte a dimenarsi come ossesse sull’asfalto (non
proprio lindo!) di una piazza di Viale Africa a Catania o a
rotolarsi come ippopotami nella stagione degli amori in
luridi acquitrini stile “fogna medievale”. Il fatto che
nemmeno la pubblica gogna di quell’autodafé che sono i
commenti posti a corredo dei video su You Tube riesca a
farle desistere da tale insano comportamento ci fa
comprendere quanto il sonno della coscienza e la
narcotizzazione della dignità abbiano preso il sopravvento
persino sulla più semplice delle logiche. Ovviamente
questi “video artistici” hanno innescato un meccanismo
commerciale non indifferente e possono avere un costo
che varia tra i 600 e i 1000€ e, in virtù di ciò, si capisce
bene come questo elemento risulti pesare
considerevolmente sul bilancio familiare. Ho avuto modo
di seguire un’intervista fatta al padre di una ragazza
protagonista di un video pre-diciottesimo. Con estremo
candore egli dichiarava di percepire uno stipendio di
1200€ mensili, ma di non avere il minimo dubbio circa
l’obbligo di un padre nell’esaudire il desiderio della figlia,
fosse anche un desiderio da 700 o 1000€! Ora, non so
davvero cosa sia peggio: una generazione di adolescenti
tanto fragile e insicura da costruirsi un santuario di
narcisismo celato dietro autoscatti realizzati persino
durante la toeletta mattutina o, invece, la generazione
precedente (quella dei genitori, per intenderci),
probabilmente causa prima di un fallimento completo che
trascende la
loro vita investendo anche
quella dei figli. Forse, nel
falò delle vanità, andrebbero
bruciati i sogni infranti di
tanti genitori repressi, ancor
prima delle dubbie dignità
di tanti adolescenti pronti a
vendere le proprie anime e
i propri corpi, pur di
apparire per la durata di
un video, così da illudersi
di vivere da protagonisti e
non da patetiche
comparse di ripiego.
Notturni
Vincent Van Gogh
di Luigi Taibbi
Accade raramente di sentire storie particolari della propria terra. In genere le
leggende vengono da lontano e lontano sembrano nascondersi i luoghi fantastici da cui provengono. Quand’ero bambino, mi fu narrato di mitiche vicende
e strane costruzioni che nella notte dei tempi sarebbero sorte e vissute nel cuore della Sicilia, millenni e millenni fa, per poi scomparire inghiottite dal tempo, dalla natura e da nuove costruzioni. Pensieri meravigliosi per un ragazzino
che cammina tra enormi campi di grano facendo volare l’immaginazione, calpestando ciottoli e strade sterrate in attesa di scorgere all’orizzonte una grande
torre di granito o una città cinta da mura enormi. Così, fino a qualche tempo
fa, dimentico di queste storie che non sentivo da anni, ascoltavo un conoscente che mi raccontava di aver letto un articolo interessante. Quest’articolo riportava la notizia di un appalto affidato al comune di Pietraperzia (Enna), per
uno scavo archeologico. Quando mi documentai sulla natura degli scavi, rimasi parecchio sorpreso nello scoprire che nei pressi di Pietraperzia, vi è una
costruzione piramidale la cui realizzazione è stimata tra il 3000 a.C. e 700
a.C. e che sarebbe assimilabile, secondo alcuni archeologi, alle Ziqqurat della
Mesopotamia. Questa presunta Ziqqurat, chiamata Cerumbelle, si estenderebbe su una superficie di 1800 m² e per un’altezza di 15 m.
Le foto mi hanno lasciato un po’ deluso. Della costruzione è rimasto ben poco, ma, nonostante questo, la scoperta (un po’ datata probabilmente) è sensazionale. Cosa ci fa una costruzione di questo tipo nel centro della Sicilia?
Pietraperzia sembrerebbe essere stata abitata dai Sicani, che la chiamavano
Petra. Mi sono subito ricordato che Petra è anche il nome di un’antica e un
tempo fiorente città, oggi rimasta esclusivamente luogo archeologico e turistico, fondata dai Nabatei nel VI a.C. Ricordate il tempio che si vede nella scena
conclusiva del terzo capitolo di Indiana Jones? Proprio quel tempio si trova
nella zona di Petra. Petra significa letteralmente “pietra” ed è una parola che
deriva dal greco. Il nome originale sarebbe greco? La stessa parola tradotta e
ricercata nelle antiche lingue medio-orientali, viene ritrovata come appellativo
di città, eroi, monumenti e dei. Quello di cambiare i nomi dei luoghi, traducendoli nel proprio linguaggio, è un’usanza comune a molti popoli. Basti pensare che la stessa Sicilia ha cambiato più volte nome. Dall’antico Trinacria, i
Sicani ricavarono Sikania, mentre i Siculi le attribuirono l’attuale nome.
Non è detto che Pietraperzia sia stata fondata dagli stessi Sicani, visto che sono presenti fonti molto antiche le quali parlano di altri due popoli che avrebbero abitato anteriormente la Sicilia. Di questi popoli sappiamo i nomi: i Ciclopi e i Lestrigoni. Ricordati dai più per essere descritti come giganti, accostati per alcune doti a ciò che gli antichi ritenevano attributi degli Dei, ci è
stato tramandato che furono affrontati e sconfitti dai Sicani, quando questi
ultimi invasero l’isola. Al di là di ciò che dicono il mito (la cui interpretazione
non può essere fatta in questo articolo, né tanto meno dal sottoscritto) e la
controversa storia, riferita con parecchi disaccordi, ciò ci dice che la Sicilia
era sicuramente abitata da altri popoli, di cui non si sa più nulla.
Così, anche noi siciliani, potremmo dire di avere la nostra piramide. Un po’
mal ridotta, ma pur sempre originale. Voi vi potreste domandare e a noi che
importa? Niente. “Nell'uomo autentico si nasconde un bambino, che vuole
giocare” ed io specificherei sognare. Non vi chiedo di fare altro.
Buonanotte!
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Arte&Creatività
5 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
EscogitArte
di Elisa Toscano
Valérie Hadida e le sue “petites bonnes femmes”
Oggetto e soggetto di letterati, premi Nobel e artisti: l’universo femminile, in tutte
le sue età, forme ed emozioni, vive nelle
sculture bronzee dell’artista Valérie Hadida. La sua espressione artistica è un appassionato omaggio a Camille Claudel, alla
quale ha dedicato anche il titolo di
un’opera “divanetti” (Les causeuses). Le
sue donne, “mes petites bonnes femmes”,
come la stessa le appella, esprimono sentimenti universali e l’usurante passare del
tempo e delle emozioni sui loro corpi. Sono donne reali, lontane dal prototipo occidentale delle donne da copertina. Sono
confuse e insicure adolescenti, donne di
mezz’età appesantite, formose e stanche
del loro vissuto o ancora abbandonate,
dalle carni corrose dalla frustrazione di un
sentimento non ricambiato. Un’umanità
sfacciatamente rivelata da una tecnica
scultorea dalla grande forza espressiva,
pur nella delicatezza delle proporzioni e
nella raffinatezza della cura dei dettagli.
Emblema della complessità di un universo
popolato da anime dalle intense e screziate
sfumature, un luogo dove gli uomini non
sono esclusi, ma al contrario sono protagonisti silenti e assenti: “La maggior parte
delle mie piccole donne è in attesa del loro
uomo, la speranza o la disperazione di lui
(l’espèrent ou désespèrent de lui)”.
6 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Arte&Creatività
(segue da pag. 1)
Pollock e gli irascibili…
Jackson Pollock, Number 27, 1950
di Laura Cavallaro
Pollock capì che era giunto il momento di abbandonare pennelli e cavalletto
e che occorreva relazionarsi all’opera d’arte come non aveva mai fatto prima, bisognava entrarci dentro, farsi ispirare da quelle tracce di colore liquido colate sulla tela, ora più decise e dense, ora più sottili e labili ma capaci
di creare grovigli simili ad intimi nidi o insolite ragnatele, rami di intricati
boschi, sottili trame di un caotico labirinto di istinti dove per non perdersi
mentre si percorre in lungo ed in largo la tela non basta di certo il filo di
Arianna. Il risultato è scandaloso in tutti i sensi: è una pittura a tutto campo,
senza tempo, senza precedenti ma dai molteplici risvolti futuri, che ancora
oggi impressiona per l’apparente semplicità del gesto paragonata
all’enorme successo riscosso e, per il medesimo motivo, fa trapelare un
sorrisino beffardo. C’è tempo fino al 16 febbraio 2014 per visitare la mostra
“Pollock e gli irascibili. La Scuola di New York”, inaugurata il 24 Settembre a Palazzo Reale di Milano, curata per la parte internazionale da Carter
Foster del Whitney Museum e per la parte italiana da Luca Beatrice. Qui si
possono ammirare quarantanove opere prese in prestito dal Whitney Museum di New York, che raccontano quello che è accaduto dagli anni Quaranta ai Sessanta in America, quando il primato dell’arte si spostò da Parigi
a New York ed a farla da padrone erano, oltre a Pollock, Arshile Gorky,
Willem de Kooning, Mark Rothko, Robert Motherwell, Barnett Newman,
Lee Krasner…ed altri. Tali furono i rivoluzionari protagonisti
dell’Espressionismo Astratto, classificati in “action painters” e “color field
painters”, uniti ma autonomi nel portare avanti la loro personale e provocatoria ricerca stilistica, gestuale, sensoriale, surreale, segnica e tonale che gli
valse in quegli anni, in prima battuta, non solo il rifiuto del pubblico ma anche quello,
più feroce, del sistema dell’arte. Emblematico l’episodio che denunciarono in diciotto, e che li etichettò per questo come irascibili, per mezzo di una lettera di protesta
indirizzata a Ronald L. Redmond, Presidente del Metropolitan Museum di New York,
il quale non si curò di chiamare nessuno di loro quando, nel 1950, organizzò una mostra sull’arte contemporanea americana, negando loro la possibilità di “esserci”. Di
certo, però, non poteva bastare solo questo a fermarli e così la Scuola di New York
continuò con il nuovo linguaggio di rivolta a cercare le risposte al tutto o al niente
universale, seguendo l’ordine del caos regolato da pensieri ed istinti e dalle leggi rivoluzionarie di menti in evoluzione.
Franz Kline, Mahoning, 1956
Jackson Pollock, Number 17, 1950
Mark Rothko, Untitled (Blue, Yellow, Green on Red) 1954
Arte&Creatività
7 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Arte… in sala d’attesa
di Daniele Cencelli
Victoria Station Mumbai
Ebbene sì c’è arte anche nelle stazioni ferroviarie. Tre stazioni, tre continenti: la Union Station di Washington (USA), la
Stazione Centrale di Milano e la Stazione indiana di Chhatrapati Shivaji. Proprio quest’ultima, la Chhatrapati Shivaji Terminus a Mumbai, è la più vecchia. Fu costruita tra il 1878 e
il 1888 quando l’India era ancora una dipendenza britannica
e conosciuta col nome di “Victoria Terminus”. Fu progettata
dall’architetto britannico Frederick William Stevens nello
stile neogotico vittoriano con ispirazione ai modelli italiani
tardomedievali. Questo stile fonde così il gusto europeo e
quello indiano. I colori e le decorazioni riprendono le caratteristiche dell’arte Moghul ed Hindi, come le decorazioni
delle ceramiche della tradizione rajput, o la presenza di varie
tipologie di archi: a tutto sesto, sesto acuto od ogivale convesso.
La cupola è a struttura ottagonale e sormontata da una colossale figura femminile rappresentante il Progresso, con torcia
rivolta verso l’alto e ruota a raggi nelle mani. L’architettura
colpisce innanzi tutto per la maestosità ma anche per la presenza massiva di decorazioni, come statue, bassorilievi e fregi.
Per età, segue la Stazione americana di Washington, costruita infatti tra il 1903 e il 1908. L’architetto Daniel H. Burnham modellò l’intera struttura ispirandosi allo stile neoclassicheggiante Beaux-Arts, alle Terme di Caracalla e Diocleziano e, infine, agli archi trionfali romani. La facciata,
infatti, presenta sei enormi colonne ioniche con una sporgente trabeazione con altrettante statue modellate sui prigionieri
Daci dell’Arco di Costantino. Anche in questo caso le statue
rimandano idealmente al progresso e ai trasporti: Prometeo,
Talete, Temi, Apollo, Cerere e Archimede. La sala principale
domina senza dubbio l’intera stazione: coperta da soffitto a
cassettoni esagonali in gesso è circondata da balconate su cui
si affacciano trentasei figure di legionari romani. Originariamente le statue furono esposte nude ma, i funzionari della
ferrovia, temendo di offendere il pubblico, le “vestirono” con
scudi. Ma la “romanizzazione” non finisce qui, nella East
Hall e nella Sala Columbus Club le pareti e i soffitti sono
decorati in stile Pompeiano. In Italia una delle stazioni ferroviarie più belle è quella di Milano Centrale. Costruita in pieno periodo fascista, l’inaugurazione è del 1931, l’ideazione è
però precedente e di Ulisse Stacchini. La facciata è larga ben
200 metri circa mentre la volta si staglia per 72 metri
d’altezza. Così come la stazione di Mumbai, anche quella
milanese non ha una uno stile architettonico definito ma una
fusione tra Liberty e architettura fascista. Ogni decorazione
presente rimanda all’ideologia fascista che, come sappiamo,
si rifaceva all’arte romana: troviamo così protomi leonine o
fasci, così come statue rigidamente stanti, come le due ai lati
della facciata rappresentanti due cavalli alati accompagnati
da ignudi.
La stazione milanese non è solo nota per le sculture e i mosaici, in particolare il “Binario 21” ricorda la deportazione di
ebrei italiani verso Auschwitz. Sotto la stazione è stato ideato il Memoriale della Shoah con materiale originario degli
eventi dell’Olocausto.
8 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Arte&Creatività
5 Ottobre 2013, casa sul Piave di Goffredo Parise,
a Salgareda, in provincia di Treviso,
in onore e per amore dello scrittore.
di Alessandra Brisotto
La casetta sul Piave
o la scoperta del silenzio
È un odore che scorre sulla superficie dell'acqua. Mi sorpassa
a sinistra, sotto il corpo madido di sudore e lavico del cavallo.
La ghiaia unta di chiazze giallastre ed ombre, anche la mia, mi
ci sottrae. Il mento è libero ancora. Il cuore è schivo.
Sono quell'uomo grigio a onde seghettate, sono il cavallo a
tratti storpio che sprofonda nella sabbia, sono la ghiaia e quella
foglia in trasparenza sana.
È un rumore che scorre sulla superficie dell'aria, appena sopra
l'erba dura e fiacca, sopra uno stecco
capriccioso che scodinzolando graffia il denso ventre
del cavallo.
Il mio.
Affondo a vanvera nell'erba masticata dalla pioggia, sotto le
piaghe del sole appese a tronchi di saggina che la boscaglia se
la spazzolano via. Con me.
Avanzo e attendo di incontrare il silenzio.
Non so come sia, che forma abbia.
„Ci sei?!“
Lo penso, ma non lo dico.
Dietro un ronzio, un altro battitto di ciglia-foglia la casa è un
rudere laggiù.
La casa.
- Ci sei? -
Testamento dopo
Sono cresciuto sotto la sabbia,
secco e cocciuto
accanto al seme inaridito e friabile del tempo
Volevo alzarmi in preghiera ma non sapevo piangere,
inumidirmi, accarezzarmi di vento,
spingermi oltre, dal basso in alto, per sempre.
E trascinando i mucchi di silenzi
gettati a caso nel dimenticatoio
esterrefatto
ho guadato il fiume di polvere e specchi
con le mie vecchie scarpe, sventrate.
Ho vagato cupo in disparte
per tutti gli anni del mondo
del mio mondo
solo.
Ora son qui, accanto a te
per tutti gli anni del tempo
Arte&Creatività
Elisa Anfuso
“L’arte per mediare tra mondo
e coscienza”
Intervista a cura di Grazia Calanna
Elisa Anfuso è nata a Catania nel 1982. Le sue opere hanno
catturato il nostro interesse per la maestria di uno stile che si
coniuga alla franchezza di una poetica dell’essere (attuale) speculare al malessere antropico.
In tre aggettivi, chi è Elisa Anfuso?
Animista, decadente, inquieta.
Qual è (o quale potrebbe essere) l’aneddoto che meglio ti rappresenta?
Sono nata a Catania, ma è stato un errore. Nemmeno uno
"scherzo del destino", proprio un errore. Nel percorso animacorpo-luogo della terra, qualcosa è andata male. Ho un animo
crepuscolare, che mal si sposa con così tanta vivida luce. Ho
creduto per anni che non ci fosse un luogo in cui sentirmi in armonia. Un'anima errante. Poi ho trovato Praga ed ho capito che
davvero, è stato solo un errore. A Praga è nata una delle mie
prime serie di opere, "SOgNO", alimentata da leggende, magia,
atmosfere che sembravo portarmi dentro da sempre. È dal Ponte
Carlo che vorrei vedere il mondo per l'ultima volta.
Com’è nata (e cosa alimenta) la tua passione per l’arte?
È il mio modo di stare al mondo, di camminare da equilibrista
sul filo, è la mia urgenza. Abbiamo tutti bisogno di dare un senso al nostro esserci. Non cerchiamo risposte, cerchiamo un senso. E le mie visioni, i miei giochi, le mie fantasie, sono il modo
in cui mi è dato esserci.
9 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Arte&Creatività
Per André Breton e Lev Trotsky, “la vera arte, cioè quella
che non si accontenta di variazioni su modelli prestabiliti,
ma si sforza di esprimere i bisogni interiori dell'uomo e
dell'umanità, non può non essere rivoluzionaria”, per Elisa Anfuso?
“Rivoluzione è soverchiamento di un ordine. Un ordine che
è quello già dato, quello, appunto, dei modelli prestabiliti,
quello al quale è più comodo per tutti attenerci. Quello che
non prevede conflitti. Ma non è una concezione umana questa. Siamo il frutto incerto di pulsioni costruttive e distruttive. Ecco in cosa risulta rivoluzionaria l'arte, nel portare
alla luce questa scomoda dialettica”.
10 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Arte&Creatività
Osservando le tue opere sovviene
una riflessione di Milan Kundera:
“Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. È per questo che l'uomo non
può essere felice, perché la felicità è
desiderio di ripetizione”. È corretto
considerarlo uno dei tuoi leitmotiv?
“Credo che la nostra condizione umana, per una necessità che non ci è
dato comprendere, ci porti a valutare
le cose nei termini di questa realtà
terrena e, da questa piccola e caotica
terra, riusciamo solo a vedere una
linea, piuttosto che un cerchio. Un
po’ come fisicamente non avvertiamo sotto i nostri piedi la rotondità
del pianeta, perché siamo troppo piccoli per poterla percepire. Il tempo
umano, visto da umano, è il tempo
sulla terra. Il prima e il dopo, che
potrebbero chiudere il cerchio, non
ci è dato conoscerli, solo desiderarli.
Ma una cosa che non si conosce non
è necessariamente una cosa che non
esiste. Felicità? Ci è preclusa anche
questa, è vero. Come potrebbe essere
felice un'anima che vive di desideri
in un corpo che sopravvive solo se i
suoi bisogni vengono soddisfatti?”.
11 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Oggigiorno qual è (o dovrebbe essere) la
funzione dell’arte e quali responsabilità
deve (o dovrebbe) assumersi?
“Mi piace pensare all'artista come ad uno
sciamano. Non è certo un parallelismo
inedito quello tra queste due figure ma
oggi lo ritengo quanto mai appropriato.
In un'epoca sempre più votata al materialismo, in cui, come dice Noica, "anche il
cielo è malato", abbiamo bisogno di qualcuno in grado di mediare e di fare da
ponte, non tanto tra mondo terreno e ultraterreno, quanto tra mondo e coscienza”.
gc
Arte&Creatività
L'Écume des
jours
Boris Vian featuring
Michel Gondry
di Rosario Leotta
Dopo due adattamenti anteriori, Michel
Gondry assume le redini della trasposizione del romanzo surrealista di Boris
Vian “La schiuma dei giorni”, trasmesso
da settembre nei cinema italiani. Ma è
subito accusato di manierismo dalla maggior parte della critica e di aver ricostruito pedissequamente l’opera dello scrittore francese, tralasciando i caratteri dei
protagonisti, prediligendo l’estetica e la
mera bizzarria delle singole scene.
Al fine di comprendere le buone intenzioni di Gondry, prima della visione
della pellicola, consiglio la lettura del
racconto di Vian, la cui trasposizione sul
grande schermo non ne svilisce a mio
avviso la stregata poetica. Conoscendo i
lavori precedenti di Gondry, è scontato e
lampante come l’incontro delle fervide
immaginazioni dei due autori avrebbe
prodotto piuttosto una miscela esplosiva.
Il frutto di questo connubio è uno zibaldone colmo di situazioni fantastiche e di
ridde folgoranti che di primo acchito
potrebbero apparire come elementi caotici che prendono il sopravvento sulla storia e sui personaggi. In realtà il cineasta
francese riporta la maggior parte degli
eventi del libro minuziosamente, riducendoli in una densa melassa allo scopo di
non sacrificare la vera impronta del racconto: quella surreale.
Nel film è pertanto l’onirico ad avere
la meglio sull’immediata logica della
narrazione, sul senso e sui sensi. Come
del resto è necessario che accada nelle
descrizioni dei sogni, di cui Gondry è
specialista, e che fluiscono inevitabilmente seguendo dei criteri “random”. La
Parigi incantata del romanzo è reinventata dal regista secondo il suo particolare
linguaggio che fa ricorso a metafore che
definirei più atemporali che contemporanee. Un’atmosfera avveniristica insieme
démodé, caratterizzata da immagini fiabesche e scenari dadaisti che a tratti ricordano alcune riprese in stop-motion di
Jan Švankmajer e “Brazil” di Terry Gilliam nelle ambientazioni.
12 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
13 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Cultura
L’aforisma di Claudio Bagnasco
È tutto inutile: l’assoluto non istituisce relazioni.
Pyromanie
di Erica Donzella
“Permesso, posso vivere?”
Tatiana Berg
"La casa, un punto fermo su un ciottolo nero.
"Quattro pilastri e tre cuori", le dissero.
Contare, passo dopo passo, i battiti, attimo
dopo attimo, e trovarne qualcuno sparso nel
centro esatto dei sogni.
Una valigia di cartone e chiedere "permesso,
posso vivere?".
Le mani lontane, la culla del sorriso, la scelta
attaccata in alto al pensiero, il passo
silenzioso verso il respiro.
Molte cose sempre, qualcuna macchiata di
caffè e raggrumi di inchiostro.
“Ho ancora due anni”, dice.
La possibilità di ruotare insieme alla luce e al
buio, e tutta la sua materia incandescente, in
una nota dolente, un accordo, le dita nere di
una musica lontana.
E poi il mare ad una latitudine di sud-est, la
barba incolta di suo padre, che ruvida sarà
solo la sua vita, e morbida la piuma del
pianto dentro di sé.
Mille e più perdoni, elenchi di numeri mai
chiamati, tutti occupati, bocche incensurate,
notti biascicate d'incubi, vuoti a perdere di
peccato.
Mai vergogna però nei tumulti, sempre il
punto di ritorno allo stupore, sempre il
correre, scorrere libera sui fianchi.
Un fiore di campo non ha prigione,
solo vento.
Che ridere a scrivere di una bambina che alza
la mano dentro una tempesta."
L’antro della Pizia
di Savina Dolores Massa
Sigmund Freud
Due furono i cambiamenti: un brusio all’interno della bocca e il rifiuto del
suo cane a stargli accanto. Ciò accadeva da alcuni giorni, ma Sigmund Freud
non volle mettere sul divano delle confidenze né la sua bocca né tanto meno
il cane. Quel pomeriggio accostò le tende dello studio e si accese il sigaro. Il
fumo non fu azzurro, non si librò in nuvole. Cadde a terra, Freud lo schiacciò
col piede. Il fumo - senza un livido - rise, così come sono capaci di fare solo i
migliori assassini. L’uomo comprese come la paura potesse essere anestetizzata con un’alzata di spalle. Però si sdraiò sul divano: le sue domande rimasero prive di risposta. Era il divano delle vittime tormentate con le sue teorie,
alle quali urlava, Ma sua madre cosa faceva?, Ma sua madre cosa faceva!
Adesso non poteva essere la propria, di madre, a camminargli nell’inconscio
aiutandolo a non sentire il sapore di necrosi nella bocca. Lui ammorbò la
stanza di sé, con un tumore destinato solo ai grandi fumatori, prima che ai
grandi scienziati. Il dolore gli faceva urlare i denti, il palato cambiava forma
a ogni mutamento di pensiero, la lingua si riempiva di crepe. La parola si rifiutò di attraversare quella grotta purulenta. La solitudine, il terrore furono
carnefici in una sera verso l’imbrunire. Il genio indiscutibile, padre della follia umana, ovviamente si accese un altro sigaro. Allungò come d’abitudine la
mano sinistra per accarezzare il cane, ma l’animale era fuori dalla stanza, accucciato in pianto. Freud aveva 66 anni. Sei anni, prima notando uno strano
gonfiore al palato, si disse, Devo cambiare marca di sigari. Fece trascorrere
in questo modo venti anni, ascoltando maestri della medicina, elargendo verdetti ai propri pazienti. Negò a se stesso il cancro, proseguendo nelle sue ricerche, nell’osservare divani, nel prendere cani che sostituissero quelli nel
frattempo morti. Tutti gli animali lo amarono a distanza. Non si fece mai
mancare i migliori sigari del mondo.
Il 23 settembre del 1939, Freud aveva 83 anni. Fumando fumando, amputato
di una mandibola, e la bocca come una carogna aveva scritto libri, studiato e
proseguito a far naufragare inconsci di clienti sopra il suo divano, perché al
cancro lui aveva sempre ordinato, Taci! Ma un tumore dentro una bocca non
tace, immagina parole, e dice, nel solo linguaggio a lui consono, con toni gravi o acuti. Dice, il dolore. A Freud straziato si accascia il collo, mentre labirinti di manicomi lo respingono. L’uomo implora camicie di forza e oppio da
fumare con ingordigia. La salvezza non esiste, lui lo sa. Rivive ogni sogno
raccontato dai rannicchiati sul divano: la psiche degli sconosciuti. Non riesce
a rievocare uno solo dei propri deliri notturni.
Ordina al suo medico, Ammazzami. Il medico ubbidisce.
sdm
14 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Cultura
l’editore racconta…
Risponde Alessandro Canzian, titolare della Samuele Editore
Una cosa che ormai è abbastanza risaputa è che la Samuele Editore
nasce e prende nome da mio figlio, Samuele (ora ha quasi sette anni), come atto d'amore nei suoi confronti che diventa atto d'amore
per la Poesia e per gli uomini in genere. Un aneddoto che invece
può essere più “divertente” è invece il fatto che Samuele, fino all'età di tre anni, abituato a venire agli eventi e a sentire questo nome,
era assolutamente convinto di chiamarsi Samuele (di nome) Editore (di cognome).
Qual è la vostra linea editoriale?
La nostra linea non ha avuto grosse modifiche nel tempo, più che
altro aggiustamenti. Siamo nati con una collana di Poesia antologica pordenonese per poi specializzarci nella poesia contemporanea.
Ora lavoriamo anche con qualche romanzo specificatamente di anziani e per anziani (ma non solo) in quanto siamo alla ricerca di
fette di mercato utili. Abbiamo anche aperto agli ebook, ma ne stiamo studiando le dinamiche (non ultime quelle psicologiche di lettura, essendo l'ebook una cosa assolutamente particolare e non paragonabile al libro cartaceo). Ma la nostra linea resta e penso vorrà
restare sempre quella di una Casa specializzata in Poesia non sperimentale, ma di sostanza, anche formale.
Viviamo nell’epoca delle facili pubblicazioni, in che modo un
editore può (deve) salvaguardare l’autenticità della cultura?
Le facili pubblicazioni purtroppo non sono sempre colpa di un Editore fraudolento. Purtroppo lo stato divoratore a cui siamo soggetti
pretende annualmente un certo numero di tasse (altissime) per cui è
necessario, per non chiudere, avere degli introiti. Da lì a pubblicare
anche per guadagnare non passa molta strada. La sfida, che è veramente titanica, è quella di riuscire a mantenere una linea precisa
pur riuscendo a stare in piedi come attività. In realtà (e questo pochi lo sanno) le Case piccole ma importanti che oggi stanno in piedi hanno altri introiti per cui la Casa Editrice si prefigura come attività marginale che deve bene o male pensare solo alla ripresa delle
spese. Quindi alla domanda non posso che rispondere nella maniera più odierna possibile: solo se la Casa Editrice è marginale può
permettersi di creare un vero momento culturale riconoscibile e di
qualità.
La vostra casa editrice è dedita alla poesia. In che modo è possibile riconoscere un vero poeta e, conseguentemente, selezionarlo
per la pubblicazione?
Paradossalmente riconoscere un poeta è molto semplice. Una voce
vera è sempre e comunque riconoscibile. È vero che ci sono dei
criteri da seguire quali “cosa dice questo testo?” oppure “la forma è
funzionale al messaggio?”. Elementi di valutazione più specifici
sono la concretezza, l'asciuttezza, l'essenzialità del dettato. Poi ovviamente dobbiamo tenere conto anche della provenienza geografica dell'autore e della sua età. Non pubblichiamo per scelta ragazzini, e teniamo conto della tradizione letteraria dell'autore prima di
assumere i criteri specifici di valutazione. Quest'ultimo elemento si
lega alla consapevolezza che l'Italia è fatta di regioni culturali per
cui la Poesia siciliana non può essere paragonata o avvicinabile alla
Poesia lombarda o friulana.
Quali le peculiarità dei vostri autori?
Le peculiarità dicono le nostre scelte. Asciuttezza, concretezza,
bagaglio letterario importante. Insomma un lavoro di studio e ricerca forte che poi il lettore (che non è mai stupido) sente e apprezza.
Dicendola con parole un po' forti, parole di Pontiggia che ho incontrato a Milano a inizio settembre di quest'anno per un evento:
“nessuna persona ignorante diventa poeta, bisogna studiare e studiare tantissimo per fare vera poesia”.
Quali reputate essere – tra i vostri – i libri più interessanti già
editi o di imminente pubblicazione?
Per nostra scelta sono tutti interessanti. Posso dire quali sono quelli più riusciti a livello di consenso di popolo (vendite) che non dice
il consenso di critica: “Terra altrui” di Natalia Bondarenko
(prefazione di Katia Longinotti), “Le felicità” di Guido Cupani
(prefazione di Giulia Rusconi), “La gravità della soglia” di Roberto Cescon (prefazione di Maurizio Cucchi), oltre l'ultimissimo vincitore del Camaiore Proposta di quest'anno Malascesa” di Erminio
Alberti (prefazione di Maria Grazia Calandrone) e l'esauritissimo
“Minatori” di Dario De Nardin (primo edito della collana Scilla,
prefazione di Gian Mario Villalta). Libri di cui potete trovare estratti nello store della Samuele (http://store.samueleeditore.it). Per
il futuro abbiamo due bei progetti veramente interessanti e che si
legano a immagini di copertina di grandi artisti contemporanei
(nostra ultima frontiera editoriale), ma preferisco non parlarne ancora per scaramanzia.
Altre sue osservazioni per i lettori.
Sicuramente direi al lettore di leggere Poesia, di comprare Poesia,
di studiare Poesia. Perché questa è l'unica strada attraverso la quale diminuiscono gli Editori a pagamento fraudolenti, e si aiutano
gli Editori seri che comunque devono chiedere contributo autoriale
(come noi) per poter continuare a reggere il lavoro. Non ultimo
perché solo così si può riconoscere all'Editore il suo vero valore.
La Poesia in Italia, al contrario della politica, sta vivendo un momento vivissimo ed effervescente. Lo vediamo tutti. E questo è il
momento giusto di pubblicare un libro che sia un bel libro di Poesia. Ma per farlo bisogna supportare l'Editore che si mette di buon
grado a correre su e giù per l'Italia per presentare, promuovere, far
conoscere quel libro. Perché, ricordiamo sempre, la cultura non la
fanno la Mondadori o l'Einaudi, ma le piccole case. Una volta erano Scheiwiller, San Marco dei Giustiniani, peQuod, oggi sono Ladolfi, Aragno, Raffaelli, Nomos, Samuele.
Cultura
15 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Paul Klee
Dell’essere e
altre mancanze
di Giovanni Baldaccini
“Fammi andare dal non essere all’essere”
(preghiera di rituale Upanis citata in
Enzo Paci, Il nulla e il problema dell’uomo).
Essere e angoscia
“Essere o non essere”: sembra che il problema sia questo. L’alternativa, tuttavia, non aiuta: se si vuole ammettere la possibilità evocata dalla filosofia esistenziale di comprendere e realizzare l’essere, la contraddizione andrà risolta e le due dimensioni dovranno coesistere o, almeno, si dovrà tentare di dare giustificazione al problema non solo in sede speculativa ma anche sul piano del reale umano.
“Esistere è per l’uomo il porsi in rapporto con l’essere di se stesso che si realizza come problema” (E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Taylor, Torino, 1967, p. 55).
L’essere, dunque, si pone in termini di problema, come Platone aveva già intuito nel suo Sofista. La dicotomia tra idea e mondo fisico tuttavia non viene sciolta e l’essere “per quanto abbia il colore dell’essere ideale, d’altra parte è pur sempre legato nella maniera più stretta al
mondo dell’esistente” (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 3).
Da queste prima battute l’essere appare diviso tra spirito e materia. Sembra che allo spirito sia possibile attribuire “un’attività originaria
formativa e non semplicemente riproduttiva. Essa non esprime in maniera meramente passiva un’entità esistente, ma racchiude in sé
un’energia autonoma dello spirito attraverso la quale la semplice esistenza dei fenomeni acquista un ‘significato’ determinato, un peculiare
valore ideale” (E. Cassirer, Ibidem, pp. 9 –10). L’essere si presenta allora come attività originaria formativa che, tuttavia, ancora non si sostanzia se non in quanto idea o categoria. Questa attività formativa si presenta come attribuzione di significato, ma ignoriamo come il significato venga assegnato e come si risolva il problema della coesistenza con il nulla.
Quanto al nulla, e indirettamente all’essere, la chiave di accesso sembra essere l’angoscia. Kierkegaard avverte che dall’angoscia non si
sfugge e che ogni uomo dovrà affrontare il naufragio della propria esistenza. Non si evita ciò che il filosofo danese definisce imperfezione
(il peccato): si tratta di condizione insita nell’esistenza segnata dall’angoscia. Dunque, il nulla, che provoca angoscia, è sempre di fronte
all’essere ed è impossibile deviare dal sentimento angoscioso di nientificazione: questa la risposta emozionale all’esistere.
Anche Heidegger approda all’angoscia per definire l’essere e il nulla. L’essere deve uscire da sé, porsi di fronte a sé e osservarsi per conoscersi ma, nel momento in cui l’essere si pone al di fuori di sé, esso è nel nulla e nell’angoscia.
Più che una soluzione, la posizione di H. sembra un rompicapo. Paci espone il problema come segue. “L’esistenza è caratterizzata dal fatto
che in essa, per comprendersi, l’essere diventa nulla” (E. Paci, op. cit., p. 164). Sembra di trovarsi al punto di partenza. Come può l’essere
uscire da sé e diventare nulla; e cos’è questo nulla che l’essere stesso pone? H. risponde che il nulla è l’uomo prima che l’essere si manifesti
in lui per conoscersi. L’essere utilizza l’uomo per conoscere se stesso ma, nel momento in cui lo fa, esso non è più essere ma nulla, perché
il prezzo della conoscenza di sé è l’ingresso nel tempo e dunque nella finitudine. L’essere che si conosce finisce per essere un nulla per il
nulla che tuttavia, nel finito del tempo, esiste. Sia come sia, è innegabile che la posizione di H. rimanda a un principio primo che, temporalizzandosi, pone se stesso e il mondo. La metafisica non è superata, come H. sperava. Inoltre, non viene aggirato il principio di non contraddizione che, da Aristotele in poi, domina nella filosofia occidentale. Per la ragione l’essere può essere soltanto essere e il nulla appare incomprensibile. Come può allora ciò che è essere risolversi attraverso l’uomo che è nulla? In un solo modo: il nulla è mancanza a essere.
Considerato dal punto di vista dell’essere il nulla è nulla perché lo chiede e manca dell’essere, perché manca della necessità dell’essere, perché è
ciò che ha bisogno dell’essere. È quindi l’essere che pone il nulla. E lo pone in quanto l’essere è presente nel nulla come assenza. (E. Paci, op. cit.,
p. 115).
Non è allora il nulla che genera angoscia, ma la mancanza d’essere. L'essere è richiesta di esistere ed è in questa richiesta che avviene il
passaggio dal nulla all’essere. Ciò significa che occorrerebbe invertire i termini del problema e pensare che non è l’essere che usa l’uomo
per esistere nella conoscenza ma è l’uomo che, conoscendo, pone le basi dell’esistere ed esce dalla dimensione del nulla attraverso la fondazione nel finito del soggetto e del mondo.
Tornando al problema iniziale, quel che si può dire per ora è che l’essere è mancanza e finitudine, angoscia da cui il soggetto che prende
coscienza (e non l’Ente) è afflitto. È allora il soggetto che dà sostanza all’essere, traendolo dal nulla dell’incoscienza e immettendolo nel
flusso soggettivo del tempo. Non si tratta di un essere per la morte, ma di un essere per la conoscenza che sa di dover morire. L’essere è
allora qui, nel nulla della mancanza. Il rapporto tra essere e nulla – per usare questi termini – risponde alla domanda nietzschiana di un uomo che sia un oltreuomo, un tentativo continuo di trascendersi, perché l’essere non è dato, ma è una possibilità sempre da conseguire per
spezzare la ripetitività di un eterno fluire senza senso né soggetto (nulla).
Cultura
16 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
La presenza del nulla: l’inconscio
L’angoscia svela una dimensione dell’essere che è percezione (sentimento) di mancanza. Questa mancanza, e il timore angoscioso di nientificazione che suscita, è più vicina di quanto si possa credere. Sembra infatti che il nostro io sia sottoposto a “un triplice servaggio” (S.
Freud, “L’Io e l’Es”, in Opere 1917-1923, vol. IX, Boringhieri, Torino, 1977 p. 517): verso l’esterno, verso il Super-io e verso l’Es. Se così
è, l’io si pone come “la vera e propria sede dell’angoscia” (S. Freud, Ibidem, p. 518), e, per sopravvivere, deve continuamente porsi nella
condizione di oggetto d’amore per gli scomodi compagni del se stesso. In questo modo l’inconscio irrompe sulla scena in un rapporto con
l’io che si profila per lo meno come sentimento di angosciosa dipendenza.
Inoltre, sotto l’influsso di Schelling, Freud (S. Freud, “Al di là del principio di piacere”, in Opere 1917-1923, vol. IX, Torino, Boringhieri,
1977) rompe la pretesa univoca della logica e ammette la duplicità della natura umana anche a livello strutturale. Se persino la base pulsionale è duplice, se al desiderio di vita (Eros) si oppone un desiderio opposto (Thanatos), il principio di non contraddizione naufraga una volta di più e l’essere si specchia nel fondo del suo niente. Anche il desiderio, motore dell’umano, ha un volto doppio che si manifesta come
possibilità di rappresentarsi ed acquisire senso psichico, oppure degradare verso il non senso e l’insignificanza. Si potrebbe allora suggerire
che, per trovare il nulla, l’essere non deve fare molta strada: basta guardare in sé. L’io deve infatti confrontarsi col nulla dell’inconscio e
dell’aspetto mortale del desiderio; un nulla in ogni caso condizionante, capace di costringere e atterrire, muovere verso la rappresentazione
(Eros) o degradare nell’insignificanza del godimento immediato (Thanatos). Un nulla che, comunque, non è certamente nulla, per lo meno
negli effetti.
L’angoscia diventa allora davvero una condizione umana legata alla duplicità dell’essere che è esistere e nientificazione, domanda e mancanza, soggetto che ricerca e vuoto, coscienza e inconscio. Niente il nostro io teme di più che il nulla di se stesso, quel non io dell’inconscio
contro il quale alza difese estreme, senza però mai liberarsene davvero, perché se l’essere vuole essere deve necessariamente ammettere il
non essere come parte di sé e non negarlo o fingere che non esista, relegandolo in un nulla alieno e indimostrabile. In quest’ottica, il non
essere è l’inconscio che la coscienza non può cancellare perché in esso si fonda e ad essa si presenta non soltanto nei sogni ma nelle manifestazioni più impensabili e svariate della quotidianità, oltre che attraverso i sintomi che sono espressione di un malessere che è senso negato.
Sotto quest’ultima accezione, l’inconscio è significato possibile, domanda di senso e, dunque, richiesta di colmare la mancanza a essere.
Fammi andare dal non essere (dell’inconscio) all’essere (della coscienza): un cammino tortuoso, nel corso del quale uno dei pericoli più
frequenti è quello di identificare l’essere con la sola coscienza. Non è così.
L’essere come visione
Ogni mitologia contiene cosmogonie presenti in tutte le culture ed epoche del mondo. In esse, un eroe semidivino crea il mondo dal nulla
delle tenebre, plasmando il caos o uccidendo il mostro del non senso, qualunque forma esso assuma. L’atto di creazione è luce, un generarsi
della coscienza soggettiva dal buio profondo dell’inconscio personificato sotto i più vari e oscuri aspetti. L’io nascente crea forma, ma il
nulla non scompare per sempre come l’eroe fondatore vorrebbe; la creazione andrà sempre ripetuta, riscattata, salvata da minacce costanti:
la luce è comunque in pericolo e tutti gli eroi della storia simbolica umana sono fondatori e redentori a un tempo. Questo lascia pensare che
quell’atto di creazione sia imperfetto; in esso ci deve essere qualcosa di sbagliato. È sbagliato l’atteggiamento (hýbris della coscienza) che
tenta di negare o comunque controllare una volta per tutte il fondo oscuro del “nulla” da cui si sforza di differenziarsi. La Madre uccide se
la neghi o tenti di relegarla a livello del niente; se la integri nel senso soggettivo del se stesso, la Madre non smette di nutrire.
35000 anni fa (forse anche di più), nel buio di grotte che affondano nella terra, l’essere affiora dalla Grande Madre dell’inconscio e si rappresenta dal profondo magmatico del nulla. La coscienza dell’io nasce dall’Es e si evolve come funzione rappresentativa/conoscitiva e relazionale. A un certo punto della nostra evoluzione, per ragioni di cui non si può qui dare conto, l’uomo non si è più orientato nel mondo su
base percettiva/istintuale. Dall’Es si è svolto un organo di percezione, rappresentazione e conoscenza sempre più raffinato, fino ad arrivare
alla capacità di rappresentare il mondo. Non basta: l’io ha anche imparato a rapportarsi con la propria interiorità, ponendo le basi della rappresentazione di sé e del fondo inconscio dal quale promana: senza questo figlio angosciato, la Grande Madre sarebbe solo nulla. Come
rappresentazione di questa dualità e di questo rapporto nascono i miti e le cosmogonie (si veda, ad esempio, J. Campbell, L’eroe dai mille
volti, Feltrinelli, Milano, 1958; o ancora E. De Martino, Il mondo magico, Boringhieri, Torino, 1948). Da qui le prime rappresentazioni umane e del mondo nelle grotte dove inizia la storia (Si veda J. Campbell, Le maschere di Dio, Bompiani, Milano, 1962), nelle quali possiamo ammirare l’atto creativo per eccellenza: la nascita della psiche umana che crea un riflesso di sé e del mondo.
Fa impressione pensare che tutto ciò sia accaduto nel profondo della terra, in quelli che possiamo considerare veri e propri santuari
dell’essere, forse durante lo svolgimento di riti magici collettivi atti a preservare lo spirito della caccia, e dunque la vita. Personalmente,
preferisco pensare a fenomeni isolati, uomini soli con il buio di se stessi al quale tentavano di dare forma. Uomini spauriti, angosciati, ma
comunque capaci di far fronte a quel primo manifestarsi della domanda a esistere e, in tal modo, tentare di dominare l’oscurità delle forze
inconsce. In quegli uomini traspariva un “dio” e forse essi credevano, forse temevano, di essere afferrati dal divino. Se ciò è verosimile,
quegli uomini stavano sperimentando la realtà di un accadimento psichico, quel fenomeno che Cassirer descrive e definisce formazione
delle divinità momentanee e che rappresenta una vera e propria nascita di una prima modalità di coscienza (E. Cassirer, Linguaggio e mito,
Il Saggiatore, Milano, 1961).
Ogni impressione che colpisce l’uomo, ogni desiderio che si agita in lui, ogni speranza che lo attrae, ogni bisogno che lo stringe, può in tal modo
operare su di lui in senso religioso. Se l’impressione istantanea concede all’oggetto dinanzi a noi, allo stato in cui ci troviamo, alla forza che ci
sopraffà, il valore e per così dire l’accento della divinità, ecco che viene sentito e prodotto il dio momentaneo. Egli sta dinanzi a noi nella sua immediata singolarità e unicità, non come parte di una forza la quale si possa manifestare qui come là, in diversi momenti del tempo e in diversi soggetti, molteplice eppure omogenea, ma come qualcosa che è presente solo qui e ora, ad un unico soggetto, nell’indivisibile momento della vivente
esperienza. […] Quanto più largamente progredisce lo sviluppo spirituale e lo sviluppo della civiltà, tanto più il rapporto dell’uomo col mondo
esterno si trasforma da passivo in attivo. L’uomo cessa di essere il semplice trastullo di impressioni esterne: egli interviene col suo volere
nell’accadimento per regolarlo secondo il proprio desiderio e il proprio bisogno […] Ma, come dapprima si rendeva consapevole della propria passività, così ora l’Io può in cambio rendersi consapevole della propria attività solo mediante il proiettarla fuori di sé e porsela innanzi in una salda
raffigurazione intuibile (E. Cassirer, op. cit., pp. 34 - 35).
L’essere, come principio psichico, per conoscersi deve porsi fuori da se stesso, nel grande nulla del mondo dove potrà rispecchiarsi. È il
fenomeno psichico della proiezione, ben noto a chi frequenta studi analitici. È un fenomeno all’apparenza dispersivo, senz’altro difensivo,
ma, se elaborato, è comunque una possibilità di conoscenza.
Questi uomini muti, nascosti, forse temuti dal resto del clan, sono i padri dei nostri concetti filosofici più elevati, i veri fondatori, coloro nei
quali per la prima volta si è manifestato un processo psichico, nei quali la psiche si è formata; con essa, il mondo del soggetto. In quelle
grotte, per usare un’espressione di Heidegger, l’essere si è posto nel nulla dell’uomo che comincia a osservare e del mondo esterno avvolto
nel silenzio del non senso; in quelle grotte e in quegli uomini è nata l’esistenza e la possibilità di dare senso. In quelle grotte, è l’uomo che
ha posto, anche se involontariamente, l’essere.
Cultura
17 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Verso la storia
Fammi andare dal non essere all’essere. A livello proiettivo l’essere è immagine e sentimento (stupore e angoscia). Quando, nel corso
dell’evoluzione, quelle immagini e quelle impressioni verranno nominate, l’essere sarà linguaggio.
Fammi andare dal non essere all’essere. “Se ogni linguaggio ha la sua radice nel sentimento e nelle sue manifestazioni dirette e istintive, se
trae origine non dal bisogno di comunicazione, ma da grida, da suoni, da selvagge voci articolate, un simile complesso di suoni non costituisce mai l’essenza, mai la ‘vera’ forma spirituale del linguaggio. Questa forma nasce solo quando si dimostra attiva una nuova ‘facoltà
fondamentale dell’anima’ che distingue fin da principio l’uomo dall’animale” (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, op. cit., p.
111). Questa facoltà dell’anima è la riflessione. Fammi andare dal non essere all’essere. L’uomo “dimostra riflessione quando partendo da
tutto l’incerto sogno delle immagini che passano per i suoi sensi si sa raccogliere in un momento di veglia, si sa fermare volontariamente su
di una immagine, sa farne oggetto di chiara e più calma considerazione e sa isolare dei caratteri in modo che si tratti proprio di ciò, di questo oggetto e di nessun altro” (E. Cassirer, Ibidem, p. 112).
Fammi andare dal non essere all’essere. “L’istinto della riflessione è ciò che costituisce l’essenza e la ricchezza della psiche umana. La
riflessione modella il processo di stimolazione e ne guida l’ìmpulso in una serie d’immagini, la quale infine, quando l’impulso è sufficientemente intenso, viene riprodotta. La riproduzione […] si verifica in forme diverse: o come espressione linguistica diretta o come espressione
del pensiero astratto, come azione rappresentativa o come comportamento etico, come ritrovato scientifico o come rappresentazione artistica… la riflessione è l’istinto civilizzatore ‘par excellence’, e la sua forza si palesa nell’affermazione della civiltà di fronte alla nuda natura” (C.G. Jung, “Determinanti psicologiche del comportamento umano”, in Opere, vol.VIII, Boringhieri, Torino, 1976, p. 136). In questo
senso l’essere è cultura.
L’essere è allora un impulso a riflettere che devia dal movimento cieco della soddisfazione immediata. Una tensione continua verso un oltre
mai raggiungibile davvero, un senso sempre da assegnare, volta per volta, nello sforzo di esistere. Nel suo perenne inseguimento, l’uomo è
oltreuomo nei termini di Nietzsche, ma non pura volontà: la base istintuale non si cancella, come la ragione vorrebbe.
L’uomo esiste almeno come un alcunché che viene spinto verso una qualche cosa e, al tempo stesso, come un alcunché che si raffigura una qualche cosa […] L’archetipo è spirito o non spirito, e quel che in fin dei conti esso sarà dipende per lo più dall’atteggiamento della coscienza umana
(il corsivo è mio) (C.G. Jung, Ibidem, pp. 223–224).
In questo senso, l’essere è sintesi.
L’esistenza non può allora essere pensata come un eterno fluire dal nulla e verso il nulla. Il pensiero occidentale, che da duemila anni si
fonda sul divenire eterno del tutto, si rinchiude in una credenza che è vera e propria fede che tuttavia smentisce le proprie basi attraverso la
creazione di Immutabili per sfuggire l’angoscia di un moto involontario da e verso il nulla (si veda E. Severino, La tendenza fondamentale
del nostro tempo, Adelphi, Milano, 1988). L’essere non è allora dato, ma trascendimento del dato nel simbolo e nel senso sempre sfuggente
e rinnovantesi cui il simbolo rimanda con la sua enorme forza capace di informare intere epoche e muovere i destini di milioni di uomini,
nel bene e nel male (si pensi, ad esempio, ai mutamenti mondiali provocati dall’insorgere del simbolo cristiano o di quello nazista). La storia appare allora come un movimento dell’essere attraverso i simboli che genera. L’essere è storia: a noi darne rappresentazione consapevole.
Uno sguardo nel nulla
Vorrei ora soffermarmi sull’apparente insignificanza di quelli che appaiono fatti cui tutti siamo abituati e che consideriamo normali, quando
non li consideriamo affatto. In quei fatti si annida il nulla, la non domanda, la non problematicità, la deriva mortale del Nulla.
Dunque, se qualcuno decide di farsi i comodi suoi e di fregarsene altamente della morale e delle regole, ignorando allegramente ogni senso
di responsabilità e il rispetto dei limiti cui la civiltà rimanda; se questo qualcuno, nella sua onnipotenza patologica da narcisismo primario
(praticamente un non nato nella psiche con l’aggravante, nel caso specifico, di evidenti tratti di psicopatia), decide di trasgredire gli elementi basilari del vivere comune e rifiuta ogni norma, ponendosi al di sopra della Legge simbolica del Padre che castra il desiderio onnipotente
per perdersi direttamente nella Madre/Morte del godimento puro, acquisendo il potere per farlo grazie alla complicità di una massa amorfa
di nullità che, senza quel qualcuno, rientrerebbero nell’anonimato del mondo irriflesso e indifferente; se non contento – e libero nella sua
incoscienza da qualsiasi fonte etica (che non possiede) – propaga come esempio da seguire uno stile di vita edonistico e godereccio oltre i
limiti della decenza, tanto che la stessa Thanatos, se non ci sguazzasse, resterebbe allibita; se quel solito qualcuno si permette di blaterare
che le istituzioni sono un intralcio da eliminare e che il parlamento è soltanto una perdita di tempo; se dunque propaga idee dittatoriali che,
per fortuna, non ha la capacità di mettere in atto (tanto a lui basta godere per restare lontano dall’angoscia ed evitare il suicidio, che comunque avviene in altre forme); se poi qualcun altro glielo lascia fare per oscuri motivi di convenienza politica e altrettanta pochezza morale
psichica e, per calcolo di convenienza riflessa, si impegna pure a studiare il modo di evitargli la galera. Se qualcun altro ancora si rompe le
palle e pensa: “perché lui sì e io no?” e allora, dopo aver fatto copia e incolla di alcuni discorsi di Hitler del ’36, sale sul tetto di
un’automobile e comincia a urlare e un’altra massa di deformati mentali lo sta a sentire e gode della rabbia del rabbioso e della propria che
intanto cresce come la arcaicità interiore che li guida (si legga H. Kohut sul contagio della massa da parte del leader patologico); se insomma ci si identifica col nulla e un popolo nullificato conferisce ai nullificatori delega per nullificare, con la conseguenza che quando si va a
votare il nulla vince – cioè non vince nessuno (il nulla, appunto) – e chi ha avuto la possibilità di fare qualche cosa, essendo una nullità,
perde tempo con altre nullità non venendo ovviamente a capo di nulla; e intanto il nulla gaudente se la gode perché gli riconsegnano un
campo dove nulleggiare e diffondere il nulla del suo esempio mortale tale e quale a prima (a proposito, leggete anche qualche saggio di Kohut e Kernberg sul narcisismo patologico e la rabbia narcisistica). E dato che non basta, se i nostri figli crescono in questo clima di cultura
arcaicamente nullificata e non pensano, non studiano, non leggono, non sentono, non amano, non sviluppano un adeguato senso di identità
che non sia qualche forma di appartenenza a gruppi amorfi o firma di stilista sulle mutande perché non abbiamo insegnato loro a distinguere
e nominare le emozioni (magari leggete anche qualcosina di Galimberti sul nichilismo della società in L’ospite inquietante), e finiscono col
convogliare tutte le loro energie nella fuga dall’angoscia che abbiamo loro trasmesso con la nostra irresponsabilità, e allora passano il tempo a ubriacarsi e riempirsi di droghe e psicofarmaci, a praticare un sesso animale, così, tanto per non amare (fa male…), magari sbattuti
tutto il giorno su qualche scaletta o piazzetta o muretto e rientrano a casa, nelle condizioni descritte, alle sei del mattino, se prima non si
schiantano con le auto e le moto che procuriamo loro per ammazzarli (inconsciamente, si intende; in realtà perché siamo già morti noi); e
glielo lasciamo fare perché non siamo capaci di fronteggiare l’angoscia che questa società e questa famiglia, questi figli, noi stessi e questo
modo di (non) essere ci provoca; e allora ci rincoglioniamo di lavoro, chiacchiere da bottega, compere compulsive e cazzate domenicali,
guardandoci a nostra volta dal leggere, pensare, sentire… insomma se ci tuffiamo nel nulla tale e quale ai nostri figli cui abbiamo lasciato
che venisse rubato il futuro, per non parlare del presente e del passato (che dovremmo essere noi) e il bene della coscienza, se tutto questo è
vero, non resta che ammettere il nulla di noi stessi e tentare almeno di assumersene la responsabilità. Se succedesse, l’essere sarebbe Norma. Non vi preoccupate: non succederà e potremo continuare a morire tranquilli.
Cultura
Fare l’essere
Kant avvertiva che la cosa in sé non
è mai conoscibile; essa è qualcosa
che ha bisogno di essere attuata
attraverso il concreto dell’azione
morale (Norma) che, come azione
umana, è azione storica che non può
prescindere dalla responsabilità del
fare. La cosa in sé (l’essere) è allora
qualcosa che si vive giorno per
giorno e che diventa reale nel fare
dell’uomo che fa l’essere.
A questo punto, posso tentare di
uscire dall’equivoco che la parola
“essere” inevitabilmente ingenera.
Non si tratta di ricercare un fondamento ontologico, che si umanizzi o
meno: essere è la possibilità del
soggetto di costituirsi sul piano consapevole nel limite del tempo e della storia.
Tuttavia per esistere non basta essere nel tempo: occorre fare il tempo
e il tempo, come l’essere, è soltanto
una possibilità. Il tempo è la mia
gabbia: io sono prigioniero e gabbia. Se non lo fossi, non esisterei.
Nella gabbia del tempo, io ho un
problema: fare un soggetto che sia.
Fare la mia fragilità, perché se
l’essere non è dato può sempre essere perduto. Aggrapparsi allora
alla mancanza per evitare di essere
l’altro volto, sempre possibile, del
nulla. Fare, per questo, immagine e
pensiero e, come gli antichi artisti
di Chauvet, Lascaux, Trois Fréres e
Altamira, dipingere il nostro stupore e la nostra angoscia sulle pareti
del vuoto per nominarlo e poi pensarlo, per fare essere quello che non
è. Fare dunque arte, linguaggio,
scienza, coscienza, amore, cultura,
storia. Fare essere per sfuggire dal
godimento folle dell’immediato
cieco. Fare simbolo, perché l’essere
è simbolo e, per questo, continuamente e sempre un non ancora che
tuttavia è storia.
Il fondamento è deciso dalla libertà e
dalla responsabililtà: esso può sempre
non realizzarsi e in tal caso il mondo
è possibilità indifferente e cioè equivalenza di essere e nulla, di bene e di
male, di verità e di errore […] In altri
termini, l’essere è storicità e la storicità è lotta contro la dispersione, è
l’impegno della libertà e del valore; il
senso fondamentale della struttura
della storia è il compito di mantenere
la possibilità del possibile, di rendere
sempre possibile l’essere autentico e
cioè ciò che deve essere, il valore (E.
Paci, op. cit., p. 149).
Fammi andare dal non essere
all’essere. In quest’epoca di disperata dispersione in cui mi è dato
vivere, fammi essere, esistere, resistere, almeno nel senso di mancanza.
18 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
19 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Inediti d’autore
Paglia a volo con Céline
Cristina Annino
Non guardarla mai, non somigliarla
nemmeno; è fumo, certo, un gran
fuoco di paglia che abbaglia tutto.
In tale insonnia va avanti, poi
le scope lo fan saltare chi l’ha
messe lì? Nessuno può capirne
il senso, ormai fuori com’è dal
vaso di Pandora.
Io gli credo. Noi spavaldi
nella nostra salute; quando
gonfia le gote viola, e a vanvera,
che ne so, dice il traffico con l’emicrania
e la gara di sonno. Che gli tranciano
il viso con la pala sinistra.
“È il Novecento un’aurora?”
Macché! Non c’è, non è vero, nessuno
importante. Coi paragoni
ingrandisce anche un nano. Punto.
Poi perde, scappando, semini
di carne.
Che dire? Anche fuori dall’universo
Céline, tossico in astinenza, palleggia
occhi a terra, due mine. L’aurora
l’aveva con sé, tra le mani, come pure
la paglia. Con quei pigiami di
notte, ogni volta un canestro.
Troppo umano
Lontana la calunnia, l’ubbidienza,
le virtù della caccia senza
offese, le prede finte. Distante sono
da quel che avrei, se potuto era
farlo; so che bastava poco, pochino,
un pezzo, anche covando polvere
sul tappeto. Mai
ho sentito un discorso vero da Loro
con trappole in viso o sedie
elettriche che parlando, pensavo
a carne umana al chilo. Mai al pensiero.
Elementare, figliolo! La panna delle
cose
montò, inventava
luci, grattacieli, scale interne, come
fili d’erbe senza cognome. Poi
un volo digitale per aria.
“Che me ne fo’ ?”
Si dicono troppe balle.
La vita del suicida
Le sparerà, nella stanza sua o
silenzio della savana, con tegole
in cima, tenendola stretta al muro,
senza ultimi desideri. Prima
le insegnerà l’ a b c con schiaffetti
leggeri, poca importanza.
Mai
la prese un minuto sul serio, pareva
farcita, nel caso suo, di gerani
cannella al cacao e una lingua
di discoteche. Anche
spruzzo di genere umano. L’indossò,
hai visto mai che non sia
un affare? e lei scalciava,
sentendola
circolare nel plasma. Non una
parola, neppure il contrario
di pensieri nani. La gira, da dietro
si spezza la lancetta del cielo;
le comprime il cervello tra quei
binari. Singolare era
che nacquero insieme. Se la
stacca
di dosso tra terra e aria, braccia
fuori, piedi al suolo, per quanto
sono brevi gli schemi umani. Le spara.
20 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Inediti d’autore
Alessandra Piccoli
‘Venti minuti possono bastare’: promessa, paura, conforto, supplizio e – vita, vita, vita che si srotola a precipizio, senza pause, senza confini, smossa da chiaroscuri che non salvano tempo, che non indossano orari: mattino pomeriggio sera, un oltre che si staglia,
un magma che si addensa, è dialogo e perdizione, furore, pietà.
Leggere questo è leggersi addosso e più sotto, più dentro; è riconoscere un’impronta velata dal quotidiano – quel passaggio che
inquieta ordinarie sicurezze, un abbraccio di denti che smeriglia ipocrisie: lei scrive, Poeta che scrutandosi ci scruta (come i gatti
alla finestra); cauta, solenne, ironica oltre misura, cruda e lieve; scrive tra le corde dell’istinto e d’una agognata, frustrante ragionevolezza, lì a preservare l’amore e le fughe, gli slanci del giorno indossato come un mantra, una quotidianità da tollerare tra un delirio e una certezza, da schiudere in versi che sconfinano in addii, e che poi si riavvolgono – mattino giorno sera.
Alba Gnazi
Il mattino è come i gatti alla finestra
Stanotte mi è cresciuto il cuore
o almeno credo
che sia per questo
che sto per soffocare
io non sento movimenti
le dita sono fredde
e le finestre ancora chiuse
pensavo ne tolgo un pezzo
faccio spazio e lascio un vuoto
taglio via, casomai
- ritento perché lo sento nella pancia
e a volte anche in testa
mi chiedo quale sia
il senso del riempire
se poi ti toglie il fiato
e torni un po’ a crepare
non credo in soluzioni
se non nell’annullare
la parte circostante
lasciando solo Il male.
Lo vedi sono piena
e ti guardo come i gatti
la luna alla finestra.
La Sera è sempre senza nome
Striscio sui miei passi scuri
e mi pulisco i piedi
sempre e solo fuori
(le cose sporche fuori)
è un silenzio di stomaco
sfrattato senza avviso
che ha intenzioni felpate
verso stanze notturne
dove inciampo sempre
e gomiti su spigoli
che suonano vendette
solo che non ho fretta adesso
in tasca ho il pieno di benzina
in testa l’onda verde dei semafori
mi riporta sempre qui
a stendermi a faccia contro il letto
e la notte che mi preme sopra
boia del mio giorno.
Il pomeriggio sta in quei venti metri
Ci sto tutta in quei venti metri
venti metri tra la H e la D
How To Do
in cui mi tieni la mano
Stop
senti che ronzano le dita sull’asfalto
le mie che inciampano sempre
le tue troppo veloci che hanno fretta
dislivelli sopra e sotto il mio nero
sotto il tuo bianco
Neve/Kiss
tutto niente grigio
venti metri separati da un addio.
Venti metri di corda
appesa e il cappio stringe
si cala e mi prende
mi tende la mano
“vieni con me “ dice lui
ti abbraccio e stringo
stai ferma lì.
Pensieri a metri, venti
srotolo la matassa, sbroglio i nodi
riavvolgo chi non c’è mai
le forbici di plastica
sono crudeli e lente
come la cura nello sfilacciare
l’impegno costante e richiesta
ché non vogliamo tagli netti
e osserviamo estranei
il saltare dei nervi
un poco alla volta
in quest’arpa tesa.
Suonerò stasera per l’ultima volta
venti minuti possono bastare.
21 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Inediti d’autore
Il senso negato di Letizia Dimartino
Racconti uniti da un comune denominatore. Protagoniste le donne.
Dina
Dina è una donna minuta come il suo nome.
La sua piccola statura non le ha mai procurato problemi sconosce gli oggetti visti dall'alto, le manca un'altra visione della realtà, solamente questo. Ha sul comodino laccato di bianco una vecchia sveglia d'argento annerito e uno specchio rotondo su
cui guardarsi tutte le volte in cui crede di perdersi e nel quale si ritrova – volto ingrigito senza sorriso. Il borsone è pronto,
spalancato sulla cerniera ma nascosto nel misero armadietto. Le sue gambe tremano un poco quando inghiotte l'ultima pillola
rossa. Fuori le luci illuminano una nebbia appena addensatasi che spinge pesantemente sui vetri. Il ticchettio della sveglia si
ingigantisce.
"Gentile dottore Accorsi,
quanta fatica nel decidere, dico solo decidere, di scrivere queste poche parole. Sono necessarie, però. Ci conosciamo da tempo, da troppo tempo; non ci vedremo più perché me ne andrò e non tornerò. Nessun malanno improvviso mi indurrà a tornare.
Cerchi di credere a quanto le sto dicendo. Quante volte sono venuta a cercarla, mia unica speranza! In certe mattine gelide di
gennaio che tutto era trasparente e vitreo mentre la mia anima era calda e piena. O in certe primavere appena abbozzate in cui
le dicevo di aver sentito per tutta la notte stornire le rondini - il suo sorriso dottore come lo ricordo bene, un lieve sorriso di
condiscendenza. O ancora gli arrivi timidi e insieme tumultuosi (dentro, dottore, ero tutta un fragore) nelle sere d'estate quando le finestre erano spalancate sul giardino, gli altri ammalati sembrava mi attendessero lì seduti immobili sotto una luna poco amata, sì poco amata, perché non splende certo per chi sta male, lo sappiamo bene noi che di certe nottate godiamo poco e
il cielo è nero e basta, solo nero e attendiamo la luce del sole per meglio mettere ordine nel corpo - una pillola alle 9, 30, quella verde dopo un'ora, a pranzo la flebo e poi… poi… E invece parto allo stesso modo in cui sono sempre partita con il mio
borsone pieno di piccole cose, sempre le stesse che ormai conservo in fondo all'armadio pronte per essere arraffate nei momenti di panico, il cappottino grigio scuro e la sciarpa più volte avvoltolata al collo. Nessuna medicina in tasca, solo un biglietto di ritorno e lo specchio, quello sì, per ritrovarmi durante il viaggio e poter dire che sono io, solo io, quella donna che si
specchia, vera, con ciglia diritte, due lunghe pieghe ai lati della bocca, due piccoli nei sul mento, un leggero cedimento che
segna i contorni del viso, capelli di un improbabile biondo e occhi, dio dottore, che occhi.
I miei occhi lei li conosce. Non glieli ricordo. Adesso sono gli occhi gonfi di chi vuol scappare, di chi ha pensato per intere
notti, di chi ha desiderato, di chi ha immaginato un tragitto conosciuto e lo ha arricchito di colori, finalmente. Lei sarà contento nel leggere questa lettera, forse la attende da tanto tempo, è la risposta al suo lavoro, un lavoro che non le ho mai invidiato.
Invece lei ha invidiato a me le risate improvvise, rare, ma ampie, le risate che portano alle lacrime, lacrime che scendono giù
velocemente e non vengono asciugate subito. Si lasciano scendere per il viso, libere senza vergogne, le lacrime che ridono e
non certo le lacrime dei pomeriggi solitari trascorsi davanti alla TV accesa - perché e per chi ? - e il mondo cade e ricade e
ricade e loro corrono sul collo, solleticano il petto bagnano il golfino e bisogna subito asciugarle prima che arrivi l'infermiera.
Ha invidiato i miei ritorni a casa sul pullman per meglio io godere i prati oltre il finestrino, per sentire sbattere la vecchia tenda impolverata sul viso, per sobbalzare sulle troppe buche di una strada dissestata. La lascio e lascio pure sul comodino un
mia fotografia non recente, risale ai tempi in cui mi conobbe per la prima volta ed io venni affranta e spezzata perché lei potesse ricucire i pezzi di un corpo frantumato. Vado con la certezza di non tornare, il suo lavoro di ricamo è ultimato. Mi resta
il dolore della sua ultima immagine, la sua bella figura bianca stagliata in fondo al corridoio, il busto appoggiato alla vetrata
fredda, lo sguardo perso oltre i confini di questo luogo sventurato."
"Grazie signora Dina,
la sua lettera è bellissima, l'ho gradita. Mi è giunta inaspettata quando avevo già sulla scrivania la foto portatami dalla infermiera di turno. Succede spesso che gli ammalati mi lascino qualcosa di loro, piccoli doni significativi che io conservo e a cui
penso ogni tanto nei miei rari giorni di calma. Lei non mi ha chiesto, andandosene, niente ma io faccio finta che una sua richiesta ci sia fra le parole addolorate che mi ha inviate e le rispondo. Rispondo alla sua domanda taciuta: no, mia cara Dina,
non l'abbandonerò mai. Resterà con me seduta sulla sedia grigia della sua camera, seduta sulla panchina verde del giardino
spoglio, seduta sulla poltrona sfondata del corridoio, seduta sul lettino del mio studio, seduta sul divano della camera d'attesa,
seduta sul sedile del pullman che la portava qui in quelle mattine che io e lei conosciamo bene. Vada pure ora che si sente
libera e capace di andare e non torni in questo luogo sventurato, lasci che ci resti io a ricucire l'anima degli altri. La sua è perfetta e non ha bisogno di nessuno. Parola mia. Vada e mi invii una fotografia recente del suo sorriso ritrovato. Vada."
Il dottore Accorsi si scosta dalla vetrata, la spinge ed esce sulla veranda impolverata. Si appoggia alla ringhiera. Sotto, due
pazienti parlano lentamente, poi si accorgono di lui e con la mano lo salutano, contemporaneamente. Nella tasca ha la fotografia di Dina, la foto degli anni passati. La prende, la appallottola, la ripone spiegazzata nella tasca del camice. Il tramonto è
aranciato dietro la collina, in fondo più a est il rigo del mare lontano si intravede confuso. Il pullman si ferma rumoroso, un
paziente vi sale trascinando una piccola valigia. La vetrata, per una improvvisa folata di vento, sbatte alle spalle del dottore
che sussulta. Poi è silenzio.
22 l’EstroVerso
Cultura
Fotoracconto
Novembre - Dicembre 2013
di Massimiliano Raciti
Claudio Saccari
“Quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiederci un bacio e
volerne altri cento…”
Quella foto rubata mentre cerco le chiavi di casa e tengo la busta
del pranzo.
Quella foto in cui ci baciamo e tu hai gli occhi stretti che mirano
se la macchina fotografica ci sta inquadrando.
Quella foto mentre la neve caduta copre di poesia il marcio della
strada.
Sì, proprio quella.
È saltata fuori dal cassetto, stava sotto i maglioni.
Mi sembra di sentire ancora addosso il freddo di quella mattina,
quel freddo che non se ne andò nemmeno dopo pranzo, sotto le
coperte, in quel silenzio, a fare l’amore.
Poi fumasti, prendesti le valigie e l’aereo.
Due mesi dopo arrivò quella lettera con quel francobollo straniero, dentro solo la foto e dietro la foto solo quella riga con quelle
parole di De André.
Nessun mittente a cui rispondere, nessun numero a cui chiamare.
Non ti ho cercato se non con la mente, qualche volta immaginavo cosa avresti risposto o detto nelle tante quotidiane rotture di
scatole, o nelle ricorrenze, o in una qualunque giornata di pioggia.
Sorrido quando qualche nuova conoscenza vede in me chissà quale principe azzurro sfuggito a chissà quale favola e comincia ad
adularmi.
Non ti sono stato fedele, non avrei dovuto comunque, ma l’ho fatto solo per cercare un amore più forte del nostro, quello che ci
siamo negati, tu partendo, io restando.
Imporre a me stesso di dimenticarti, credere che il mondo potesse
nascondere ai miei occhi un tesoro più grande, inestimabile.
In tutti questi lunghi anni mi sono chiesto se tu avessi fatto lo
stesso, chissà dove, chissà con chi, o se semplicemente, con un
grande colpo di fortuna, avessi trovato quel tesoro e ti fossi dimenticata di noi.
Ogni volta per me era una ricerca di qualcosa di nuovo, di vero,
quel tesoro ambito doveva esistere, ma ogni volta sentivo dentro il
proseguire della canzone, quasi come una maledizione:
“…e tu che con gli occhi di un altro colore, mi dici le stesse parole d’amore…”
Stamattina sei entrata al bar e ti sei seduta al mio tavolo posando
due caffè.
Non esiste sineddoche per il nostro amore.
Adesso però baciami.
Notizie Letterarie
Le voci della Notte Bianca
con Giuseppe Pontiggia
Introduzione di Daniela Marcheschi
Giuseppe – “Peppo” – Pontiggia (Como, 25 settembre 1934 - Milano, 27
giugno 2003) aveva un rapporto speciale con le librerie – soprattutto le
antiquarie – e con i libri. Non solo apprezzava da bibliofilo tutte quelle
caratteristiche esterne che rendono pregevoli i libri, ma ne amava profondamente i contenuti, che gli promettevano incursioni culturali o ne aprivano orizzonti conoscitivi sempre nuovi. Da un simile punto di vista, non ho
conosciuto uno scrittore più avventuroso di lui e degno contemporaneo di
quegli esploratori antichi e moderni, che hanno ampliato con i loro viaggi,
per mare e per terra, i confini del mondo. Ricordare il decennale
dell’anniversario della morte di Pontiggia, a Milano, riunendo nella Libreria Popolare di Via Tadino gli amici da tutta Italia e quanti lo hanno stimato come scrittore e critico, per giunta senza disdegnare un breve momento
conviviale, è sembrato così il modo migliore per stare ancora con lui, che
amava tutto quanto era vita e coltivava gli affetti. Ne è scaturita una Notte
Bianca emozionante, anche perché hanno aderito alla serata tanti altri amici, sparsi magari per l’Europa, che ragioni disparate trattenevano fuori
Milano o nei loro paesi, ma che, volendo in qualche modo essere fisicamente presenti, hanno inviato una testimonianza scritta. I testi raccolti in
questo volume offrono memorie, contributi critici e biografici, in grado di
chiarire, precisare sinteticamente diversi aspetti letterari, illuminare influenze e attestare la varietà delle relazioni umane e degli interessi culturali coltivati da Pontiggia: in tal senso, potranno risultare utili ai suoi lettori
odierni e futuri. Si tratta di scritti principalmente brevi, perché,
nell’affollarsi inatteso delle voci – la “grande sera” e la notte del 21 giugno 2013 – , si sono dovuti imporre dei limiti di tempo un po’ rigidi per
consentire di parlare a quanti, numerosi, lo desideravano. Ringrazio Guido Duiella, della Libreria Popolare di
via Tadino, che, come un “Primo Mobile”, ha dato lo
spunto e la disponibilità della sua storica libreria a commemorare l’Autore, e che, vista l’affluenza di pubblico,
si è assunto anche l’onere di procurare la Sala Grandi
della sede della CISL, situata di fronte e presto riempita. Sono grata anche agli attori GianFelice Facchetti e
Diego Bonifaccio per aver letto con generosità brani
scelti delle opere di Pontiggia, permettendo così di riascoltarne pure in quell’occasione la voce di scrittore e
critico. Ringrazio Andrea e Lucia Pontiggia per il sostegno di sempre; coloro che hanno potuto inviare i loro
contributi per realizzare il presente volume e coloro
che, serenamente tristi, sono intervenuti a quella serata
memorabile, tutti testimoniando quanto Pontiggia fosse
– sia – vivo in loro e con loro, con noi. Non smetto di
ringraziare anche Giuseppe Pontiggia per le tante cose
belle che mi ha insegnato, per essere stato il miglior
compagno di strada che, chi ama la letteratura, può incontrare sul proprio cammino.
23 l’EstroVerso
Novembre - Dicembre 2013
Il primo corso di scrittura al teatro Verdi
di Laura Bosio
Nel 1985 (la fortuna a volte viene incontro) ho frequentato il primo corso di
scrittura di Giuseppe Pontiggia, al Teatro Verdi di Milano. […] Pontiggia
teneva alla puntualità. […] L’insegnamento, non normativo, divagante, spaziava dalla letteratura alla musica, dall’architettura al disegno,
dall’osservazione di un dettaglio sulla via Pastrengo prima dell’ingresso a
una notizia di cronaca apparsa su un quotidiano. Si era messi di fronte al
«problema della scrittura» (già, «problema» lo definiva Pontiggia), all’uso
consapevole della lingua, alla responsabilità che comporta, fino a esserne
terribilmente spaventati. Sono convinta che ciascuno dei presenti, dentro di
sé, sentisse il peso della lingua di legno che aveva usato fino a quel momento, credendo di parlare, di scrivere. Si era richiamati alla precisione della
parola, alla chiarezza, alla nudità: ogni espressione sbilenca o assurda, ogni
particella e ogni virgola inutile venivano allo scoperto, vergognandosi un
po’. Un esempio tra i tanti che mi sono rimasti impressi: l’aggettivo
“felice”. Un assoluto: “Sono felice”. Esiste al mondo qualcosa di più grande
che essere felici? Proviamo adesso a dire, e scrivere: «Sono molto felice». Il
“molto” ci dà un’illusione di accrescimento, ma in realtà, se analizziamo
bene, non aggiungiamo nulla, al contrario introduciamo un criterio di quantità che relativizza: si può essere più felici, meno felici, molto o poco felici.
Qualcosa di diverso dalla pienezza dell’essere felici. Se poi azzardiamo il
superlativo, “felicissimo”, incappiamo in una formula di cortesia, giustamente démodé, che ci fa arretrare: «Le presento Laura Bosio».
«Felicissimo». Il punto non era aderire a un dettato, a un diktat: era diventare padroni del linguaggio, e perciò in grado di valutarne le conseguenze,
sulla pagina e nella vita. A ciascuno poi la libertà di osare gli impieghi più
trasgressivi, azzardati, inventivi, assumendosi magari il rischio di catastrofi
espressive. Le lezioni, però, erano anche passeggiate panoramiche, punteggiate di aforismi fulminei, di narrazioni esilaranti, oltre i luoghi comuni e le
gabbie ideologiche. Due ore di meraviglia, nel senso etimologico di ammirazione, sorpresa, stupore, partecipazione emotiva. […]
A Peppo di Maurizio Cucchi
Amabile e sapiente
Mi aveva sorriso aperto
Mi aveva trasmesso quiete
Certezza e soprattutto idea
Di grande rispetto per la parola.
Un esempio impeccabile che manca
In questo mare d’enfasi e immondizia.
Rileggo l’arte della fuga
I non illustri
Vorrei vederti un po’, guardare
Il mondo insieme, ridere forte
Come quella volta sulle montagne
Russe ... Ma devo accontentarmi
Di un saluto a distanza
E del conforto della mia memoria.
Alcuni stralci dal libro: “Le voci della Notte Bianca con
Giuseppe Pontiggia” (Guido Conti Editore)
L’incontro fra «Kamen’» e Giuseppe Pontiggia
di Amedeo Anelli
Giuseppe Pontiggia è uno dei più importanti scrittori europei per vastità
d’interessi e d’esiti, per una scrittura precisa e “densa”, per la tensione fra
scrivere ed intendimento etico. Con Rodolfo Quadrelli condivideva un
senso ampio delle tradizioni, della tradizione. Tradizione è ciò che riguarda il futuro e non il passato pensava Quadrelli, ciò che vale la pena di tramandare. Per Pontiggia: «i classici sono i contemporanei del futuro». Della loro amicizia e stima reciproca volle scrivere nel numero 18 di
«Kamen’» (giugno 2001). Nello stesso numero la pubblicazione di una sua
lezione del 1986 tenuta presso la UICS, Scrivere: modi, problemi, aspetti,
in una continua riflessione sulla scrittura a proposito del sistema generale
della cultura. Ma ciò che ci fece un grande piacere fu l’offerta di pubblicare nella rivista la sua tesi di laurea discussa nel 1959, a Milano, con il Prof.
Mario Apollonio, in Cattolica, il titolo La tecnica narrativa di Italo Svevo.
Accogliemmo la proposta nei nn. 21 e 22 (gennaio 12 – giugno 2003). La
tesi mostra un Pontiggia giovane, ma già sicuro dei propri mezzi e l’attenta
lettura del Beach e della neo-fenomenologia della scuola banfiana. […]
Lettura e libertà
di Ferruccio de Bortoli
[…] Sono particolarmente affezionato a un libretto piccolissimo, una trentina di pagine, dedicato all’arte del leggere, Leggere (Lucini, 2004). In un
periodo in cui si legge spesso di fretta, abbiamo perso la bellezza e il gusto
della lettura, e quelle poche righe di Pontiggia ci restituiscono invece tutto il
piacere di un’abitudine straordinaria. Leggere nel silenzio è ormai una rarità; entrare nelle pagine diventando un corpo unico con l’opera che abbiamo
scelto, senza essere continuamente interrotti, è una delle avventure più entusiasmanti che ci possa essere. Questo libretto insegna a leggere con attenzione, con costanza, nel silenzio e a fare un esercizio che Peppo suggeriva,
quello di leggere ad alta voce, per cementare le emozioni che la lettura suscita. Il libretto si sofferma anche sul rapporto tra lettura e libertà. Pontiggia
scriveva: «Dobbiamo difendere la lettura come esperienza che non coltiva
l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata.
Una lettura concentrata, amante degli indugi, dei ritorni su di sé, aperta più
che alle scorciatoie, ai cambiamenti di andatura che assecondano i ritmi
alterni della mente». […]
24 l’EstroVerso
Notizie Letterarie
“La forza di un romanzo
dall'ampio teatro di rimandi
letterari e cinematografici”
di Lucia Tosi
Che si può scrivere meglio avendo letto molto, riflettuto molto, è un dato
incontrovertibile. Consente un’immaginazione più ampia, la possibilità
di fornire una molteplicità di sensi alla storia narrata, rendendola densa
di echi, risonanze, che, al lettore in grado di coglierli, forniscono un
piacere intellettuale impagabile: cosa che non si incontra facilmente sui
sentieri del romanzo contemporaneo, specie italiano, con troppi
esemplari fiacchi già in termini di plot, per non parlare di lingua: in
troppi casi povera, priva di suggestioni. C'entra molto il gusto, e il mio è
probabilmente un po' da lettore "parigino", avrebbe detto il Berchet,
mentre a me pare che la più parte abbia gusti da "ottentotto": la questione
del gusto mi sembra, però, sempre più una scorciatoia con cui tagliare
spazi e tempi della riflessione critica.
Durante i mesi estivi ho letto molto, più del solito, autori stranieri e
qualche italiano. Di Siti ho già detto, proprio qui, degli altri taccio, per lo
migliore: tranne che per La resa, di Fernando Coratelli che ho trovato un
libro godibile, fresco, sincero, e allo stesso tempo costruito con
attenzione e con una certa cura espressiva, nonostante, o proprio per, i
dialoghi fittissimi dei personaggi, la vicenda molto ancorata alla realtà,
anche se immaginaria (non distopica, per carità).
Ma oggi vorrei parlarvi del mio nordest, che non è un campione di
cultura, di quel nordest che "tira": meglio dire che "tirava" (anche in quel
senso, sì, anche in quel senso) attraverso un libro assolutamente
magnifico che mi ha fatto pensare che sul fronte italiano non tutto è
perduto, che può spirare aria nuova.
Un uomo, tutti i giorni, da un tempo che pare immemorabile (tanto che
all'inizio ti chiedi se per caso quella sarà una storia di morti, condannati a
ripetere nell'aldilà, non sapendo di essere morti, quello che hanno
compiuto in vita: a quel punto il libro ti ha già catturato), percorre circa
dodici chilometri di ferrovia su un binario morto, per andare a riprendersi
la moglie, uscita all'alba, in camicia da notte, spinta dalla reiterata,
sempre identica, ossessione di andare a morire stesa sui binari, dopo una
certa curva, in modo che il treno non possa evitarla: solo se
sopraggiungesse, quel treno. Esce sul far del mattino, con qualunque
tempo, e lui, imprenditore veneto, smaltitore di rifiuti, pazientemente,
ostinatamente (dopo un po' smettiamo di chiederci, per esempio, perché
Augusto, questo il nome, non blocchi la moglie all'uscita, risparmiandosi
i dodici chilometri di andata e i dodici di ritorno), la segue. Si siede sui
binari, si accende una sigaretta, le parla: lei non risponde, non parla più,
è un automa, un fantasma bianco e docile, che vuole morire, "che aspetta
che il treno venga a farle rotolare la testa giù dall'argine e nel fiume". La
storia si snoda sui binari come gli ingranaggi concatenati di un treno:
procede sfruttando il movimento in avanti e all'indietro, come i bracci di
una vecchia locomotiva a vapore. Così Augusto ripercorre la sua vicenda
personale, l'infanzia e l'adolescenza in compagnia di un fratello gemello
diametralmente a lui opposto, di nome Cesare, a siglare, quasi un
paradosso, un legame indissolubile nel nome altisonante CesareAugusto, di un padre fascista e una madre ipercattolica: una famiglia
tipica del nordest laborioso e tanto perbene. Al contrario del fratello
irregolare, Augusto si sposa con Elisa, hanno un figlio: ma le crisi di
panico della moglie, unite ad altre drammatiche e meno drammatiche
debolezze, condurranno ad esiti da tragedia. Come un rapsodo,
ricorrendo ad espressioni formulaiche da poema omerico o da salmo
biblico, con la stessa caparbietà che gli ha consentito di raggiungere un
sicuro benessere, Augusto rievoca ogni giorno un mondo che si
percepisce come ormai defunto: tutto quello che doveva accadere è già
accaduto; ne veniamo a conoscenza tessera dopo tessera, cosicché
scopriamo che niente è mai come sembra, che tutti emblematicamente
hanno il loro fardello di colpe inconfessabili, tranne l'innocente Daniele,
il figlio. Augusto si porta dietro una sempre più consistente nuvola "al
guinzaglio", fatta dei suoi e altrui peccati da espiare. Il treno che non può
passare su quel dannato binario morto si materializzerà all'improvviso
sotto gli occhi del febbricitante protagonista, mentre la nuvola
Novembre - Dicembre 2013
metaforica, quella specie di aquilone di pensieri sempre più cupi, si
addenserà così tanto da rovesciare in terra una valanga d'acqua,
provocando lo straripamento del Piave, fiume "mormorante", "calmo e
placido", che da archetipo di vita, può trasformarsi in portatore di
morte (oggi cadaveri di pecore, ieri cadaveri di soldati della Grande
Guerra).
La storia è di quelle che strappano l'anima, impietosa nello stilare il
repertorio dei guasti di un'educazione cattolica, al riparo di solide
convinzioni che si riveleranno via via inadeguate a garantire non solo
la felicità, ma almeno la comprensione del mondo circostante, a
cominciare da quello familiare. Fin qui niente di nuovo: un dramma
borghese, si direbbe, affabulato alla maniera del monologo interiore,
nella migliore tradizione novecentesca. Ma la forza del breve romanzo
è nell'ampio teatro di rimandi letterari e cinematografici che mette a
disposizione: nei riferimenti espliciti e meno espliciti a film e libri e
opere (colpisce, tra le altre, in apertura, l'allusione a I quindicimila
passi, di Vitaliano Trevisan, libro che chi scrive ama intensamente e
approfitta per consigliarvi, ritenendone l'autore un grande della nostra
letteratura contemporanea), nelle tonalità bibliche che accompagnano
l'emergenza, dal fiume sotterraneo della coscienza, di fatti e
associazioni mentali; la sua energia, infine, è nel miracoloso impasto
immaginifico e linguistico che ne consegue. L'impianto drammatico si
sposa bene con l'intento ironico alla maniera di Kafka e di Pirandello:
i personaggi sono sei, l'autore è uno di loro, tutti hanno bisogno che
lui ricomponga il quadro, ne faccia emergere i motivi di stridore:
l'amore, l'orrore, la follia, l'incomprensibilità del vivere, lo
spaesamento, lo scacco.
Il libro è Cacciatori di frodo, di Alessandro Cinquegrani, edito da
Miraggi, candidato al premio Strega.
25 l’EstroVerso
(segue da pag. 1)
Allo Specchio
di un quesito
Riccardo Gazzaniga
Prendere il lettore, stringerlo forte e portarlo dalla
prima pagina all'ultima, senza respiro. Un tuffo
nel vuoto, legati a un unico paracadute. Su quelle
prime critiche ho lavorato, negli anni. Ho asciugato lo stile, ho imparato a essere più essenziale, a
marcare stretti i miei romanzi, senza concedere
loro tregua né cedimenti. Ho scoperto che per
scrivere una storia devo pensare a lei ogni giorno,
come un innamorato. Fantasticare sul suo conto.
Ecco la scrittura per me è questa gioia di fantasticare una storia e poi metterla sul foglio per condividerla coi miei lettori. Per anni ho scritto da solo,
su questo stesso tavolo da cui scrivo per voi, temendo che quanto avevo da raccontare si sarebbe
perso fra concorsi letterari sconosciuti, fogli pinzati per amici e parenti, raccolte di racconti uscite
in dieci copie. Invece, grazie alla vittoria del Premio Calvino, alla pubblicazione con Einaudi Stile
Libero, sono riuscito a raggiungere i lettori: le
loro mail di complimenti, i messaggi entusiastici,
le recensioni positive, hanno dato senso alla mia
fatica e gioia alla mia vita. Ho scritto "A viso coperto" per raccontare le vite di poliziotti e ultrà,
due gruppi rivali eppure non così dissimili, distanti e insieme vicini. Singole umanità schiacciate nella massa. Individui che cercano un'identità
nel gruppo, ma dal gruppo stesso rischiano di essere schiacciati e perdersi. Con questo libro ho
cercato di portare i lettori con me, dietro un casco
da celerino e una sciarpa da ultrà. Li ho spinti a
chiedersi cosa farebbero se si trovassero nella
mischia con una cinghia o un manganello in mano. Fino a che punto sarebbero disposti a portare
la loro fedeltà al gruppo, sino a dove spingerebbero la violenza per difendere quanto credono. La
frase più bella a proposito di "A viso coperto" l'ho
letta su un blog calcistico, scritta da un recensore
che non ama troppo la Polizia. È una citazione di
Norman Mailer e dice: "Proprio non mi va giù che
un esordio di
tale livello sia
stato scritto
da uno sbirro”.
Ecco, credo
che questo sia
il
miglior
complimento
che
potessi
ricevere. Perché l'ho ottenuto
senza
sforzarmi di
scrivere difficile, ma solo
raccontando
la storia che
avevo dentro.
Novembre - Dicembre 2013
Vuoti a perdere
“Pazienza e attesa, speranza e fede”
di Alessandra Leone
“Alle ventimila e più persone morte nel vano tentativo di raggiungere le nostre coste, sperando in una vita migliore. Ai
volontari che in tutta Italia sono impegnati nell’assistenza di
profughi e richiedenti asilo”. Questa la dedica che Francesco
Maria Magnano ha scritto con un inchiostro pieno di amore
nel suo Vuoti a perdere (Melino Nerella edizioni). Amal,
“Speranza” in italiano, è una giovane sveglia e intelligente,
nata tra il 3 e il 4 ottobre 1993, proprio nella notte della battaglia di Mogadiscio (tanto che “i combattimenti cruentissimi
lungo la linea verde, striscia di separazione tra le fazioni, avevano impedito ogni tentativo
di trasferimento in ospedale”).
Una piccola Ulisse in gonnella, ma meno furba e scaltra dell’eroe omerico (almeno inizialmente perché la vita e le esperienze, si sa, possono cambiare parte di noi), la quale compie
un viaggio impervio per la libertà e l’indipendenza, per scappare dalle ingiustizie e dalle
restrizioni del suo Paese. Una Ulisse il cui fine non è tornare alla sua Itaca, città dove ha
lasciato gli affetti e gli amici, ma arrivare a Lampedusa, che per la sua posizione tra le coste nordafricane e il sud d'Europa è stata ed è tutt’ora punto privilegiato d'approdo dell'immigrazione.
“Prima della classe, almeno fino alla chiusura forzata delle scuole, frequentava la quinta
del liceo scientifico. I miliziani delle corti islamiche scoraggiavano la frequenza scolastica
femminile. Ma il papà, Abdel Ghaffar, professore di Storia allo stesso liceo, aveva messo a
soqquadro l’istituzione: Amal avrebbe studiato!”. Così si legge nella quarta di copertina in
cui l’autore sembra aver vissuto in prima persona il dramma del viaggio della speranza
verso Lampedusa. Forse proprio perché Francesco Maria Magnano vive accanto agli immigrati, dirigendo da due anni un centro di accoglienza per coloro che richiedono asilo
politico. Avrà sicuramente conosciuto molte Amal nella sua vita…
“Ho lavorato con i migranti. Ne ho condiviso speranze e delusioni. Una parola mi risuona
costantemente: “sciuè sciuè”, cioè “piano piano”. Assume un significato di pazienza e attesa, speranza e fede. Con l’aiuto di Dio piano piano speriamo di migliorare la nostra condizione. Se pensiamo alle nostre esistenze di agiati europei , mai la nostra crisi potrà essere
nemmeno lontanamente paragonata alle carestie e alle guerre. Ci lamentiamo se non andiamo in vacanza”.
Un libro forte, “che si è scritto da solo”, come ammette Magnano, a tratti crudo e crudele,
in cui la protagonista è vittima di violenze e soprusi da parte dell’altro sesso, tanto che più
volte ricorderà a se stessa di non doversi mai fidare degli uomini.
Una ragazza profondamente libera Amal, forte, con le idee chiare, una vendicatrice del
ruolo di schiavitù cui è costretta la donna nel suo Paese. La sua arma? La cultura. Quella
cultura che le ha trasmesso fin da piccola il suo papà, il quale conservava tutti i suoi libri
dentro un grande baule sepolto in giardino, perché, “ovviamente”, ogni libro, rivista e giornale veniva controllato a Mogadiscio (lo Stato aveva il proprio index librorum).
Papà Abdel Ghaffar trasmetteva oralmente con saggezza e infinita dolcezza il suo sapere
alla figlia. La cultura aiuterà parecchio Amal nella sua odissea, facendole capire molto di
più rispetto ai compagni di viaggio, che appaiono ciechi rispetto a lei. La cultura salverà il
mondo e cambierà la vita di Amal?
Sponsorizzazioni gratuite a cura di EstroLab
Notizie Letterarie
Notizie Letterarie
26 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Biblioteca
Birichina
di Anna Baccelliere
Ciao, ragazzi! Devo farvi subito una
domanda. Avete mai sentito parlare
della “Afford”? Ecco. Come pensavo.
Non sono l’unica persona al mondo a
non conoscerla! Eppure Emma, mia
nipote, appena sono rientrata ieri da un
frenetico pomeriggio di shopping piena
di sacchetti e sacchettini, buste e contenitori vari, ha esclamato schifata e quasi in preda al panico: “Zia, ti sta prendendo la Afford!” Io, impaurita, ho
cominciato a guardarmi intorno e ad
urlare perché, là per là, ho pensato ad
un mega insetto o qualcosa di simile di
nome Afford che mi svolazzasse intorno
pronto a pungermi o a mordermi. A
quel punto Emma ha cominciato a ridere come una matta, mantenendosi la
pancia con entrambe le mani per le
troppe risate. “Ma dai!” mi ha detto
“Non sai che cos’è la Afford? Anche i
lattanti sanno che cosa sia.” In quel
momento ha preso il suo zainetto di jeans e ha messo fuori un libro con la
copertina rosa. “Educazione allo
shopping”ho letto io ad alta voce
“Claudia Selmi, Rizzoli editore. Che
cosa c’entra con la Afford?” ho chiesto
poi. “Leggilo e lo saprai!” mi ha detto
lei divertita. E siccome un invito alla
lettura per me non è mai una minaccia,
l’ho letto d’un fiato. È un libro divertente, pieno di splendide descrizioni.
Parla di una ragazzina e del suo amore
per Nico, sbocciato in un centro commerciale. Proprio così, ragazzi, tra vetrine luccicanti e saldi di fine stagione.
Ah! Volete sapere cosa sia la Afford?
No, non ve lo dico! Se siete curiosi come me e se anche per voi un invito alla
lettura non è mai una minaccia, correte
in libreria a comprare il libro di Claudia Selmi. Ve lo consiglio e, come sempre, buone letture!
Illustrazione di Giordana Galli
27 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Notizie Letterarie
La cittadinanza planetaria
del XXI Secolo
di Alessio Annino
Guidando l’automobile in un nodo critico della città in cui vivo,
segnato da un piccolo incidente stradale e dalla costante presenza di
ambulanti abusivi, uno scorcio disordinato ed anomico, improvvisamente al semaforo pedonale dell’incrocio appare un uomo sulla
cinquantina, magro, dai capelli castano chiaro, probabilmente straniero, che dal suo zaino saldo sulle spalle, estrae una tromba lucente
e, da un momento all’altro, tra i passanti attoniti, inizia a suonare,
peraltro con molta passione, Il Silenzio; la cascata di note che si
insinua tra i palazzi e le porzioni di vita quotidiana, investe in maniera surreale le strade congestionate, i pedoni ed i conducenti, ed il
tutto risalta drammaticamente come una triste e degna celebrazione
in note della complessità, del disordine valoriale, sociale ed educativo che in quegli istanti si materializza in quella porzione urbana in
particolare, ma all’interno dei tessuti sociali più in generale. Un
uomo che, armato solo della sua tromba, osserva inesorabile
dall’alto della sua serenità il vorticoso circolar d’individui e il disordine, e non ha altro sentimento che dedicare le note melanconiche del celebre motivo tradizionale, con delusione e speranza mescolate nel suo stato d’animo, al centro urbano nel quale egli si trova assolutamente fuori frequenza, poiché probabilmente abituato ad
altri stili e abitudini; spesso i centri urbani, o più in generale le aree
densamente abitate, vengono osservate con un certo distacco e con
un certo grado di comprensione che tende alla giustificazione, in
quanto le loro problematiche vengono percepite e motivate unicamente come diretta causa degli stress connessi alle frenetiche attività lavorative. Nella contemporaneità, il processo formativo si configura come un meccanismo complesso, affascinante, ma nello stesso
tempo estremamente delicato, soggetto potenzialmente a influenze
politiche, culturali e sociali di vario genere, per cui importante è
introdurre, specificare e distinguere i concetti di cittadinanza attiva,
di cittadinanza democratica, partecipata, di cittadinanza solidale,
planetaria e interculturale in senso pieno, e necessariamente contestualizzarli nell’attuale realtà della globalizzazione,
dell’internazionalizzazione e dell’europeizzazione. La contemporaneità ci offre un panorama continuamente mutante, che include svariate e continue trasformazioni sia in ambito politico-economico, sia
lavorativo sia, forse maggiormente, in ambito sociale ed etico, giacché le relazioni personali e le piattaforme valoriali sono influenzate
in maniera pressoché istantanea da quanto accade in questo tempo.
La conseguenza immediata di ciò è che si assiste ad una profonda
revisione dei ruoli personali e professionali degli individui, delle
relazioni personali tra essi stessi, e dei rapporti spesso contraddittori
tra essi e l’ambiente nel quale vivono ed interagiscono, con riflessi
profondi sugli stimoli alla partecipazione alla vita sociale e democratica, ed è altresì evidente come la Terra oggi sia un ambito frenetico, anche distopico a certe latitudini, facilmente conoscibile ed
esplorabile alla stregua di un villaggio, e che ciascun villaggio che
la compone, abbia oggi abbattuto i suoi confini ideali, non più delimitandosi ad un orizzonte vicino e, dunque, coincidendo con il globo in senso pieno. Lo stesso adombramento del senso civico si avverte in altri contesti di vita, quali quelli lavorativi, in cui la precarietà porta talvolta al sacrificio della dignità e dei diritti personali, o
anche in quelli scolastici, dove la dimensione individuale e la visione egoistica della vita condizionano i rapporti umani e interpersonali, o soprattutto nel relazionarsi con l’alterità, che si incarna ancestralmente nello straniero. Queste brevi considerazioni, stanno ponendo sotto una nuova luce la trattazione del problema della cittadinanza, e, nello specifico, della ‘cittadinanza attiva’ e dei problemi
dell’immigrazione, modificando ulteriormente il concetto-chiave
della pedagogia: ‘la formazione’, poiché lo scopo fondamentale,
oggi, è cercare di progettare un itinerario formativo fondato saldamente su una modalità antidogmatica, non etnocentrica e che, arricchita da confronto con le diversità, proceda attraverso il controllo
critico e la creazione di nuovi concetti, strategie e strumenti rispondenti a bisogni della vita pratica, quali sono proprio quelli specifici
di una realtà in veloce e perpetua evoluzione. Il concetto di cittadinanza, inevitabilmente, non può, e non potrà, già nell’immediato
futuro, rimanere immune da questo vortice di cambiamenti continui, ed esso vede allargare sempre maggiormente il campo della
propria “opera” e delle proprie competenze, che non sono più riconducibili esclusivamente al tradizionale precetto dello jus soli, in
quanto la cittadinanza attiva e planetaria, oggi, è multiforme, anzi
poliforme e polimorfa, e arriva a racchiudere anche la dimensione
etica e quella più strettamente valoriale. Il problema sostanziale
dell’educazione alla democrazia è, pertanto, aperto e consiste nel
rendere i soggetti, nella fattispecie i cittadini, attivi e consapevoli, e,
quindi, restituire importanza e dignità suprema alla responsabilità
delle scelte personali. Pertanto, soltanto la partecipazione attiva dei
cittadini a tutti gli ambiti della vita politica, sociale ed economica
può veramente permettere di cancellare nelle coscienze degli uomini, prima che nelle menti intrise di pregiudizio, i particolarismi e le
differenze percepite come ostacolo, come disagio, come limite alla
propria realizzazione.
Estratto dal corpo del testo
«Le nostre relazioni interpersonali sono caratterizzate
dall’incontro e dal confronto con una pluralità di identità differenti che si incrociano lungo il cammino della vita, e della formazione umana, e ciascun individuo cerca di rispondervi in forme differenti, in modo peculiare in base all’identità propria. Entrare in relazione con l’Altro, comporta inevitabilmente ed in
maniera ineluttabile, l’entrare in contatto con un’altra identità,
cioè con qualcuno che e appunto diverso. E attraverso questo
gesto, oltre a sviluppare maggiore coscienza della propria identità, ci si arricchisce in virtù dell’alterità riconosciuta.» (p. 67)
28 l’EstroVerso
Notizie Letterarie
Leggodico
Novembre - Dicembre 2013
(segnalazioni librarie)
Dato il posto in cui ci troviamo - Racconti dal carcere di Marassi
AA. VV. a cura di Claudio Bagnasco Il Canneto Editore (Collana I Manuali)
Chi sono i detenuti? Nascosti alla vista e alla memoria dentro edifici invalicabili, i prigionieri sono il
volto in ombra della società. Questo libro si propone di abbattere il muro del silenzio, di far uscire le
voci dei detenuti con le loro storie, lo sguardo lucido e amaro, una saggezza che incuriosirà. “Dato il
posto in cui ci troviamo” è, come scrive Giorgio Ricci, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Genova, “un lavoro di dimensioni ridotte ma dal contenuto intenso […] che potrà fornire spunti di riflessione agli operatori dell’area trattamentale ed emozionare il lettore comune”. Un progetto pedagogicoculturale promosso dall’associazione “La Tortuga”, presieduta da Alessandra Ferraro, che sottolinea:
“La forma anonima con cui sono qui presentati i testi (a tutela dei detenuti) dimostra proprio questo:
sono importanti le storie, le vite, non i nomi”. Un libro curato dalla penna, abile, essenziale e sensibile
dello scrittore Claudio Bagnasco, il quale, in una bellissima introduzione racconta Come nasce, concludendo con la considerazione “minima” che riportiamo: “L’essere umano è per propria natura fallace. La
giustizia è codificata, amministrata, rispettata e violata dalla persone. Chi delinque, insomma, rimane
persona tra le persone. Da ciò, una mia speranza: che chiunque delinque possa comprendere che delinquere è un modo scorretto di far parte della comunità; e che chiunque non delinque possa comprendere che ogni persona deve essere messa (o rimessa) nella condizione di adottare per sé, e di auspicare per
tutti gli altri, un modo corretto di far parte della comunità”. Racconti densissimi, (“non c’è stato alcun intervento di correzione dei testi”), scritti quasi
come una sorta di confessione liberatoria, popolano pagine accoglienti, senza sbarre. “Ci sono regole in carcere non scritte, la principale è quella del rispetto e naturalmente educazione verso gli altri compagni, ti devi saper comportare, anche un saluto o un gesto sbagliato puo succedere qualsiasi cosa,
perché in questi luoghi lo stress è fortissimo. […] Poi cè ne una fondamentale, essere sincero e leale con i compagni avanti senza problemi è con molto
rispetto”, da Non esiste al mondo una cosa più bella della libertà.
Roma dall'alto. Forme della città nella storia
di AA.VV. Edizioni Jaca Book (Collana Patrimonio artistico italiano)
Il volume vede impegnati i maggiori esperti di storia dell’arte di Roma, secondo i periodi
dall’antichità alla contemporaneità. La fotografia da elicottero permette la visione "a volo
d’uccello", che ben ci ricorda il "vedutismo" del ’600 e del ’700. Si ha così la possibilità di cogliere
singoli edifici, complessi monumentali o relazioni tra costruzioni con una plasticità nuova, che spesso permette una lettura più sintetica delle opere e una coscienza topografica. La Roma antica e quella del ’600 e ’700, con la sua forte teatralità, hanno in comune una viva evidenza, basti pensare da
un lato ai vari fori, al Pantheon, al Colosseo o alle mura e dall’altro alle piazze e alle opere di Bernini e Borromini. Altre emergenze si prestano a una lettura molto interessante e affascinante, come le
basiliche e le chiese paleocristiane o i capolavori del Rinascimento a partire dal Campidoglio, per
poi sorvolare le ville e i famosi giardini, che dal basso non possono mai essere colti in un "colpo
d’occhio". Anche il Medioevo darà delle sorprese, e la contemporaneità, con la Roma dell’eur che
pare uscire da una pittura metafisica. Il volume costituisce uno strumento di supporto alla storia
dell’arte di grande interesse, oltre che un’opera di estrema piacevolezza. È uno strumento perciò
innovativo per gli studiosi e anche per gli amatori, e propone una serie inedita di visioni di Roma.
“Gli autori coinvolti - si legge nell’editoriale -, tra specialisti più accreditati dei singoli aspetti, hanno tentato una sintesi fortemente interpretativa delle forme assunte della città nei diversi periodi, e di
conseguenza selezionato un ristretto numero di monumenti particolarmente rappresentativi. Su tale
traccia ha lavorato il team dello studio BAMS photo Rodella di Montichiari per realizzare le riprese
fotografiche, che quindi si sono sviluppate in stretto e proficuo dialogo reciproco. L’opera non ha la
pretesa di esaurire una materia di fatto “inesauribile”, sia per lo svilupparsi degli studi sia per
l’incalzare delle scoperte archeologiche (di età classica e postclassica), ma l’esperienza degli autori e
dell’abilità dei fotografi ha consentito di approntare un “atlante” - teoricamente in fieri - di prese di
vista nuove e talvolta inedite, fondamentali per la comprensione della storia urbana della città, nella
trasformazione del tessuto viario e nella “crescita” del patrimonio monumentale”.
Joyicity - Joyce con McLuhan e Lacan
di Gabriele Frasca Edizioni d’if (Collana: i miosotìs – i saggi del cuore n. 2)
Che cosa ha intravisto James Joyce di perverso e minaccioso nel sistema letterario? Qualcosa vi avrà ben scorto di pericoloso, se lo indusse a sottoporre le
sue opere alla spettacolare torsione che le avrebbe sottratte alla letteratura, e ai suoi riti. È innegabile che le date dei suoi capolavori, il 1914 dell’inizio
della stesura dello Ulysses e il 1939 della pubblicazione del Finnegans Wake, inquadrino con sconcertante tempismo gli anni più roventi del trauma novecentesco. Così come appare evidente che gli autori
che si sono confrontati con la sua opera, in una curva sinusoidale che da Beckett giunge fino a Pynchon
(e comprende fra gli altri il Gadda del Pasticciaccio e il Nabokov di Lolita), abbiano tutti proseguito una
riflessione sull’immaginario e sui suoi effetti persino più devastanti della guerra. Eppure colpisce la circostanza che, a fronte della grande attenzione critica che continua a destare (ma non in Italia) l’opera di
Joyce, si sia poco studiata la sua incidenza sullo sviluppo di due dei più significativi e influenti nuclei di
pensiero del secondo Novecento. Le penetranti riflessioni sui media di Marshall McLuhan e l’imponente
rifondazione della psicanalisi di Jacques Lacan − dagli anni Cinquanta al 1981 per entrambi − affondano
le loro radici nel magistero joyciano e nella questione sull’immaginario. Questo saggio, inseguendo la
parabola con cui la joyicity fuoriesce dal sistema letterario, e indagando sulle conseguenze dell’opera di
Joyce sulle ricerche di McLuhan e Lacan, viene dunque a colmare una vistosa lacuna tipologicoculturale, e a rilanciare con forza in Italia, nel momento in cui si assiste a una fioritura di nuove traduzioni dello Ulysses, l’opera del più grande artefice del Novecento. “Un saggio del cuore è innanzi tutto
il resoconto di un viaggio sentimentale attraverso un’opera che continua a palpitare le sue questioni. […]
Un saggio del cuore è allora innanzi tutto un’ecografia, che fa corpo con l’opera quanto più la disegna
coi suoi stessi suoni, ed è dunque opera a sua volta, di rimando, di richiamo, in minore. Operetta critica,
insomma, ma di una critica appassionata […]”.
29 l’EstroVerso
Notizie Letterarie
La Recensione
Novembre - Dicembre 2013
di Sandro De Fazi
Liberalismo senza teoria
Gli spiriti liberi non possono che rallegrarsi di fronte alla molteplicità di spunti di ricerca offerti in questo saggio di Corrado
Ocone dal titolo Liberalismo senza teoria (Rubbettino, 2013),
dove già nella premessa si parla di «dubbio, spirito critico, anticonformismo, antidogmatismo, pluralismo, antiperfezionismo,
antipaternalismo» contro la vulgata trionfante. Il nuovo paradigma “non teorico” qui proposto è la discussione del liberalismo e della scienza politica «sul terreno della filosofia».
La ricerca (sképsis) è stata sempre vista con sospetto, e perciò
riformulata dai grandi demistificatori che sono stati Nietzsche,
Marx (Hegel-Marx) e Freud. E non è il dubbio stesso un modo
per definirla etimologicamente, la parola greca significando
allo stesso tempo riflessione, indagine e dubbio? Su base decostruttivistica, prendendo a esempio di metodo la genealogia
della morale di Nietzsche, in termini di smascheramento dei
valori dominanti Ocone ripercorre dunque la storia del liberalismo facendone una controstoria senza formalizzare la dialettica. In realtà non c’è nulla da smascherare. Non esiste che il
gioco delle maschere, assumibili nell’alternanza di ápeiron e
métron, illimitato/immensurabile e (possibilità della) misura,
nell’eterno ritorno dell’identico. Nella prassi è difficile equilibrare i tre poteri (giudiziario, legislativo e esecutivo) senza cedere al fatalismo naturalistico: «per chi detiene il potere è impossibile non abusarne, - avverte Ocone nel suo richiamo a
Montesquieu – se questo potere si presenta come smisurato o
addirittura illimitato». Le derive totalitarie di Rousseau furono
peggiori dello stesso assolutismo. La distinzione kantiana tra
senso e intelletto tanto dispiacque a Carlo Antoni che arrivò a
svolgere una critica alla raison settecentesca comprendendo il
problema estetico nella totalità del problema filosofico. Il limite di Kant, che pure ebbe il merito di cogliere l’inadeguatezza
del principio di contraddizione di fronte all’imporsi della realtà, fu secondo Antoni non aver curato di approfondire in senso
storicistico la sintesi a priori. Viceversa, nella terza critica kantiana il giudizio riflettente (l’intuizione nella sua individualità
concreta) è già una prima forma di giudizio storico, aperto
all’universo vivente e alla libertà umana. Antoni fu peraltro
critico di Hegel e nella fattispecie dello stato nazionale e vide
nel nazismo l’estrema conclusione del romanticismo.
Ma il vero punto di partenza dal quale muove Ocone è il mirabile Contributo alla critica di me stesso di Benedetto Croce. Lì
il filosofo napoletano afferma che «la perfezione di un filosofare sta (per quel che mi vuol parere) nell’aver superato la forma
provvisoria dell’astratta “teoria”, e nel pensare la filosofia dei
fatti particolari, narrando la storia, la storia pensata». Non confessione di poeta dunque ma storia - non senza polemica - della
propria vocazione nonché apologia o giustificazione dell’opera,
dramma mentale ripercorso in modo retrospettivo e autocritico.
I rapporti tra Luigi Einaudi e Croce - da entrambi derivano le
due linee del liberalismo classico - sono esaminati alla luce
della loro conflittualità hegelianamente vitale. Croce aveva
colto l’importanza di Marx laddove il marxismo restava per
Einaudi uno statico determinismo privo di conflitto e di dialettica tant’è vero che in Contributo alla critica di me stesso ricorda di avere nel ’95 iniziato i suoi studi, attraverso Labriola,
dell’economia («che nel marxismo facevano tutt’uno con la
concezione della realtà ossia con la filosofia») e tratto da quel
momento speranze di palingenesi e di redenzione da e nel lavoro. Ma presto se ne distanziò e prese a frequentare Gentile, a
lui accomunato da affinità pratiche e interessi filologici, collaborando con lui.
Dall’asistematicità di Hannah Arendt, critica del liberalismo,
filosofa antidogmatica e antiautoritaria, apolide del pensiero,
proviene che lo stesso liberalismo non è assimilabile ideologicamente al liberalismo sistematico. Parliamo allora di
«individuo plurale», compiendo un passaggio dalla “teoria
politica” all’antropologia filosofica, presupposto dell’agire
come essere-nel-mondo. Anche da questo punto di vista, Liberalismo senza teoria di Corrado Ocone è un’apertura e non
chiusura nei confronti dell’alterità, dal momento che la pluralità delle potenzialità è inesauribile e la sospensione del principio di realtà e dell’io sono condizioni per esplorare l’alterità
segreta (non secondo la tonalità esaltata delle maschere
dell’ultimo Nietzsche a Torino, quanto piuttosto nella direzione di ancora altri inattuali come Klossowski e Bataille).
Parola d’Autore
Notizie Letterarie
30 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
“Lo scrittore deve essere osservatore
consapevole di ciò che lo circonda”
di Paolo Agrati
È la distanza, il tema. La distanza intesa come spazio tra noi e il resto delle cose. Una distanza che ci definisce, che
ci chiama per nome, che ci dice chi siamo. A volte con confini sbiaditi, fumosi, inafferrabili. Ho scritto “Nessuno
ripara la rotta” costruendo un percorso di parole e poesie come se fosse un viaggio, camminando per strade che sono diventate capitoli, incontrando luoghi, persone, cose. Un viaggio dove non c’è nulla di riparabile, non c’è nemmeno un luogo dove trovare conforto, riparo. Perché ogni azione, ogni accadimento è parte di un percorso consapevole di essere composto da costruzione e da distruzione. Le macerie, le rotture, i rimpianti. Ogni cosa è parte integrante della strada che porta ciascuno ad essere ciò che è. Ogni cosa è preziosa per dirci chi siamo. È costituzione e
sviluppo della rotta intrapresa. Non è un caso dunque che questo libro offra una soluzione di continuità con la mia
prima raccolta poetica: “Quando l’estate crepa” che proponeva anch’essa seppur con un differente registro stilistico, il tema della rottura; della morte di un amore. Ma nonostante le distanze, le spaccature con tutto ciò che la circonda, la mia poesia tende a tessere una cucitura, a ricostituire gli strappi con l’esterno, a proporsi nuda, senza vergogne o freni. Questo attraverso una particolare attenzione per l’oralità, per la lettura pubblica. Ci sono poesie che
vanno lette in solitudine, gustate in silenzio, piante, consumate con gesti intimi, personali. Ce ne sono altre che vibrano, fremono tramite l’eco della lettura condivisa; perché propongono temi provocatori, perché sfruttano
l’intonazione, si impreziosiscono con la voce, la musicalità, la coralità. Perché si appoggiano a linguaggi più comuni come per esempio l’ironia; rinunciano ad alcune formalità sia tematiche che stilistiche a favore
dell’immediatezza. Un’immediatezza che spesso viene confusa, interpretata come carenza; come se l’accessibilità
di un testo sia da considerare una forma di povertà. È su questi binari dunque che sono alla ricerca di una strada
espressiva, sperimentando il linguaggio nella piazza, nel tentativo di ricucire un rapporto pubblico che ha sempre
contraddistinto la poesia prima che diventasse affare per pochi. Associando la parola spettacolo alla parola lettura,
con la ferma intenzione di non trasformare questo abbinamento in una sonora bestemmia. D’altronde il freno maggiore che si incontra nel modo di fare poesia al giorno d’oggi è proprio l’incapacità di chi scrive o legge in pubblico, di riuscire a rivolgersi all’esterno, al fuori. Di non essere in grado di aprire una finestra, creare un canale, una
condivisione emotiva. E questa contraddizione in termini non permette al poeta di essere testimone di una modernità che fonda le sue radici principalmente nella comunicazione, nello scambio; seppure spesso miserabile, frenetico,
di bassa qualità. Questa penso sia una sfida che uno scrittore debba porsi oggi ma che in realtà si è sempre posto;
essere osservatore consapevole di ciò che lo circonda, riuscire a individuare un dire comune e trasformarlo in un
coro nel cui eco si ritrovano accordate una e più voci. Non lasciare ad altri questo compito, permettendo che il coro
sia miserabile, frenetico, di bassa qualità.
Notizie Letterarie
31 l’EstroVerso
Novembre - Dicembre 2013
di Eliza Macadan
La più difficile missione. Ma è possibile, con difficoltà, parlare di ciò
che scrivo, parlare della mia scrittura. Sono una giornalista che ha
disertato la professione, in qualche modo, poiché da quasi 5 anni non
svolgo questo lavoro regolarmente. Ma prima del giornalismo c’è stata la poesia. Campi incompatibili nel breviario dei mestieri. Ed è così.
Spero di non tradire le aspettative dei lettori de l’EstroVerso dicendo subito che non elencherò qui le mie letture, gli autori
che mi hanno formata, o parlando di quanto o come un tal libro mi abbia cambiata o di quanto è essenziale avere maestri di
grande tenuta intellettuale e spirituale. Ho debuttato intorno ai vent’anni, anche se scrivevo più o meno dai sedici: intendo
dire scrivere in questo modo, in modo cosciente. Provengo da ciò che comunemente chiamiamo “cultura marginale”, avendo
una lingua marginale: questo incide fortemente sulle scelte che si fanno. Più che incidere, limita queste scelte. Per fortuna mi
sono dotata di destrezza nell’apprendere le lingue straniere - nel corso degli anni ho parlato russo, francese e italiano.
L’italiano è stata una scelta di maturità, del tutto consapevole, presa da una specie d’amore per questa lingua e per quello che
rappresenta. Il mio approdo italiano è stato come un ritorno a casa. La professione mi aveva portata a vivere in Italia, anche se
non ero costretta ma avrei potuto astenermi dallo scrivere versi. Invece ho scelto di mettermi alla prova e di andare incontro a
un nuovo debutto poetico, in lingua italiana. Gli anni ’90 stavano finendo. Ed è andata bene. Vari concorsi e premi mi hanno
confermato quanto cercavo di capire: se la mia poesia potesse venir compresa, nella sua essenza, anche in lingua italiana.
Quindi il debutto in volume nel 2001 e poi una lunga pausa per mettere ordine nella mia vita, per fare delle scelte o, per meglio dire, valutare una scelta fra i sì e i no. Nel 2012 è uscito con la Joker un volume dal titolo Paradiso riassunto e
quest’anno è stata la volta de Il cane borghese con La Vita Felice. Tra i due volumi c’è, però, una lunga distanza in materia di
evoluzione della scrittura. Io non la so spiegare nei modi tipici della critica letteraria, ma la sento. Sento che qua il
“messaggio” osa molto di più, è più esplicito, pur rimanendo dentro un universo linguistico ed emozionale che ritengo mio.
Di questi tempi, mi riferisco agli ultimi trent’anni, la poesia ha voluto ad ogni costo andare in un’altra direzione. Ed è riuscita
a farlo. Ma senza che se ne accorgesse, il pubblico è rimasto da un’altra parte, per scelta degli autori oppure per la comune
incapacità di proseguire insieme. Le tante e varie teorie sulla poetica rimangono nelle aule delle università, nei laboratori, e
negli archivi. Quello che la critica propone e convalida in un determinato momento temporale – e qui mi riferisco anche alla
critica di servizio – si dimostra valido e circoscritto in un ambiente quasi artificiale, dove il pubblico manca, a cui si affianca
un secondo ambiente, per lo più frequentato da snob di molteplici, e numericamente rilevanti, nature. Quasi sempre mi rifiuto
di parlarne perché so che questi temi e pensieri sono mal visti dalla stragrande maggioranza. Ho esitato anche questa volta.
Credo di essere venuta al mondo inquieta, strillando e protestando. Credo che questo stato d’animo e di mente non sia passato
mai. In qualche modo, quello che scrivo è una sorta di protesta. Contro tutto. A volte questa protesta cambia tono, fatica a
tenere alta la tensione, e allora qualcosa cambia anche nei versi. Oppure cambia il frammento di realtà che prendo di mira – o
che mi prende di mira. Quando scrivo, non sono io a scegliere il momento. Il momento si impone da sé, mi ordina di scrivere.
Io devo trovare o inventare soltanto le parole per sorprendere quello che il momento mi fa vedere o sentire. Scrivo spesso
come se mi dettassero, in una sorta di trance, come se fossi preda della mano che scrive. Come se fossi un filo tra il qui e
l’altrove. Per sdrammatizzare un po’, potrei dire che faccio parte di una seduta spiritica dove resto sola con i testi sul tavolo.
Poi, però, ci si rende conto che qua e là si deve intervenire, aggiustare e soprattutto togliere, tagliare, lasciare lo stretto necessario. Ai tempi del cuneiforme elettronico non possiamo permetterci di scrivere intere lenzuola di segni dove cercare il senso
per arrivare ad ogni costo a un messaggio. Nella società odierna si vuole tutto e subito. Il poeta non può sottrarsi a questa realtà. Di questi tempi, credo che il “messaggio” (credo, lo si è capito, all’arte e dunque alla poesia comunicativa) debba essere
forte, chiaro, di impatto, memorabile, scuotente e perciò breve. Non so per quanto ancora potrò scrivere. Spero per molto.
Quando non scrivo, sono in preda all’angoscia. Quando scrivo, sono in preda all’ansia. Siamo tutti, alcuni di più e alcuni di
meno, esseri incompiuti. Ed è questa incompiutezza che ci spinge a divenire. Divenire umani nella misura che ci è stata permessa. Non vorrei lasciarmi sfuggire un dettaglio – non leggo molti libri di poesia. Non leggo indistintamente. Non leggo in
maniera compulsiva. Mi lascio guidare dai miei sensi, vado verso quei testi che, in qualche modo, sento un po’ anche miei,
familiari, affini alle mie idee, al mio modo di stare nel mondo. Questo modo di essere lo si apprende in giovane età,
nell’infanzia e nella prima adolescenza. Noi, quelli di oggi, siamo quelli di prima in aggiunta al vissuto precedente. In questo
vissuto entra, indubbiamente, una mole di letture e di sapienza. Ma importantissimi sono anche i vuoti rimasti. È da lì che
scoviamo bellezze indicibili. Quello che mi sta più a cuore è che la mia poesia arrivi alla gente, a più persone possibile. Mi fa
felice pensare a ciascun lettore che abbia aperto il libro e abbia letto il testo dalla tal pagina a un’altra. Non importa che il
libro sia acquistato. Mi basta che la gente passi davanti allo stand di una fiera o allo scaffale di una libreria, e che dia
un’occhiata. Io adoro offrire i miei libri. Mi capita spesso di comprarli per regalarli. È una gioia. È semplicemente la naturale
condizione della poesia. E dunque a che vale l’accanimento del vendere? Si dovrebbe istituire una tassa per offrire libri di
poesia. Chi scrive poesia sa che non guadagnerà mai un soldo per sopravvivere. Così è stato e così sarà. Parola d’autore.
Parola d’Autore
“Quando scrivo, non
sono io a scegliere il
momento…
Si impone da sé, mi
ordina di scrivere”
32 l’EstroVerso
Notizie Letterarie
Novembre - Dicembre 2013
di Liliana Zinetti
Fin da bambina i libri sono stati miei fedeli compagni. Una lettrice onnivora e disordinata, dai fumetti a Dostoevskij che da ragazzina leggevo affascinata (ancora oggi è il mio scrittore preferito) senza peraltro coglierne la complessità. Qualcosa in questo scrittore mi chiamava, mi corrispondeva a livello del tutto inconscio; capì molto più
tardi che la sua complessa scrittura mi attraeva per la capacità di cogliere i moti dell’animo umano, per l’incessante
antitesi tra bene e male, tra terreno e soprannaturale. La scrittura in versi venne molto più tardi quando scoprì che
era un linguaggio a me congeniale, che nella sintesi della parola poetica si poneva più chiara l’immagine del mondo, dei sentimenti. Così l’inquietudine che sempre mi ha accompagnato trovava finalmente un linguaggio possibile.
Se fu una fortuna o una maledizione ancora oggi non so dirlo. Se è vero che il momento della scrittura ha in sé un
fascino irrinunciabile e se è vero che l’acquisizione anche solo di una parola, di un verso esatto è cielo che
s’inazzurra, è vita che afferri, è altresì vero che è un gesto che scortica, che ti pone di fronte a luoghi oscuri, lontani. Come se quel verso ti decifrasse, svelasse qualcosa di te riposto sul fondo e tu lo accettassi come un destino,
come una premonizione. Non ho la presunzione di dirmi poeta, è una parola da usare con cautela, è noto; sono una
che scrive e non può farne a meno. Pur se la mia musa non è particolarmente attiva, è incostante e capricciosa, tanto
da attribuirle la qualifica ben meritata di musona, quando finalmente arriva è perentoria. Così inutile, così necessaria in una società il cui nerbo è l’utilitarismo, la poesia è uno spazio dove si recupera l’autenticità e la bellezza, lontani seppure coscienti della follia del mondo.
Mi piace leggere poesia, non sono contraria all’oscurità in poesia, al travestimento, agli spostamenti; ho le mie idiosincrasie e le mie preferenze come ognuno, credo, ma quel che più cerco (nella poesia come nella vita) sono la verità, la sincerità. Che ovviamente non debbono prescindere dalla forma, dal ritmo, indispensabili. Così si può dire
della plaquette che uscirà a breve per le edizioni CFR di G. Lucini, Minime da una fine, con la collaborazione di
Viviana Nicodemo, artista visiva. Parole e fotografie che si incontrano e raccontano una storia. La storia di una fine, che può anche essere la storia di altri, storia di oggi dove il fallimento della famiglia tradizionale, piccola ma
importante cellula del sistema-mondo, erode le basi dell’evoluzione, disgrega e fa implodere quel che resta di umano. Così poesia diventa r/esistenza, non un surrogato della vita reale, non cieca fede nella parola risolutiva, ma testimonianza e speranza. E bellezza.
Parola d’Autore
“Nella sintesi della parola poetica
si pone più chiara l’immagine
del mondo, dei sentimenti”
Notizie Letterarie
quarup
"Corpi estratti dalle macerie"
33 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
(segue da pag. 1)
Antonia Pozzi
di Davide Spampinato
Flaubert negli anni della sua formazione letteraria
In un residence a poche centinaia di metri dal fiume
Ural, Ivan e Martha, amanti in crisi, bloccati da
un’incessante bufera all’interno della stessa stanza, sono costretti al ruolo di prigionieri l’uno dell’altra. La
tempesta di neve dilata i tempi dell’incontro (scontro)
tra i due in vista della risoluzione finale che rovescia –
con espedienti da tragedia greca – ogni certezza acquisita.
di Andrea Cirolla
L’opera di Franco Calandrini si caratterizza per lo spiccato andamento dialogico, più serrato e stringente nella
parte conclusiva del racconto. Il numero – ridotto
all’essenziale – di personaggi sulla scena, uno stile espressivo monocorde, a suo modo realistico, l’ambiente
bloccato nell’hic et nunc, sembrano guardare da vicino
alle unità aristoteliche, svincolando quasi l’operetta
dall’ambito della narrativa e accostandola sorprendentemente a quello della drammaturgia. Il tema della morte,
evocato allusivamente dal titolo, è piuttosto un pretesto
per imbandire una disadorna “camera della tortura”: da
qui si arriva alla verità per spoliazione, scarnificando la
coscienza da ogni certezza borghese.
Non privo di suggestioni pirandelliane, il racconto si
avvicina, a tratti, alla lezione di A porte chiuse di J. P.
Sartre (l’inferno è l’altro). La pagina di Calandrini –
che pure registra imprecisioni nella marcatura dei dialoghi e in certe depressioni di stile, spesso troppo concessivo nei confronti dell’oralità – segna un buon passo in
avanti rispetto a È colpa di chi muore. Nella sua – ricercata – rudezza rimane una lettura che consigliamo per il
modo in cui sa rovesciare posizioni e prospettive.
Il fatto d’essere un’edizione critica la colloca banalmente sotto la lente degli studiosi, ma non ve la relega, e nemmeno le toglie godibilità, anzi la arricchisce con
garbo, nell’evidenza d’essere – mutuando il giudizio di Banfi sulla tesi della sua
allieva – un’opera di «comprensione intelligente e viva», ma soprattutto «di amore». È l’amore esplicito che nutre Matteo Mario Vecchio quand’è alle prese
col suo oggetto di studio e dei suoi studi in genere, indirizzati spesso verso il
pensiero (e il pensiero poetante) di un Novecento italiano e femminile (oltre alla
Pozzi si possono citare almeno Daria Menicanti, un’altra “banfiana”, e Cristina
Campo).
Giancarlo Vigorelli tra i primi notava, su TuttoLibri-La Stampa del 18 febbraio
del 1989, quanto fosse opportuno riproporre al pubblico il lavoro critico di Antonia Pozzi e pure quello, per molti versi analogo, di Guido Morselli su Proust,
uscito tre anni più tardi. Anche Morselli era presentato da Antonio Banfi, e anche lui era del resto passato per il magistero del professore vimercatese.
Rimanendo sul solo Flaubert si noterà l’occasione, che esso rappresenta, di entrare ancora una volta in quello spaccato così suggestivo e ormai consegnato alla
storia, in quella officina creativa («etica», scrive Vecchio) e feconda su piani
tanto diversi quanto relazionali, quella «scuola di Milano», come recita la fortunata formula di Fulvio Papi, che tenne a battesimo tutta una generazione trovatasi poi a vario titolo (nelle accademie, nell’editoria, nel dibattito letterario) protagonista della stagione culturale del Dopoguerra. Si parla di Enzo Paci, Remo
Cantoni, Vittorio Sereni, Alberto Mondadori, e appunto Antonia Pozzi (suicida
nel ’42), per stare solo alla bella foto di gruppo, scattata a Pasturo nella tarda
primavera del ’35 e riprodotta nel volume meritoriamente edito da Ananke.
In linea con le tendenze della scuola banfiana è la piega interpretativa che Antonia Pozzi adotta leggendo, con iniziativa senz’altro pionieristica, le prime prove
letterarie di Flaubert. La poetessa punta dritta al dualismo Geist-Leben: quella,
classica, del manniano (suo amato) Tonio Kröger, su cui non mancava di scherzare, firmandosi spesso “Tonia” Kröger, come se l’omonimia confermasse
un’intima affinità elettiva. In una pagina del suo diario si legge: «Il contrasto fra
geist e leben non va inteso nel senso che l’artista è colui che non arriva alla vita,
ma colui che va oltre la vita. Infatti, come potrebbe comprendere, veder chiaro,
riflettere su ciò che non ha vissuto? Io vorrei dire questo, in ogni modo: che la
luminosa vita di Hans e di Inge può essere materia all’arte di T. K. solo in quanto egli vive dolorosamente il distacco da essa e la vede attraverso il suo rimpianto». E ancora, in una lettera scritta nello stesso periodo della foto di Pasturo: «Mi
sento più che mai Tonia Kröger, come mi chiamava il povero Manzi (suicida
prima di lei, NdA), come ci siamo sentiti – insieme – quella sera da Alberto».
Anche nel lavoro su Flaubert, ed è quanto concerne l’interesse più puramente
filosofico, ovvero tralasciate le pur importanti questioni di critica letteraria, è
centrato il problema della vita dentro, prima e oltre il problema dell’opera. Sono
gli anni del nascente esistenzialismo positivo, figlio diretto, anche nel conflitto,
del razionalismo critico banfiano. Scrive
Antonia Pozzi: «la stesura di una pagina
non implica soltanto la soluzione di un problema letterario, ma rappresenta la risoluzione vivente di un problema di vita». Ma
le righe conclusive della tesi di laurea sono
le più perspicue: «Nessuno di noi vorrebbe,
potrebbe, credo, ripetere la frase che era
per lui [Flaubert] la risoluzione suprema
dell’esistenza: “L’Arte è abbastanza vasta
per occupare tutto un uomo”. L’uomo, oggi, anche l’uomo artista, vuole, deve vivere
tutta la vita, se vuole che la sua arte sbocchi finalmente su di una via concreta e feconda, né muoia nelle angustie
dell’impotenza individuale».
*Una versione sintetica di questo pezzo è
uscita sulla Rivista di Storia della Filosofia
34 l’EstroVerso
Rimirando
Novembre - Dicembre 2013
Intervista al poeta Gian Maria Annovi
“La poesia non sta tanto nel viaggio quanto
nello spostamento che può anche essere tellurico”
di Luigi Carotenuto
Gian Maria Annovi (Reggio Emilia, 1978) vive a Los Angeles, dove
insegna letteratura italiana presso la USC - University of Southern
California. Laureato in filosofia, ha conseguito un dottorato di ricerca in italianistica presso l’Università di Bologna e un Ph.D. in Italian
Studies alla Columbia University. Ha esordito con Denkmal
(l’Obliquo, 1998), seguito da Terza persona cortese (d’if, 2007),
Self-eaters (CRM, 2007, finalista al Premio Antonio Delfini), Kamikaze e altre persone (con prefazione di Antonella Anedda, Transeuropa, 2010, finalista al Premio Lorenzo Montano), Italics (Aragno,
2013). La scolta è ora in uscita per le edizioni nottetempo. Le sue
poesie sono state tradotte in inglese e spagnolo e incluse, tra le altre,
nelle antologie L’opera comune (Atelier, 2001), Parco Poesia
(Guaraldi, 2003), Nodo sottile 4 (Crocetti, 2004), Poesie dell’inizio
del mondo (Derive e Approdi, 2007), Calpestare l’oblio (Cattedrale,
2010), Poeti italiani in America (In forma di parole, 2011), Poeti
degli anni Zero (Ponte Sisto, 2012). Nel 2006 ha vinto il Premio
Mazzacurati-Russo per l’opera inedita. Ha tradotto diversi poeti nordamericani e scrive per Alias-il Manifesto. Il suo sito è
www.gianmariaannovi.com
Parliamo innanzitutto del tuo rapporto con la lingua, orale e scritta. Vista la molteplice attività (poeta, saggista, traduttore, pubblicista, docente di letteratura) come vivi l'andirivieni tra due lingue
(italiano e l’inglese)?
Quando si vive in un contesto alloglotto per molto tempo (io abito
negli Stati Uniti dal 2005), è normale che la lingua madre, sia parlata che scritta, subisca un lieve processo di sclerosi, d’irrigidimento.
A volte, mentre si scrive, l’italiano ricalca la struttura dell’inglese o
viceversa. Ma sono cose quasi impercettibili. La mia è però una situazione particolare, vista la mia professione. Sono un italianista e
l’italiano fa dunque parte del mio lavoro. Da un certo punto di vista
l’obbligo di lavorare anche nella mia lingua crea una sorta di schizofrenia. Il cervello rifiuta di adattarsi interamente all’inglese. A volte
è un po’ come parlare con due voci differenti, essere due persone. Ci
sono intercalari inglesi, ad esempio, che non userei mai in italiano,
anche se poi qualcosa penetra, s’insinua negli interstizi tra le due
lingue. Questo però non vale per la poesia, dove la soglia del controllo linguistico è talmente alta da non permettere smottamenti involontari.
Come ti appare il panorama poetico italiano e americano, quali, se
ci sono, le comunanze, quali, le divergenze.
Un vero confronto non credo che sia possibile. Se la situazione della
poesia italiana è molto complessa e articolata, parlo ovviamente della situazione delle poetiche, negli Stati Uniti la complessità raggiunge livelli notevolmente superiori, per via non solo delle dimensioni
del paese, ma della eterogeneità culturale e razziale che lo caratterizza. Dubito che in molti leggano in Italia la poesia chicana o ispanoamericana. Anche per questo, mi fa sempre sorridere la foga con cui
qualcuno presenta in Italia determinate tendenze e autori della poesia americana (sempre bianca e middle class, s’intende) con la convinzione che siano i più importanti o innovativi del momento. Se c’è
qualcosa che i poeti italiani dovrebbero imparare dai colleghi americani è a non auto-colonizzarsi in questo modo, a smetterla di importare acriticamente poetiche e modalità spesso nate in contesti assolutamente differenti, dando per scontato che quanto c’è di buono e
nuovo debba necessariamente venire dall’esterno: quella che andrebbe coltivata è la differenza italiana. Chi legge all’estero un poeta
italiano vuole scoprire uno sguardo diverso dal proprio. Anche negli
Stati Uniti, come in Italia, la poesia occupa comunque un ruolo marginale, ma è un grado di marginalità mitigato dalle innumerevoli
opportunità che vengono offerte ai poeti, che in molte occasioni
partecipano anche alla vita pubblica del paese. Non parlo solo
delle occasioni di lettura, ma - ad esempio - delle tante residenze
per scrittori, dove si può essere ospitati gratuitamente e si può’
scrivere (senza internet!) e confrontarsi con altri scrittori e artisti.
Penso alle borse e ai fondi che associazioni private ed enti pubblici assegnano (anche se meno di un tempo) ai poeti, con selezioni
durissime. E poi c’è la questione dei programmi di scrittura universitari, che in Italia fanno venire l’orticaria a tutti, come se negli
Stati Uniti fossero tutti tanto zotici da pensare che basti un titolo
di studio per essere uno scrittore. Non si pensa invece che proprio
questi corsi e il sistema universitario permettono a tantissimi poeti
e scrittori - anche molto famosi - di insegnare e vivere decorosamente, continuando a pubblicare, e formando non generazioni di
scrittori, ma di lettori, di amanti della poesia. In Italia se sei un
poeta e lavori all’università sei guardato male, mentre negli US le
università fanno a gare ad avere scrittori nel loro corpo docente
perché la loro presenta aumenta la fama e il prestigio del dipartimento. Quando penso che l’Università di Bologna ha appena affidato un corso di scrittura creativa a Daria Bignardi, capisco a cosa
hanno portato tutti questi anni di snobismo: al nulla assoluto propinato come farmaco.
Da dove è nato lo spunto per il tuo nuovo libro, “La scolta”?
Paradossalmente, l’idea per questa serie così italiana, perché incentrata sulle figure di una badante e dell’anziana che assiste, è
nata qui a Los Angeles, nel 2009, ascoltando una conversazione
tra due signore che mescolavano in maniera molto interessante
spagnolo e inglese. La disarticolazione delle frasi e delle parole
mi è apparsa come una lingua assolutamente fresca, nuova e per
questo poetica. Ho deciso allora di provare a inventarmi una lingua che assomigliasse - aggirando l’imitazione - a quella di una di
queste giovani donne che vengono dall’Est ed entrano nelle famiglie italiane, per poi sparire per sempre alla morte delle persone
che accudiscono. Il titolo della serie, infatti, prende spunto da una
traduzione un po’ antiquata dell’Orestea di Eschilo, che inizia con
il monologo di una guardia (la scolta, appunto) che ha atteso per
anni di vedere all’orizzonte un segnale di fuoco da Troia, che lo
libererà dal suo compito. Giunto il segnale, questo personaggio
scompare per sempre dalla trilogia. La sua funzione è solo
nell’attendere, proprio come la badante è costretta ad attendere tra timore e sollievo - la morte della persona di cui si prende cura.
Non voglio aggiungere altro perché rischierei di rovinare la sorpresa dei futuri lettori, ma si tratta di un testo per molti versi rischioso e potenzialmente controverso. Milli Graffi, che ne ha
pubblicato una prima, parziale versione su il verri, lo ha definito
un pugno nello stomaco. Non so se arriverai a tanto, ma con La
scolta ho inteso porre numerosi problemi, non solo legati alla lingua e alla poesia, ma alla società italiana di oggi.
“Una poesia è un invito a intraprendere un viaggio. Come nella
vita, viaggiamo per vedere panorami nuovi”, scrive Charles Simic. Quali panorami poetici-esistenziali catalizzano maggiormente la tua attenzione?
Sempre e solo panorami linguistici. E sempre e solo se aperti allo
sconosciuto. Non si viaggia per vedere ciò che già si conosce, ha
ragione Simic, e allo stesso modo non mi interessa leggere cose
scritte in una lingua che mi sembra già di conoscere. La poesia
non sta tanto nel viaggio, ma nello spostamento. Che può anche
essere uno spostamento tellurico. Qualcosa che ci destabilizza in
maniera involontaria, che ci toglie la terra da sotto i piedi.
Rimirando
35 l’EstroVerso
Novembre - Dicembre 2013
Gian Maria Annovi (foto di Dino Ignani)
La tua poesia mi sembra sostanziata da una forte componente reattiva, energica pur immersa nella deprimente brutalità del reale
(vedi La gloriola, per esempio). Cosa, coscientemente, senti che
più ti spinge a scrivere un testo in versi?
Scrivo per un senso di urgenza. Quando è assolutamente necessario.
Non sono uno scrittore prolifico e molte delle cose che ho pubblicato sono uscite con molti anni di distanza dagli avvenimenti che le
hanno ispirate, proprio perché quello che mi interessa non è
l’emozione-spinta, ma il concetto, l’idea. E questo comporta un lungo lavoro in levare. Ho sempre cercato una parola che fosse già osso, spolpata, per evitare di essere preda di facili pasti emotivi. Scrivere una poesia che comunichi la propria disperazione è molto più
semplice che scrivere una poesia che faccia pensare.
Un'altra caratteristica notevole della tua scrittura è quella non
comune capacità osservativa, l'abolizione di un io dominante e
una dimensione dialogica che la rende prossima alla scrittura teatrale (di un teatro però dominato dalla carne viva della cronaca,
della Storia). Hai mai pensato di scrivere un testo prettamente teatrale?
Nel passato ho collaborato con alcune realtà teatrali, ma è una fase
tanto lontana che l’ho praticamente dimenticata. Come ogni forma
di scrittura, anche quella teatrale richiede uno studio molto lungo e
attento. Un addestramento che non ritengo di possedere. Ho molto
rispetto di chi ha la capacità di scrivere liberamente in forme differenti. Io cerco da più di quindici anni di costruire una voce poetica
riconoscibile e autentica. È l’unico progetto che al momento mi sento di perseguire.
Il teatro mi ha fatto venire in mente l'ultimo Porta, questa sua
grande apertura verso l'oralità e la rappresentazione dei propri
testi. Da traduttore e critico della sua opera, quali sono, a tuo
parere, i maggiori insegnamenti che egli ha offerto (siano stati o
meno recepiti) ai poeti delle nuove generazioni?
Porta, l’ho già scritto e continuo a pensarlo, ha insegnato a incidere, chirurgicamente, la pagina. Se esiste infatti una “funzione Porta” nella poesia italiana, essa ha a che fare soprattutto, con la crudeltà, da intendersi però non solo come laceramento ma nel senso
che le ha attribuito un autore come Artaud: «rigore, applicazione
e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta».
Rigore non tanto, o non solo, nella pratica della scrittura ma nella
volontà di sperimentazione. La crudeltà portiana sta nella determinazione della sua continua ricerca di forme nuove. Sono in
molti, tra i poeti delle nuove generazioni, ad aver “attraversato”
Porta, ma sarebbe sbagliato e riduttivo voler individuare genealogie dirette.
Attualmente in che direzione procede la tua ricerca poetica (o
più in generale, intellettuale)? Ti è capitato di scrivere versi direttamente in lingua americana?
Ho scribacchiato in inglese, senza grande successo. Non credo di
essere pronto, né che quello sia il futuro del mio lavoro. Come
dicevo prima, scrivo solo sotto la pressione dell’urgenza. Il mio
ultimo libro, Italics, è uscito non molto tempo fa, e fra poco uscirà La scolta, sono dunque in una fase meditativa, o meglio, di ascolto.
I pochi testi che ho scritto attendono di trovare una forma organica. Il problema principale che mi trovo ad affrontare resta il medesimo dei miei esordi, trovare un punto di equilibrio tra il lavoro
di ricerca linguistica e la capacità di elaborare un discorso originale e autentico sull’unica cosa che mi preoccupa: il presente.
36 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Rimirando
Anteprima
“Questioni private” di Andrea Carraro
Uno stralcio dalla prefazione, Cinque congedi d'addio, di Federico Federici
Congedarsi è l'atto, forse un po' formale, di chi si allontana senza ipotecare il futuro con il peso di un addio. Eppure
le parole di Carraro affondano nel ripetuto fallimento di prendere una volta per tutte le distanze da qualcosa o qualcuno, voltare le spalle, magari con una scusa, e andarsene. Il loro scopo è subito chiaro: porre fine a un'incertezza,
essere definitive, provocare un addio, senza falsificarlo con vuote formule di cortesia, rimuovendo ogni puntello
biografico, seppellendo memoria su memoria. Tra le macerie urlano ancora le mille morti che un uomo si dà vivendo ed è lì che resta intrappolato il dolore, in attesa di essere giustiziato dal tempo e mutilato dal corpo. Le due sezioni d'apertura (Ode al padre e Ode agli amici) costituiscono un unico incipit esteso, che assume spesso il tono di
un invito a comparire, rivolto a imputati che sono anzitutto custodi e testimoni della coscienza di chi si appresta a
liquidarli, giudicando se stesso. La sentenza è già scritta e non prevede assoluzione, ma solo discussione del caso,
elencazione di colpe e discolpe, lettura finale delle ragioni e congedo. La prima ode sfiora alcuni temi della celebre
lettera kafkiana, nella quale la figura paterna tende a stagliarsi su tutte le altre, aspra e intransigente col figlio. Qui
non sono però contrapposti ammirazione e disprezzo verso un'autorità comunque riconosciuta, ma difficile da scalfire con le sole ragioni dell'adolescenza. Il padre, l'antagonista per natura, si trova costretto in una condizione di subalternità nel presente (rispetto al figlio) e nel passato (rispetto al proprio padre). È come se lo spazio di una generazione fosse saltato e questa mancanza dovesse venir riscattata. La falsificazione della firma sul libretto scolastico appare all'inizio poco più di un aneddoto, uno spunto qualsiasi per il racconto, ma introduce in realtà il tema di
una sostituzione simbolica ben più profonda, utile alla rimozione della figura paterna, sulla quale si incentra l'intero componimento. Impossessarsi di un
segno ha il valore di una iniziazione: si acquista il potere dei padri delle origini, se ne riconosce e impara la lingua per imitazione. Con questa premessa,
la diade originale-derivato si modella a esprimere la progressiva corruzione di paternità-discendenza.
Ode al padre
Sì dev’essere cominciato tutto quando
Hai iniziato a scrivere e riscrivere il suo nome
Nel diario della scuola e sulla carta
Rifacevi la firma per il libretto di giustificazioni
E lo ripetevi di continuo quel gioco
Mezzo furbo mezzo proibito
Che svolgevi già pregustando la sega
Che avresti fatto a scuola
Godevi a diventare sempre più bravo
A rifarla la firma del tuo vecchio alla perfezione
Perché ti dava una strana forza
Prendere per un lampo il suo posto
Incarnarlo lui com'era nel mondo
Imponente e grande ai tuoi occhi di marmocchio
Lui che firma una cosa di suo pugno
Come all’alba dei tempi un generale
Greco o romano davanti a una delegazione
Tuo padre l'uomo dei tuoi sogni il mito
Quella copia calligrafica io dico
Come prima forma di emulazione
Ma come si sia arrivati da questa
Alla sfrenata e impudica competizione
Non sapresti dire se non saltando
Passaggi e passaggi di tempo
Di cui non hai memoria e ragione
Ma tu non ci vuoi più mettere
Il naso là dentro non puoi
Rivedere da vicino quel deserto vuoto
Quell’occhio spalancato
Sulla fodera del guanciale
E udire quella frase
Pronunciata in un soffio dal capezzale
Anche questa è materia di romanzo!
Che hai sentito o solo immaginato
Davanti al secretaire
Assediato dai medicinali
E allo stelo della flebo
Traslucido contro il vetro della libreria
Ottocento che adesso veste il tuo studio
Forse non ne hai neppure più il diritto
Lascialo quieto nel suo letto d’agonia
Dopo 16 anni finalmente mollalo in pace
Quanto ancora vuoi fartela fruttare questa storia
Che incolpando lui in qualche modo t’assolve!?
E tu non sapevi che dirgli quando lui parlava del suo romanzo
Che aveva spedito avventurosamente alla Feltrinelli
E ad altri editori importanti
Senza che tu l’avessi incoraggiato né scoraggiato
Avevi lasciato che si muovesse lui
Senza intervenire come avresti potuto
Dicendo che ti mancavano i contatti
Mentre proprio la Feltrinelli
Stava diventando il tuo editore
Ma come potevi promuovere tuo padre
Anche se aveva i mesi contati
Tu che a stento promuovevi te stesso?
Quel romanzo senile muffoso poi
Storia di un vecchio professore in pensione
Già professore capite professore!
Non si rassegnava mica alla sua condizione
Di non laureato con quel diploma di maestro
Preso durante la guerra chissà come
Fra un bombardamento e una smobilitazione
Quel vecchio che sentenzia e pontifica
Su un pullman di turisti durante
Un viaggio organizzato in Turchia o in India
Sulle statue i musei i templi su tutto
Motteggiando e forse offendendo le guide
Quelle del luogo e quelle dell’agenzia
Con lamentele o chiose
E dovrebbe sedurre nelle intenzioni
Quei tardoni sempliciotti e i chimerici lettori
Con le battute e i colpi di teatro
E qualche parolaccia salace sulle donne
Di quelle che scorano tanto sulla bocca dei vecchi
E sapevi tu l’inferno che nella realtà
Quei viaggi in gruppo erano stati per la mamma
Fra gli scaracchi e le sparate da erudito
Dio cos’era quella roba ti veniva male a leggerla
Era fin troppo facile smontarla
Finiva con un omicidio si tingeva di giallo
Il polpettone ma a quel punto non ci sei mai arrivato
Tutti quelli del viaggio organizzato
Con quel geniaccio del professore compreso
Schiaffati nella hall di un grande albergo internazionale
E interrogati a turno come in una storia di Agatha Christie
A quel punto eri faticosamente arrivato
Dicendo basta mi fa troppo incazzare
Quella roba insomma ch’era vecchia e sciupata
Ancora prima di venire scritta
E lui ancora immaginava pubblicata
I libri tuoi l’avevano ringalluzzito
37 l’EstroVerso
Anteprima Questioni private di Andrea Carraro
Rimirando
Ritirava fuori vecchie poesie ingiallite
E racconti e tutti i brogliacci che aveva accantonato
Negli anni in cartelline polverose del ministero
Ognuna titolata a dovere negli spazi assegnati
Sulla filigrana dello stemma governativo
E poi riesumava le sue canzoni
Che aveva interpretato ai Café chantant
Pure a quelli importanti di Galleria Colonna
Dove i suoi capi d’ufficio l’avevano beccato
In vetuste incisioni che ti chiedeva di far ascoltare
Ai giornalisti musicali che conoscevi
Benché questo accadesse anni prima
Ma è stato Il branco al Festival di Venezia
Che gli ha mandato in tilt il sistema
Che gli ha azzerato i contatori
Vederti lì sotto ai riflettori
In primissimo piano in tenuta di gala
In Sala Grande col regista e il produttore
In quel Lido favoloso dove
Da giovane era stato a sognare
Mentre faceva il soldato sugli amori suoi
Di sempre donne cinema e letteratura
Insomma quei fasti tuoi
Gli avevano rinnovato l’estro
Se c’è riuscito lui perché non devo riuscirci io?
Che io valgo meno di lui come scrittore?
Insomma aveva ripreso in mano la penna dopo anni di silenzio
Non parlo mica dei bei racconti di gioventù
Che gli valsero il Pozzale e la pubblicazione
Ma quello che scriveva oggi straziava l’intelligenza
E il cuore e allora non capivi
Tua madre che diceva perché non leggi il romanzo di papà?
E magari lo usi tu chissà che intendeva povera mamma
In generale volevi celebrare te stesso ormai di lui te ne fregavi
Non riuscivi neppure a leggere le sue cose
Ti davano ansia come più tardi a leggere le tue
Ti scottavano in mano non volevi manco prenderle
Le spostavi da un mobile all’altro sempre più lontano
Dalla vista dal tuo raggio d’azione
Ma Cristo d’un Dio ti facevi
Quell’uomo lì che t’ha rovinato la vita
E ormai lo sa con certezza dai tuoi libri
Pretende oggi di farsi leggere da te?
Ci vuole fegato e una gran faccia di legno
Ma lui si permetteva eccome senza ritegno
Te li faceva battere tutti i suoi ultimi parti
Vergati a penna con mano tremolante
Alla macchina da scrivere e poi al computer
Le sue cose stantie e piene di errori
Che delegavi a qualcun altro per la compilazione
Il suo libro di racconti che gli avevano stampato
Cinquanta anni prima era perfetto lo giuro
Manco una virgola fuori posto
Sette uomini meno due si chiamava quella silloge
Influenzata da Americana di Pavese anzi Vittorini
Spalmata di neorealismo e pure simbolismo qui e là
In certi vasi di fiori in certi interni
Senza decoro quasi stilizzati
Roba decente magari bella chissà
Consegnata in copia al Caterini
Perché ne faccia buon uso
Roba ch’io all’inizio avevo pure emulato
Novembre - Dicembre 2013
Eh no questo però lo hai copiato
Da me da quel racconto dimmi la verità
Già rivelando così l’animo suo bruttato
L’atmosfera è la stessa figlio mio e la storia pure
Non puoi negarlo e oddio chi lo negava!
Erano gli ultimi due minuti di vita di un uomo
E non conta saper chi sia ma solo
Che viene ucciso in un tempio
Fra una colonna di granito
E un fonte battesimale
Mentre il tempo viene scandito all’incontrario
Insieme ai passi che battono il pavimento cosmatesco
In modo sempre più drammatico
E’ vero papà è vero ho scopiazzato
Mi piaceva ho cercato di riscriverlo meglio
Perché non si può? Che c’è di male?
I suoi racconti di mezzo secolo prima
Erano pure piaciuti alla Aleramo
Ma poi la vita l’aveva preso e la famiglia
Che lui non voleva ma sì lo sapevamo
Tutti lo sapevamo che lui era scrittore
E attore accidenti e chansonnier
Che il suo destino era un altro
Fatto è che adesso tutto ciò che scriveva
Era diventato uno strazio ortografico
Non azzeccava più un accento
Gli scappava via la consecutio
Faceva periodi lunghissimi senza virgole
Forse imitava pateticamente Joyce
Di cui tanto aveva strologato nella vita
O forse erano solo degradate le sue facoltà
E tu ogni volta gli dicevi ecco papà mi pare buono
Ti ho corretto giusto qualche sciocchezza
E non una parola in più incapace di dire altro
Perché il libro intero manco l’avevi letto
E quel poco che avevi letto ti era parso inutile
E sciagurato per come al solito assolveva se stesso
E invero così urtante quando fingeva di ridere
Di quel sé pontificante e colto e intellettuale
Mentre era solo un vecchio brontolone
Colmo di sé e di catarro bronchiale
Ma lo amavi appassionatamente come si può amare
Un padre che senti che ne sta andando per sempre
E che di suo non resterà niente
Se non un ricordo pieno di vergogna
Come se tu l’avessi ucciso
Come se davvero il cancro gliel’avessi procurato tu
Col tuo esordio impietoso che l’aveva svergognato al mondo
E soprattutto alle sorelle di Foligno
Che fingevano d’idolatrarlo
E forse lo idolatravano davvero
Perché non provi a lavorare sul padre?
T’aveva chiesto lui meschino
Sfidando il patetismo
A riscattarlo un poco nel finale
Far vedere che in fondo è un buon diavolo non ti pare?
E tu manco gli avevi risposto
Come l’avessi schiacciato e martoriato davvero
Quel tuo povero padre che nel sogno
Finiva come Pasolini all’idroscalo
38 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Anteprima Questioni private di Andrea Carraro
Rimirando
Precisamente anche col piede storto
Spezzato sotto la calza e il mocassino
Ricordi e tu l’avevi sprangato a sangue
E quel sogno terribile non finiva mai
E tornava senza pietà ogni notte
E tu nel sonno piangevi e ti disperavi
Ma intanto non potevi fare a meno di picchiarlo e di insultarlo
E lo finivi battendolo in faccia con una sbarra di ferro
Che ricordi bene appoggiata allo stipite
Della portafinestra sulla terrazza
Che un tempo era stata teatro
Dei tuoi giochi forsennati e innocenti
E di una ingenua vanità sociale
Che vi faceva chiamare attico
Una lunga terrazza condominiale
Tuo padre che era venuto
A prenderti a scuola alla terza ora
Ricordi e piangeva sotto gli occhialoni
Guidando verso quel posto
Dove era stata portata lei Simona
Con la sua malattia infettiva
Che perdio era passata al cuore
E lui guidava fumando e piangendo
In mezzo al traffico di Piazza Fiume e di via Nizza
Verso quella clinica elegante del quartiere nostro
In cima a un poggio di pini immani
E flessi che puntavano sulla cima
Dove la tua sorellina
Lottava fra la vita e la morte
Ripetendo che non credeva ai miracoli
Lui e non ci aveva mai creduto
E poi anche se ateo in clinica
Si ritirava nella cappella a piangere e pregare
Ma era successa davvero quella cosa oppure
L’avevi raccontata tu così per riscattarlo
Un po’ da tutto quel fango che gli avevi buttato addosso
Per quella colpa impossibile da sostenere
Quella sul figlio maschio la peggiore
Che lui stesso mill’anni fa aveva scontato
Dal padre suo come marchio d’infamità
Di inettitudine al mondo di disonore?
E uno degli ultimi giorni suoi
Gli arrivò il rifiuto dell’editore milanese
Poche parole burocratiche e cortesi
In una missiva con il logo editoriale
Nel rettangolo a vista del mittente
Che lui aveva lasciata in bella mostra
Affinché chiunque entrando la vedesse
Sulla cartella di pelle del fratino
E tu la vedesti eccome
Sotto il cono dell’applique sporco e giallino
E davvero non avevi bisogno d’aprirla
Per decrittarne il contenuto
Ma avevi ben altri pensieri per la testa
Che ragionare sulla mancata pubblicazione
Del suo libro davvero non ti sembrava il momento
Col tumore spietato che avanzava
E la lasciasti lì intonsa
Ma fu lui a entrare in argomento
Pochi minuti dopo in un soffio
Hanno risposto dalla Feltrinelli hai visto?
Hanno rifiutato il romanzo
Ah no non ho visto che peccato!
Mentre parlavi col giovane medico volontario
Della Asl che da qualche giorno con grazia
Lieve e rispettosa lo accompagnava alla fine
Standogli accanto anche senza parlare
Sciroppandosi l’ultimo libro tuo
Che gli aveva passato lui assicurandogli
Che avresti vinto lo Strega
Ed era la prima e unica volta
Che di te s’era mostrato fiero
Tuo padre insomma colui che hai imitato e adorato
E aspettato sotto le coperte
E abbracciato nel mare fra il salmastro e l'acqua di colonia
Che gioia quando veniva a fare il bagno con te
E mangiavate in costume ancora gocciolanti
Le cozze crude spruzzate di limone che vendevano
I banchetti sul lungomare della Riviera di Ponente
E che brividi mentre tornavate di notte a Montefalco
Al buio in mezzo agli orti e agli alberi da frutto
Senza neanche una torcia o un accendino
E quando già nel lettone profumato vi diceva
A te e alla tua sorellina che ti dormiva accanto
Sogni d’oro d’argento di piombo e di formaggio
E certe sere ci aggiungeva anche di prosciutto
E voi ridevate non la smettevate più
Di ridere e aspettavate il bacetto
E così poco durava il tutto
Appena un’annusata di quel fiato buono
Che sapeva di tabacco
Ma non divagare tuo padre preso a legnate
E il sangue invadeva tutta la terrazza
Che da bianca di sole diventava rossa
Di sangue che colava nel tombino
Dio che pena che rimorso che vergogna
Perché ho dovuto farti questo padre mio?
Tu che giaci in cenere nell’urna
Tu che viaggi chissà dove nello spirito dei tempi
Tu che hai scontato già con la morte i tuoi peccati
Tu che venivi certo senza volerlo senza
Mai averlo scelto da quel padre infame
Sì infame e infame lo dico all’infinito
E che risuoni nei secoli la voce mia quel porco
Indegno di definirsi padre e uomo perfino
Che ti aveva insultato e scacciato per sempre
Con quel biblico gesto che aveva messo alla gogna
Tre generazioni in un lontano mattino nei primi anni Trenta
A Montefalco nel cuore mistico dell’Umbria
Ti avevano bocciato due volte padre mio
Questo non ce l’avevi mai detto
E il vecchio ti aveva beccato chissà come
A fare gare di seghe coi compagni tuoi adolescenti
Davanti alla quercia di Madonna Della Stella
Dietro la tenuta dei Pescanti oltre il frantoio
E ti diceva ch’eri già in lacrime sulla soglia
Coi tuoi fagotti da portare via
Sei un ciucco e un sudicione!
Vattene da questa casa! non farti più vedere!
Hai disonorato questa famiglia, tua madre e le tue sorelle!
Ma lui odiava anche i raduni i gagliardetti
Che portavi addosso padre mio
39 l’EstroVerso
Anteprima Questioni private di Andrea Carraro
Rimirando
Quella precoce adesione al fascio
Che per troppo tempo hai omesso
Come fosse un dettaglio da niente
Odiava la tua tenuta da balilla i tuoi modi arroganti
Lui fiero antifascista uomo di cultura uomo di fede
Direttore di banda uno che la sera
Si metteva a suonare Chopin o Verdi al pianoforte
Mentre c’era chi si dava dattorno per la cena
E intanto ti ingravidava la sposa ricca sette volte
Quattro femmine e un maschio
Con gli altri due che perirono nascendo
O pochi mesi dopo chi ricorda
Certamente ottenuti tutti nel più casto dei modi
Col segno della croce prima e dopo
Magari pure vestiti come volete voi
Con quelle camicie da notte fino al polpaccio che usavano allora
Prestigio sociale decoro cattolicesimo ancestrale
Di inizio secolo nel centro verde e sacro dell’Italia
Ecco da dove venivi padre mio
Da quest’uomo irreprensibile e bigotto
Più cattivo di un diavolo incarnato
Che aveva instaurato una dittatura a casa sua
Matriarcale nel senso che tutto facevano
Le cinque donne di casa più le serve
E lui decretava su ognuno
Facendo rispettare alla lettera ordine e disciplina
E con te strepitava in scontri belluini
Persino peggio dei nostri
E se ne andava in giro con un bastone di ebano
E una scura finanziera e l’orologio al taschino che controllava
spesso
Per scandire le lunghe passeggiate serotine
Era uso raggiungere il cimitero a piedi
In tutte le stagioni anche se c’era neve
Fra straducole di campagna e pezzi di comunale
Camminando svelto mentre faceva notte
Col suo bastone da passeggio
Che ogni tanto vibrava sulle terga a qualcuno
Quasi sempre per celia o per saluto
Ma con veemenza e perverso
Godimento su quelle del figliolo suo
Che di cinghiate e bastonate aveva tanto bisogno
Perché non studiava e faceva lo spavaldo
E’ stata la zia Pina a informarmi di tutto
Della doppia bocciatura e delle scene madri
E di quel gesto dissennato soprattutto
Che tu meschino avevi trasformato
In romantica fuga
E come potevi fare altrimenti padre mio?
E ancora rabbrividiva al ricordo la vecchia zia
Foderata nel suo salotto napoletano
Fra ninnoli e poggiapiedi di velluto
In vero un po’ svanita nella memoria
Facendomi segno di silenzio
Gesù che ho detto, non farmi parlare!
Quasi temeva una divina punizione
Per avermi svelato quell’arcano di niente
Ch’era rimasto sepolto tutto quel tempo
Quel vecchio calvo e misantropo insomma
E’ di lui che parliamo
Con cui rivaleggiavi scrivendo canzoni
Un’altra battaglia perduta padre mio
Perché nell’albo di famiglia
Novembre - Dicembre 2013
Lui figura musicista e tu impiegato
Ed eri l’unico accidenti dopo una sfilza
Di altri musici e scrittori
Ecco perché quel vanitoso studio araldico
A casa nostra non era mai arrivato
Quel vecchio che non reggeva i marmocchi me compreso
E si lavava i denti con la salvia
E ti parlava accostato senza curarsi di mandare
Quel mucido odore di crostata andata a male
E ci dava il benvenuto sulle scale
Chiedendoci quando ve ne andate?
Proprio così non son licenze o fole
Quell’uomo là aveva prestigio sociale
L’ho detto e quando passava i paesani
Si levavano il cappello lo ossequiavano
Borghesi e bottegai e contadini
Maestro, come andiamo sor Mae’?
E la signora Carlotta e li fijioli
E la piccoletta Pupa vie’ su bene?
Ma di suo aveva ben poco il Maestro Altiero
Questo il nome sinora taciuto
Le ricchezze venivano tutte dalla famiglia della moglie
Carlotta donna dimessa
Umile e devota e quasi santificata in famiglia
Che davanti alla finestra lavorava a maglia
Come in un dagherrotipo di quei tempi remoti
Tant’era invece altera sua sorella
Gran figura di donna italiana libera emancipata
Protofemminista e forse lesbica
Che insieme alla Montessori era impegnata
Nel rivoluzionario metodo educativo dell’infanzia
E qui si aprirebbe un altro sipario famigliare
Ma mi fermo
Perché non è di quella genia
Che ho voluto parlare
Ma del padre mio ch’è morto
Da sedici anni
E ancora non posso congedare
40 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Rimirando
una
di Adriana Gloria Marigo
Nelle ragioni del divenire personale il principio di individuazione ci
chiama alla responsabilità dell’integrazione di ogni parte lasciata
all’indifferenziato e alle sue oscurità. Obbligati a percorrere la via che
conduce allo sviluppo psichico, così da offrirci - a noi stessi, all’altro nella pienezza e totalità delle possibilità individuali, ci rapportiamo con
il mondo secondo la nostra specificità che affonda nel misterioso e profondo rapporto con l’animo che ha molteplici volti per mostrarsi, e
spesso ci viene incontro attraverso la declinazione del “paesaggio”:
della natura, degli uomini, della professione.
Con una (Giuliano Ladolfi Editore, 2012) Maddalena Bertolini accompagna il lettore dentro questo percorso che - appena lasciata la superficie privata e pubblica, quasi sempre immersa in una luce gravida
d’affettivo nell’incontro con le persone, gli elementi della natura, la
temporalità, il lavoro - è già dichiarato nel titolo, un termine bisillabo,
carico di forte impatto nella sua asserzione, che tuttavia resta problematico in quanto inclina il lettore alla riflessione: si tratta di articolo
indeterminativo che insinua una nebulosità cui aderire per fare chiaro
muovendosi in ogni direzione, ma secondo una direttrice prefigurata, al
fine d’individuare più tardi che cosa invece è in luce e scintilla protetto
dalla indeterminazione o si tratta di nome misterico che comprende in
sé una sorta di anonimato qualunquista provocatorio e irridente, poiché
sotto e dentro il nome si custodisce un potere significativo, antico, più
esattamente arcaico in quanto sapienziale?
Da qui - da entrambi i volti del termine - si parte per l’esplorazione del
mondo poetico della poetessa di Pergine Valsugana, che spalanca come
una casa aperta in estate i territori dei contenuti fortemente metafisici
implicati nell’uso della parola, la quale, all’apparenza di impiego comune, risuona per interna forza d’immagine connotando un verso potente e di grazia e diligenza come una mano levata in benedizione,
mentre si sta dentro il mondo senza remissione:
vado sotto la coperta della pioggia
l’acqua mi cerca. Gocciolo come
un albero o un lampione come
quel cane curioso. Sono un segugio
d’acqua sembro perduto: lei chiama
il rabdomante e l’uomo trema
con il ramo tra le braccia trema ogni fibra
ogni mia consistenza, tremo sorgiva
freddissima e allegra, giro su me
stessa come un’auto che sbanda
ti prego non frenare, lasciami scivolare
a capofitto sotto il parapetto
nel buio di un abbraccio
Questa prima poesia, che dichiara che si accoglie ogni cosa, si diventa ogni cosa, se si è disposti ad assumere in sé fiducia e coraggio, portando dentro il sentire e il fare ogni pulsione in
quanto indispensabile al viaggio verso
l’incontro con il sé completo - privilegio dunque anche per l’ontologia della parola poetica introduce al crescendo di una che si sviluppa
per sezioni numeriche fino all’ultima sono, che
non a caso si afferma nel termine verbale di
tempo presente e di prima persona, nonché singolare.
In mezzo, nelle sezioni numeriche, si svolge il
percorso del creare la propria specificità in rapporto costante con ciò che costituisce e chi condivide il tempo della poetessa, le sue variabili
dipendenti e indipendenti, il suo ferirsi di mondo senza soccombere a dolore o miseria umana:
ho messo nella vita tanti figli
tanti urti quelle notti sbattute
le porte premute sulle assenze
e sempre le chiamate:
arrivo!
l’avamposto della voce
arrivo, ancora non lo vedo
ma quel verbo mi appende come un chiodo
***
fuori sede
tu parti e piove: usciamo presto
con l’alba alle caviglie in questo odore
di cuore calpestato. Io guido e tu hai
addosso la barba e la tenerezza del sonno
la luce finge di non vederlo e ti
seduce. È facile per lei amarti solo perché
al buio non esiste. Tu parti, il treno
si allontana e il temporale si avvicina
la pensilina è una pista d’aereo
la stazione è già volata via come un piccione
a cui ho dato un panino e un bacio
Nella sezione sei incontriamo:
pietra
dobbiamo parlare io e te adesso
sono i miei figli a salire a cercarti
a arrampicarsi e godere delle tue gole dei
fianchi i diedri delle tue pareti bastarde
e redente. Devi accettare il mio patto
- risparmia i miei uomini - e lo so
che tanto non mi senti e non ti muovono
le mie carezze e nemmeno le loro.
Lo sai vero che ti amo, che tu
sei fatta per me mi fai venir voglia
di tutto così conficcata nel petto
così bella (chissà com’è bello
tuo padre)
Nel dialogo con la natura – dialogo che non interrompe quello con
l’affettivo familiare e anzi vi porta una connotazione amorevole e di
ammirata partecipazione – vi si sente una caratteristica che congiunge
modi di altri poeti dell’area tridentina: il domestico va sempre
all’incontro – in una sorta di sacra devozione e sacro tremore – con le
“…punte/ di tutte le montagne//… e io ritorno intera”. Qui, nella centralità della via dell’individuazione, Maddalena Bertolini testimonia quello che Arthur Schopenhauer ascrive al concetto di principium individuationis, e cioè il
principio di ragione il quale conferisce alla “Volontà
di vivere, che finisce per auto-limitarsi nella concatenazione di spazio, tempo e causalità” la caratteristica
di essere - fin dal principio - infinita e libera.
Nella sezione sono si compie il percorso alchemico di
questa raccolta in cui la tensione poetica non ha cadute e anzi esprime, in costante “levare” musicale, la
presenza di una guida finalistica che attraversa come
un viatico i vissuti connotati, raggiungendo la splendida meta dell’integrazione nella completezza del sé:
ultima
…
Quando mi togli dagli occhi
questo sguardo corto (lo detesto)
mi fai vedere con tutto ridere di tutto
ho il dito puntato sull’allegria del ritorno
41 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013
Stanley Spencer
Rimirando
Il poeta è lo psicologo dell’ombra?
di Rita Pacilio
Molte credenze relative alle popolazioni primitive, evidenziate dagli antropologi culturali, rilevano che la mente umana e la creatività sono sempre state
attratte dall’ombra, in particolare dall’ombra del proprio corpo. Sappiamo che
ogni individuo è seguito o addirittura incollato alla propria ombra che, se particolarmente inserita nella coscienza, viene percepita buia e profonda. Carl
Gustav Jung prende in considerazione il lato oscuro della vita cosciente
dell’uomo e definisce sotterraneo dell’anima, ricordando Dostoevskij, questo
spazio che è dietro o sotto la maschera dell’agire sociale. L’ombra è considerata demoniaca e perversa dal pensiero religioso perché si pensa, che è qui che
agisce il male e il magico mondo della morte. Quando le popolazioni non avevano la scrittura come strumento di comunicazione l’ombra rappresentava un
tabù perché veniva a identificarsi con l’anima. Gli indigeni delle isole Salomon, infatti, se calpestavano l’ombra del re venivano puniti con la morte.
L’ombra è associata, in molte culture, a paure socioculturali e ancestrali. I
poeti, invece, hanno adoperato l’ombra come luogo della rinascita fenicia,
dove si vive, da quando si è bambini, la regola della fantasia e la consapevolezza della voce più intensa, potente dell’io. Il pensiero umano, sia percettivo
che intellettuale, indaga sulle cause degli avvenimenti tenendosi il più vicino
possibile al luogo dove i loro effetti si producono. In tutto il mondo l’ombra è
considerata come una propaggine dell’oggetto che la proietta. Il concetto
sottostante è che l’oscurità non appare come un’assenza di luce ma come una
sostanza positiva di buon diritto. Questo secondo io trasparente dell’individuo
è identico o connesso con la sua anima o forza vitale. Porre il piede
sull’ombra di una persona è un’offesa grave, e si può uccidere un uomo ferendone l’ombra con il coltello (Rudolf Arnheim – 1954, Arte e Percezione visiva). Se si acquista la consapevolezza di una percezione positiva dell’oscurità,
l’ombra può essere riconosciuta come il nostro doppio che protegge e diviene
la parte più disponibile all’io cosciente. Il popolare racconto di Stevenson Lo
strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, ci convince a governare la
nostra coscienza per non trasferire sull’altro il buio, il non conosciuto affinché
non ci sfugga il dominio delle responsabilità con la nostra parte dentro/fuori.
La nostra parte psichica si pone innumerevoli interrogativi. Se l’ombra rappresenta il male allora la luce rappresenta il bene? Quindi come giudicare il comportamento sociale, psicologico e creativo dell’uomo? Il termine "ombra"
nasce nella ricerca psicologica e in particolare nella ricerca psicologica di
Jung. Ci sono dei precedenti, ma sempre di ordine psicologico. C'è tuttavia un
corrispettivo dell'ombra nei miti di tutto il mondo. Indubbiamente ci si può
divertire a trovare in moltissimi miti quest'aspetto negativo dell'uomo. Però è
solo apparentemente negativo, perché se ben relazionato all'io cosciente - che
se ne deve assumere la responsabilità - in qualche modo diventa positivo, o
meglio diventa un propulsore della vita psichica. In genere l'esempio più pregnante dell'ombra dei miti è quello che si trova nei miti degli indiani d'America, il trickster, il briccone buffone, che poi, talvolta, si dimostra essere un
aiutante magico, che risolve situazioni che sembravano irrisolvibili nella
vita. Però non si deve pensare che l'ombra sia rappresentata solo dal trickster. Qualcuno ha voluto vedere, un corrispondente del trickster nel Mercurio della mitologia classica. Abram Kardiner - è stato un grande storico,
fenomenologo delle religioni - si è sforzato di approfondire questa somiglianza. Ci sono probabilmente molti altri esempi di ombra nei miti. Perciò,
ripeto, il termine nasce nella psicologia, ma noi possiamo trovare delle
vaste corrispondenze nella mitologia. Noi dobbiamo dividere il concetto o
la metafora dell'ombra dal concetto di male. L'ombra è male solo in quanto
rimane scissa da noi, inconscia, negata, assolutamente separata dal resto
della personalità. Sono contento che sia stato introdotto il concetto di male,
perché appunto, in una interpretazione un po' superficiale dell'ombra, si
potrebbe pensare che il male nasca solo dalla proiezione della nostra ombra. Ahimè, no! Il male morale esiste, eccome! E dobbiamo combatterlo in
tutte le maniere. Sarebbe assurdo per esempio pensare che personaggi come Hitler, Stalin, i grandi dittatori del nostro secolo, Salazar, eccetera,
siano esclusivamente il frutto della nostra proiezione. No, sono delle persone assolutamente possedute dal male, hanno a che fare ben poco con la
nostra proiezione d'ombra. Però il concetto di male viene evocato, nell'analisi dell'ombra, perché noi sentiamo l'ombra come qualche cosa di negativo.
Qui è anche una questione di linguaggio. Direi che, parlando dell'ombra, è
sempre meglio parlare del negativo che è in noi, piuttosto che del male. Il
male è un concetto troppo antico, troppo aulico, anche troppo potente, per
essere evocato in un argomento di psicologia di tutti i giorni. (Mario Trevi
L’ombra dentro di noi, 31/1/2011). Quando si è bambini l’ombra ricopre un
grande significato; addirittura le si dà un ruolo ben preciso. Solo crescendo
si tende a dimenticarsi di lei accantonandola nel mondo dell’inconscio come
un superamento liberatorio della sua rappresentazione buia e ambivalente.
L'ombra fa paura e farsi percepire puri esorcizza il male cui ci si può abbandonare. (A.G.M.) Nell’età adulta l’ombra subisce un’importante metamorfosi fino a diventare un Doppio di Sé ambiguo: sono i romanzi e la scrittura poetica a manifestarci la macchia che ci portiamo dietro come il nemico, il persecutore o addirittura il perturbante. La poesia sa inseguire la vita
e i suoi significati inafferrabili e originari. Si spinge verso le marginalità,
spesso idilliache, ponendosi in una posizione laterale (accanto) alla Storia
(Leopardi, Pasolini). Si tratta di un ascolto evocativo-ideologico-paesano
che sembra porre il poeta di fronte a un compromesso intimo. L’ombra è un
dormi-veglia (Octavio Paz) che spesso testimonia un lavoro compiuto in
una terra sotterranea fatta di vetri, quindi visibile nelle varie immagini nascoste ed enigmatiche. Il compito della poesia è quello di saper dialogare
con gli elementi metaforici del linguaggio di ogni giorno in cui le ombre
recuperano integrità, verità. Ognuno di noi può incontrare il mondo in un
atto amoroso.
Rimirando
Eso Peluzzi
42 l’EstroVerso
La riva sinistra
Deliziosamente piccola, terribilmente miope, crudelmente spiritosa e irreversibilmente alcolizzata, Dorothy
Parker (1893-1967) è degna di essere annoverata tra i
grandi narratori del Novecento americano. Attiva sin
dalla gloriosa “età del jazz”, quando animava
l’eccentrico circolo di intellettuali che si riuniva all'hotel Algonquin di New York, fino ai turbolenti anni Cinquanta, quando la persecuzione politica della commissione McCarthy le si scagliò contro, a causa della sua
mai celata simpatia per il partito comunista.
Nota come critica letteraria e teatrale (per riviste come
“Vogue” e “The New Yorker”), fu anche reporter di
guerra (nel ‘37 si recò in Spagna per raccontare la tragedia del conflitto civile), nonché apprezzata sceneggiatrice ad Hollywood, ma soprattutto scrittrice di racconti e
poetessa. In ogni attività si distingueva per la poderosa
e raffinata intelligenza del suo umorismo. La vittima
preferita del suo spirito graffiante? Se stessa, ovviamente!...
A proposito del suo stile unico, W. Somerset Maugham
scrisse: «Forse ciò che dà alla sua scrittura il sapore caratteristico, è la capacità di vedere il lato ridicolo anche
nelle più amare tragedie della bestia umana. Ha scoperto una verità grave e salutare al tempo stesso: nelle nostre più sentite disgrazie, c’è qualcosa di irresistibilmente comico».
La poesia che vi presento, dal titolo "Canto di guerra" (War Song), fu scritta per il suo secondo marito, l'attore e sceneggiatore Alan Campbell, quando venne arruolato per combattere nella Seconda Guerra mondiale.
Questi versi si distinguono nettamente dallo stile che
aveva sempre dominato nella produzione poetica della
Parker: stavolta l’autrice mette da parte la sua vena dissacrante e lo humour macabro, permettendo al suo slancio lirico di svettare con impareggiabile grazia e malinconia.
Novembre - Dicembre 2013
di Andrea Giampietro
Questa la mia traduzione:
Soldato, in una terra strana
al di là del mare ondeggiante,
cogli il suo sorriso, prendile la mano non sentirti in colpa per me.
Soldato, esistono soldati sinceri?
Se lei è dolce, allegra e gentile,
sfrutta l'augurio che ti mando sino al mattino non restare solo.
Soltanto, per le notti che furono,
soldato, e le albe che verranno,
quando nel sonno ti rivolgi a lei
chiamala col mio nome.
***
Soldier, in a curious land
All across a swaying sea,
Take her smile and lift her hand Have no guilt of me.
Soldier, when were soldiers true?
If she’s kind and sweet and gay,
Use the wish I send to you Lie not lone till day!
Only, for the nights that were,
Soldier, and the dawns that came,
When in sleep you turn to her
Call her by my name.
Rimirando
43 l’EstroVerso
Novembre - Dicembre 2013
PoeSia
di Luigi Carotenuto
Poco prima di notte
di Cristina Annino
Con un dipinto dell’Autrice
Introduzione di Maurizio Cucchi
(L'Arca Felice)
Cristina Annino offre un ulteriore saggio della sua poetica con questa nuova silloge, edita, insieme a un suo dipinto, per le preziose edizioni L'Arca Felice dirette da Ida
Maria Borrasi. Già dal titolo, Poco prima di notte, la breve raccolta (10 testi), lascia il lettore un po' spiazzato tra
la gamma infinita di allusioni possibili. Non riprende nessun testo né verso il titolo, e lascia intendere di chissà
quale accadimento che dovrà avvenire (o è già avvenuto)
a un'ora incerta, una scelta felicemente straniante. Così è
la poesia della Annino, fatta di microracconti che contengono macrocosmi e sfaccettature psicologiche profondamente ricche. Impossibili da catalogare, i suoi versi dal
taglio cinematografico e sapienziale, ricchi di
“inquadrature” romanzesche, brandelli aforistici, caustici,
conditi da un humour così naturale, mai gratuito, una conoscenza della vita tanto acquisita da apparire (e forse lo
è, è il dono di un poeta più unico che raro) innata. Riesce
a creare sempre qualcosa di nuovo la Annino, nel segno
di una scrittura che mostra alcuni suoi marchi, come l'uso
dei virgolettati e dei corsivi, il versificare spezzato in maniera irregolare secondo traiettorie sghembe e imprevedibili. Bisogna abbandonare ogni stereotipo per guatare il
mare vasto della sua poesia, sprezzante di luoghi comuni
e diplomazie servili, nobile quanto basta per assegnare il
primato, tra le regole della sua personale pedagogia, al
rispetto degli animali: «che non si separi mai ossa / da
carne, né il lupo dalla foresta», «[…] è come strappare la
testa / ad un santo, ché non possa vedere / chi si inginocchia» (Galateo per l'infanzia sul rispetto animale). Oppure inventarsi dalla visione di un film (The tracker – una
guida aborigena –) un dialogo altamente spirituale e pieno di rimandi simbolici: « […] Ci han ferito / già troppo;
non potranno perciò / rifarlo sempre, né ammazzarci abbastanza». Un immaginario debordante, come in Metafisica, dove: «[...] le gambe come treni / nel vapore, se ne
vanno lontane. / Fuori dal quadro» o nella descrizione
ben cucita addosso del Maudit: «L'annoia la gente che
neanche / sente. Panorami pesanti, chi / li vede? Gli eventi. / Ci sono giorni d'un silenzio fermo, dice, senza / curiosità». Mentre nel finale dell'emozionante incontro amoroso tra il lui e la lei di Amor sacro amor profano riesce a chiudere il testo con un verso memorabile: «E scende muto dalle case afflitte». Per ultima, in questa silloge,
ricollegandosi al tema musicale attraversato nel libro precedente, Chanson turca, la poesia Resurrezione nella musica, dove l'autore si immagina direttore d'orchestra, in
allegria di naufragi, potremmo dire, barcamenandosi
«[...] sull'orlo d'un / cratere spento». Constatando la libertà assoluta della poesia di Cristina Annino, trovo calzanti
le parole di Ernst Jünger nel suo Trattato del Ribelle: «Il
Ribelle è il singolo, l'uomo concreto che agisce nel caso
concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono
teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il
Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice. Abbiamo visto che la grande esperienza del bosco è l'incontro
con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l'essenza di
cui si nutre il fenomeno temporale e individuale. Anche
sul piano morale, questo incontro così importante sia nel
guarire sia nel fugare la paura ha un valore altissimo.
Porta verso quello strato sul quale poggia l'intera vita sociale e che sin dalle origini è sotteso a ogni comunità. E
verso quell'essere umano che costituisce il fondamento di
ogni elemento individuale e da cui s'irradiano le individuazioni. In questa zona non ritroviamo soltanto la comunanza: qui c'è l'identità».
44 l’EstroVerso
Rimirando
Novembre - Dicembre 2013
l’étranger
di Davide Zizza
Grafica di Nino Federico
Poesia a voce alta.
I Vuoti di Tony Harrison
– segno fondamentale presso di lui – verso i temi politici si traduce in una marcata derisione – «Signore, Tu
devi divinamente avere a cuore | Tony Blair il Tuo
servitore» (Preghiera di Santo Tony) – Harrison non
perde di vista la finalità importante della sua scrittura:
riempire i vuoti, i vuoti di senso, i vuoti meccanismi
che fanno scattare violenza e distruggere edifici, i
vuoti capaci di innescare inutili fratture fra persone.
Questo colmare di senso con la parola non fu estraneo
ad altri due grandissimi poeti inglesi come D.H. Lawrence e Ph. Larkin. Di fatti se leggiamo The Lords of
Life non possiamo non rievocare alla nostra mente The
Snake di Lawrence e The Mower di Larkin tanto è evidente il filo conduttore che li accomuna. Cosa impariamo dalla lezione di Harrison? La parola poetica non
può nulla! Eppure riempire i vuoti con la poesia significa ridare pienezza ai giorni e tentare di annullare i
conflitti, indicare una via migliore. E questo lo si può
fare quando la poesia dalla pagina scritta parla a voce
alta. Come la sua.
Grafica di Nino Federico
Chi ha letto Tony Harrison (1937), ricorderà un suo
celebre poema intitolato V (1985), che descrive la visita del poeta al cimitero di Holbeck, a Leeds, dove
sono sepolti i suoi genitori. Il cimitero è «littered with
beer cans and vandalised by obscene graffiti», sporcato da lattine di birra e vandalizzato da graffiti osceni.
È un poema dal timbro insieme personale e comune.
Non cerca l’abusata etichetta di denuncia (non rientra
nello stile del poeta). L’autore mette in rilievo un argomento più tosto, universale e senza tempo: il conflitto! Il conflitto scandagliato a più livelli – “v” sta
infatti per versus, contro –, dall’economico al sociale
al culturale, quindi nord versus sud, nero versus bianco, sinistra versus destra, comunismo versus fascismo. Guardando ai chronicles di allora, V ha suscitato
reazioni davvero discordanti, se teniamo pure conto
del drammatico riferimento allo sciopero dei minatori
inglesi accaduto nell’anno 1984-1985.
Negli anni successivi (2008), Harrison ha pubblicato i
suoi Selected poems. Nella traduzione italiana di Giovanni Greco per Einaudi ha per titolo Vuoti. In Vuoti
possiamo riconoscere quella voce fulgida e netta,
«dantescamente petrosa» e senza retorica che contraddistingue la produzione del nostro poeta inglese vivente.
Evita eufemismi, scarta inutili sovrastrutture con lo
scopo di portare la vita nell’arte: Harrison è un poeta
e quando scrive non le manda a dire, comunica le sue
riflessioni etiche e culturali senza rinunciare alla sua
incandescente materia creativa, con schiettezza di spirito e di linguaggio. È un poeta onesto, mi verrebbe
da aggiungere, non solo per la sua adesione al vero e
al reale, ma per una visione sostenuta da forti nessi
simbolici. Per es., prendendo discorso sulla granata
che sta sulla sua scrivania (Granata), egli narra di
quando sopravvisse ad un’incursione aerea tedesca
grazie all’umanità dello stesso cecchino il quale anziché bombardare le abitazioni inglesi, quindi la casa di
Harrison, sganciò le bombe sul deserto parco di Cross
Flatts, «un guizzo di fede» portò il crucco ad obbedire
ad un comandamento più alto, «di non bombardare le
abitazioni di sotto e di essere umano». Oppure
nell’omonima poesia (Vuoti) l’autore riprende una
scena dalla sua memoria, un inverno newyorchese
fatto di luce dove ritroviamo «le torri ancora inesplose del World Trade Center». Se la disincantata ironia
45 l’EstroVerso
Novembre - Dicembre 2013
EstroLab
Editrice de l’EstroVerso
organizza
I laboratori dell’Estro
corsi personalizzati
di FORMAZIONE
in
Scrittura Professionale
e Scrittura Creativa
info alla mail
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Numero 4 - Anno VII
Registrazione Tribunale di Catania
n. 5 del 9 febbraio 2007
Direttore Responsabile Grazia Calanna
Segretario di Redazione Luigi Carotenuto
Editore EstroLab
In questo numero
Grazia Calanna
Andrea Cirolla
Riccardo Gazzaniga
Laura Cavallaro
Nino Federico
Fabrizio Bernini
Danilo Lizzio
Raffaella Belfiore
Luigi Taibbi
Elisa Toscano
Daniele Cencelli
Alessandra Brisotto
Elisa Anfuso
Rosario Leotta
Claudio Bagnasco
Savina Dolores Massa
Erica Donzella
Alessandro Canzian (Samuele Editore)
Giovanni Baldaccini
Cristina Annino
Alessandra Piccoli
Letizia Dimartino
Massimiliano Raciti
Daniela Marcheschi
Lucia Tosi
Alessandra Leone
Anna Baccelliere
Giordana Galli
Alessio Annino
Sandro De Fazi
Paolo Agrati
Eliza Macadan
Liliana Zinetti
Davide Spampinato
Luigi Carotenuto
Gian Maria Annovi
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