l`EstroVerso n.4 2013
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l`EstroVerso n.4 2013
Anno VII - Numero 4 Novembre - Dicembre 2013 l’EstroVerso Apes… debemus imitari Grazia Calanna Abitiamo un tempo imperfetto. Viviamo dentro vespai virtuali, liberamente ingabbiati nella trappola delle fugacità dove tutto si consuma nell’attimo di un click. Tutto, finanche la cosciènza. Perdiamo la consapevolezza di noi stessi e, con essa, irrimediabilmente, del mondo esterno col quale, in briciole, smettiamo di collegarci. Accade. Accade perché non c’è tempo per rimediare, non c’è tempo per fermarsi a rapporto con la propria identità. Preferiamo rimandare. Preferiamo la sconnessione (dal reale). Suggerisce Seneca: per guadagnare una conoscenza profonda (fruttuosa) occorre fare come l’ape (l’insetto libero che comunica danzando). Simbolo di dinamicità pensante che librandosi, dopo scrupolosa osservazione, sceglie gli elementi adatti da ogni fiore, li colloca con ordine nei favi e, più avanti, li assimila, tramutandoli in una mistura omogenea e nuova (del reale). Periodico d’Informazione, Attualità e Cultura - Direttore Responsabile Grazia Calanna Antonia Pozzi, Flaubert negli anni della sua formazione letteraria di Andrea Cirolla Si tratta di un saggio considerato e apprezzato a lungo, anche molti anni dopo la sua uscita, da studiosi di prim’ordine dell’opera flaubertiana. Primo tra questi è Jean Bruneau, che lo inserì in bibliografia nel suo lavoro sui debutti letterari di Flaubert (Les Débuts littéraires de Gustave Flaubert, Armand Colin, Grafica di Nino Federico Paris 1962) e ne citò interi brani, approvando le analisi dell’autrice. Ma prima ancora Luciano Alboreto, con Il rapporto vita-poesia in Flaubert (19571958); e successivamente Sergio Cigada, nel suo Il pensiero estetico di Gustave Flaubert (1964). Da decenni relegato nelle bibliografie, e sposato nel volgere del tempo al magro destino della marginalizzazione (in questo senso si esprime Chiara Pasetti che cura, del volume, una bibliografia ragionata, analizzando le fonti della tesi e i suoi rapporti di valore nell’ambito degli studi flaubertiani), Flaubert negli anni della sua formazione letteraria, tesi di laurea di Antonia Pozzi, ha ritrovato alla fine degli anni Novanta un degno posto nel dibattito critico, sull’onda di quella che può dirsi una Pozzi renaissance, ossia la riscoperta e la fortuna, doppiamente postuma, della sua poesia. “Degno”, ma «sempre entro un’ottica specifica, alla luce cioè “delle problematiche filosofiche ed estetiche che pone, sullo sfondo del movimento di idee che genericamente possiamo chiamare banfiano”» (così di nuovo Pasetti, citando Gabriele Scaramuzza, attento studioso della Pozzi e di tutta l’orbita “banfiana”). Il Flaubert si è ritagliato un posto nel dibattito, ma un posto anche nelle librerie, dopo i decenni di latitanza sopra accennati. La prima edizione è remota: risale al 1940, quando, basandosi sul solo dattiloscritto della tesi contenente segni grafici di lettura ed emendazioni dell’autrice e di suo padre Roberto Pozzi, effettivo curatore, fu pubblicata da Garzanti con premessa del relatore (Antonio Banfi). Sono dovuti passare ben settantadue anni prima di vederne la ristampa: uscita alla fine del 2012, la si deve a Scheiwiller (introduzione e commento di Alessandra Cenni). L’edizione che qui si presenta segue quella di pochi mesi, ma suona come un lavoro senza precedenti, risultato di una notevole e necessaria fatica, della raffinata perizia filologica del suo curatore (che ha collazionato manoscritto e dattiloscritto analizzando ed evidenziando relazioni e varianti; riscontrando citazioni, bibliografia e riferimenti in nota), cui si deve anche l’informatissima introduzione e una nota biografica. (segue a pag. 33) Allo Specchio di un quesito “Chi ha da dire qualcosa di nuovo e di importante, ci tiene a farsi capire. Farà perciò tutto il possibile per scrivere in modo semplice e comprensibile. Niente è più facile dello scrivere difficile”, parole di Karl Popper per chiederti qual è la tua più intima definizione di scrittura? Riccardo Gazzaniga All'inizio della mia carriera letteraria, quando scrivevo i primissimi racconti, avevo idea che per conquistare i lettori servisse proprio una scrittura difficile. E così il mio stile era "eccessivamente barocco", secondo alcuni critici. Beh, avevano ragione. C'erano troppe subordinate, abusavo di similitudini (con una tremenda propensione a quelle "animalesche"!), esageravo con gli aggettivi inutili. Era come se covassi l'inconsapevole bisogno di dimostrare qualcosa, di far vedere che ero bravo a scrivere. Che sapevo usare le parole, anche se non avevo una laurea e facevo il poliziotto, l'operaio dello Stato. Insieme alle critiche, per fortuna, arrivarono anche tanti complimenti per come gestivo la suspense, per le trovate narrative, per la costruzione dei miei personaggi e l'empatia che raggiungevo rispetto a ciascuno di loro. Quelle prime opinioni, che venivano da lettori comuni, mi liberarono di un peso: nessuno mi chiedeva di essere difficile, ma solo di raccontare le mie storie e questo era ciò che io desideravo da sempre. (segue a pag. 25) Pollock e gli irascibili. La scuola di New York. L’intuibile esito di “un’intuizione” di Laura Cavallaro Strana cosa l’“intuizione”, sopraggiunge senza preavviso e con una potenza tale da stravolgerti e lasciarti inquieto di fronte ad una scelta: seguirla o lasciarla andare. Il filosofo francese Henri-Louis Bergson, a proposito della spontaneità dell’intuizione, affermava che emanasse “da una facoltà affatto diversa da quella di analizzare”, piuttosto dovesse essere “l'atto semplice che ha dato l'avvio all'analisi, e che dietro all'analisi si nasconde”. Per uno scienziato come Isaac Newton l’intuizione scaturì da una mela caduta da un ramo, per un artista come Jackson Pollock, il più popolare tra gli irascibili newyorkesi, fu una goccia di colore caduta sul pavimento. Nel 1947 in poco più che una manciata di minuti, Pollock, definito il padre dell’Action Painting, aveva inventato il “dripping”, cioè la sgocciolatura, quella tecnica che consisteva nel versare il colore, spesso misto a sabbia o altro materiale, sulla tela stesa sul pavimento direttamente dalle latte o per mezzo di bastoncini e pennelli induriti. Notevole cambiamento che annullò tutte le regole artistiche eccetto una “non avere regole” e che gli permise di diventare un mito, passando dalle “stalle”, o meglio dal fienile – laboratorio di Springs, alle “stelle” del firmamento artistico. (segue a pag. 6) 2 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Achille Glisenti Società&Sapere L’amore per i cani di Fabrizio Bernini I cani sono oggi per legge definiti come “animali d’affezione”. Il fatto è dovuto all’ormai pressoché diffusissima usanza di tenere con noi queste simpatiche bestiole tra le mura domestiche. Di condividerne momenti della vita e di creare un legame più profondo rispetto a un rapporto con altri animali che per diversi motivi vivono separati da noi. Mi sorge un terribile dubbio però: loro, i cani, saranno così d’accordo riguardo al sentimento? No, perché ci sono cose che mi fanno pensare al fatto per cui il rapporto d’affezione in questione sia tutto sbilanciato da una parte: da quella dell’uomo. Ci sono segnali che quotidianamente osservo, e che tutti possono notare con un po’ d’attenzione. La mattina, per esempio. Ogni giorno io percorro un buon tratto a piedi per andare al lavoro, circa un chilometro e mezzo, e le scene che si ripetono mi fanno quantomeno riflettere. Appena fuori dal portone di casa mi imbatto nella donna di mezza età, in tuta, che compie la sua mattutina camminata veloce per restare in forma, e che tira con sforzi immani il proprio cane di media taglia, che giustamente e per natura odora ogni angolo, ogni cosa, che per lui è sinonimo di conoscenza, di segnale istintivo, di rapporto attraverso i sensi del mondo. Lo facciamo anche noi. Ecco. Ma il tanto amato cane viene orribilmente strozzato dal collare che si torce terribilmente, e la corda del guinzaglio si tende tanto da spezzarsi quasi, nello stesso istante in cui l’amorevolissima “proprietaria” sbuffa infastidita e si lascia andare ad aperte dichiarazioni di affettuosa comprensione del tipo “dai, muoviti!”, “e cammina!”, oppure con un afflato sentimentalissimo che fa digrignare le mascelle e quasi esplodere le vene del collo, del tipo “mi hai stancato, chiaro?”. Mi lascio alle spalle così tanta dimostrazione d’amore per proseguire verso un incrocio e imbattermi in un uomo vestito di tutto punto e impegnato in una conversazione di lavoro al telefono. Peccato che il soggetto in questione non si sia accorto che il piccolo bassotto al guinza- glio che tiene con l’altra mano si sia accucciato un momento per espletare i suoi impellenti bisogni corporali, e viene perciò trascinato sul marciapiedi, pancia in giù, sforzandosi miserevolmente di riuscire in quello che probabilmente ha dovuto tenere per tutta la notte, con le zampette che cercano in tutti i modi un appiglio, le unghie che raspano sui sampietrini e si logorano nel vano tentativo di bloccare il trascinamento. Niente, il nostro quadro dirigenziale, con tono di voce altissimo, continua la sua sacrosanta telefonata di lavoro, indefessamente prodigo ai suoi doveri, incurante della bestiola che cerca nei passanti uno sguardo di comprensione. Colpito ancora una volta da così tanti riguardi nei confronti di un cane, sempre più commosso e conciliato con il mondo, mi muovo spedito fino a imbattermi nel giovane energumeno dai bicipiti possenti che cammina dritto e sicuro al centro della strada con il suo pitbull dalle zampe potenti. Con un gesto improvviso il muscoloso proprietario colpisce violentemente l’animale sul muso, in modo ripetuto, sottolineando frasi autorevoli che vogliono far capire al cane che gli ordini si rispettano e che le botte sono il giusto compendio per chi, come lui, ha impunemente trasgredito un ordine perentorio. Ancora due o tre schiaffoni e la bestiola si rimette in carreggiata. Ah, la terribile colpa del simpatico quattrozampe era stata quella di aver indugiato troppo (qualche secondo) in reciproci annusamenti con un esemplare femmina appena incrociata. Al colmo ormai di così tanta umanità e amore non posso far altro che proseguire verso il lavoro, ripensando a una frase di mia madre, in un discorso di qualche tempo fa, rispetto al fatto che l’amore non è mai un fatto unilaterale, eccola: “i cani vanno bene perché non parlano, perché se parlassero e fossero persone allora non andrebbero più bene”. Amen. 3 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Società&Sapere L’ANGOLO DEL COMMERCIALISTA Lo Spesometro di Danilo Lizzio - [email protected] Con provvedimento del 02.08.2013, l’agenzia delle entrate ha modificato le specifiche tecniche ed istituito la modulistica per la trasmissione delle operazioni iva relative al periodo d’imposta 2012 e seguenti. Il provvedimento in esame ha recepito anche le modifiche richieste dagli operatori del settore in termini di semplificazione dei dati oggetto di trasmissione. Pertanto a partire dall’esercizio 2012, la comunicazione dei dati è obbligatoria per tutte le operazioni fatturate, senza limiti di importo. Il limite precedentemente fissato in euro 3.600, resiste esclusivamente per le operazioni aventi ad oggetto cessioni di beni e prestazioni di servizi per i quali non esiste obbligo di emissione di fattura (es. scontrini o ricevute fiscali). Sono obbligati all'adempimento dichiarativo tutti i soggetti passivi Iva (anche stabili organizzazioni in Italia di soggetti esteri, nonché non residenti con rappresentante fiscale o identificati direttamente), che effettuano operazioni rilevanti ai fini Iva. In particolare sono obbligati i seguenti soggetti: Imprese e Società in contabilità ordinaria; Imprese e professionisti in regime di contabilità semplificata; Enti non commerciali, limitatamente alle operazioni effettuate nell'esercizio di attività commerciali o agricole; Non residenti, sia con stabile organizzazione in Italia, ovvero operanti tramite rappresentante fiscale, nonché identificati direttamente; Curatori fallimentari ed i commissari liquidatori per conto dell'impresa fallita o in liquidazione coatta amministrativa; Soggetti che si avvalgono della dispensa da adempimenti per le operazioni esenti ai sensi dell'art. 36-bis, D.P.R. 633/1972; Soggetti che applicano il regime fiscale agevolato per le nuove iniziative imprenditoriali e di lavoro autonomo, cosiddetto “forfettino”. Sono invece esclusi dall'obbligo: i contribuenti che applicano il regime dei minimi; gli enti non commerciali non soggetti passivi Iva (in quanto sprovvisti di partita Iva) e gli stessi enti titolari di partita Iva, ma solo per acquisti o cessioni estranei alla sfera commerciale; lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri organismi di diritto pubblico, ma in relazione ad operazione effettuate e ricevute nell'ambito di attività istituzionali (quindi in carenza di soggettività passiva). In generale devono essere inserite nella comunicazione tutte le cessioni di beni e le prestazioni di servizi rilevanti ai fini iva e le relative note di variazione in addebito o in accredito. In particolare le operazioni oggetto di comunicazione devono essere in possesso dei seguenti requisiti e deve trattarsi di operazioni: imponibili alle varie aliquote; non imponibili quali cessioni ad esportatori abituali (art. 8, co. 1, lett. c, D.P.R. 633/1972); assimilate alle cessioni all'esportazione (art. 8-bis, 8quater, 71 e 72, decreto Iva); per servizi internazionali (art. 9, decreto Iva); classificabili come "triangolazioni comunitarie" (art. 58, D.L. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con modif. con L. 29 ottobre 1993, n. 427); esenti (art. 10, decreto Iva); soggette al regime speciale del margine (rivenditori di beni usati, di oggetti d'arte, di antiquariato o da collezione di cui all'art. 36, D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, conv. con modif. con L. 22 marzo 1995, n. 85), limitatamente alla parte costituente base imponibile Iva; soggette al regime del reverse charge; le operazioni non soggette ad Iva per mancanza del requisito di territorialità, ma soggette all'obbligo di fatturazione; operazioni di leasing e noleggio; acquisto di carburanti certificati da schede carburanti. Gli acquisti di carburanti mediante l’utilizzo di carte di credito restano esclusi dalla presente comunicazione, in quanto acquisiti dall’agenzia delle entrate attraverso la comunicazione degli operatori finanziari prevista dall’art. 21, comma 1 ter del decreto legge n. 78/2010. Pertanto, andranno inclusi nello “spesometro” esclusivamente gli acquisti documentati da schede carburanti. Il contribuente, per tale fattispecie ha la possibilità di riportare tali dati con la modalità del documento riepilogativo, contrassegnando la relativa casella nel quadro FA o FR. Pertanto per i periodi 2012 e 2013 non sono oggetto di comunicazione le operazioni di importo inferiore ad euro 3.600,00, al lordo dell’IVA, per le quali non vi è obbligo di emissione di fattura e certificate con scontrino o ricevuta fiscale. Una delle principali novità introdotte, dal provvedimento in esame, riguarda la possibilità di trasmettere i dati in forma analitica o aggregata. La scelta di comunicare i dati in forma analitica o aggregata spetta al contribuente, con il solo obbligo che la scelta vincola l’intero contenuto del modello. In altri termini, il contribuente è libero di optare, a seconda della propria convenienza, per la trasmissione dei dati in forma analitica o aggregata, ma fatta la scelta, tutti i dati contenuti nel modello andranno esposti secondo l’opzione scelta. Resta inteso che l’opzione resta valida solo per l’anno oggetto di comunicazione, avendo facoltà il contribuente di cambiare modalità di trasmissione dei dati nelle annualità successive. Si evidenzia, che la scelta di inviare i dati in forma aggregata non è consentita per le operazioni di: acquisto di beni da operatori sammarinesi; acquisti e cessioni da e verso produttori agricoli; acquisti di beni e prestazioni di servizi legate al turismo. Sono escluse dall’obbligo di comunicazione: le importazioni; le esportazioni dirette, anche in triangolazione o con consegna dei beni in Italia al cliente non residente; le operazioni intracomunitarie oggetto di compilazione del modello intrastat; le operazioni effettuate nei confronti di operatori economici aventi sede, residenza o domicilio in Stati a fiscalità privilegiata “Black-List”; le operazioni escluse ex art. 15 dpr iva; le operazioni oggetto di comunicazione obbligatoria all’Anagrafe tributaria (es. contratti di assicurazione, fornitura di energia elettrica, ecc.). Il termine per l’invio della comunicazione e così suddiviso: Anno 2012: Contribuenti con liquidazioni iva mensili 12.11.2013; Altri contribuenti 21.11.2013. Anno 2013 e seguenti: Contribuenti con liquidazioni iva mensili 10 aprile dell’anno successivo a quello di riferimento; Altri contribuenti 20 aprile dell’anno successivo a quello di riferimento. La comunicazione dovrà essere trasmessa esclusivamente per via telematica (Entratel o Fisconline). Ulteriori modifiche o variazioni saranno 4 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Società&Sapere Santuari di narcisismo e falò della vanità Giorgio De Chirico di Raffaella Belfiore Ammetto di avere ben poca dimestichezza con computer e social network e di non ambire a record da medaglia d’oro di lunga navigazione sul web. Mi tengo a debita distanza anche dai finti moralismi di maniera improntati a delle paternali che molto spesso non sono altro che proiezioni delle nostre insicurezze. Ma, tra “stati”, “tag” e “tweet”, si è insinuata l’ultima moda del vuoto apparire fine a se stesso: il video del pre-diciottesimo, regolarmente postato su Facebook o su You Tube. E di fronte a tale tramonto della dignità non posso esimermi dal fare qualche considerazione. Innanzitutto, cosa sperano di ottenere queste ragazze e questi ragazzi attraverso l’ostentazione di labbra e bicipiti ipertrofici? Un biglietto d’ingresso nel magico mondo dei lustrini e dello spettacolo?! Il più delle volte, peraltro, le immagini in questione somigliano a delle vere e proprie gallerie degli orrori in cui lo squallore e il trash fanno da padroni assoluti. Silhouette non proprio esili strizzate come cotechini in abitini di satin rosso fiammante, adolescenti che per un attimo di notorietà sono disposte a dimenarsi come ossesse sull’asfalto (non proprio lindo!) di una piazza di Viale Africa a Catania o a rotolarsi come ippopotami nella stagione degli amori in luridi acquitrini stile “fogna medievale”. Il fatto che nemmeno la pubblica gogna di quell’autodafé che sono i commenti posti a corredo dei video su You Tube riesca a farle desistere da tale insano comportamento ci fa comprendere quanto il sonno della coscienza e la narcotizzazione della dignità abbiano preso il sopravvento persino sulla più semplice delle logiche. Ovviamente questi “video artistici” hanno innescato un meccanismo commerciale non indifferente e possono avere un costo che varia tra i 600 e i 1000€ e, in virtù di ciò, si capisce bene come questo elemento risulti pesare considerevolmente sul bilancio familiare. Ho avuto modo di seguire un’intervista fatta al padre di una ragazza protagonista di un video pre-diciottesimo. Con estremo candore egli dichiarava di percepire uno stipendio di 1200€ mensili, ma di non avere il minimo dubbio circa l’obbligo di un padre nell’esaudire il desiderio della figlia, fosse anche un desiderio da 700 o 1000€! Ora, non so davvero cosa sia peggio: una generazione di adolescenti tanto fragile e insicura da costruirsi un santuario di narcisismo celato dietro autoscatti realizzati persino durante la toeletta mattutina o, invece, la generazione precedente (quella dei genitori, per intenderci), probabilmente causa prima di un fallimento completo che trascende la loro vita investendo anche quella dei figli. Forse, nel falò delle vanità, andrebbero bruciati i sogni infranti di tanti genitori repressi, ancor prima delle dubbie dignità di tanti adolescenti pronti a vendere le proprie anime e i propri corpi, pur di apparire per la durata di un video, così da illudersi di vivere da protagonisti e non da patetiche comparse di ripiego. Notturni Vincent Van Gogh di Luigi Taibbi Accade raramente di sentire storie particolari della propria terra. In genere le leggende vengono da lontano e lontano sembrano nascondersi i luoghi fantastici da cui provengono. Quand’ero bambino, mi fu narrato di mitiche vicende e strane costruzioni che nella notte dei tempi sarebbero sorte e vissute nel cuore della Sicilia, millenni e millenni fa, per poi scomparire inghiottite dal tempo, dalla natura e da nuove costruzioni. Pensieri meravigliosi per un ragazzino che cammina tra enormi campi di grano facendo volare l’immaginazione, calpestando ciottoli e strade sterrate in attesa di scorgere all’orizzonte una grande torre di granito o una città cinta da mura enormi. Così, fino a qualche tempo fa, dimentico di queste storie che non sentivo da anni, ascoltavo un conoscente che mi raccontava di aver letto un articolo interessante. Quest’articolo riportava la notizia di un appalto affidato al comune di Pietraperzia (Enna), per uno scavo archeologico. Quando mi documentai sulla natura degli scavi, rimasi parecchio sorpreso nello scoprire che nei pressi di Pietraperzia, vi è una costruzione piramidale la cui realizzazione è stimata tra il 3000 a.C. e 700 a.C. e che sarebbe assimilabile, secondo alcuni archeologi, alle Ziqqurat della Mesopotamia. Questa presunta Ziqqurat, chiamata Cerumbelle, si estenderebbe su una superficie di 1800 m² e per un’altezza di 15 m. Le foto mi hanno lasciato un po’ deluso. Della costruzione è rimasto ben poco, ma, nonostante questo, la scoperta (un po’ datata probabilmente) è sensazionale. Cosa ci fa una costruzione di questo tipo nel centro della Sicilia? Pietraperzia sembrerebbe essere stata abitata dai Sicani, che la chiamavano Petra. Mi sono subito ricordato che Petra è anche il nome di un’antica e un tempo fiorente città, oggi rimasta esclusivamente luogo archeologico e turistico, fondata dai Nabatei nel VI a.C. Ricordate il tempio che si vede nella scena conclusiva del terzo capitolo di Indiana Jones? Proprio quel tempio si trova nella zona di Petra. Petra significa letteralmente “pietra” ed è una parola che deriva dal greco. Il nome originale sarebbe greco? La stessa parola tradotta e ricercata nelle antiche lingue medio-orientali, viene ritrovata come appellativo di città, eroi, monumenti e dei. Quello di cambiare i nomi dei luoghi, traducendoli nel proprio linguaggio, è un’usanza comune a molti popoli. Basti pensare che la stessa Sicilia ha cambiato più volte nome. Dall’antico Trinacria, i Sicani ricavarono Sikania, mentre i Siculi le attribuirono l’attuale nome. Non è detto che Pietraperzia sia stata fondata dagli stessi Sicani, visto che sono presenti fonti molto antiche le quali parlano di altri due popoli che avrebbero abitato anteriormente la Sicilia. Di questi popoli sappiamo i nomi: i Ciclopi e i Lestrigoni. Ricordati dai più per essere descritti come giganti, accostati per alcune doti a ciò che gli antichi ritenevano attributi degli Dei, ci è stato tramandato che furono affrontati e sconfitti dai Sicani, quando questi ultimi invasero l’isola. Al di là di ciò che dicono il mito (la cui interpretazione non può essere fatta in questo articolo, né tanto meno dal sottoscritto) e la controversa storia, riferita con parecchi disaccordi, ciò ci dice che la Sicilia era sicuramente abitata da altri popoli, di cui non si sa più nulla. Così, anche noi siciliani, potremmo dire di avere la nostra piramide. Un po’ mal ridotta, ma pur sempre originale. Voi vi potreste domandare e a noi che importa? Niente. “Nell'uomo autentico si nasconde un bambino, che vuole giocare” ed io specificherei sognare. Non vi chiedo di fare altro. Buonanotte! www.lestroverso.it Arte&Creatività 5 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 EscogitArte di Elisa Toscano Valérie Hadida e le sue “petites bonnes femmes” Oggetto e soggetto di letterati, premi Nobel e artisti: l’universo femminile, in tutte le sue età, forme ed emozioni, vive nelle sculture bronzee dell’artista Valérie Hadida. La sua espressione artistica è un appassionato omaggio a Camille Claudel, alla quale ha dedicato anche il titolo di un’opera “divanetti” (Les causeuses). Le sue donne, “mes petites bonnes femmes”, come la stessa le appella, esprimono sentimenti universali e l’usurante passare del tempo e delle emozioni sui loro corpi. Sono donne reali, lontane dal prototipo occidentale delle donne da copertina. Sono confuse e insicure adolescenti, donne di mezz’età appesantite, formose e stanche del loro vissuto o ancora abbandonate, dalle carni corrose dalla frustrazione di un sentimento non ricambiato. Un’umanità sfacciatamente rivelata da una tecnica scultorea dalla grande forza espressiva, pur nella delicatezza delle proporzioni e nella raffinatezza della cura dei dettagli. Emblema della complessità di un universo popolato da anime dalle intense e screziate sfumature, un luogo dove gli uomini non sono esclusi, ma al contrario sono protagonisti silenti e assenti: “La maggior parte delle mie piccole donne è in attesa del loro uomo, la speranza o la disperazione di lui (l’espèrent ou désespèrent de lui)”. 6 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Arte&Creatività (segue da pag. 1) Pollock e gli irascibili… Jackson Pollock, Number 27, 1950 di Laura Cavallaro Pollock capì che era giunto il momento di abbandonare pennelli e cavalletto e che occorreva relazionarsi all’opera d’arte come non aveva mai fatto prima, bisognava entrarci dentro, farsi ispirare da quelle tracce di colore liquido colate sulla tela, ora più decise e dense, ora più sottili e labili ma capaci di creare grovigli simili ad intimi nidi o insolite ragnatele, rami di intricati boschi, sottili trame di un caotico labirinto di istinti dove per non perdersi mentre si percorre in lungo ed in largo la tela non basta di certo il filo di Arianna. Il risultato è scandaloso in tutti i sensi: è una pittura a tutto campo, senza tempo, senza precedenti ma dai molteplici risvolti futuri, che ancora oggi impressiona per l’apparente semplicità del gesto paragonata all’enorme successo riscosso e, per il medesimo motivo, fa trapelare un sorrisino beffardo. C’è tempo fino al 16 febbraio 2014 per visitare la mostra “Pollock e gli irascibili. La Scuola di New York”, inaugurata il 24 Settembre a Palazzo Reale di Milano, curata per la parte internazionale da Carter Foster del Whitney Museum e per la parte italiana da Luca Beatrice. Qui si possono ammirare quarantanove opere prese in prestito dal Whitney Museum di New York, che raccontano quello che è accaduto dagli anni Quaranta ai Sessanta in America, quando il primato dell’arte si spostò da Parigi a New York ed a farla da padrone erano, oltre a Pollock, Arshile Gorky, Willem de Kooning, Mark Rothko, Robert Motherwell, Barnett Newman, Lee Krasner…ed altri. Tali furono i rivoluzionari protagonisti dell’Espressionismo Astratto, classificati in “action painters” e “color field painters”, uniti ma autonomi nel portare avanti la loro personale e provocatoria ricerca stilistica, gestuale, sensoriale, surreale, segnica e tonale che gli valse in quegli anni, in prima battuta, non solo il rifiuto del pubblico ma anche quello, più feroce, del sistema dell’arte. Emblematico l’episodio che denunciarono in diciotto, e che li etichettò per questo come irascibili, per mezzo di una lettera di protesta indirizzata a Ronald L. Redmond, Presidente del Metropolitan Museum di New York, il quale non si curò di chiamare nessuno di loro quando, nel 1950, organizzò una mostra sull’arte contemporanea americana, negando loro la possibilità di “esserci”. Di certo, però, non poteva bastare solo questo a fermarli e così la Scuola di New York continuò con il nuovo linguaggio di rivolta a cercare le risposte al tutto o al niente universale, seguendo l’ordine del caos regolato da pensieri ed istinti e dalle leggi rivoluzionarie di menti in evoluzione. Franz Kline, Mahoning, 1956 Jackson Pollock, Number 17, 1950 Mark Rothko, Untitled (Blue, Yellow, Green on Red) 1954 Arte&Creatività 7 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Arte… in sala d’attesa di Daniele Cencelli Victoria Station Mumbai Ebbene sì c’è arte anche nelle stazioni ferroviarie. Tre stazioni, tre continenti: la Union Station di Washington (USA), la Stazione Centrale di Milano e la Stazione indiana di Chhatrapati Shivaji. Proprio quest’ultima, la Chhatrapati Shivaji Terminus a Mumbai, è la più vecchia. Fu costruita tra il 1878 e il 1888 quando l’India era ancora una dipendenza britannica e conosciuta col nome di “Victoria Terminus”. Fu progettata dall’architetto britannico Frederick William Stevens nello stile neogotico vittoriano con ispirazione ai modelli italiani tardomedievali. Questo stile fonde così il gusto europeo e quello indiano. I colori e le decorazioni riprendono le caratteristiche dell’arte Moghul ed Hindi, come le decorazioni delle ceramiche della tradizione rajput, o la presenza di varie tipologie di archi: a tutto sesto, sesto acuto od ogivale convesso. La cupola è a struttura ottagonale e sormontata da una colossale figura femminile rappresentante il Progresso, con torcia rivolta verso l’alto e ruota a raggi nelle mani. L’architettura colpisce innanzi tutto per la maestosità ma anche per la presenza massiva di decorazioni, come statue, bassorilievi e fregi. Per età, segue la Stazione americana di Washington, costruita infatti tra il 1903 e il 1908. L’architetto Daniel H. Burnham modellò l’intera struttura ispirandosi allo stile neoclassicheggiante Beaux-Arts, alle Terme di Caracalla e Diocleziano e, infine, agli archi trionfali romani. La facciata, infatti, presenta sei enormi colonne ioniche con una sporgente trabeazione con altrettante statue modellate sui prigionieri Daci dell’Arco di Costantino. Anche in questo caso le statue rimandano idealmente al progresso e ai trasporti: Prometeo, Talete, Temi, Apollo, Cerere e Archimede. La sala principale domina senza dubbio l’intera stazione: coperta da soffitto a cassettoni esagonali in gesso è circondata da balconate su cui si affacciano trentasei figure di legionari romani. Originariamente le statue furono esposte nude ma, i funzionari della ferrovia, temendo di offendere il pubblico, le “vestirono” con scudi. Ma la “romanizzazione” non finisce qui, nella East Hall e nella Sala Columbus Club le pareti e i soffitti sono decorati in stile Pompeiano. In Italia una delle stazioni ferroviarie più belle è quella di Milano Centrale. Costruita in pieno periodo fascista, l’inaugurazione è del 1931, l’ideazione è però precedente e di Ulisse Stacchini. La facciata è larga ben 200 metri circa mentre la volta si staglia per 72 metri d’altezza. Così come la stazione di Mumbai, anche quella milanese non ha una uno stile architettonico definito ma una fusione tra Liberty e architettura fascista. Ogni decorazione presente rimanda all’ideologia fascista che, come sappiamo, si rifaceva all’arte romana: troviamo così protomi leonine o fasci, così come statue rigidamente stanti, come le due ai lati della facciata rappresentanti due cavalli alati accompagnati da ignudi. La stazione milanese non è solo nota per le sculture e i mosaici, in particolare il “Binario 21” ricorda la deportazione di ebrei italiani verso Auschwitz. Sotto la stazione è stato ideato il Memoriale della Shoah con materiale originario degli eventi dell’Olocausto. 8 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Arte&Creatività 5 Ottobre 2013, casa sul Piave di Goffredo Parise, a Salgareda, in provincia di Treviso, in onore e per amore dello scrittore. di Alessandra Brisotto La casetta sul Piave o la scoperta del silenzio È un odore che scorre sulla superficie dell'acqua. Mi sorpassa a sinistra, sotto il corpo madido di sudore e lavico del cavallo. La ghiaia unta di chiazze giallastre ed ombre, anche la mia, mi ci sottrae. Il mento è libero ancora. Il cuore è schivo. Sono quell'uomo grigio a onde seghettate, sono il cavallo a tratti storpio che sprofonda nella sabbia, sono la ghiaia e quella foglia in trasparenza sana. È un rumore che scorre sulla superficie dell'aria, appena sopra l'erba dura e fiacca, sopra uno stecco capriccioso che scodinzolando graffia il denso ventre del cavallo. Il mio. Affondo a vanvera nell'erba masticata dalla pioggia, sotto le piaghe del sole appese a tronchi di saggina che la boscaglia se la spazzolano via. Con me. Avanzo e attendo di incontrare il silenzio. Non so come sia, che forma abbia. „Ci sei?!“ Lo penso, ma non lo dico. Dietro un ronzio, un altro battitto di ciglia-foglia la casa è un rudere laggiù. La casa. - Ci sei? - Testamento dopo Sono cresciuto sotto la sabbia, secco e cocciuto accanto al seme inaridito e friabile del tempo Volevo alzarmi in preghiera ma non sapevo piangere, inumidirmi, accarezzarmi di vento, spingermi oltre, dal basso in alto, per sempre. E trascinando i mucchi di silenzi gettati a caso nel dimenticatoio esterrefatto ho guadato il fiume di polvere e specchi con le mie vecchie scarpe, sventrate. Ho vagato cupo in disparte per tutti gli anni del mondo del mio mondo solo. Ora son qui, accanto a te per tutti gli anni del tempo Arte&Creatività Elisa Anfuso “L’arte per mediare tra mondo e coscienza” Intervista a cura di Grazia Calanna Elisa Anfuso è nata a Catania nel 1982. Le sue opere hanno catturato il nostro interesse per la maestria di uno stile che si coniuga alla franchezza di una poetica dell’essere (attuale) speculare al malessere antropico. In tre aggettivi, chi è Elisa Anfuso? Animista, decadente, inquieta. Qual è (o quale potrebbe essere) l’aneddoto che meglio ti rappresenta? Sono nata a Catania, ma è stato un errore. Nemmeno uno "scherzo del destino", proprio un errore. Nel percorso animacorpo-luogo della terra, qualcosa è andata male. Ho un animo crepuscolare, che mal si sposa con così tanta vivida luce. Ho creduto per anni che non ci fosse un luogo in cui sentirmi in armonia. Un'anima errante. Poi ho trovato Praga ed ho capito che davvero, è stato solo un errore. A Praga è nata una delle mie prime serie di opere, "SOgNO", alimentata da leggende, magia, atmosfere che sembravo portarmi dentro da sempre. È dal Ponte Carlo che vorrei vedere il mondo per l'ultima volta. Com’è nata (e cosa alimenta) la tua passione per l’arte? È il mio modo di stare al mondo, di camminare da equilibrista sul filo, è la mia urgenza. Abbiamo tutti bisogno di dare un senso al nostro esserci. Non cerchiamo risposte, cerchiamo un senso. E le mie visioni, i miei giochi, le mie fantasie, sono il modo in cui mi è dato esserci. 9 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Arte&Creatività Per André Breton e Lev Trotsky, “la vera arte, cioè quella che non si accontenta di variazioni su modelli prestabiliti, ma si sforza di esprimere i bisogni interiori dell'uomo e dell'umanità, non può non essere rivoluzionaria”, per Elisa Anfuso? “Rivoluzione è soverchiamento di un ordine. Un ordine che è quello già dato, quello, appunto, dei modelli prestabiliti, quello al quale è più comodo per tutti attenerci. Quello che non prevede conflitti. Ma non è una concezione umana questa. Siamo il frutto incerto di pulsioni costruttive e distruttive. Ecco in cosa risulta rivoluzionaria l'arte, nel portare alla luce questa scomoda dialettica”. 10 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Arte&Creatività Osservando le tue opere sovviene una riflessione di Milan Kundera: “Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. È per questo che l'uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione”. È corretto considerarlo uno dei tuoi leitmotiv? “Credo che la nostra condizione umana, per una necessità che non ci è dato comprendere, ci porti a valutare le cose nei termini di questa realtà terrena e, da questa piccola e caotica terra, riusciamo solo a vedere una linea, piuttosto che un cerchio. Un po’ come fisicamente non avvertiamo sotto i nostri piedi la rotondità del pianeta, perché siamo troppo piccoli per poterla percepire. Il tempo umano, visto da umano, è il tempo sulla terra. Il prima e il dopo, che potrebbero chiudere il cerchio, non ci è dato conoscerli, solo desiderarli. Ma una cosa che non si conosce non è necessariamente una cosa che non esiste. Felicità? Ci è preclusa anche questa, è vero. Come potrebbe essere felice un'anima che vive di desideri in un corpo che sopravvive solo se i suoi bisogni vengono soddisfatti?”. 11 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Oggigiorno qual è (o dovrebbe essere) la funzione dell’arte e quali responsabilità deve (o dovrebbe) assumersi? “Mi piace pensare all'artista come ad uno sciamano. Non è certo un parallelismo inedito quello tra queste due figure ma oggi lo ritengo quanto mai appropriato. In un'epoca sempre più votata al materialismo, in cui, come dice Noica, "anche il cielo è malato", abbiamo bisogno di qualcuno in grado di mediare e di fare da ponte, non tanto tra mondo terreno e ultraterreno, quanto tra mondo e coscienza”. gc Arte&Creatività L'Écume des jours Boris Vian featuring Michel Gondry di Rosario Leotta Dopo due adattamenti anteriori, Michel Gondry assume le redini della trasposizione del romanzo surrealista di Boris Vian “La schiuma dei giorni”, trasmesso da settembre nei cinema italiani. Ma è subito accusato di manierismo dalla maggior parte della critica e di aver ricostruito pedissequamente l’opera dello scrittore francese, tralasciando i caratteri dei protagonisti, prediligendo l’estetica e la mera bizzarria delle singole scene. Al fine di comprendere le buone intenzioni di Gondry, prima della visione della pellicola, consiglio la lettura del racconto di Vian, la cui trasposizione sul grande schermo non ne svilisce a mio avviso la stregata poetica. Conoscendo i lavori precedenti di Gondry, è scontato e lampante come l’incontro delle fervide immaginazioni dei due autori avrebbe prodotto piuttosto una miscela esplosiva. Il frutto di questo connubio è uno zibaldone colmo di situazioni fantastiche e di ridde folgoranti che di primo acchito potrebbero apparire come elementi caotici che prendono il sopravvento sulla storia e sui personaggi. In realtà il cineasta francese riporta la maggior parte degli eventi del libro minuziosamente, riducendoli in una densa melassa allo scopo di non sacrificare la vera impronta del racconto: quella surreale. Nel film è pertanto l’onirico ad avere la meglio sull’immediata logica della narrazione, sul senso e sui sensi. Come del resto è necessario che accada nelle descrizioni dei sogni, di cui Gondry è specialista, e che fluiscono inevitabilmente seguendo dei criteri “random”. La Parigi incantata del romanzo è reinventata dal regista secondo il suo particolare linguaggio che fa ricorso a metafore che definirei più atemporali che contemporanee. Un’atmosfera avveniristica insieme démodé, caratterizzata da immagini fiabesche e scenari dadaisti che a tratti ricordano alcune riprese in stop-motion di Jan Švankmajer e “Brazil” di Terry Gilliam nelle ambientazioni. 12 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 13 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Cultura L’aforisma di Claudio Bagnasco È tutto inutile: l’assoluto non istituisce relazioni. Pyromanie di Erica Donzella “Permesso, posso vivere?” Tatiana Berg "La casa, un punto fermo su un ciottolo nero. "Quattro pilastri e tre cuori", le dissero. Contare, passo dopo passo, i battiti, attimo dopo attimo, e trovarne qualcuno sparso nel centro esatto dei sogni. Una valigia di cartone e chiedere "permesso, posso vivere?". Le mani lontane, la culla del sorriso, la scelta attaccata in alto al pensiero, il passo silenzioso verso il respiro. Molte cose sempre, qualcuna macchiata di caffè e raggrumi di inchiostro. “Ho ancora due anni”, dice. La possibilità di ruotare insieme alla luce e al buio, e tutta la sua materia incandescente, in una nota dolente, un accordo, le dita nere di una musica lontana. E poi il mare ad una latitudine di sud-est, la barba incolta di suo padre, che ruvida sarà solo la sua vita, e morbida la piuma del pianto dentro di sé. Mille e più perdoni, elenchi di numeri mai chiamati, tutti occupati, bocche incensurate, notti biascicate d'incubi, vuoti a perdere di peccato. Mai vergogna però nei tumulti, sempre il punto di ritorno allo stupore, sempre il correre, scorrere libera sui fianchi. Un fiore di campo non ha prigione, solo vento. Che ridere a scrivere di una bambina che alza la mano dentro una tempesta." L’antro della Pizia di Savina Dolores Massa Sigmund Freud Due furono i cambiamenti: un brusio all’interno della bocca e il rifiuto del suo cane a stargli accanto. Ciò accadeva da alcuni giorni, ma Sigmund Freud non volle mettere sul divano delle confidenze né la sua bocca né tanto meno il cane. Quel pomeriggio accostò le tende dello studio e si accese il sigaro. Il fumo non fu azzurro, non si librò in nuvole. Cadde a terra, Freud lo schiacciò col piede. Il fumo - senza un livido - rise, così come sono capaci di fare solo i migliori assassini. L’uomo comprese come la paura potesse essere anestetizzata con un’alzata di spalle. Però si sdraiò sul divano: le sue domande rimasero prive di risposta. Era il divano delle vittime tormentate con le sue teorie, alle quali urlava, Ma sua madre cosa faceva?, Ma sua madre cosa faceva! Adesso non poteva essere la propria, di madre, a camminargli nell’inconscio aiutandolo a non sentire il sapore di necrosi nella bocca. Lui ammorbò la stanza di sé, con un tumore destinato solo ai grandi fumatori, prima che ai grandi scienziati. Il dolore gli faceva urlare i denti, il palato cambiava forma a ogni mutamento di pensiero, la lingua si riempiva di crepe. La parola si rifiutò di attraversare quella grotta purulenta. La solitudine, il terrore furono carnefici in una sera verso l’imbrunire. Il genio indiscutibile, padre della follia umana, ovviamente si accese un altro sigaro. Allungò come d’abitudine la mano sinistra per accarezzare il cane, ma l’animale era fuori dalla stanza, accucciato in pianto. Freud aveva 66 anni. Sei anni, prima notando uno strano gonfiore al palato, si disse, Devo cambiare marca di sigari. Fece trascorrere in questo modo venti anni, ascoltando maestri della medicina, elargendo verdetti ai propri pazienti. Negò a se stesso il cancro, proseguendo nelle sue ricerche, nell’osservare divani, nel prendere cani che sostituissero quelli nel frattempo morti. Tutti gli animali lo amarono a distanza. Non si fece mai mancare i migliori sigari del mondo. Il 23 settembre del 1939, Freud aveva 83 anni. Fumando fumando, amputato di una mandibola, e la bocca come una carogna aveva scritto libri, studiato e proseguito a far naufragare inconsci di clienti sopra il suo divano, perché al cancro lui aveva sempre ordinato, Taci! Ma un tumore dentro una bocca non tace, immagina parole, e dice, nel solo linguaggio a lui consono, con toni gravi o acuti. Dice, il dolore. A Freud straziato si accascia il collo, mentre labirinti di manicomi lo respingono. L’uomo implora camicie di forza e oppio da fumare con ingordigia. La salvezza non esiste, lui lo sa. Rivive ogni sogno raccontato dai rannicchiati sul divano: la psiche degli sconosciuti. Non riesce a rievocare uno solo dei propri deliri notturni. Ordina al suo medico, Ammazzami. Il medico ubbidisce. sdm 14 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Cultura l’editore racconta… Risponde Alessandro Canzian, titolare della Samuele Editore Una cosa che ormai è abbastanza risaputa è che la Samuele Editore nasce e prende nome da mio figlio, Samuele (ora ha quasi sette anni), come atto d'amore nei suoi confronti che diventa atto d'amore per la Poesia e per gli uomini in genere. Un aneddoto che invece può essere più “divertente” è invece il fatto che Samuele, fino all'età di tre anni, abituato a venire agli eventi e a sentire questo nome, era assolutamente convinto di chiamarsi Samuele (di nome) Editore (di cognome). Qual è la vostra linea editoriale? La nostra linea non ha avuto grosse modifiche nel tempo, più che altro aggiustamenti. Siamo nati con una collana di Poesia antologica pordenonese per poi specializzarci nella poesia contemporanea. Ora lavoriamo anche con qualche romanzo specificatamente di anziani e per anziani (ma non solo) in quanto siamo alla ricerca di fette di mercato utili. Abbiamo anche aperto agli ebook, ma ne stiamo studiando le dinamiche (non ultime quelle psicologiche di lettura, essendo l'ebook una cosa assolutamente particolare e non paragonabile al libro cartaceo). Ma la nostra linea resta e penso vorrà restare sempre quella di una Casa specializzata in Poesia non sperimentale, ma di sostanza, anche formale. Viviamo nell’epoca delle facili pubblicazioni, in che modo un editore può (deve) salvaguardare l’autenticità della cultura? Le facili pubblicazioni purtroppo non sono sempre colpa di un Editore fraudolento. Purtroppo lo stato divoratore a cui siamo soggetti pretende annualmente un certo numero di tasse (altissime) per cui è necessario, per non chiudere, avere degli introiti. Da lì a pubblicare anche per guadagnare non passa molta strada. La sfida, che è veramente titanica, è quella di riuscire a mantenere una linea precisa pur riuscendo a stare in piedi come attività. In realtà (e questo pochi lo sanno) le Case piccole ma importanti che oggi stanno in piedi hanno altri introiti per cui la Casa Editrice si prefigura come attività marginale che deve bene o male pensare solo alla ripresa delle spese. Quindi alla domanda non posso che rispondere nella maniera più odierna possibile: solo se la Casa Editrice è marginale può permettersi di creare un vero momento culturale riconoscibile e di qualità. La vostra casa editrice è dedita alla poesia. In che modo è possibile riconoscere un vero poeta e, conseguentemente, selezionarlo per la pubblicazione? Paradossalmente riconoscere un poeta è molto semplice. Una voce vera è sempre e comunque riconoscibile. È vero che ci sono dei criteri da seguire quali “cosa dice questo testo?” oppure “la forma è funzionale al messaggio?”. Elementi di valutazione più specifici sono la concretezza, l'asciuttezza, l'essenzialità del dettato. Poi ovviamente dobbiamo tenere conto anche della provenienza geografica dell'autore e della sua età. Non pubblichiamo per scelta ragazzini, e teniamo conto della tradizione letteraria dell'autore prima di assumere i criteri specifici di valutazione. Quest'ultimo elemento si lega alla consapevolezza che l'Italia è fatta di regioni culturali per cui la Poesia siciliana non può essere paragonata o avvicinabile alla Poesia lombarda o friulana. Quali le peculiarità dei vostri autori? Le peculiarità dicono le nostre scelte. Asciuttezza, concretezza, bagaglio letterario importante. Insomma un lavoro di studio e ricerca forte che poi il lettore (che non è mai stupido) sente e apprezza. Dicendola con parole un po' forti, parole di Pontiggia che ho incontrato a Milano a inizio settembre di quest'anno per un evento: “nessuna persona ignorante diventa poeta, bisogna studiare e studiare tantissimo per fare vera poesia”. Quali reputate essere – tra i vostri – i libri più interessanti già editi o di imminente pubblicazione? Per nostra scelta sono tutti interessanti. Posso dire quali sono quelli più riusciti a livello di consenso di popolo (vendite) che non dice il consenso di critica: “Terra altrui” di Natalia Bondarenko (prefazione di Katia Longinotti), “Le felicità” di Guido Cupani (prefazione di Giulia Rusconi), “La gravità della soglia” di Roberto Cescon (prefazione di Maurizio Cucchi), oltre l'ultimissimo vincitore del Camaiore Proposta di quest'anno Malascesa” di Erminio Alberti (prefazione di Maria Grazia Calandrone) e l'esauritissimo “Minatori” di Dario De Nardin (primo edito della collana Scilla, prefazione di Gian Mario Villalta). Libri di cui potete trovare estratti nello store della Samuele (http://store.samueleeditore.it). Per il futuro abbiamo due bei progetti veramente interessanti e che si legano a immagini di copertina di grandi artisti contemporanei (nostra ultima frontiera editoriale), ma preferisco non parlarne ancora per scaramanzia. Altre sue osservazioni per i lettori. Sicuramente direi al lettore di leggere Poesia, di comprare Poesia, di studiare Poesia. Perché questa è l'unica strada attraverso la quale diminuiscono gli Editori a pagamento fraudolenti, e si aiutano gli Editori seri che comunque devono chiedere contributo autoriale (come noi) per poter continuare a reggere il lavoro. Non ultimo perché solo così si può riconoscere all'Editore il suo vero valore. La Poesia in Italia, al contrario della politica, sta vivendo un momento vivissimo ed effervescente. Lo vediamo tutti. E questo è il momento giusto di pubblicare un libro che sia un bel libro di Poesia. Ma per farlo bisogna supportare l'Editore che si mette di buon grado a correre su e giù per l'Italia per presentare, promuovere, far conoscere quel libro. Perché, ricordiamo sempre, la cultura non la fanno la Mondadori o l'Einaudi, ma le piccole case. Una volta erano Scheiwiller, San Marco dei Giustiniani, peQuod, oggi sono Ladolfi, Aragno, Raffaelli, Nomos, Samuele. Cultura 15 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Paul Klee Dell’essere e altre mancanze di Giovanni Baldaccini “Fammi andare dal non essere all’essere” (preghiera di rituale Upanis citata in Enzo Paci, Il nulla e il problema dell’uomo). Essere e angoscia “Essere o non essere”: sembra che il problema sia questo. L’alternativa, tuttavia, non aiuta: se si vuole ammettere la possibilità evocata dalla filosofia esistenziale di comprendere e realizzare l’essere, la contraddizione andrà risolta e le due dimensioni dovranno coesistere o, almeno, si dovrà tentare di dare giustificazione al problema non solo in sede speculativa ma anche sul piano del reale umano. “Esistere è per l’uomo il porsi in rapporto con l’essere di se stesso che si realizza come problema” (E. Paci, Il nulla e il problema dell’uomo, Taylor, Torino, 1967, p. 55). L’essere, dunque, si pone in termini di problema, come Platone aveva già intuito nel suo Sofista. La dicotomia tra idea e mondo fisico tuttavia non viene sciolta e l’essere “per quanto abbia il colore dell’essere ideale, d’altra parte è pur sempre legato nella maniera più stretta al mondo dell’esistente” (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 3). Da queste prima battute l’essere appare diviso tra spirito e materia. Sembra che allo spirito sia possibile attribuire “un’attività originaria formativa e non semplicemente riproduttiva. Essa non esprime in maniera meramente passiva un’entità esistente, ma racchiude in sé un’energia autonoma dello spirito attraverso la quale la semplice esistenza dei fenomeni acquista un ‘significato’ determinato, un peculiare valore ideale” (E. Cassirer, Ibidem, pp. 9 –10). L’essere si presenta allora come attività originaria formativa che, tuttavia, ancora non si sostanzia se non in quanto idea o categoria. Questa attività formativa si presenta come attribuzione di significato, ma ignoriamo come il significato venga assegnato e come si risolva il problema della coesistenza con il nulla. Quanto al nulla, e indirettamente all’essere, la chiave di accesso sembra essere l’angoscia. Kierkegaard avverte che dall’angoscia non si sfugge e che ogni uomo dovrà affrontare il naufragio della propria esistenza. Non si evita ciò che il filosofo danese definisce imperfezione (il peccato): si tratta di condizione insita nell’esistenza segnata dall’angoscia. Dunque, il nulla, che provoca angoscia, è sempre di fronte all’essere ed è impossibile deviare dal sentimento angoscioso di nientificazione: questa la risposta emozionale all’esistere. Anche Heidegger approda all’angoscia per definire l’essere e il nulla. L’essere deve uscire da sé, porsi di fronte a sé e osservarsi per conoscersi ma, nel momento in cui l’essere si pone al di fuori di sé, esso è nel nulla e nell’angoscia. Più che una soluzione, la posizione di H. sembra un rompicapo. Paci espone il problema come segue. “L’esistenza è caratterizzata dal fatto che in essa, per comprendersi, l’essere diventa nulla” (E. Paci, op. cit., p. 164). Sembra di trovarsi al punto di partenza. Come può l’essere uscire da sé e diventare nulla; e cos’è questo nulla che l’essere stesso pone? H. risponde che il nulla è l’uomo prima che l’essere si manifesti in lui per conoscersi. L’essere utilizza l’uomo per conoscere se stesso ma, nel momento in cui lo fa, esso non è più essere ma nulla, perché il prezzo della conoscenza di sé è l’ingresso nel tempo e dunque nella finitudine. L’essere che si conosce finisce per essere un nulla per il nulla che tuttavia, nel finito del tempo, esiste. Sia come sia, è innegabile che la posizione di H. rimanda a un principio primo che, temporalizzandosi, pone se stesso e il mondo. La metafisica non è superata, come H. sperava. Inoltre, non viene aggirato il principio di non contraddizione che, da Aristotele in poi, domina nella filosofia occidentale. Per la ragione l’essere può essere soltanto essere e il nulla appare incomprensibile. Come può allora ciò che è essere risolversi attraverso l’uomo che è nulla? In un solo modo: il nulla è mancanza a essere. Considerato dal punto di vista dell’essere il nulla è nulla perché lo chiede e manca dell’essere, perché manca della necessità dell’essere, perché è ciò che ha bisogno dell’essere. È quindi l’essere che pone il nulla. E lo pone in quanto l’essere è presente nel nulla come assenza. (E. Paci, op. cit., p. 115). Non è allora il nulla che genera angoscia, ma la mancanza d’essere. L'essere è richiesta di esistere ed è in questa richiesta che avviene il passaggio dal nulla all’essere. Ciò significa che occorrerebbe invertire i termini del problema e pensare che non è l’essere che usa l’uomo per esistere nella conoscenza ma è l’uomo che, conoscendo, pone le basi dell’esistere ed esce dalla dimensione del nulla attraverso la fondazione nel finito del soggetto e del mondo. Tornando al problema iniziale, quel che si può dire per ora è che l’essere è mancanza e finitudine, angoscia da cui il soggetto che prende coscienza (e non l’Ente) è afflitto. È allora il soggetto che dà sostanza all’essere, traendolo dal nulla dell’incoscienza e immettendolo nel flusso soggettivo del tempo. Non si tratta di un essere per la morte, ma di un essere per la conoscenza che sa di dover morire. L’essere è allora qui, nel nulla della mancanza. Il rapporto tra essere e nulla – per usare questi termini – risponde alla domanda nietzschiana di un uomo che sia un oltreuomo, un tentativo continuo di trascendersi, perché l’essere non è dato, ma è una possibilità sempre da conseguire per spezzare la ripetitività di un eterno fluire senza senso né soggetto (nulla). Cultura 16 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 La presenza del nulla: l’inconscio L’angoscia svela una dimensione dell’essere che è percezione (sentimento) di mancanza. Questa mancanza, e il timore angoscioso di nientificazione che suscita, è più vicina di quanto si possa credere. Sembra infatti che il nostro io sia sottoposto a “un triplice servaggio” (S. Freud, “L’Io e l’Es”, in Opere 1917-1923, vol. IX, Boringhieri, Torino, 1977 p. 517): verso l’esterno, verso il Super-io e verso l’Es. Se così è, l’io si pone come “la vera e propria sede dell’angoscia” (S. Freud, Ibidem, p. 518), e, per sopravvivere, deve continuamente porsi nella condizione di oggetto d’amore per gli scomodi compagni del se stesso. In questo modo l’inconscio irrompe sulla scena in un rapporto con l’io che si profila per lo meno come sentimento di angosciosa dipendenza. Inoltre, sotto l’influsso di Schelling, Freud (S. Freud, “Al di là del principio di piacere”, in Opere 1917-1923, vol. IX, Torino, Boringhieri, 1977) rompe la pretesa univoca della logica e ammette la duplicità della natura umana anche a livello strutturale. Se persino la base pulsionale è duplice, se al desiderio di vita (Eros) si oppone un desiderio opposto (Thanatos), il principio di non contraddizione naufraga una volta di più e l’essere si specchia nel fondo del suo niente. Anche il desiderio, motore dell’umano, ha un volto doppio che si manifesta come possibilità di rappresentarsi ed acquisire senso psichico, oppure degradare verso il non senso e l’insignificanza. Si potrebbe allora suggerire che, per trovare il nulla, l’essere non deve fare molta strada: basta guardare in sé. L’io deve infatti confrontarsi col nulla dell’inconscio e dell’aspetto mortale del desiderio; un nulla in ogni caso condizionante, capace di costringere e atterrire, muovere verso la rappresentazione (Eros) o degradare nell’insignificanza del godimento immediato (Thanatos). Un nulla che, comunque, non è certamente nulla, per lo meno negli effetti. L’angoscia diventa allora davvero una condizione umana legata alla duplicità dell’essere che è esistere e nientificazione, domanda e mancanza, soggetto che ricerca e vuoto, coscienza e inconscio. Niente il nostro io teme di più che il nulla di se stesso, quel non io dell’inconscio contro il quale alza difese estreme, senza però mai liberarsene davvero, perché se l’essere vuole essere deve necessariamente ammettere il non essere come parte di sé e non negarlo o fingere che non esista, relegandolo in un nulla alieno e indimostrabile. In quest’ottica, il non essere è l’inconscio che la coscienza non può cancellare perché in esso si fonda e ad essa si presenta non soltanto nei sogni ma nelle manifestazioni più impensabili e svariate della quotidianità, oltre che attraverso i sintomi che sono espressione di un malessere che è senso negato. Sotto quest’ultima accezione, l’inconscio è significato possibile, domanda di senso e, dunque, richiesta di colmare la mancanza a essere. Fammi andare dal non essere (dell’inconscio) all’essere (della coscienza): un cammino tortuoso, nel corso del quale uno dei pericoli più frequenti è quello di identificare l’essere con la sola coscienza. Non è così. L’essere come visione Ogni mitologia contiene cosmogonie presenti in tutte le culture ed epoche del mondo. In esse, un eroe semidivino crea il mondo dal nulla delle tenebre, plasmando il caos o uccidendo il mostro del non senso, qualunque forma esso assuma. L’atto di creazione è luce, un generarsi della coscienza soggettiva dal buio profondo dell’inconscio personificato sotto i più vari e oscuri aspetti. L’io nascente crea forma, ma il nulla non scompare per sempre come l’eroe fondatore vorrebbe; la creazione andrà sempre ripetuta, riscattata, salvata da minacce costanti: la luce è comunque in pericolo e tutti gli eroi della storia simbolica umana sono fondatori e redentori a un tempo. Questo lascia pensare che quell’atto di creazione sia imperfetto; in esso ci deve essere qualcosa di sbagliato. È sbagliato l’atteggiamento (hýbris della coscienza) che tenta di negare o comunque controllare una volta per tutte il fondo oscuro del “nulla” da cui si sforza di differenziarsi. La Madre uccide se la neghi o tenti di relegarla a livello del niente; se la integri nel senso soggettivo del se stesso, la Madre non smette di nutrire. 35000 anni fa (forse anche di più), nel buio di grotte che affondano nella terra, l’essere affiora dalla Grande Madre dell’inconscio e si rappresenta dal profondo magmatico del nulla. La coscienza dell’io nasce dall’Es e si evolve come funzione rappresentativa/conoscitiva e relazionale. A un certo punto della nostra evoluzione, per ragioni di cui non si può qui dare conto, l’uomo non si è più orientato nel mondo su base percettiva/istintuale. Dall’Es si è svolto un organo di percezione, rappresentazione e conoscenza sempre più raffinato, fino ad arrivare alla capacità di rappresentare il mondo. Non basta: l’io ha anche imparato a rapportarsi con la propria interiorità, ponendo le basi della rappresentazione di sé e del fondo inconscio dal quale promana: senza questo figlio angosciato, la Grande Madre sarebbe solo nulla. Come rappresentazione di questa dualità e di questo rapporto nascono i miti e le cosmogonie (si veda, ad esempio, J. Campbell, L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano, 1958; o ancora E. De Martino, Il mondo magico, Boringhieri, Torino, 1948). Da qui le prime rappresentazioni umane e del mondo nelle grotte dove inizia la storia (Si veda J. Campbell, Le maschere di Dio, Bompiani, Milano, 1962), nelle quali possiamo ammirare l’atto creativo per eccellenza: la nascita della psiche umana che crea un riflesso di sé e del mondo. Fa impressione pensare che tutto ciò sia accaduto nel profondo della terra, in quelli che possiamo considerare veri e propri santuari dell’essere, forse durante lo svolgimento di riti magici collettivi atti a preservare lo spirito della caccia, e dunque la vita. Personalmente, preferisco pensare a fenomeni isolati, uomini soli con il buio di se stessi al quale tentavano di dare forma. Uomini spauriti, angosciati, ma comunque capaci di far fronte a quel primo manifestarsi della domanda a esistere e, in tal modo, tentare di dominare l’oscurità delle forze inconsce. In quegli uomini traspariva un “dio” e forse essi credevano, forse temevano, di essere afferrati dal divino. Se ciò è verosimile, quegli uomini stavano sperimentando la realtà di un accadimento psichico, quel fenomeno che Cassirer descrive e definisce formazione delle divinità momentanee e che rappresenta una vera e propria nascita di una prima modalità di coscienza (E. Cassirer, Linguaggio e mito, Il Saggiatore, Milano, 1961). Ogni impressione che colpisce l’uomo, ogni desiderio che si agita in lui, ogni speranza che lo attrae, ogni bisogno che lo stringe, può in tal modo operare su di lui in senso religioso. Se l’impressione istantanea concede all’oggetto dinanzi a noi, allo stato in cui ci troviamo, alla forza che ci sopraffà, il valore e per così dire l’accento della divinità, ecco che viene sentito e prodotto il dio momentaneo. Egli sta dinanzi a noi nella sua immediata singolarità e unicità, non come parte di una forza la quale si possa manifestare qui come là, in diversi momenti del tempo e in diversi soggetti, molteplice eppure omogenea, ma come qualcosa che è presente solo qui e ora, ad un unico soggetto, nell’indivisibile momento della vivente esperienza. […] Quanto più largamente progredisce lo sviluppo spirituale e lo sviluppo della civiltà, tanto più il rapporto dell’uomo col mondo esterno si trasforma da passivo in attivo. L’uomo cessa di essere il semplice trastullo di impressioni esterne: egli interviene col suo volere nell’accadimento per regolarlo secondo il proprio desiderio e il proprio bisogno […] Ma, come dapprima si rendeva consapevole della propria passività, così ora l’Io può in cambio rendersi consapevole della propria attività solo mediante il proiettarla fuori di sé e porsela innanzi in una salda raffigurazione intuibile (E. Cassirer, op. cit., pp. 34 - 35). L’essere, come principio psichico, per conoscersi deve porsi fuori da se stesso, nel grande nulla del mondo dove potrà rispecchiarsi. È il fenomeno psichico della proiezione, ben noto a chi frequenta studi analitici. È un fenomeno all’apparenza dispersivo, senz’altro difensivo, ma, se elaborato, è comunque una possibilità di conoscenza. Questi uomini muti, nascosti, forse temuti dal resto del clan, sono i padri dei nostri concetti filosofici più elevati, i veri fondatori, coloro nei quali per la prima volta si è manifestato un processo psichico, nei quali la psiche si è formata; con essa, il mondo del soggetto. In quelle grotte, per usare un’espressione di Heidegger, l’essere si è posto nel nulla dell’uomo che comincia a osservare e del mondo esterno avvolto nel silenzio del non senso; in quelle grotte e in quegli uomini è nata l’esistenza e la possibilità di dare senso. In quelle grotte, è l’uomo che ha posto, anche se involontariamente, l’essere. Cultura 17 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Verso la storia Fammi andare dal non essere all’essere. A livello proiettivo l’essere è immagine e sentimento (stupore e angoscia). Quando, nel corso dell’evoluzione, quelle immagini e quelle impressioni verranno nominate, l’essere sarà linguaggio. Fammi andare dal non essere all’essere. “Se ogni linguaggio ha la sua radice nel sentimento e nelle sue manifestazioni dirette e istintive, se trae origine non dal bisogno di comunicazione, ma da grida, da suoni, da selvagge voci articolate, un simile complesso di suoni non costituisce mai l’essenza, mai la ‘vera’ forma spirituale del linguaggio. Questa forma nasce solo quando si dimostra attiva una nuova ‘facoltà fondamentale dell’anima’ che distingue fin da principio l’uomo dall’animale” (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, op. cit., p. 111). Questa facoltà dell’anima è la riflessione. Fammi andare dal non essere all’essere. L’uomo “dimostra riflessione quando partendo da tutto l’incerto sogno delle immagini che passano per i suoi sensi si sa raccogliere in un momento di veglia, si sa fermare volontariamente su di una immagine, sa farne oggetto di chiara e più calma considerazione e sa isolare dei caratteri in modo che si tratti proprio di ciò, di questo oggetto e di nessun altro” (E. Cassirer, Ibidem, p. 112). Fammi andare dal non essere all’essere. “L’istinto della riflessione è ciò che costituisce l’essenza e la ricchezza della psiche umana. La riflessione modella il processo di stimolazione e ne guida l’ìmpulso in una serie d’immagini, la quale infine, quando l’impulso è sufficientemente intenso, viene riprodotta. La riproduzione […] si verifica in forme diverse: o come espressione linguistica diretta o come espressione del pensiero astratto, come azione rappresentativa o come comportamento etico, come ritrovato scientifico o come rappresentazione artistica… la riflessione è l’istinto civilizzatore ‘par excellence’, e la sua forza si palesa nell’affermazione della civiltà di fronte alla nuda natura” (C.G. Jung, “Determinanti psicologiche del comportamento umano”, in Opere, vol.VIII, Boringhieri, Torino, 1976, p. 136). In questo senso l’essere è cultura. L’essere è allora un impulso a riflettere che devia dal movimento cieco della soddisfazione immediata. Una tensione continua verso un oltre mai raggiungibile davvero, un senso sempre da assegnare, volta per volta, nello sforzo di esistere. Nel suo perenne inseguimento, l’uomo è oltreuomo nei termini di Nietzsche, ma non pura volontà: la base istintuale non si cancella, come la ragione vorrebbe. L’uomo esiste almeno come un alcunché che viene spinto verso una qualche cosa e, al tempo stesso, come un alcunché che si raffigura una qualche cosa […] L’archetipo è spirito o non spirito, e quel che in fin dei conti esso sarà dipende per lo più dall’atteggiamento della coscienza umana (il corsivo è mio) (C.G. Jung, Ibidem, pp. 223–224). In questo senso, l’essere è sintesi. L’esistenza non può allora essere pensata come un eterno fluire dal nulla e verso il nulla. Il pensiero occidentale, che da duemila anni si fonda sul divenire eterno del tutto, si rinchiude in una credenza che è vera e propria fede che tuttavia smentisce le proprie basi attraverso la creazione di Immutabili per sfuggire l’angoscia di un moto involontario da e verso il nulla (si veda E. Severino, La tendenza fondamentale del nostro tempo, Adelphi, Milano, 1988). L’essere non è allora dato, ma trascendimento del dato nel simbolo e nel senso sempre sfuggente e rinnovantesi cui il simbolo rimanda con la sua enorme forza capace di informare intere epoche e muovere i destini di milioni di uomini, nel bene e nel male (si pensi, ad esempio, ai mutamenti mondiali provocati dall’insorgere del simbolo cristiano o di quello nazista). La storia appare allora come un movimento dell’essere attraverso i simboli che genera. L’essere è storia: a noi darne rappresentazione consapevole. Uno sguardo nel nulla Vorrei ora soffermarmi sull’apparente insignificanza di quelli che appaiono fatti cui tutti siamo abituati e che consideriamo normali, quando non li consideriamo affatto. In quei fatti si annida il nulla, la non domanda, la non problematicità, la deriva mortale del Nulla. Dunque, se qualcuno decide di farsi i comodi suoi e di fregarsene altamente della morale e delle regole, ignorando allegramente ogni senso di responsabilità e il rispetto dei limiti cui la civiltà rimanda; se questo qualcuno, nella sua onnipotenza patologica da narcisismo primario (praticamente un non nato nella psiche con l’aggravante, nel caso specifico, di evidenti tratti di psicopatia), decide di trasgredire gli elementi basilari del vivere comune e rifiuta ogni norma, ponendosi al di sopra della Legge simbolica del Padre che castra il desiderio onnipotente per perdersi direttamente nella Madre/Morte del godimento puro, acquisendo il potere per farlo grazie alla complicità di una massa amorfa di nullità che, senza quel qualcuno, rientrerebbero nell’anonimato del mondo irriflesso e indifferente; se non contento – e libero nella sua incoscienza da qualsiasi fonte etica (che non possiede) – propaga come esempio da seguire uno stile di vita edonistico e godereccio oltre i limiti della decenza, tanto che la stessa Thanatos, se non ci sguazzasse, resterebbe allibita; se quel solito qualcuno si permette di blaterare che le istituzioni sono un intralcio da eliminare e che il parlamento è soltanto una perdita di tempo; se dunque propaga idee dittatoriali che, per fortuna, non ha la capacità di mettere in atto (tanto a lui basta godere per restare lontano dall’angoscia ed evitare il suicidio, che comunque avviene in altre forme); se poi qualcun altro glielo lascia fare per oscuri motivi di convenienza politica e altrettanta pochezza morale psichica e, per calcolo di convenienza riflessa, si impegna pure a studiare il modo di evitargli la galera. Se qualcun altro ancora si rompe le palle e pensa: “perché lui sì e io no?” e allora, dopo aver fatto copia e incolla di alcuni discorsi di Hitler del ’36, sale sul tetto di un’automobile e comincia a urlare e un’altra massa di deformati mentali lo sta a sentire e gode della rabbia del rabbioso e della propria che intanto cresce come la arcaicità interiore che li guida (si legga H. Kohut sul contagio della massa da parte del leader patologico); se insomma ci si identifica col nulla e un popolo nullificato conferisce ai nullificatori delega per nullificare, con la conseguenza che quando si va a votare il nulla vince – cioè non vince nessuno (il nulla, appunto) – e chi ha avuto la possibilità di fare qualche cosa, essendo una nullità, perde tempo con altre nullità non venendo ovviamente a capo di nulla; e intanto il nulla gaudente se la gode perché gli riconsegnano un campo dove nulleggiare e diffondere il nulla del suo esempio mortale tale e quale a prima (a proposito, leggete anche qualche saggio di Kohut e Kernberg sul narcisismo patologico e la rabbia narcisistica). E dato che non basta, se i nostri figli crescono in questo clima di cultura arcaicamente nullificata e non pensano, non studiano, non leggono, non sentono, non amano, non sviluppano un adeguato senso di identità che non sia qualche forma di appartenenza a gruppi amorfi o firma di stilista sulle mutande perché non abbiamo insegnato loro a distinguere e nominare le emozioni (magari leggete anche qualcosina di Galimberti sul nichilismo della società in L’ospite inquietante), e finiscono col convogliare tutte le loro energie nella fuga dall’angoscia che abbiamo loro trasmesso con la nostra irresponsabilità, e allora passano il tempo a ubriacarsi e riempirsi di droghe e psicofarmaci, a praticare un sesso animale, così, tanto per non amare (fa male…), magari sbattuti tutto il giorno su qualche scaletta o piazzetta o muretto e rientrano a casa, nelle condizioni descritte, alle sei del mattino, se prima non si schiantano con le auto e le moto che procuriamo loro per ammazzarli (inconsciamente, si intende; in realtà perché siamo già morti noi); e glielo lasciamo fare perché non siamo capaci di fronteggiare l’angoscia che questa società e questa famiglia, questi figli, noi stessi e questo modo di (non) essere ci provoca; e allora ci rincoglioniamo di lavoro, chiacchiere da bottega, compere compulsive e cazzate domenicali, guardandoci a nostra volta dal leggere, pensare, sentire… insomma se ci tuffiamo nel nulla tale e quale ai nostri figli cui abbiamo lasciato che venisse rubato il futuro, per non parlare del presente e del passato (che dovremmo essere noi) e il bene della coscienza, se tutto questo è vero, non resta che ammettere il nulla di noi stessi e tentare almeno di assumersene la responsabilità. Se succedesse, l’essere sarebbe Norma. Non vi preoccupate: non succederà e potremo continuare a morire tranquilli. Cultura Fare l’essere Kant avvertiva che la cosa in sé non è mai conoscibile; essa è qualcosa che ha bisogno di essere attuata attraverso il concreto dell’azione morale (Norma) che, come azione umana, è azione storica che non può prescindere dalla responsabilità del fare. La cosa in sé (l’essere) è allora qualcosa che si vive giorno per giorno e che diventa reale nel fare dell’uomo che fa l’essere. A questo punto, posso tentare di uscire dall’equivoco che la parola “essere” inevitabilmente ingenera. Non si tratta di ricercare un fondamento ontologico, che si umanizzi o meno: essere è la possibilità del soggetto di costituirsi sul piano consapevole nel limite del tempo e della storia. Tuttavia per esistere non basta essere nel tempo: occorre fare il tempo e il tempo, come l’essere, è soltanto una possibilità. Il tempo è la mia gabbia: io sono prigioniero e gabbia. Se non lo fossi, non esisterei. Nella gabbia del tempo, io ho un problema: fare un soggetto che sia. Fare la mia fragilità, perché se l’essere non è dato può sempre essere perduto. Aggrapparsi allora alla mancanza per evitare di essere l’altro volto, sempre possibile, del nulla. Fare, per questo, immagine e pensiero e, come gli antichi artisti di Chauvet, Lascaux, Trois Fréres e Altamira, dipingere il nostro stupore e la nostra angoscia sulle pareti del vuoto per nominarlo e poi pensarlo, per fare essere quello che non è. Fare dunque arte, linguaggio, scienza, coscienza, amore, cultura, storia. Fare essere per sfuggire dal godimento folle dell’immediato cieco. Fare simbolo, perché l’essere è simbolo e, per questo, continuamente e sempre un non ancora che tuttavia è storia. Il fondamento è deciso dalla libertà e dalla responsabililtà: esso può sempre non realizzarsi e in tal caso il mondo è possibilità indifferente e cioè equivalenza di essere e nulla, di bene e di male, di verità e di errore […] In altri termini, l’essere è storicità e la storicità è lotta contro la dispersione, è l’impegno della libertà e del valore; il senso fondamentale della struttura della storia è il compito di mantenere la possibilità del possibile, di rendere sempre possibile l’essere autentico e cioè ciò che deve essere, il valore (E. Paci, op. cit., p. 149). Fammi andare dal non essere all’essere. In quest’epoca di disperata dispersione in cui mi è dato vivere, fammi essere, esistere, resistere, almeno nel senso di mancanza. 18 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 19 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Inediti d’autore Paglia a volo con Céline Cristina Annino Non guardarla mai, non somigliarla nemmeno; è fumo, certo, un gran fuoco di paglia che abbaglia tutto. In tale insonnia va avanti, poi le scope lo fan saltare chi l’ha messe lì? Nessuno può capirne il senso, ormai fuori com’è dal vaso di Pandora. Io gli credo. Noi spavaldi nella nostra salute; quando gonfia le gote viola, e a vanvera, che ne so, dice il traffico con l’emicrania e la gara di sonno. Che gli tranciano il viso con la pala sinistra. “È il Novecento un’aurora?” Macché! Non c’è, non è vero, nessuno importante. Coi paragoni ingrandisce anche un nano. Punto. Poi perde, scappando, semini di carne. Che dire? Anche fuori dall’universo Céline, tossico in astinenza, palleggia occhi a terra, due mine. L’aurora l’aveva con sé, tra le mani, come pure la paglia. Con quei pigiami di notte, ogni volta un canestro. Troppo umano Lontana la calunnia, l’ubbidienza, le virtù della caccia senza offese, le prede finte. Distante sono da quel che avrei, se potuto era farlo; so che bastava poco, pochino, un pezzo, anche covando polvere sul tappeto. Mai ho sentito un discorso vero da Loro con trappole in viso o sedie elettriche che parlando, pensavo a carne umana al chilo. Mai al pensiero. Elementare, figliolo! La panna delle cose montò, inventava luci, grattacieli, scale interne, come fili d’erbe senza cognome. Poi un volo digitale per aria. “Che me ne fo’ ?” Si dicono troppe balle. La vita del suicida Le sparerà, nella stanza sua o silenzio della savana, con tegole in cima, tenendola stretta al muro, senza ultimi desideri. Prima le insegnerà l’ a b c con schiaffetti leggeri, poca importanza. Mai la prese un minuto sul serio, pareva farcita, nel caso suo, di gerani cannella al cacao e una lingua di discoteche. Anche spruzzo di genere umano. L’indossò, hai visto mai che non sia un affare? e lei scalciava, sentendola circolare nel plasma. Non una parola, neppure il contrario di pensieri nani. La gira, da dietro si spezza la lancetta del cielo; le comprime il cervello tra quei binari. Singolare era che nacquero insieme. Se la stacca di dosso tra terra e aria, braccia fuori, piedi al suolo, per quanto sono brevi gli schemi umani. Le spara. 20 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Inediti d’autore Alessandra Piccoli ‘Venti minuti possono bastare’: promessa, paura, conforto, supplizio e – vita, vita, vita che si srotola a precipizio, senza pause, senza confini, smossa da chiaroscuri che non salvano tempo, che non indossano orari: mattino pomeriggio sera, un oltre che si staglia, un magma che si addensa, è dialogo e perdizione, furore, pietà. Leggere questo è leggersi addosso e più sotto, più dentro; è riconoscere un’impronta velata dal quotidiano – quel passaggio che inquieta ordinarie sicurezze, un abbraccio di denti che smeriglia ipocrisie: lei scrive, Poeta che scrutandosi ci scruta (come i gatti alla finestra); cauta, solenne, ironica oltre misura, cruda e lieve; scrive tra le corde dell’istinto e d’una agognata, frustrante ragionevolezza, lì a preservare l’amore e le fughe, gli slanci del giorno indossato come un mantra, una quotidianità da tollerare tra un delirio e una certezza, da schiudere in versi che sconfinano in addii, e che poi si riavvolgono – mattino giorno sera. Alba Gnazi Il mattino è come i gatti alla finestra Stanotte mi è cresciuto il cuore o almeno credo che sia per questo che sto per soffocare io non sento movimenti le dita sono fredde e le finestre ancora chiuse pensavo ne tolgo un pezzo faccio spazio e lascio un vuoto taglio via, casomai - ritento perché lo sento nella pancia e a volte anche in testa mi chiedo quale sia il senso del riempire se poi ti toglie il fiato e torni un po’ a crepare non credo in soluzioni se non nell’annullare la parte circostante lasciando solo Il male. Lo vedi sono piena e ti guardo come i gatti la luna alla finestra. La Sera è sempre senza nome Striscio sui miei passi scuri e mi pulisco i piedi sempre e solo fuori (le cose sporche fuori) è un silenzio di stomaco sfrattato senza avviso che ha intenzioni felpate verso stanze notturne dove inciampo sempre e gomiti su spigoli che suonano vendette solo che non ho fretta adesso in tasca ho il pieno di benzina in testa l’onda verde dei semafori mi riporta sempre qui a stendermi a faccia contro il letto e la notte che mi preme sopra boia del mio giorno. Il pomeriggio sta in quei venti metri Ci sto tutta in quei venti metri venti metri tra la H e la D How To Do in cui mi tieni la mano Stop senti che ronzano le dita sull’asfalto le mie che inciampano sempre le tue troppo veloci che hanno fretta dislivelli sopra e sotto il mio nero sotto il tuo bianco Neve/Kiss tutto niente grigio venti metri separati da un addio. Venti metri di corda appesa e il cappio stringe si cala e mi prende mi tende la mano “vieni con me “ dice lui ti abbraccio e stringo stai ferma lì. Pensieri a metri, venti srotolo la matassa, sbroglio i nodi riavvolgo chi non c’è mai le forbici di plastica sono crudeli e lente come la cura nello sfilacciare l’impegno costante e richiesta ché non vogliamo tagli netti e osserviamo estranei il saltare dei nervi un poco alla volta in quest’arpa tesa. Suonerò stasera per l’ultima volta venti minuti possono bastare. 21 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Inediti d’autore Il senso negato di Letizia Dimartino Racconti uniti da un comune denominatore. Protagoniste le donne. Dina Dina è una donna minuta come il suo nome. La sua piccola statura non le ha mai procurato problemi sconosce gli oggetti visti dall'alto, le manca un'altra visione della realtà, solamente questo. Ha sul comodino laccato di bianco una vecchia sveglia d'argento annerito e uno specchio rotondo su cui guardarsi tutte le volte in cui crede di perdersi e nel quale si ritrova – volto ingrigito senza sorriso. Il borsone è pronto, spalancato sulla cerniera ma nascosto nel misero armadietto. Le sue gambe tremano un poco quando inghiotte l'ultima pillola rossa. Fuori le luci illuminano una nebbia appena addensatasi che spinge pesantemente sui vetri. Il ticchettio della sveglia si ingigantisce. "Gentile dottore Accorsi, quanta fatica nel decidere, dico solo decidere, di scrivere queste poche parole. Sono necessarie, però. Ci conosciamo da tempo, da troppo tempo; non ci vedremo più perché me ne andrò e non tornerò. Nessun malanno improvviso mi indurrà a tornare. Cerchi di credere a quanto le sto dicendo. Quante volte sono venuta a cercarla, mia unica speranza! In certe mattine gelide di gennaio che tutto era trasparente e vitreo mentre la mia anima era calda e piena. O in certe primavere appena abbozzate in cui le dicevo di aver sentito per tutta la notte stornire le rondini - il suo sorriso dottore come lo ricordo bene, un lieve sorriso di condiscendenza. O ancora gli arrivi timidi e insieme tumultuosi (dentro, dottore, ero tutta un fragore) nelle sere d'estate quando le finestre erano spalancate sul giardino, gli altri ammalati sembrava mi attendessero lì seduti immobili sotto una luna poco amata, sì poco amata, perché non splende certo per chi sta male, lo sappiamo bene noi che di certe nottate godiamo poco e il cielo è nero e basta, solo nero e attendiamo la luce del sole per meglio mettere ordine nel corpo - una pillola alle 9, 30, quella verde dopo un'ora, a pranzo la flebo e poi… poi… E invece parto allo stesso modo in cui sono sempre partita con il mio borsone pieno di piccole cose, sempre le stesse che ormai conservo in fondo all'armadio pronte per essere arraffate nei momenti di panico, il cappottino grigio scuro e la sciarpa più volte avvoltolata al collo. Nessuna medicina in tasca, solo un biglietto di ritorno e lo specchio, quello sì, per ritrovarmi durante il viaggio e poter dire che sono io, solo io, quella donna che si specchia, vera, con ciglia diritte, due lunghe pieghe ai lati della bocca, due piccoli nei sul mento, un leggero cedimento che segna i contorni del viso, capelli di un improbabile biondo e occhi, dio dottore, che occhi. I miei occhi lei li conosce. Non glieli ricordo. Adesso sono gli occhi gonfi di chi vuol scappare, di chi ha pensato per intere notti, di chi ha desiderato, di chi ha immaginato un tragitto conosciuto e lo ha arricchito di colori, finalmente. Lei sarà contento nel leggere questa lettera, forse la attende da tanto tempo, è la risposta al suo lavoro, un lavoro che non le ho mai invidiato. Invece lei ha invidiato a me le risate improvvise, rare, ma ampie, le risate che portano alle lacrime, lacrime che scendono giù velocemente e non vengono asciugate subito. Si lasciano scendere per il viso, libere senza vergogne, le lacrime che ridono e non certo le lacrime dei pomeriggi solitari trascorsi davanti alla TV accesa - perché e per chi ? - e il mondo cade e ricade e ricade e loro corrono sul collo, solleticano il petto bagnano il golfino e bisogna subito asciugarle prima che arrivi l'infermiera. Ha invidiato i miei ritorni a casa sul pullman per meglio io godere i prati oltre il finestrino, per sentire sbattere la vecchia tenda impolverata sul viso, per sobbalzare sulle troppe buche di una strada dissestata. La lascio e lascio pure sul comodino un mia fotografia non recente, risale ai tempi in cui mi conobbe per la prima volta ed io venni affranta e spezzata perché lei potesse ricucire i pezzi di un corpo frantumato. Vado con la certezza di non tornare, il suo lavoro di ricamo è ultimato. Mi resta il dolore della sua ultima immagine, la sua bella figura bianca stagliata in fondo al corridoio, il busto appoggiato alla vetrata fredda, lo sguardo perso oltre i confini di questo luogo sventurato." "Grazie signora Dina, la sua lettera è bellissima, l'ho gradita. Mi è giunta inaspettata quando avevo già sulla scrivania la foto portatami dalla infermiera di turno. Succede spesso che gli ammalati mi lascino qualcosa di loro, piccoli doni significativi che io conservo e a cui penso ogni tanto nei miei rari giorni di calma. Lei non mi ha chiesto, andandosene, niente ma io faccio finta che una sua richiesta ci sia fra le parole addolorate che mi ha inviate e le rispondo. Rispondo alla sua domanda taciuta: no, mia cara Dina, non l'abbandonerò mai. Resterà con me seduta sulla sedia grigia della sua camera, seduta sulla panchina verde del giardino spoglio, seduta sulla poltrona sfondata del corridoio, seduta sul lettino del mio studio, seduta sul divano della camera d'attesa, seduta sul sedile del pullman che la portava qui in quelle mattine che io e lei conosciamo bene. Vada pure ora che si sente libera e capace di andare e non torni in questo luogo sventurato, lasci che ci resti io a ricucire l'anima degli altri. La sua è perfetta e non ha bisogno di nessuno. Parola mia. Vada e mi invii una fotografia recente del suo sorriso ritrovato. Vada." Il dottore Accorsi si scosta dalla vetrata, la spinge ed esce sulla veranda impolverata. Si appoggia alla ringhiera. Sotto, due pazienti parlano lentamente, poi si accorgono di lui e con la mano lo salutano, contemporaneamente. Nella tasca ha la fotografia di Dina, la foto degli anni passati. La prende, la appallottola, la ripone spiegazzata nella tasca del camice. Il tramonto è aranciato dietro la collina, in fondo più a est il rigo del mare lontano si intravede confuso. Il pullman si ferma rumoroso, un paziente vi sale trascinando una piccola valigia. La vetrata, per una improvvisa folata di vento, sbatte alle spalle del dottore che sussulta. Poi è silenzio. 22 l’EstroVerso Cultura Fotoracconto Novembre - Dicembre 2013 di Massimiliano Raciti Claudio Saccari “Quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiederci un bacio e volerne altri cento…” Quella foto rubata mentre cerco le chiavi di casa e tengo la busta del pranzo. Quella foto in cui ci baciamo e tu hai gli occhi stretti che mirano se la macchina fotografica ci sta inquadrando. Quella foto mentre la neve caduta copre di poesia il marcio della strada. Sì, proprio quella. È saltata fuori dal cassetto, stava sotto i maglioni. Mi sembra di sentire ancora addosso il freddo di quella mattina, quel freddo che non se ne andò nemmeno dopo pranzo, sotto le coperte, in quel silenzio, a fare l’amore. Poi fumasti, prendesti le valigie e l’aereo. Due mesi dopo arrivò quella lettera con quel francobollo straniero, dentro solo la foto e dietro la foto solo quella riga con quelle parole di De André. Nessun mittente a cui rispondere, nessun numero a cui chiamare. Non ti ho cercato se non con la mente, qualche volta immaginavo cosa avresti risposto o detto nelle tante quotidiane rotture di scatole, o nelle ricorrenze, o in una qualunque giornata di pioggia. Sorrido quando qualche nuova conoscenza vede in me chissà quale principe azzurro sfuggito a chissà quale favola e comincia ad adularmi. Non ti sono stato fedele, non avrei dovuto comunque, ma l’ho fatto solo per cercare un amore più forte del nostro, quello che ci siamo negati, tu partendo, io restando. Imporre a me stesso di dimenticarti, credere che il mondo potesse nascondere ai miei occhi un tesoro più grande, inestimabile. In tutti questi lunghi anni mi sono chiesto se tu avessi fatto lo stesso, chissà dove, chissà con chi, o se semplicemente, con un grande colpo di fortuna, avessi trovato quel tesoro e ti fossi dimenticata di noi. Ogni volta per me era una ricerca di qualcosa di nuovo, di vero, quel tesoro ambito doveva esistere, ma ogni volta sentivo dentro il proseguire della canzone, quasi come una maledizione: “…e tu che con gli occhi di un altro colore, mi dici le stesse parole d’amore…” Stamattina sei entrata al bar e ti sei seduta al mio tavolo posando due caffè. Non esiste sineddoche per il nostro amore. Adesso però baciami. Notizie Letterarie Le voci della Notte Bianca con Giuseppe Pontiggia Introduzione di Daniela Marcheschi Giuseppe – “Peppo” – Pontiggia (Como, 25 settembre 1934 - Milano, 27 giugno 2003) aveva un rapporto speciale con le librerie – soprattutto le antiquarie – e con i libri. Non solo apprezzava da bibliofilo tutte quelle caratteristiche esterne che rendono pregevoli i libri, ma ne amava profondamente i contenuti, che gli promettevano incursioni culturali o ne aprivano orizzonti conoscitivi sempre nuovi. Da un simile punto di vista, non ho conosciuto uno scrittore più avventuroso di lui e degno contemporaneo di quegli esploratori antichi e moderni, che hanno ampliato con i loro viaggi, per mare e per terra, i confini del mondo. Ricordare il decennale dell’anniversario della morte di Pontiggia, a Milano, riunendo nella Libreria Popolare di Via Tadino gli amici da tutta Italia e quanti lo hanno stimato come scrittore e critico, per giunta senza disdegnare un breve momento conviviale, è sembrato così il modo migliore per stare ancora con lui, che amava tutto quanto era vita e coltivava gli affetti. Ne è scaturita una Notte Bianca emozionante, anche perché hanno aderito alla serata tanti altri amici, sparsi magari per l’Europa, che ragioni disparate trattenevano fuori Milano o nei loro paesi, ma che, volendo in qualche modo essere fisicamente presenti, hanno inviato una testimonianza scritta. I testi raccolti in questo volume offrono memorie, contributi critici e biografici, in grado di chiarire, precisare sinteticamente diversi aspetti letterari, illuminare influenze e attestare la varietà delle relazioni umane e degli interessi culturali coltivati da Pontiggia: in tal senso, potranno risultare utili ai suoi lettori odierni e futuri. Si tratta di scritti principalmente brevi, perché, nell’affollarsi inatteso delle voci – la “grande sera” e la notte del 21 giugno 2013 – , si sono dovuti imporre dei limiti di tempo un po’ rigidi per consentire di parlare a quanti, numerosi, lo desideravano. Ringrazio Guido Duiella, della Libreria Popolare di via Tadino, che, come un “Primo Mobile”, ha dato lo spunto e la disponibilità della sua storica libreria a commemorare l’Autore, e che, vista l’affluenza di pubblico, si è assunto anche l’onere di procurare la Sala Grandi della sede della CISL, situata di fronte e presto riempita. Sono grata anche agli attori GianFelice Facchetti e Diego Bonifaccio per aver letto con generosità brani scelti delle opere di Pontiggia, permettendo così di riascoltarne pure in quell’occasione la voce di scrittore e critico. Ringrazio Andrea e Lucia Pontiggia per il sostegno di sempre; coloro che hanno potuto inviare i loro contributi per realizzare il presente volume e coloro che, serenamente tristi, sono intervenuti a quella serata memorabile, tutti testimoniando quanto Pontiggia fosse – sia – vivo in loro e con loro, con noi. Non smetto di ringraziare anche Giuseppe Pontiggia per le tante cose belle che mi ha insegnato, per essere stato il miglior compagno di strada che, chi ama la letteratura, può incontrare sul proprio cammino. 23 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Il primo corso di scrittura al teatro Verdi di Laura Bosio Nel 1985 (la fortuna a volte viene incontro) ho frequentato il primo corso di scrittura di Giuseppe Pontiggia, al Teatro Verdi di Milano. […] Pontiggia teneva alla puntualità. […] L’insegnamento, non normativo, divagante, spaziava dalla letteratura alla musica, dall’architettura al disegno, dall’osservazione di un dettaglio sulla via Pastrengo prima dell’ingresso a una notizia di cronaca apparsa su un quotidiano. Si era messi di fronte al «problema della scrittura» (già, «problema» lo definiva Pontiggia), all’uso consapevole della lingua, alla responsabilità che comporta, fino a esserne terribilmente spaventati. Sono convinta che ciascuno dei presenti, dentro di sé, sentisse il peso della lingua di legno che aveva usato fino a quel momento, credendo di parlare, di scrivere. Si era richiamati alla precisione della parola, alla chiarezza, alla nudità: ogni espressione sbilenca o assurda, ogni particella e ogni virgola inutile venivano allo scoperto, vergognandosi un po’. Un esempio tra i tanti che mi sono rimasti impressi: l’aggettivo “felice”. Un assoluto: “Sono felice”. Esiste al mondo qualcosa di più grande che essere felici? Proviamo adesso a dire, e scrivere: «Sono molto felice». Il “molto” ci dà un’illusione di accrescimento, ma in realtà, se analizziamo bene, non aggiungiamo nulla, al contrario introduciamo un criterio di quantità che relativizza: si può essere più felici, meno felici, molto o poco felici. Qualcosa di diverso dalla pienezza dell’essere felici. Se poi azzardiamo il superlativo, “felicissimo”, incappiamo in una formula di cortesia, giustamente démodé, che ci fa arretrare: «Le presento Laura Bosio». «Felicissimo». Il punto non era aderire a un dettato, a un diktat: era diventare padroni del linguaggio, e perciò in grado di valutarne le conseguenze, sulla pagina e nella vita. A ciascuno poi la libertà di osare gli impieghi più trasgressivi, azzardati, inventivi, assumendosi magari il rischio di catastrofi espressive. Le lezioni, però, erano anche passeggiate panoramiche, punteggiate di aforismi fulminei, di narrazioni esilaranti, oltre i luoghi comuni e le gabbie ideologiche. Due ore di meraviglia, nel senso etimologico di ammirazione, sorpresa, stupore, partecipazione emotiva. […] A Peppo di Maurizio Cucchi Amabile e sapiente Mi aveva sorriso aperto Mi aveva trasmesso quiete Certezza e soprattutto idea Di grande rispetto per la parola. Un esempio impeccabile che manca In questo mare d’enfasi e immondizia. Rileggo l’arte della fuga I non illustri Vorrei vederti un po’, guardare Il mondo insieme, ridere forte Come quella volta sulle montagne Russe ... Ma devo accontentarmi Di un saluto a distanza E del conforto della mia memoria. Alcuni stralci dal libro: “Le voci della Notte Bianca con Giuseppe Pontiggia” (Guido Conti Editore) L’incontro fra «Kamen’» e Giuseppe Pontiggia di Amedeo Anelli Giuseppe Pontiggia è uno dei più importanti scrittori europei per vastità d’interessi e d’esiti, per una scrittura precisa e “densa”, per la tensione fra scrivere ed intendimento etico. Con Rodolfo Quadrelli condivideva un senso ampio delle tradizioni, della tradizione. Tradizione è ciò che riguarda il futuro e non il passato pensava Quadrelli, ciò che vale la pena di tramandare. Per Pontiggia: «i classici sono i contemporanei del futuro». Della loro amicizia e stima reciproca volle scrivere nel numero 18 di «Kamen’» (giugno 2001). Nello stesso numero la pubblicazione di una sua lezione del 1986 tenuta presso la UICS, Scrivere: modi, problemi, aspetti, in una continua riflessione sulla scrittura a proposito del sistema generale della cultura. Ma ciò che ci fece un grande piacere fu l’offerta di pubblicare nella rivista la sua tesi di laurea discussa nel 1959, a Milano, con il Prof. Mario Apollonio, in Cattolica, il titolo La tecnica narrativa di Italo Svevo. Accogliemmo la proposta nei nn. 21 e 22 (gennaio 12 – giugno 2003). La tesi mostra un Pontiggia giovane, ma già sicuro dei propri mezzi e l’attenta lettura del Beach e della neo-fenomenologia della scuola banfiana. […] Lettura e libertà di Ferruccio de Bortoli […] Sono particolarmente affezionato a un libretto piccolissimo, una trentina di pagine, dedicato all’arte del leggere, Leggere (Lucini, 2004). In un periodo in cui si legge spesso di fretta, abbiamo perso la bellezza e il gusto della lettura, e quelle poche righe di Pontiggia ci restituiscono invece tutto il piacere di un’abitudine straordinaria. Leggere nel silenzio è ormai una rarità; entrare nelle pagine diventando un corpo unico con l’opera che abbiamo scelto, senza essere continuamente interrotti, è una delle avventure più entusiasmanti che ci possa essere. Questo libretto insegna a leggere con attenzione, con costanza, nel silenzio e a fare un esercizio che Peppo suggeriva, quello di leggere ad alta voce, per cementare le emozioni che la lettura suscita. Il libretto si sofferma anche sul rapporto tra lettura e libertà. Pontiggia scriveva: «Dobbiamo difendere la lettura come esperienza che non coltiva l’ideale della rapidità, ma della ricchezza, della profondità, della durata. Una lettura concentrata, amante degli indugi, dei ritorni su di sé, aperta più che alle scorciatoie, ai cambiamenti di andatura che assecondano i ritmi alterni della mente». […] 24 l’EstroVerso Notizie Letterarie “La forza di un romanzo dall'ampio teatro di rimandi letterari e cinematografici” di Lucia Tosi Che si può scrivere meglio avendo letto molto, riflettuto molto, è un dato incontrovertibile. Consente un’immaginazione più ampia, la possibilità di fornire una molteplicità di sensi alla storia narrata, rendendola densa di echi, risonanze, che, al lettore in grado di coglierli, forniscono un piacere intellettuale impagabile: cosa che non si incontra facilmente sui sentieri del romanzo contemporaneo, specie italiano, con troppi esemplari fiacchi già in termini di plot, per non parlare di lingua: in troppi casi povera, priva di suggestioni. C'entra molto il gusto, e il mio è probabilmente un po' da lettore "parigino", avrebbe detto il Berchet, mentre a me pare che la più parte abbia gusti da "ottentotto": la questione del gusto mi sembra, però, sempre più una scorciatoia con cui tagliare spazi e tempi della riflessione critica. Durante i mesi estivi ho letto molto, più del solito, autori stranieri e qualche italiano. Di Siti ho già detto, proprio qui, degli altri taccio, per lo migliore: tranne che per La resa, di Fernando Coratelli che ho trovato un libro godibile, fresco, sincero, e allo stesso tempo costruito con attenzione e con una certa cura espressiva, nonostante, o proprio per, i dialoghi fittissimi dei personaggi, la vicenda molto ancorata alla realtà, anche se immaginaria (non distopica, per carità). Ma oggi vorrei parlarvi del mio nordest, che non è un campione di cultura, di quel nordest che "tira": meglio dire che "tirava" (anche in quel senso, sì, anche in quel senso) attraverso un libro assolutamente magnifico che mi ha fatto pensare che sul fronte italiano non tutto è perduto, che può spirare aria nuova. Un uomo, tutti i giorni, da un tempo che pare immemorabile (tanto che all'inizio ti chiedi se per caso quella sarà una storia di morti, condannati a ripetere nell'aldilà, non sapendo di essere morti, quello che hanno compiuto in vita: a quel punto il libro ti ha già catturato), percorre circa dodici chilometri di ferrovia su un binario morto, per andare a riprendersi la moglie, uscita all'alba, in camicia da notte, spinta dalla reiterata, sempre identica, ossessione di andare a morire stesa sui binari, dopo una certa curva, in modo che il treno non possa evitarla: solo se sopraggiungesse, quel treno. Esce sul far del mattino, con qualunque tempo, e lui, imprenditore veneto, smaltitore di rifiuti, pazientemente, ostinatamente (dopo un po' smettiamo di chiederci, per esempio, perché Augusto, questo il nome, non blocchi la moglie all'uscita, risparmiandosi i dodici chilometri di andata e i dodici di ritorno), la segue. Si siede sui binari, si accende una sigaretta, le parla: lei non risponde, non parla più, è un automa, un fantasma bianco e docile, che vuole morire, "che aspetta che il treno venga a farle rotolare la testa giù dall'argine e nel fiume". La storia si snoda sui binari come gli ingranaggi concatenati di un treno: procede sfruttando il movimento in avanti e all'indietro, come i bracci di una vecchia locomotiva a vapore. Così Augusto ripercorre la sua vicenda personale, l'infanzia e l'adolescenza in compagnia di un fratello gemello diametralmente a lui opposto, di nome Cesare, a siglare, quasi un paradosso, un legame indissolubile nel nome altisonante CesareAugusto, di un padre fascista e una madre ipercattolica: una famiglia tipica del nordest laborioso e tanto perbene. Al contrario del fratello irregolare, Augusto si sposa con Elisa, hanno un figlio: ma le crisi di panico della moglie, unite ad altre drammatiche e meno drammatiche debolezze, condurranno ad esiti da tragedia. Come un rapsodo, ricorrendo ad espressioni formulaiche da poema omerico o da salmo biblico, con la stessa caparbietà che gli ha consentito di raggiungere un sicuro benessere, Augusto rievoca ogni giorno un mondo che si percepisce come ormai defunto: tutto quello che doveva accadere è già accaduto; ne veniamo a conoscenza tessera dopo tessera, cosicché scopriamo che niente è mai come sembra, che tutti emblematicamente hanno il loro fardello di colpe inconfessabili, tranne l'innocente Daniele, il figlio. Augusto si porta dietro una sempre più consistente nuvola "al guinzaglio", fatta dei suoi e altrui peccati da espiare. Il treno che non può passare su quel dannato binario morto si materializzerà all'improvviso sotto gli occhi del febbricitante protagonista, mentre la nuvola Novembre - Dicembre 2013 metaforica, quella specie di aquilone di pensieri sempre più cupi, si addenserà così tanto da rovesciare in terra una valanga d'acqua, provocando lo straripamento del Piave, fiume "mormorante", "calmo e placido", che da archetipo di vita, può trasformarsi in portatore di morte (oggi cadaveri di pecore, ieri cadaveri di soldati della Grande Guerra). La storia è di quelle che strappano l'anima, impietosa nello stilare il repertorio dei guasti di un'educazione cattolica, al riparo di solide convinzioni che si riveleranno via via inadeguate a garantire non solo la felicità, ma almeno la comprensione del mondo circostante, a cominciare da quello familiare. Fin qui niente di nuovo: un dramma borghese, si direbbe, affabulato alla maniera del monologo interiore, nella migliore tradizione novecentesca. Ma la forza del breve romanzo è nell'ampio teatro di rimandi letterari e cinematografici che mette a disposizione: nei riferimenti espliciti e meno espliciti a film e libri e opere (colpisce, tra le altre, in apertura, l'allusione a I quindicimila passi, di Vitaliano Trevisan, libro che chi scrive ama intensamente e approfitta per consigliarvi, ritenendone l'autore un grande della nostra letteratura contemporanea), nelle tonalità bibliche che accompagnano l'emergenza, dal fiume sotterraneo della coscienza, di fatti e associazioni mentali; la sua energia, infine, è nel miracoloso impasto immaginifico e linguistico che ne consegue. L'impianto drammatico si sposa bene con l'intento ironico alla maniera di Kafka e di Pirandello: i personaggi sono sei, l'autore è uno di loro, tutti hanno bisogno che lui ricomponga il quadro, ne faccia emergere i motivi di stridore: l'amore, l'orrore, la follia, l'incomprensibilità del vivere, lo spaesamento, lo scacco. Il libro è Cacciatori di frodo, di Alessandro Cinquegrani, edito da Miraggi, candidato al premio Strega. 25 l’EstroVerso (segue da pag. 1) Allo Specchio di un quesito Riccardo Gazzaniga Prendere il lettore, stringerlo forte e portarlo dalla prima pagina all'ultima, senza respiro. Un tuffo nel vuoto, legati a un unico paracadute. Su quelle prime critiche ho lavorato, negli anni. Ho asciugato lo stile, ho imparato a essere più essenziale, a marcare stretti i miei romanzi, senza concedere loro tregua né cedimenti. Ho scoperto che per scrivere una storia devo pensare a lei ogni giorno, come un innamorato. Fantasticare sul suo conto. Ecco la scrittura per me è questa gioia di fantasticare una storia e poi metterla sul foglio per condividerla coi miei lettori. Per anni ho scritto da solo, su questo stesso tavolo da cui scrivo per voi, temendo che quanto avevo da raccontare si sarebbe perso fra concorsi letterari sconosciuti, fogli pinzati per amici e parenti, raccolte di racconti uscite in dieci copie. Invece, grazie alla vittoria del Premio Calvino, alla pubblicazione con Einaudi Stile Libero, sono riuscito a raggiungere i lettori: le loro mail di complimenti, i messaggi entusiastici, le recensioni positive, hanno dato senso alla mia fatica e gioia alla mia vita. Ho scritto "A viso coperto" per raccontare le vite di poliziotti e ultrà, due gruppi rivali eppure non così dissimili, distanti e insieme vicini. Singole umanità schiacciate nella massa. Individui che cercano un'identità nel gruppo, ma dal gruppo stesso rischiano di essere schiacciati e perdersi. Con questo libro ho cercato di portare i lettori con me, dietro un casco da celerino e una sciarpa da ultrà. Li ho spinti a chiedersi cosa farebbero se si trovassero nella mischia con una cinghia o un manganello in mano. Fino a che punto sarebbero disposti a portare la loro fedeltà al gruppo, sino a dove spingerebbero la violenza per difendere quanto credono. La frase più bella a proposito di "A viso coperto" l'ho letta su un blog calcistico, scritta da un recensore che non ama troppo la Polizia. È una citazione di Norman Mailer e dice: "Proprio non mi va giù che un esordio di tale livello sia stato scritto da uno sbirro”. Ecco, credo che questo sia il miglior complimento che potessi ricevere. Perché l'ho ottenuto senza sforzarmi di scrivere difficile, ma solo raccontando la storia che avevo dentro. Novembre - Dicembre 2013 Vuoti a perdere “Pazienza e attesa, speranza e fede” di Alessandra Leone “Alle ventimila e più persone morte nel vano tentativo di raggiungere le nostre coste, sperando in una vita migliore. Ai volontari che in tutta Italia sono impegnati nell’assistenza di profughi e richiedenti asilo”. Questa la dedica che Francesco Maria Magnano ha scritto con un inchiostro pieno di amore nel suo Vuoti a perdere (Melino Nerella edizioni). Amal, “Speranza” in italiano, è una giovane sveglia e intelligente, nata tra il 3 e il 4 ottobre 1993, proprio nella notte della battaglia di Mogadiscio (tanto che “i combattimenti cruentissimi lungo la linea verde, striscia di separazione tra le fazioni, avevano impedito ogni tentativo di trasferimento in ospedale”). Una piccola Ulisse in gonnella, ma meno furba e scaltra dell’eroe omerico (almeno inizialmente perché la vita e le esperienze, si sa, possono cambiare parte di noi), la quale compie un viaggio impervio per la libertà e l’indipendenza, per scappare dalle ingiustizie e dalle restrizioni del suo Paese. Una Ulisse il cui fine non è tornare alla sua Itaca, città dove ha lasciato gli affetti e gli amici, ma arrivare a Lampedusa, che per la sua posizione tra le coste nordafricane e il sud d'Europa è stata ed è tutt’ora punto privilegiato d'approdo dell'immigrazione. “Prima della classe, almeno fino alla chiusura forzata delle scuole, frequentava la quinta del liceo scientifico. I miliziani delle corti islamiche scoraggiavano la frequenza scolastica femminile. Ma il papà, Abdel Ghaffar, professore di Storia allo stesso liceo, aveva messo a soqquadro l’istituzione: Amal avrebbe studiato!”. Così si legge nella quarta di copertina in cui l’autore sembra aver vissuto in prima persona il dramma del viaggio della speranza verso Lampedusa. Forse proprio perché Francesco Maria Magnano vive accanto agli immigrati, dirigendo da due anni un centro di accoglienza per coloro che richiedono asilo politico. Avrà sicuramente conosciuto molte Amal nella sua vita… “Ho lavorato con i migranti. Ne ho condiviso speranze e delusioni. Una parola mi risuona costantemente: “sciuè sciuè”, cioè “piano piano”. Assume un significato di pazienza e attesa, speranza e fede. Con l’aiuto di Dio piano piano speriamo di migliorare la nostra condizione. Se pensiamo alle nostre esistenze di agiati europei , mai la nostra crisi potrà essere nemmeno lontanamente paragonata alle carestie e alle guerre. Ci lamentiamo se non andiamo in vacanza”. Un libro forte, “che si è scritto da solo”, come ammette Magnano, a tratti crudo e crudele, in cui la protagonista è vittima di violenze e soprusi da parte dell’altro sesso, tanto che più volte ricorderà a se stessa di non doversi mai fidare degli uomini. Una ragazza profondamente libera Amal, forte, con le idee chiare, una vendicatrice del ruolo di schiavitù cui è costretta la donna nel suo Paese. La sua arma? La cultura. Quella cultura che le ha trasmesso fin da piccola il suo papà, il quale conservava tutti i suoi libri dentro un grande baule sepolto in giardino, perché, “ovviamente”, ogni libro, rivista e giornale veniva controllato a Mogadiscio (lo Stato aveva il proprio index librorum). Papà Abdel Ghaffar trasmetteva oralmente con saggezza e infinita dolcezza il suo sapere alla figlia. La cultura aiuterà parecchio Amal nella sua odissea, facendole capire molto di più rispetto ai compagni di viaggio, che appaiono ciechi rispetto a lei. La cultura salverà il mondo e cambierà la vita di Amal? Sponsorizzazioni gratuite a cura di EstroLab Notizie Letterarie Notizie Letterarie 26 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Biblioteca Birichina di Anna Baccelliere Ciao, ragazzi! Devo farvi subito una domanda. Avete mai sentito parlare della “Afford”? Ecco. Come pensavo. Non sono l’unica persona al mondo a non conoscerla! Eppure Emma, mia nipote, appena sono rientrata ieri da un frenetico pomeriggio di shopping piena di sacchetti e sacchettini, buste e contenitori vari, ha esclamato schifata e quasi in preda al panico: “Zia, ti sta prendendo la Afford!” Io, impaurita, ho cominciato a guardarmi intorno e ad urlare perché, là per là, ho pensato ad un mega insetto o qualcosa di simile di nome Afford che mi svolazzasse intorno pronto a pungermi o a mordermi. A quel punto Emma ha cominciato a ridere come una matta, mantenendosi la pancia con entrambe le mani per le troppe risate. “Ma dai!” mi ha detto “Non sai che cos’è la Afford? Anche i lattanti sanno che cosa sia.” In quel momento ha preso il suo zainetto di jeans e ha messo fuori un libro con la copertina rosa. “Educazione allo shopping”ho letto io ad alta voce “Claudia Selmi, Rizzoli editore. Che cosa c’entra con la Afford?” ho chiesto poi. “Leggilo e lo saprai!” mi ha detto lei divertita. E siccome un invito alla lettura per me non è mai una minaccia, l’ho letto d’un fiato. È un libro divertente, pieno di splendide descrizioni. Parla di una ragazzina e del suo amore per Nico, sbocciato in un centro commerciale. Proprio così, ragazzi, tra vetrine luccicanti e saldi di fine stagione. Ah! Volete sapere cosa sia la Afford? No, non ve lo dico! Se siete curiosi come me e se anche per voi un invito alla lettura non è mai una minaccia, correte in libreria a comprare il libro di Claudia Selmi. Ve lo consiglio e, come sempre, buone letture! Illustrazione di Giordana Galli 27 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Notizie Letterarie La cittadinanza planetaria del XXI Secolo di Alessio Annino Guidando l’automobile in un nodo critico della città in cui vivo, segnato da un piccolo incidente stradale e dalla costante presenza di ambulanti abusivi, uno scorcio disordinato ed anomico, improvvisamente al semaforo pedonale dell’incrocio appare un uomo sulla cinquantina, magro, dai capelli castano chiaro, probabilmente straniero, che dal suo zaino saldo sulle spalle, estrae una tromba lucente e, da un momento all’altro, tra i passanti attoniti, inizia a suonare, peraltro con molta passione, Il Silenzio; la cascata di note che si insinua tra i palazzi e le porzioni di vita quotidiana, investe in maniera surreale le strade congestionate, i pedoni ed i conducenti, ed il tutto risalta drammaticamente come una triste e degna celebrazione in note della complessità, del disordine valoriale, sociale ed educativo che in quegli istanti si materializza in quella porzione urbana in particolare, ma all’interno dei tessuti sociali più in generale. Un uomo che, armato solo della sua tromba, osserva inesorabile dall’alto della sua serenità il vorticoso circolar d’individui e il disordine, e non ha altro sentimento che dedicare le note melanconiche del celebre motivo tradizionale, con delusione e speranza mescolate nel suo stato d’animo, al centro urbano nel quale egli si trova assolutamente fuori frequenza, poiché probabilmente abituato ad altri stili e abitudini; spesso i centri urbani, o più in generale le aree densamente abitate, vengono osservate con un certo distacco e con un certo grado di comprensione che tende alla giustificazione, in quanto le loro problematiche vengono percepite e motivate unicamente come diretta causa degli stress connessi alle frenetiche attività lavorative. Nella contemporaneità, il processo formativo si configura come un meccanismo complesso, affascinante, ma nello stesso tempo estremamente delicato, soggetto potenzialmente a influenze politiche, culturali e sociali di vario genere, per cui importante è introdurre, specificare e distinguere i concetti di cittadinanza attiva, di cittadinanza democratica, partecipata, di cittadinanza solidale, planetaria e interculturale in senso pieno, e necessariamente contestualizzarli nell’attuale realtà della globalizzazione, dell’internazionalizzazione e dell’europeizzazione. La contemporaneità ci offre un panorama continuamente mutante, che include svariate e continue trasformazioni sia in ambito politico-economico, sia lavorativo sia, forse maggiormente, in ambito sociale ed etico, giacché le relazioni personali e le piattaforme valoriali sono influenzate in maniera pressoché istantanea da quanto accade in questo tempo. La conseguenza immediata di ciò è che si assiste ad una profonda revisione dei ruoli personali e professionali degli individui, delle relazioni personali tra essi stessi, e dei rapporti spesso contraddittori tra essi e l’ambiente nel quale vivono ed interagiscono, con riflessi profondi sugli stimoli alla partecipazione alla vita sociale e democratica, ed è altresì evidente come la Terra oggi sia un ambito frenetico, anche distopico a certe latitudini, facilmente conoscibile ed esplorabile alla stregua di un villaggio, e che ciascun villaggio che la compone, abbia oggi abbattuto i suoi confini ideali, non più delimitandosi ad un orizzonte vicino e, dunque, coincidendo con il globo in senso pieno. Lo stesso adombramento del senso civico si avverte in altri contesti di vita, quali quelli lavorativi, in cui la precarietà porta talvolta al sacrificio della dignità e dei diritti personali, o anche in quelli scolastici, dove la dimensione individuale e la visione egoistica della vita condizionano i rapporti umani e interpersonali, o soprattutto nel relazionarsi con l’alterità, che si incarna ancestralmente nello straniero. Queste brevi considerazioni, stanno ponendo sotto una nuova luce la trattazione del problema della cittadinanza, e, nello specifico, della ‘cittadinanza attiva’ e dei problemi dell’immigrazione, modificando ulteriormente il concetto-chiave della pedagogia: ‘la formazione’, poiché lo scopo fondamentale, oggi, è cercare di progettare un itinerario formativo fondato saldamente su una modalità antidogmatica, non etnocentrica e che, arricchita da confronto con le diversità, proceda attraverso il controllo critico e la creazione di nuovi concetti, strategie e strumenti rispondenti a bisogni della vita pratica, quali sono proprio quelli specifici di una realtà in veloce e perpetua evoluzione. Il concetto di cittadinanza, inevitabilmente, non può, e non potrà, già nell’immediato futuro, rimanere immune da questo vortice di cambiamenti continui, ed esso vede allargare sempre maggiormente il campo della propria “opera” e delle proprie competenze, che non sono più riconducibili esclusivamente al tradizionale precetto dello jus soli, in quanto la cittadinanza attiva e planetaria, oggi, è multiforme, anzi poliforme e polimorfa, e arriva a racchiudere anche la dimensione etica e quella più strettamente valoriale. Il problema sostanziale dell’educazione alla democrazia è, pertanto, aperto e consiste nel rendere i soggetti, nella fattispecie i cittadini, attivi e consapevoli, e, quindi, restituire importanza e dignità suprema alla responsabilità delle scelte personali. Pertanto, soltanto la partecipazione attiva dei cittadini a tutti gli ambiti della vita politica, sociale ed economica può veramente permettere di cancellare nelle coscienze degli uomini, prima che nelle menti intrise di pregiudizio, i particolarismi e le differenze percepite come ostacolo, come disagio, come limite alla propria realizzazione. Estratto dal corpo del testo «Le nostre relazioni interpersonali sono caratterizzate dall’incontro e dal confronto con una pluralità di identità differenti che si incrociano lungo il cammino della vita, e della formazione umana, e ciascun individuo cerca di rispondervi in forme differenti, in modo peculiare in base all’identità propria. Entrare in relazione con l’Altro, comporta inevitabilmente ed in maniera ineluttabile, l’entrare in contatto con un’altra identità, cioè con qualcuno che e appunto diverso. E attraverso questo gesto, oltre a sviluppare maggiore coscienza della propria identità, ci si arricchisce in virtù dell’alterità riconosciuta.» (p. 67) 28 l’EstroVerso Notizie Letterarie Leggodico Novembre - Dicembre 2013 (segnalazioni librarie) Dato il posto in cui ci troviamo - Racconti dal carcere di Marassi AA. VV. a cura di Claudio Bagnasco Il Canneto Editore (Collana I Manuali) Chi sono i detenuti? Nascosti alla vista e alla memoria dentro edifici invalicabili, i prigionieri sono il volto in ombra della società. Questo libro si propone di abbattere il muro del silenzio, di far uscire le voci dei detenuti con le loro storie, lo sguardo lucido e amaro, una saggezza che incuriosirà. “Dato il posto in cui ci troviamo” è, come scrive Giorgio Ricci, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Genova, “un lavoro di dimensioni ridotte ma dal contenuto intenso […] che potrà fornire spunti di riflessione agli operatori dell’area trattamentale ed emozionare il lettore comune”. Un progetto pedagogicoculturale promosso dall’associazione “La Tortuga”, presieduta da Alessandra Ferraro, che sottolinea: “La forma anonima con cui sono qui presentati i testi (a tutela dei detenuti) dimostra proprio questo: sono importanti le storie, le vite, non i nomi”. Un libro curato dalla penna, abile, essenziale e sensibile dello scrittore Claudio Bagnasco, il quale, in una bellissima introduzione racconta Come nasce, concludendo con la considerazione “minima” che riportiamo: “L’essere umano è per propria natura fallace. La giustizia è codificata, amministrata, rispettata e violata dalla persone. Chi delinque, insomma, rimane persona tra le persone. Da ciò, una mia speranza: che chiunque delinque possa comprendere che delinquere è un modo scorretto di far parte della comunità; e che chiunque non delinque possa comprendere che ogni persona deve essere messa (o rimessa) nella condizione di adottare per sé, e di auspicare per tutti gli altri, un modo corretto di far parte della comunità”. Racconti densissimi, (“non c’è stato alcun intervento di correzione dei testi”), scritti quasi come una sorta di confessione liberatoria, popolano pagine accoglienti, senza sbarre. “Ci sono regole in carcere non scritte, la principale è quella del rispetto e naturalmente educazione verso gli altri compagni, ti devi saper comportare, anche un saluto o un gesto sbagliato puo succedere qualsiasi cosa, perché in questi luoghi lo stress è fortissimo. […] Poi cè ne una fondamentale, essere sincero e leale con i compagni avanti senza problemi è con molto rispetto”, da Non esiste al mondo una cosa più bella della libertà. Roma dall'alto. Forme della città nella storia di AA.VV. Edizioni Jaca Book (Collana Patrimonio artistico italiano) Il volume vede impegnati i maggiori esperti di storia dell’arte di Roma, secondo i periodi dall’antichità alla contemporaneità. La fotografia da elicottero permette la visione "a volo d’uccello", che ben ci ricorda il "vedutismo" del ’600 e del ’700. Si ha così la possibilità di cogliere singoli edifici, complessi monumentali o relazioni tra costruzioni con una plasticità nuova, che spesso permette una lettura più sintetica delle opere e una coscienza topografica. La Roma antica e quella del ’600 e ’700, con la sua forte teatralità, hanno in comune una viva evidenza, basti pensare da un lato ai vari fori, al Pantheon, al Colosseo o alle mura e dall’altro alle piazze e alle opere di Bernini e Borromini. Altre emergenze si prestano a una lettura molto interessante e affascinante, come le basiliche e le chiese paleocristiane o i capolavori del Rinascimento a partire dal Campidoglio, per poi sorvolare le ville e i famosi giardini, che dal basso non possono mai essere colti in un "colpo d’occhio". Anche il Medioevo darà delle sorprese, e la contemporaneità, con la Roma dell’eur che pare uscire da una pittura metafisica. Il volume costituisce uno strumento di supporto alla storia dell’arte di grande interesse, oltre che un’opera di estrema piacevolezza. È uno strumento perciò innovativo per gli studiosi e anche per gli amatori, e propone una serie inedita di visioni di Roma. “Gli autori coinvolti - si legge nell’editoriale -, tra specialisti più accreditati dei singoli aspetti, hanno tentato una sintesi fortemente interpretativa delle forme assunte della città nei diversi periodi, e di conseguenza selezionato un ristretto numero di monumenti particolarmente rappresentativi. Su tale traccia ha lavorato il team dello studio BAMS photo Rodella di Montichiari per realizzare le riprese fotografiche, che quindi si sono sviluppate in stretto e proficuo dialogo reciproco. L’opera non ha la pretesa di esaurire una materia di fatto “inesauribile”, sia per lo svilupparsi degli studi sia per l’incalzare delle scoperte archeologiche (di età classica e postclassica), ma l’esperienza degli autori e dell’abilità dei fotografi ha consentito di approntare un “atlante” - teoricamente in fieri - di prese di vista nuove e talvolta inedite, fondamentali per la comprensione della storia urbana della città, nella trasformazione del tessuto viario e nella “crescita” del patrimonio monumentale”. Joyicity - Joyce con McLuhan e Lacan di Gabriele Frasca Edizioni d’if (Collana: i miosotìs – i saggi del cuore n. 2) Che cosa ha intravisto James Joyce di perverso e minaccioso nel sistema letterario? Qualcosa vi avrà ben scorto di pericoloso, se lo indusse a sottoporre le sue opere alla spettacolare torsione che le avrebbe sottratte alla letteratura, e ai suoi riti. È innegabile che le date dei suoi capolavori, il 1914 dell’inizio della stesura dello Ulysses e il 1939 della pubblicazione del Finnegans Wake, inquadrino con sconcertante tempismo gli anni più roventi del trauma novecentesco. Così come appare evidente che gli autori che si sono confrontati con la sua opera, in una curva sinusoidale che da Beckett giunge fino a Pynchon (e comprende fra gli altri il Gadda del Pasticciaccio e il Nabokov di Lolita), abbiano tutti proseguito una riflessione sull’immaginario e sui suoi effetti persino più devastanti della guerra. Eppure colpisce la circostanza che, a fronte della grande attenzione critica che continua a destare (ma non in Italia) l’opera di Joyce, si sia poco studiata la sua incidenza sullo sviluppo di due dei più significativi e influenti nuclei di pensiero del secondo Novecento. Le penetranti riflessioni sui media di Marshall McLuhan e l’imponente rifondazione della psicanalisi di Jacques Lacan − dagli anni Cinquanta al 1981 per entrambi − affondano le loro radici nel magistero joyciano e nella questione sull’immaginario. Questo saggio, inseguendo la parabola con cui la joyicity fuoriesce dal sistema letterario, e indagando sulle conseguenze dell’opera di Joyce sulle ricerche di McLuhan e Lacan, viene dunque a colmare una vistosa lacuna tipologicoculturale, e a rilanciare con forza in Italia, nel momento in cui si assiste a una fioritura di nuove traduzioni dello Ulysses, l’opera del più grande artefice del Novecento. “Un saggio del cuore è innanzi tutto il resoconto di un viaggio sentimentale attraverso un’opera che continua a palpitare le sue questioni. […] Un saggio del cuore è allora innanzi tutto un’ecografia, che fa corpo con l’opera quanto più la disegna coi suoi stessi suoni, ed è dunque opera a sua volta, di rimando, di richiamo, in minore. Operetta critica, insomma, ma di una critica appassionata […]”. 29 l’EstroVerso Notizie Letterarie La Recensione Novembre - Dicembre 2013 di Sandro De Fazi Liberalismo senza teoria Gli spiriti liberi non possono che rallegrarsi di fronte alla molteplicità di spunti di ricerca offerti in questo saggio di Corrado Ocone dal titolo Liberalismo senza teoria (Rubbettino, 2013), dove già nella premessa si parla di «dubbio, spirito critico, anticonformismo, antidogmatismo, pluralismo, antiperfezionismo, antipaternalismo» contro la vulgata trionfante. Il nuovo paradigma “non teorico” qui proposto è la discussione del liberalismo e della scienza politica «sul terreno della filosofia». La ricerca (sképsis) è stata sempre vista con sospetto, e perciò riformulata dai grandi demistificatori che sono stati Nietzsche, Marx (Hegel-Marx) e Freud. E non è il dubbio stesso un modo per definirla etimologicamente, la parola greca significando allo stesso tempo riflessione, indagine e dubbio? Su base decostruttivistica, prendendo a esempio di metodo la genealogia della morale di Nietzsche, in termini di smascheramento dei valori dominanti Ocone ripercorre dunque la storia del liberalismo facendone una controstoria senza formalizzare la dialettica. In realtà non c’è nulla da smascherare. Non esiste che il gioco delle maschere, assumibili nell’alternanza di ápeiron e métron, illimitato/immensurabile e (possibilità della) misura, nell’eterno ritorno dell’identico. Nella prassi è difficile equilibrare i tre poteri (giudiziario, legislativo e esecutivo) senza cedere al fatalismo naturalistico: «per chi detiene il potere è impossibile non abusarne, - avverte Ocone nel suo richiamo a Montesquieu – se questo potere si presenta come smisurato o addirittura illimitato». Le derive totalitarie di Rousseau furono peggiori dello stesso assolutismo. La distinzione kantiana tra senso e intelletto tanto dispiacque a Carlo Antoni che arrivò a svolgere una critica alla raison settecentesca comprendendo il problema estetico nella totalità del problema filosofico. Il limite di Kant, che pure ebbe il merito di cogliere l’inadeguatezza del principio di contraddizione di fronte all’imporsi della realtà, fu secondo Antoni non aver curato di approfondire in senso storicistico la sintesi a priori. Viceversa, nella terza critica kantiana il giudizio riflettente (l’intuizione nella sua individualità concreta) è già una prima forma di giudizio storico, aperto all’universo vivente e alla libertà umana. Antoni fu peraltro critico di Hegel e nella fattispecie dello stato nazionale e vide nel nazismo l’estrema conclusione del romanticismo. Ma il vero punto di partenza dal quale muove Ocone è il mirabile Contributo alla critica di me stesso di Benedetto Croce. Lì il filosofo napoletano afferma che «la perfezione di un filosofare sta (per quel che mi vuol parere) nell’aver superato la forma provvisoria dell’astratta “teoria”, e nel pensare la filosofia dei fatti particolari, narrando la storia, la storia pensata». Non confessione di poeta dunque ma storia - non senza polemica - della propria vocazione nonché apologia o giustificazione dell’opera, dramma mentale ripercorso in modo retrospettivo e autocritico. I rapporti tra Luigi Einaudi e Croce - da entrambi derivano le due linee del liberalismo classico - sono esaminati alla luce della loro conflittualità hegelianamente vitale. Croce aveva colto l’importanza di Marx laddove il marxismo restava per Einaudi uno statico determinismo privo di conflitto e di dialettica tant’è vero che in Contributo alla critica di me stesso ricorda di avere nel ’95 iniziato i suoi studi, attraverso Labriola, dell’economia («che nel marxismo facevano tutt’uno con la concezione della realtà ossia con la filosofia») e tratto da quel momento speranze di palingenesi e di redenzione da e nel lavoro. Ma presto se ne distanziò e prese a frequentare Gentile, a lui accomunato da affinità pratiche e interessi filologici, collaborando con lui. Dall’asistematicità di Hannah Arendt, critica del liberalismo, filosofa antidogmatica e antiautoritaria, apolide del pensiero, proviene che lo stesso liberalismo non è assimilabile ideologicamente al liberalismo sistematico. Parliamo allora di «individuo plurale», compiendo un passaggio dalla “teoria politica” all’antropologia filosofica, presupposto dell’agire come essere-nel-mondo. Anche da questo punto di vista, Liberalismo senza teoria di Corrado Ocone è un’apertura e non chiusura nei confronti dell’alterità, dal momento che la pluralità delle potenzialità è inesauribile e la sospensione del principio di realtà e dell’io sono condizioni per esplorare l’alterità segreta (non secondo la tonalità esaltata delle maschere dell’ultimo Nietzsche a Torino, quanto piuttosto nella direzione di ancora altri inattuali come Klossowski e Bataille). Parola d’Autore Notizie Letterarie 30 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 “Lo scrittore deve essere osservatore consapevole di ciò che lo circonda” di Paolo Agrati È la distanza, il tema. La distanza intesa come spazio tra noi e il resto delle cose. Una distanza che ci definisce, che ci chiama per nome, che ci dice chi siamo. A volte con confini sbiaditi, fumosi, inafferrabili. Ho scritto “Nessuno ripara la rotta” costruendo un percorso di parole e poesie come se fosse un viaggio, camminando per strade che sono diventate capitoli, incontrando luoghi, persone, cose. Un viaggio dove non c’è nulla di riparabile, non c’è nemmeno un luogo dove trovare conforto, riparo. Perché ogni azione, ogni accadimento è parte di un percorso consapevole di essere composto da costruzione e da distruzione. Le macerie, le rotture, i rimpianti. Ogni cosa è parte integrante della strada che porta ciascuno ad essere ciò che è. Ogni cosa è preziosa per dirci chi siamo. È costituzione e sviluppo della rotta intrapresa. Non è un caso dunque che questo libro offra una soluzione di continuità con la mia prima raccolta poetica: “Quando l’estate crepa” che proponeva anch’essa seppur con un differente registro stilistico, il tema della rottura; della morte di un amore. Ma nonostante le distanze, le spaccature con tutto ciò che la circonda, la mia poesia tende a tessere una cucitura, a ricostituire gli strappi con l’esterno, a proporsi nuda, senza vergogne o freni. Questo attraverso una particolare attenzione per l’oralità, per la lettura pubblica. Ci sono poesie che vanno lette in solitudine, gustate in silenzio, piante, consumate con gesti intimi, personali. Ce ne sono altre che vibrano, fremono tramite l’eco della lettura condivisa; perché propongono temi provocatori, perché sfruttano l’intonazione, si impreziosiscono con la voce, la musicalità, la coralità. Perché si appoggiano a linguaggi più comuni come per esempio l’ironia; rinunciano ad alcune formalità sia tematiche che stilistiche a favore dell’immediatezza. Un’immediatezza che spesso viene confusa, interpretata come carenza; come se l’accessibilità di un testo sia da considerare una forma di povertà. È su questi binari dunque che sono alla ricerca di una strada espressiva, sperimentando il linguaggio nella piazza, nel tentativo di ricucire un rapporto pubblico che ha sempre contraddistinto la poesia prima che diventasse affare per pochi. Associando la parola spettacolo alla parola lettura, con la ferma intenzione di non trasformare questo abbinamento in una sonora bestemmia. D’altronde il freno maggiore che si incontra nel modo di fare poesia al giorno d’oggi è proprio l’incapacità di chi scrive o legge in pubblico, di riuscire a rivolgersi all’esterno, al fuori. Di non essere in grado di aprire una finestra, creare un canale, una condivisione emotiva. E questa contraddizione in termini non permette al poeta di essere testimone di una modernità che fonda le sue radici principalmente nella comunicazione, nello scambio; seppure spesso miserabile, frenetico, di bassa qualità. Questa penso sia una sfida che uno scrittore debba porsi oggi ma che in realtà si è sempre posto; essere osservatore consapevole di ciò che lo circonda, riuscire a individuare un dire comune e trasformarlo in un coro nel cui eco si ritrovano accordate una e più voci. Non lasciare ad altri questo compito, permettendo che il coro sia miserabile, frenetico, di bassa qualità. Notizie Letterarie 31 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 di Eliza Macadan La più difficile missione. Ma è possibile, con difficoltà, parlare di ciò che scrivo, parlare della mia scrittura. Sono una giornalista che ha disertato la professione, in qualche modo, poiché da quasi 5 anni non svolgo questo lavoro regolarmente. Ma prima del giornalismo c’è stata la poesia. Campi incompatibili nel breviario dei mestieri. Ed è così. Spero di non tradire le aspettative dei lettori de l’EstroVerso dicendo subito che non elencherò qui le mie letture, gli autori che mi hanno formata, o parlando di quanto o come un tal libro mi abbia cambiata o di quanto è essenziale avere maestri di grande tenuta intellettuale e spirituale. Ho debuttato intorno ai vent’anni, anche se scrivevo più o meno dai sedici: intendo dire scrivere in questo modo, in modo cosciente. Provengo da ciò che comunemente chiamiamo “cultura marginale”, avendo una lingua marginale: questo incide fortemente sulle scelte che si fanno. Più che incidere, limita queste scelte. Per fortuna mi sono dotata di destrezza nell’apprendere le lingue straniere - nel corso degli anni ho parlato russo, francese e italiano. L’italiano è stata una scelta di maturità, del tutto consapevole, presa da una specie d’amore per questa lingua e per quello che rappresenta. Il mio approdo italiano è stato come un ritorno a casa. La professione mi aveva portata a vivere in Italia, anche se non ero costretta ma avrei potuto astenermi dallo scrivere versi. Invece ho scelto di mettermi alla prova e di andare incontro a un nuovo debutto poetico, in lingua italiana. Gli anni ’90 stavano finendo. Ed è andata bene. Vari concorsi e premi mi hanno confermato quanto cercavo di capire: se la mia poesia potesse venir compresa, nella sua essenza, anche in lingua italiana. Quindi il debutto in volume nel 2001 e poi una lunga pausa per mettere ordine nella mia vita, per fare delle scelte o, per meglio dire, valutare una scelta fra i sì e i no. Nel 2012 è uscito con la Joker un volume dal titolo Paradiso riassunto e quest’anno è stata la volta de Il cane borghese con La Vita Felice. Tra i due volumi c’è, però, una lunga distanza in materia di evoluzione della scrittura. Io non la so spiegare nei modi tipici della critica letteraria, ma la sento. Sento che qua il “messaggio” osa molto di più, è più esplicito, pur rimanendo dentro un universo linguistico ed emozionale che ritengo mio. Di questi tempi, mi riferisco agli ultimi trent’anni, la poesia ha voluto ad ogni costo andare in un’altra direzione. Ed è riuscita a farlo. Ma senza che se ne accorgesse, il pubblico è rimasto da un’altra parte, per scelta degli autori oppure per la comune incapacità di proseguire insieme. Le tante e varie teorie sulla poetica rimangono nelle aule delle università, nei laboratori, e negli archivi. Quello che la critica propone e convalida in un determinato momento temporale – e qui mi riferisco anche alla critica di servizio – si dimostra valido e circoscritto in un ambiente quasi artificiale, dove il pubblico manca, a cui si affianca un secondo ambiente, per lo più frequentato da snob di molteplici, e numericamente rilevanti, nature. Quasi sempre mi rifiuto di parlarne perché so che questi temi e pensieri sono mal visti dalla stragrande maggioranza. Ho esitato anche questa volta. Credo di essere venuta al mondo inquieta, strillando e protestando. Credo che questo stato d’animo e di mente non sia passato mai. In qualche modo, quello che scrivo è una sorta di protesta. Contro tutto. A volte questa protesta cambia tono, fatica a tenere alta la tensione, e allora qualcosa cambia anche nei versi. Oppure cambia il frammento di realtà che prendo di mira – o che mi prende di mira. Quando scrivo, non sono io a scegliere il momento. Il momento si impone da sé, mi ordina di scrivere. Io devo trovare o inventare soltanto le parole per sorprendere quello che il momento mi fa vedere o sentire. Scrivo spesso come se mi dettassero, in una sorta di trance, come se fossi preda della mano che scrive. Come se fossi un filo tra il qui e l’altrove. Per sdrammatizzare un po’, potrei dire che faccio parte di una seduta spiritica dove resto sola con i testi sul tavolo. Poi, però, ci si rende conto che qua e là si deve intervenire, aggiustare e soprattutto togliere, tagliare, lasciare lo stretto necessario. Ai tempi del cuneiforme elettronico non possiamo permetterci di scrivere intere lenzuola di segni dove cercare il senso per arrivare ad ogni costo a un messaggio. Nella società odierna si vuole tutto e subito. Il poeta non può sottrarsi a questa realtà. Di questi tempi, credo che il “messaggio” (credo, lo si è capito, all’arte e dunque alla poesia comunicativa) debba essere forte, chiaro, di impatto, memorabile, scuotente e perciò breve. Non so per quanto ancora potrò scrivere. Spero per molto. Quando non scrivo, sono in preda all’angoscia. Quando scrivo, sono in preda all’ansia. Siamo tutti, alcuni di più e alcuni di meno, esseri incompiuti. Ed è questa incompiutezza che ci spinge a divenire. Divenire umani nella misura che ci è stata permessa. Non vorrei lasciarmi sfuggire un dettaglio – non leggo molti libri di poesia. Non leggo indistintamente. Non leggo in maniera compulsiva. Mi lascio guidare dai miei sensi, vado verso quei testi che, in qualche modo, sento un po’ anche miei, familiari, affini alle mie idee, al mio modo di stare nel mondo. Questo modo di essere lo si apprende in giovane età, nell’infanzia e nella prima adolescenza. Noi, quelli di oggi, siamo quelli di prima in aggiunta al vissuto precedente. In questo vissuto entra, indubbiamente, una mole di letture e di sapienza. Ma importantissimi sono anche i vuoti rimasti. È da lì che scoviamo bellezze indicibili. Quello che mi sta più a cuore è che la mia poesia arrivi alla gente, a più persone possibile. Mi fa felice pensare a ciascun lettore che abbia aperto il libro e abbia letto il testo dalla tal pagina a un’altra. Non importa che il libro sia acquistato. Mi basta che la gente passi davanti allo stand di una fiera o allo scaffale di una libreria, e che dia un’occhiata. Io adoro offrire i miei libri. Mi capita spesso di comprarli per regalarli. È una gioia. È semplicemente la naturale condizione della poesia. E dunque a che vale l’accanimento del vendere? Si dovrebbe istituire una tassa per offrire libri di poesia. Chi scrive poesia sa che non guadagnerà mai un soldo per sopravvivere. Così è stato e così sarà. Parola d’autore. Parola d’Autore “Quando scrivo, non sono io a scegliere il momento… Si impone da sé, mi ordina di scrivere” 32 l’EstroVerso Notizie Letterarie Novembre - Dicembre 2013 di Liliana Zinetti Fin da bambina i libri sono stati miei fedeli compagni. Una lettrice onnivora e disordinata, dai fumetti a Dostoevskij che da ragazzina leggevo affascinata (ancora oggi è il mio scrittore preferito) senza peraltro coglierne la complessità. Qualcosa in questo scrittore mi chiamava, mi corrispondeva a livello del tutto inconscio; capì molto più tardi che la sua complessa scrittura mi attraeva per la capacità di cogliere i moti dell’animo umano, per l’incessante antitesi tra bene e male, tra terreno e soprannaturale. La scrittura in versi venne molto più tardi quando scoprì che era un linguaggio a me congeniale, che nella sintesi della parola poetica si poneva più chiara l’immagine del mondo, dei sentimenti. Così l’inquietudine che sempre mi ha accompagnato trovava finalmente un linguaggio possibile. Se fu una fortuna o una maledizione ancora oggi non so dirlo. Se è vero che il momento della scrittura ha in sé un fascino irrinunciabile e se è vero che l’acquisizione anche solo di una parola, di un verso esatto è cielo che s’inazzurra, è vita che afferri, è altresì vero che è un gesto che scortica, che ti pone di fronte a luoghi oscuri, lontani. Come se quel verso ti decifrasse, svelasse qualcosa di te riposto sul fondo e tu lo accettassi come un destino, come una premonizione. Non ho la presunzione di dirmi poeta, è una parola da usare con cautela, è noto; sono una che scrive e non può farne a meno. Pur se la mia musa non è particolarmente attiva, è incostante e capricciosa, tanto da attribuirle la qualifica ben meritata di musona, quando finalmente arriva è perentoria. Così inutile, così necessaria in una società il cui nerbo è l’utilitarismo, la poesia è uno spazio dove si recupera l’autenticità e la bellezza, lontani seppure coscienti della follia del mondo. Mi piace leggere poesia, non sono contraria all’oscurità in poesia, al travestimento, agli spostamenti; ho le mie idiosincrasie e le mie preferenze come ognuno, credo, ma quel che più cerco (nella poesia come nella vita) sono la verità, la sincerità. Che ovviamente non debbono prescindere dalla forma, dal ritmo, indispensabili. Così si può dire della plaquette che uscirà a breve per le edizioni CFR di G. Lucini, Minime da una fine, con la collaborazione di Viviana Nicodemo, artista visiva. Parole e fotografie che si incontrano e raccontano una storia. La storia di una fine, che può anche essere la storia di altri, storia di oggi dove il fallimento della famiglia tradizionale, piccola ma importante cellula del sistema-mondo, erode le basi dell’evoluzione, disgrega e fa implodere quel che resta di umano. Così poesia diventa r/esistenza, non un surrogato della vita reale, non cieca fede nella parola risolutiva, ma testimonianza e speranza. E bellezza. Parola d’Autore “Nella sintesi della parola poetica si pone più chiara l’immagine del mondo, dei sentimenti” Notizie Letterarie quarup "Corpi estratti dalle macerie" 33 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 (segue da pag. 1) Antonia Pozzi di Davide Spampinato Flaubert negli anni della sua formazione letteraria In un residence a poche centinaia di metri dal fiume Ural, Ivan e Martha, amanti in crisi, bloccati da un’incessante bufera all’interno della stessa stanza, sono costretti al ruolo di prigionieri l’uno dell’altra. La tempesta di neve dilata i tempi dell’incontro (scontro) tra i due in vista della risoluzione finale che rovescia – con espedienti da tragedia greca – ogni certezza acquisita. di Andrea Cirolla L’opera di Franco Calandrini si caratterizza per lo spiccato andamento dialogico, più serrato e stringente nella parte conclusiva del racconto. Il numero – ridotto all’essenziale – di personaggi sulla scena, uno stile espressivo monocorde, a suo modo realistico, l’ambiente bloccato nell’hic et nunc, sembrano guardare da vicino alle unità aristoteliche, svincolando quasi l’operetta dall’ambito della narrativa e accostandola sorprendentemente a quello della drammaturgia. Il tema della morte, evocato allusivamente dal titolo, è piuttosto un pretesto per imbandire una disadorna “camera della tortura”: da qui si arriva alla verità per spoliazione, scarnificando la coscienza da ogni certezza borghese. Non privo di suggestioni pirandelliane, il racconto si avvicina, a tratti, alla lezione di A porte chiuse di J. P. Sartre (l’inferno è l’altro). La pagina di Calandrini – che pure registra imprecisioni nella marcatura dei dialoghi e in certe depressioni di stile, spesso troppo concessivo nei confronti dell’oralità – segna un buon passo in avanti rispetto a È colpa di chi muore. Nella sua – ricercata – rudezza rimane una lettura che consigliamo per il modo in cui sa rovesciare posizioni e prospettive. Il fatto d’essere un’edizione critica la colloca banalmente sotto la lente degli studiosi, ma non ve la relega, e nemmeno le toglie godibilità, anzi la arricchisce con garbo, nell’evidenza d’essere – mutuando il giudizio di Banfi sulla tesi della sua allieva – un’opera di «comprensione intelligente e viva», ma soprattutto «di amore». È l’amore esplicito che nutre Matteo Mario Vecchio quand’è alle prese col suo oggetto di studio e dei suoi studi in genere, indirizzati spesso verso il pensiero (e il pensiero poetante) di un Novecento italiano e femminile (oltre alla Pozzi si possono citare almeno Daria Menicanti, un’altra “banfiana”, e Cristina Campo). Giancarlo Vigorelli tra i primi notava, su TuttoLibri-La Stampa del 18 febbraio del 1989, quanto fosse opportuno riproporre al pubblico il lavoro critico di Antonia Pozzi e pure quello, per molti versi analogo, di Guido Morselli su Proust, uscito tre anni più tardi. Anche Morselli era presentato da Antonio Banfi, e anche lui era del resto passato per il magistero del professore vimercatese. Rimanendo sul solo Flaubert si noterà l’occasione, che esso rappresenta, di entrare ancora una volta in quello spaccato così suggestivo e ormai consegnato alla storia, in quella officina creativa («etica», scrive Vecchio) e feconda su piani tanto diversi quanto relazionali, quella «scuola di Milano», come recita la fortunata formula di Fulvio Papi, che tenne a battesimo tutta una generazione trovatasi poi a vario titolo (nelle accademie, nell’editoria, nel dibattito letterario) protagonista della stagione culturale del Dopoguerra. Si parla di Enzo Paci, Remo Cantoni, Vittorio Sereni, Alberto Mondadori, e appunto Antonia Pozzi (suicida nel ’42), per stare solo alla bella foto di gruppo, scattata a Pasturo nella tarda primavera del ’35 e riprodotta nel volume meritoriamente edito da Ananke. In linea con le tendenze della scuola banfiana è la piega interpretativa che Antonia Pozzi adotta leggendo, con iniziativa senz’altro pionieristica, le prime prove letterarie di Flaubert. La poetessa punta dritta al dualismo Geist-Leben: quella, classica, del manniano (suo amato) Tonio Kröger, su cui non mancava di scherzare, firmandosi spesso “Tonia” Kröger, come se l’omonimia confermasse un’intima affinità elettiva. In una pagina del suo diario si legge: «Il contrasto fra geist e leben non va inteso nel senso che l’artista è colui che non arriva alla vita, ma colui che va oltre la vita. Infatti, come potrebbe comprendere, veder chiaro, riflettere su ciò che non ha vissuto? Io vorrei dire questo, in ogni modo: che la luminosa vita di Hans e di Inge può essere materia all’arte di T. K. solo in quanto egli vive dolorosamente il distacco da essa e la vede attraverso il suo rimpianto». E ancora, in una lettera scritta nello stesso periodo della foto di Pasturo: «Mi sento più che mai Tonia Kröger, come mi chiamava il povero Manzi (suicida prima di lei, NdA), come ci siamo sentiti – insieme – quella sera da Alberto». Anche nel lavoro su Flaubert, ed è quanto concerne l’interesse più puramente filosofico, ovvero tralasciate le pur importanti questioni di critica letteraria, è centrato il problema della vita dentro, prima e oltre il problema dell’opera. Sono gli anni del nascente esistenzialismo positivo, figlio diretto, anche nel conflitto, del razionalismo critico banfiano. Scrive Antonia Pozzi: «la stesura di una pagina non implica soltanto la soluzione di un problema letterario, ma rappresenta la risoluzione vivente di un problema di vita». Ma le righe conclusive della tesi di laurea sono le più perspicue: «Nessuno di noi vorrebbe, potrebbe, credo, ripetere la frase che era per lui [Flaubert] la risoluzione suprema dell’esistenza: “L’Arte è abbastanza vasta per occupare tutto un uomo”. L’uomo, oggi, anche l’uomo artista, vuole, deve vivere tutta la vita, se vuole che la sua arte sbocchi finalmente su di una via concreta e feconda, né muoia nelle angustie dell’impotenza individuale». *Una versione sintetica di questo pezzo è uscita sulla Rivista di Storia della Filosofia 34 l’EstroVerso Rimirando Novembre - Dicembre 2013 Intervista al poeta Gian Maria Annovi “La poesia non sta tanto nel viaggio quanto nello spostamento che può anche essere tellurico” di Luigi Carotenuto Gian Maria Annovi (Reggio Emilia, 1978) vive a Los Angeles, dove insegna letteratura italiana presso la USC - University of Southern California. Laureato in filosofia, ha conseguito un dottorato di ricerca in italianistica presso l’Università di Bologna e un Ph.D. in Italian Studies alla Columbia University. Ha esordito con Denkmal (l’Obliquo, 1998), seguito da Terza persona cortese (d’if, 2007), Self-eaters (CRM, 2007, finalista al Premio Antonio Delfini), Kamikaze e altre persone (con prefazione di Antonella Anedda, Transeuropa, 2010, finalista al Premio Lorenzo Montano), Italics (Aragno, 2013). La scolta è ora in uscita per le edizioni nottetempo. Le sue poesie sono state tradotte in inglese e spagnolo e incluse, tra le altre, nelle antologie L’opera comune (Atelier, 2001), Parco Poesia (Guaraldi, 2003), Nodo sottile 4 (Crocetti, 2004), Poesie dell’inizio del mondo (Derive e Approdi, 2007), Calpestare l’oblio (Cattedrale, 2010), Poeti italiani in America (In forma di parole, 2011), Poeti degli anni Zero (Ponte Sisto, 2012). Nel 2006 ha vinto il Premio Mazzacurati-Russo per l’opera inedita. Ha tradotto diversi poeti nordamericani e scrive per Alias-il Manifesto. Il suo sito è www.gianmariaannovi.com Parliamo innanzitutto del tuo rapporto con la lingua, orale e scritta. Vista la molteplice attività (poeta, saggista, traduttore, pubblicista, docente di letteratura) come vivi l'andirivieni tra due lingue (italiano e l’inglese)? Quando si vive in un contesto alloglotto per molto tempo (io abito negli Stati Uniti dal 2005), è normale che la lingua madre, sia parlata che scritta, subisca un lieve processo di sclerosi, d’irrigidimento. A volte, mentre si scrive, l’italiano ricalca la struttura dell’inglese o viceversa. Ma sono cose quasi impercettibili. La mia è però una situazione particolare, vista la mia professione. Sono un italianista e l’italiano fa dunque parte del mio lavoro. Da un certo punto di vista l’obbligo di lavorare anche nella mia lingua crea una sorta di schizofrenia. Il cervello rifiuta di adattarsi interamente all’inglese. A volte è un po’ come parlare con due voci differenti, essere due persone. Ci sono intercalari inglesi, ad esempio, che non userei mai in italiano, anche se poi qualcosa penetra, s’insinua negli interstizi tra le due lingue. Questo però non vale per la poesia, dove la soglia del controllo linguistico è talmente alta da non permettere smottamenti involontari. Come ti appare il panorama poetico italiano e americano, quali, se ci sono, le comunanze, quali, le divergenze. Un vero confronto non credo che sia possibile. Se la situazione della poesia italiana è molto complessa e articolata, parlo ovviamente della situazione delle poetiche, negli Stati Uniti la complessità raggiunge livelli notevolmente superiori, per via non solo delle dimensioni del paese, ma della eterogeneità culturale e razziale che lo caratterizza. Dubito che in molti leggano in Italia la poesia chicana o ispanoamericana. Anche per questo, mi fa sempre sorridere la foga con cui qualcuno presenta in Italia determinate tendenze e autori della poesia americana (sempre bianca e middle class, s’intende) con la convinzione che siano i più importanti o innovativi del momento. Se c’è qualcosa che i poeti italiani dovrebbero imparare dai colleghi americani è a non auto-colonizzarsi in questo modo, a smetterla di importare acriticamente poetiche e modalità spesso nate in contesti assolutamente differenti, dando per scontato che quanto c’è di buono e nuovo debba necessariamente venire dall’esterno: quella che andrebbe coltivata è la differenza italiana. Chi legge all’estero un poeta italiano vuole scoprire uno sguardo diverso dal proprio. Anche negli Stati Uniti, come in Italia, la poesia occupa comunque un ruolo marginale, ma è un grado di marginalità mitigato dalle innumerevoli opportunità che vengono offerte ai poeti, che in molte occasioni partecipano anche alla vita pubblica del paese. Non parlo solo delle occasioni di lettura, ma - ad esempio - delle tante residenze per scrittori, dove si può essere ospitati gratuitamente e si può’ scrivere (senza internet!) e confrontarsi con altri scrittori e artisti. Penso alle borse e ai fondi che associazioni private ed enti pubblici assegnano (anche se meno di un tempo) ai poeti, con selezioni durissime. E poi c’è la questione dei programmi di scrittura universitari, che in Italia fanno venire l’orticaria a tutti, come se negli Stati Uniti fossero tutti tanto zotici da pensare che basti un titolo di studio per essere uno scrittore. Non si pensa invece che proprio questi corsi e il sistema universitario permettono a tantissimi poeti e scrittori - anche molto famosi - di insegnare e vivere decorosamente, continuando a pubblicare, e formando non generazioni di scrittori, ma di lettori, di amanti della poesia. In Italia se sei un poeta e lavori all’università sei guardato male, mentre negli US le università fanno a gare ad avere scrittori nel loro corpo docente perché la loro presenta aumenta la fama e il prestigio del dipartimento. Quando penso che l’Università di Bologna ha appena affidato un corso di scrittura creativa a Daria Bignardi, capisco a cosa hanno portato tutti questi anni di snobismo: al nulla assoluto propinato come farmaco. Da dove è nato lo spunto per il tuo nuovo libro, “La scolta”? Paradossalmente, l’idea per questa serie così italiana, perché incentrata sulle figure di una badante e dell’anziana che assiste, è nata qui a Los Angeles, nel 2009, ascoltando una conversazione tra due signore che mescolavano in maniera molto interessante spagnolo e inglese. La disarticolazione delle frasi e delle parole mi è apparsa come una lingua assolutamente fresca, nuova e per questo poetica. Ho deciso allora di provare a inventarmi una lingua che assomigliasse - aggirando l’imitazione - a quella di una di queste giovani donne che vengono dall’Est ed entrano nelle famiglie italiane, per poi sparire per sempre alla morte delle persone che accudiscono. Il titolo della serie, infatti, prende spunto da una traduzione un po’ antiquata dell’Orestea di Eschilo, che inizia con il monologo di una guardia (la scolta, appunto) che ha atteso per anni di vedere all’orizzonte un segnale di fuoco da Troia, che lo libererà dal suo compito. Giunto il segnale, questo personaggio scompare per sempre dalla trilogia. La sua funzione è solo nell’attendere, proprio come la badante è costretta ad attendere tra timore e sollievo - la morte della persona di cui si prende cura. Non voglio aggiungere altro perché rischierei di rovinare la sorpresa dei futuri lettori, ma si tratta di un testo per molti versi rischioso e potenzialmente controverso. Milli Graffi, che ne ha pubblicato una prima, parziale versione su il verri, lo ha definito un pugno nello stomaco. Non so se arriverai a tanto, ma con La scolta ho inteso porre numerosi problemi, non solo legati alla lingua e alla poesia, ma alla società italiana di oggi. “Una poesia è un invito a intraprendere un viaggio. Come nella vita, viaggiamo per vedere panorami nuovi”, scrive Charles Simic. Quali panorami poetici-esistenziali catalizzano maggiormente la tua attenzione? Sempre e solo panorami linguistici. E sempre e solo se aperti allo sconosciuto. Non si viaggia per vedere ciò che già si conosce, ha ragione Simic, e allo stesso modo non mi interessa leggere cose scritte in una lingua che mi sembra già di conoscere. La poesia non sta tanto nel viaggio, ma nello spostamento. Che può anche essere uno spostamento tellurico. Qualcosa che ci destabilizza in maniera involontaria, che ci toglie la terra da sotto i piedi. Rimirando 35 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Gian Maria Annovi (foto di Dino Ignani) La tua poesia mi sembra sostanziata da una forte componente reattiva, energica pur immersa nella deprimente brutalità del reale (vedi La gloriola, per esempio). Cosa, coscientemente, senti che più ti spinge a scrivere un testo in versi? Scrivo per un senso di urgenza. Quando è assolutamente necessario. Non sono uno scrittore prolifico e molte delle cose che ho pubblicato sono uscite con molti anni di distanza dagli avvenimenti che le hanno ispirate, proprio perché quello che mi interessa non è l’emozione-spinta, ma il concetto, l’idea. E questo comporta un lungo lavoro in levare. Ho sempre cercato una parola che fosse già osso, spolpata, per evitare di essere preda di facili pasti emotivi. Scrivere una poesia che comunichi la propria disperazione è molto più semplice che scrivere una poesia che faccia pensare. Un'altra caratteristica notevole della tua scrittura è quella non comune capacità osservativa, l'abolizione di un io dominante e una dimensione dialogica che la rende prossima alla scrittura teatrale (di un teatro però dominato dalla carne viva della cronaca, della Storia). Hai mai pensato di scrivere un testo prettamente teatrale? Nel passato ho collaborato con alcune realtà teatrali, ma è una fase tanto lontana che l’ho praticamente dimenticata. Come ogni forma di scrittura, anche quella teatrale richiede uno studio molto lungo e attento. Un addestramento che non ritengo di possedere. Ho molto rispetto di chi ha la capacità di scrivere liberamente in forme differenti. Io cerco da più di quindici anni di costruire una voce poetica riconoscibile e autentica. È l’unico progetto che al momento mi sento di perseguire. Il teatro mi ha fatto venire in mente l'ultimo Porta, questa sua grande apertura verso l'oralità e la rappresentazione dei propri testi. Da traduttore e critico della sua opera, quali sono, a tuo parere, i maggiori insegnamenti che egli ha offerto (siano stati o meno recepiti) ai poeti delle nuove generazioni? Porta, l’ho già scritto e continuo a pensarlo, ha insegnato a incidere, chirurgicamente, la pagina. Se esiste infatti una “funzione Porta” nella poesia italiana, essa ha a che fare soprattutto, con la crudeltà, da intendersi però non solo come laceramento ma nel senso che le ha attribuito un autore come Artaud: «rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta». Rigore non tanto, o non solo, nella pratica della scrittura ma nella volontà di sperimentazione. La crudeltà portiana sta nella determinazione della sua continua ricerca di forme nuove. Sono in molti, tra i poeti delle nuove generazioni, ad aver “attraversato” Porta, ma sarebbe sbagliato e riduttivo voler individuare genealogie dirette. Attualmente in che direzione procede la tua ricerca poetica (o più in generale, intellettuale)? Ti è capitato di scrivere versi direttamente in lingua americana? Ho scribacchiato in inglese, senza grande successo. Non credo di essere pronto, né che quello sia il futuro del mio lavoro. Come dicevo prima, scrivo solo sotto la pressione dell’urgenza. Il mio ultimo libro, Italics, è uscito non molto tempo fa, e fra poco uscirà La scolta, sono dunque in una fase meditativa, o meglio, di ascolto. I pochi testi che ho scritto attendono di trovare una forma organica. Il problema principale che mi trovo ad affrontare resta il medesimo dei miei esordi, trovare un punto di equilibrio tra il lavoro di ricerca linguistica e la capacità di elaborare un discorso originale e autentico sull’unica cosa che mi preoccupa: il presente. 36 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Rimirando Anteprima “Questioni private” di Andrea Carraro Uno stralcio dalla prefazione, Cinque congedi d'addio, di Federico Federici Congedarsi è l'atto, forse un po' formale, di chi si allontana senza ipotecare il futuro con il peso di un addio. Eppure le parole di Carraro affondano nel ripetuto fallimento di prendere una volta per tutte le distanze da qualcosa o qualcuno, voltare le spalle, magari con una scusa, e andarsene. Il loro scopo è subito chiaro: porre fine a un'incertezza, essere definitive, provocare un addio, senza falsificarlo con vuote formule di cortesia, rimuovendo ogni puntello biografico, seppellendo memoria su memoria. Tra le macerie urlano ancora le mille morti che un uomo si dà vivendo ed è lì che resta intrappolato il dolore, in attesa di essere giustiziato dal tempo e mutilato dal corpo. Le due sezioni d'apertura (Ode al padre e Ode agli amici) costituiscono un unico incipit esteso, che assume spesso il tono di un invito a comparire, rivolto a imputati che sono anzitutto custodi e testimoni della coscienza di chi si appresta a liquidarli, giudicando se stesso. La sentenza è già scritta e non prevede assoluzione, ma solo discussione del caso, elencazione di colpe e discolpe, lettura finale delle ragioni e congedo. La prima ode sfiora alcuni temi della celebre lettera kafkiana, nella quale la figura paterna tende a stagliarsi su tutte le altre, aspra e intransigente col figlio. Qui non sono però contrapposti ammirazione e disprezzo verso un'autorità comunque riconosciuta, ma difficile da scalfire con le sole ragioni dell'adolescenza. Il padre, l'antagonista per natura, si trova costretto in una condizione di subalternità nel presente (rispetto al figlio) e nel passato (rispetto al proprio padre). È come se lo spazio di una generazione fosse saltato e questa mancanza dovesse venir riscattata. La falsificazione della firma sul libretto scolastico appare all'inizio poco più di un aneddoto, uno spunto qualsiasi per il racconto, ma introduce in realtà il tema di una sostituzione simbolica ben più profonda, utile alla rimozione della figura paterna, sulla quale si incentra l'intero componimento. Impossessarsi di un segno ha il valore di una iniziazione: si acquista il potere dei padri delle origini, se ne riconosce e impara la lingua per imitazione. Con questa premessa, la diade originale-derivato si modella a esprimere la progressiva corruzione di paternità-discendenza. Ode al padre Sì dev’essere cominciato tutto quando Hai iniziato a scrivere e riscrivere il suo nome Nel diario della scuola e sulla carta Rifacevi la firma per il libretto di giustificazioni E lo ripetevi di continuo quel gioco Mezzo furbo mezzo proibito Che svolgevi già pregustando la sega Che avresti fatto a scuola Godevi a diventare sempre più bravo A rifarla la firma del tuo vecchio alla perfezione Perché ti dava una strana forza Prendere per un lampo il suo posto Incarnarlo lui com'era nel mondo Imponente e grande ai tuoi occhi di marmocchio Lui che firma una cosa di suo pugno Come all’alba dei tempi un generale Greco o romano davanti a una delegazione Tuo padre l'uomo dei tuoi sogni il mito Quella copia calligrafica io dico Come prima forma di emulazione Ma come si sia arrivati da questa Alla sfrenata e impudica competizione Non sapresti dire se non saltando Passaggi e passaggi di tempo Di cui non hai memoria e ragione Ma tu non ci vuoi più mettere Il naso là dentro non puoi Rivedere da vicino quel deserto vuoto Quell’occhio spalancato Sulla fodera del guanciale E udire quella frase Pronunciata in un soffio dal capezzale Anche questa è materia di romanzo! Che hai sentito o solo immaginato Davanti al secretaire Assediato dai medicinali E allo stelo della flebo Traslucido contro il vetro della libreria Ottocento che adesso veste il tuo studio Forse non ne hai neppure più il diritto Lascialo quieto nel suo letto d’agonia Dopo 16 anni finalmente mollalo in pace Quanto ancora vuoi fartela fruttare questa storia Che incolpando lui in qualche modo t’assolve!? E tu non sapevi che dirgli quando lui parlava del suo romanzo Che aveva spedito avventurosamente alla Feltrinelli E ad altri editori importanti Senza che tu l’avessi incoraggiato né scoraggiato Avevi lasciato che si muovesse lui Senza intervenire come avresti potuto Dicendo che ti mancavano i contatti Mentre proprio la Feltrinelli Stava diventando il tuo editore Ma come potevi promuovere tuo padre Anche se aveva i mesi contati Tu che a stento promuovevi te stesso? Quel romanzo senile muffoso poi Storia di un vecchio professore in pensione Già professore capite professore! Non si rassegnava mica alla sua condizione Di non laureato con quel diploma di maestro Preso durante la guerra chissà come Fra un bombardamento e una smobilitazione Quel vecchio che sentenzia e pontifica Su un pullman di turisti durante Un viaggio organizzato in Turchia o in India Sulle statue i musei i templi su tutto Motteggiando e forse offendendo le guide Quelle del luogo e quelle dell’agenzia Con lamentele o chiose E dovrebbe sedurre nelle intenzioni Quei tardoni sempliciotti e i chimerici lettori Con le battute e i colpi di teatro E qualche parolaccia salace sulle donne Di quelle che scorano tanto sulla bocca dei vecchi E sapevi tu l’inferno che nella realtà Quei viaggi in gruppo erano stati per la mamma Fra gli scaracchi e le sparate da erudito Dio cos’era quella roba ti veniva male a leggerla Era fin troppo facile smontarla Finiva con un omicidio si tingeva di giallo Il polpettone ma a quel punto non ci sei mai arrivato Tutti quelli del viaggio organizzato Con quel geniaccio del professore compreso Schiaffati nella hall di un grande albergo internazionale E interrogati a turno come in una storia di Agatha Christie A quel punto eri faticosamente arrivato Dicendo basta mi fa troppo incazzare Quella roba insomma ch’era vecchia e sciupata Ancora prima di venire scritta E lui ancora immaginava pubblicata I libri tuoi l’avevano ringalluzzito 37 l’EstroVerso Anteprima Questioni private di Andrea Carraro Rimirando Ritirava fuori vecchie poesie ingiallite E racconti e tutti i brogliacci che aveva accantonato Negli anni in cartelline polverose del ministero Ognuna titolata a dovere negli spazi assegnati Sulla filigrana dello stemma governativo E poi riesumava le sue canzoni Che aveva interpretato ai Café chantant Pure a quelli importanti di Galleria Colonna Dove i suoi capi d’ufficio l’avevano beccato In vetuste incisioni che ti chiedeva di far ascoltare Ai giornalisti musicali che conoscevi Benché questo accadesse anni prima Ma è stato Il branco al Festival di Venezia Che gli ha mandato in tilt il sistema Che gli ha azzerato i contatori Vederti lì sotto ai riflettori In primissimo piano in tenuta di gala In Sala Grande col regista e il produttore In quel Lido favoloso dove Da giovane era stato a sognare Mentre faceva il soldato sugli amori suoi Di sempre donne cinema e letteratura Insomma quei fasti tuoi Gli avevano rinnovato l’estro Se c’è riuscito lui perché non devo riuscirci io? Che io valgo meno di lui come scrittore? Insomma aveva ripreso in mano la penna dopo anni di silenzio Non parlo mica dei bei racconti di gioventù Che gli valsero il Pozzale e la pubblicazione Ma quello che scriveva oggi straziava l’intelligenza E il cuore e allora non capivi Tua madre che diceva perché non leggi il romanzo di papà? E magari lo usi tu chissà che intendeva povera mamma In generale volevi celebrare te stesso ormai di lui te ne fregavi Non riuscivi neppure a leggere le sue cose Ti davano ansia come più tardi a leggere le tue Ti scottavano in mano non volevi manco prenderle Le spostavi da un mobile all’altro sempre più lontano Dalla vista dal tuo raggio d’azione Ma Cristo d’un Dio ti facevi Quell’uomo lì che t’ha rovinato la vita E ormai lo sa con certezza dai tuoi libri Pretende oggi di farsi leggere da te? Ci vuole fegato e una gran faccia di legno Ma lui si permetteva eccome senza ritegno Te li faceva battere tutti i suoi ultimi parti Vergati a penna con mano tremolante Alla macchina da scrivere e poi al computer Le sue cose stantie e piene di errori Che delegavi a qualcun altro per la compilazione Il suo libro di racconti che gli avevano stampato Cinquanta anni prima era perfetto lo giuro Manco una virgola fuori posto Sette uomini meno due si chiamava quella silloge Influenzata da Americana di Pavese anzi Vittorini Spalmata di neorealismo e pure simbolismo qui e là In certi vasi di fiori in certi interni Senza decoro quasi stilizzati Roba decente magari bella chissà Consegnata in copia al Caterini Perché ne faccia buon uso Roba ch’io all’inizio avevo pure emulato Novembre - Dicembre 2013 Eh no questo però lo hai copiato Da me da quel racconto dimmi la verità Già rivelando così l’animo suo bruttato L’atmosfera è la stessa figlio mio e la storia pure Non puoi negarlo e oddio chi lo negava! Erano gli ultimi due minuti di vita di un uomo E non conta saper chi sia ma solo Che viene ucciso in un tempio Fra una colonna di granito E un fonte battesimale Mentre il tempo viene scandito all’incontrario Insieme ai passi che battono il pavimento cosmatesco In modo sempre più drammatico E’ vero papà è vero ho scopiazzato Mi piaceva ho cercato di riscriverlo meglio Perché non si può? Che c’è di male? I suoi racconti di mezzo secolo prima Erano pure piaciuti alla Aleramo Ma poi la vita l’aveva preso e la famiglia Che lui non voleva ma sì lo sapevamo Tutti lo sapevamo che lui era scrittore E attore accidenti e chansonnier Che il suo destino era un altro Fatto è che adesso tutto ciò che scriveva Era diventato uno strazio ortografico Non azzeccava più un accento Gli scappava via la consecutio Faceva periodi lunghissimi senza virgole Forse imitava pateticamente Joyce Di cui tanto aveva strologato nella vita O forse erano solo degradate le sue facoltà E tu ogni volta gli dicevi ecco papà mi pare buono Ti ho corretto giusto qualche sciocchezza E non una parola in più incapace di dire altro Perché il libro intero manco l’avevi letto E quel poco che avevi letto ti era parso inutile E sciagurato per come al solito assolveva se stesso E invero così urtante quando fingeva di ridere Di quel sé pontificante e colto e intellettuale Mentre era solo un vecchio brontolone Colmo di sé e di catarro bronchiale Ma lo amavi appassionatamente come si può amare Un padre che senti che ne sta andando per sempre E che di suo non resterà niente Se non un ricordo pieno di vergogna Come se tu l’avessi ucciso Come se davvero il cancro gliel’avessi procurato tu Col tuo esordio impietoso che l’aveva svergognato al mondo E soprattutto alle sorelle di Foligno Che fingevano d’idolatrarlo E forse lo idolatravano davvero Perché non provi a lavorare sul padre? T’aveva chiesto lui meschino Sfidando il patetismo A riscattarlo un poco nel finale Far vedere che in fondo è un buon diavolo non ti pare? E tu manco gli avevi risposto Come l’avessi schiacciato e martoriato davvero Quel tuo povero padre che nel sogno Finiva come Pasolini all’idroscalo 38 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Anteprima Questioni private di Andrea Carraro Rimirando Precisamente anche col piede storto Spezzato sotto la calza e il mocassino Ricordi e tu l’avevi sprangato a sangue E quel sogno terribile non finiva mai E tornava senza pietà ogni notte E tu nel sonno piangevi e ti disperavi Ma intanto non potevi fare a meno di picchiarlo e di insultarlo E lo finivi battendolo in faccia con una sbarra di ferro Che ricordi bene appoggiata allo stipite Della portafinestra sulla terrazza Che un tempo era stata teatro Dei tuoi giochi forsennati e innocenti E di una ingenua vanità sociale Che vi faceva chiamare attico Una lunga terrazza condominiale Tuo padre che era venuto A prenderti a scuola alla terza ora Ricordi e piangeva sotto gli occhialoni Guidando verso quel posto Dove era stata portata lei Simona Con la sua malattia infettiva Che perdio era passata al cuore E lui guidava fumando e piangendo In mezzo al traffico di Piazza Fiume e di via Nizza Verso quella clinica elegante del quartiere nostro In cima a un poggio di pini immani E flessi che puntavano sulla cima Dove la tua sorellina Lottava fra la vita e la morte Ripetendo che non credeva ai miracoli Lui e non ci aveva mai creduto E poi anche se ateo in clinica Si ritirava nella cappella a piangere e pregare Ma era successa davvero quella cosa oppure L’avevi raccontata tu così per riscattarlo Un po’ da tutto quel fango che gli avevi buttato addosso Per quella colpa impossibile da sostenere Quella sul figlio maschio la peggiore Che lui stesso mill’anni fa aveva scontato Dal padre suo come marchio d’infamità Di inettitudine al mondo di disonore? E uno degli ultimi giorni suoi Gli arrivò il rifiuto dell’editore milanese Poche parole burocratiche e cortesi In una missiva con il logo editoriale Nel rettangolo a vista del mittente Che lui aveva lasciata in bella mostra Affinché chiunque entrando la vedesse Sulla cartella di pelle del fratino E tu la vedesti eccome Sotto il cono dell’applique sporco e giallino E davvero non avevi bisogno d’aprirla Per decrittarne il contenuto Ma avevi ben altri pensieri per la testa Che ragionare sulla mancata pubblicazione Del suo libro davvero non ti sembrava il momento Col tumore spietato che avanzava E la lasciasti lì intonsa Ma fu lui a entrare in argomento Pochi minuti dopo in un soffio Hanno risposto dalla Feltrinelli hai visto? Hanno rifiutato il romanzo Ah no non ho visto che peccato! Mentre parlavi col giovane medico volontario Della Asl che da qualche giorno con grazia Lieve e rispettosa lo accompagnava alla fine Standogli accanto anche senza parlare Sciroppandosi l’ultimo libro tuo Che gli aveva passato lui assicurandogli Che avresti vinto lo Strega Ed era la prima e unica volta Che di te s’era mostrato fiero Tuo padre insomma colui che hai imitato e adorato E aspettato sotto le coperte E abbracciato nel mare fra il salmastro e l'acqua di colonia Che gioia quando veniva a fare il bagno con te E mangiavate in costume ancora gocciolanti Le cozze crude spruzzate di limone che vendevano I banchetti sul lungomare della Riviera di Ponente E che brividi mentre tornavate di notte a Montefalco Al buio in mezzo agli orti e agli alberi da frutto Senza neanche una torcia o un accendino E quando già nel lettone profumato vi diceva A te e alla tua sorellina che ti dormiva accanto Sogni d’oro d’argento di piombo e di formaggio E certe sere ci aggiungeva anche di prosciutto E voi ridevate non la smettevate più Di ridere e aspettavate il bacetto E così poco durava il tutto Appena un’annusata di quel fiato buono Che sapeva di tabacco Ma non divagare tuo padre preso a legnate E il sangue invadeva tutta la terrazza Che da bianca di sole diventava rossa Di sangue che colava nel tombino Dio che pena che rimorso che vergogna Perché ho dovuto farti questo padre mio? Tu che giaci in cenere nell’urna Tu che viaggi chissà dove nello spirito dei tempi Tu che hai scontato già con la morte i tuoi peccati Tu che venivi certo senza volerlo senza Mai averlo scelto da quel padre infame Sì infame e infame lo dico all’infinito E che risuoni nei secoli la voce mia quel porco Indegno di definirsi padre e uomo perfino Che ti aveva insultato e scacciato per sempre Con quel biblico gesto che aveva messo alla gogna Tre generazioni in un lontano mattino nei primi anni Trenta A Montefalco nel cuore mistico dell’Umbria Ti avevano bocciato due volte padre mio Questo non ce l’avevi mai detto E il vecchio ti aveva beccato chissà come A fare gare di seghe coi compagni tuoi adolescenti Davanti alla quercia di Madonna Della Stella Dietro la tenuta dei Pescanti oltre il frantoio E ti diceva ch’eri già in lacrime sulla soglia Coi tuoi fagotti da portare via Sei un ciucco e un sudicione! Vattene da questa casa! non farti più vedere! Hai disonorato questa famiglia, tua madre e le tue sorelle! Ma lui odiava anche i raduni i gagliardetti Che portavi addosso padre mio 39 l’EstroVerso Anteprima Questioni private di Andrea Carraro Rimirando Quella precoce adesione al fascio Che per troppo tempo hai omesso Come fosse un dettaglio da niente Odiava la tua tenuta da balilla i tuoi modi arroganti Lui fiero antifascista uomo di cultura uomo di fede Direttore di banda uno che la sera Si metteva a suonare Chopin o Verdi al pianoforte Mentre c’era chi si dava dattorno per la cena E intanto ti ingravidava la sposa ricca sette volte Quattro femmine e un maschio Con gli altri due che perirono nascendo O pochi mesi dopo chi ricorda Certamente ottenuti tutti nel più casto dei modi Col segno della croce prima e dopo Magari pure vestiti come volete voi Con quelle camicie da notte fino al polpaccio che usavano allora Prestigio sociale decoro cattolicesimo ancestrale Di inizio secolo nel centro verde e sacro dell’Italia Ecco da dove venivi padre mio Da quest’uomo irreprensibile e bigotto Più cattivo di un diavolo incarnato Che aveva instaurato una dittatura a casa sua Matriarcale nel senso che tutto facevano Le cinque donne di casa più le serve E lui decretava su ognuno Facendo rispettare alla lettera ordine e disciplina E con te strepitava in scontri belluini Persino peggio dei nostri E se ne andava in giro con un bastone di ebano E una scura finanziera e l’orologio al taschino che controllava spesso Per scandire le lunghe passeggiate serotine Era uso raggiungere il cimitero a piedi In tutte le stagioni anche se c’era neve Fra straducole di campagna e pezzi di comunale Camminando svelto mentre faceva notte Col suo bastone da passeggio Che ogni tanto vibrava sulle terga a qualcuno Quasi sempre per celia o per saluto Ma con veemenza e perverso Godimento su quelle del figliolo suo Che di cinghiate e bastonate aveva tanto bisogno Perché non studiava e faceva lo spavaldo E’ stata la zia Pina a informarmi di tutto Della doppia bocciatura e delle scene madri E di quel gesto dissennato soprattutto Che tu meschino avevi trasformato In romantica fuga E come potevi fare altrimenti padre mio? E ancora rabbrividiva al ricordo la vecchia zia Foderata nel suo salotto napoletano Fra ninnoli e poggiapiedi di velluto In vero un po’ svanita nella memoria Facendomi segno di silenzio Gesù che ho detto, non farmi parlare! Quasi temeva una divina punizione Per avermi svelato quell’arcano di niente Ch’era rimasto sepolto tutto quel tempo Quel vecchio calvo e misantropo insomma E’ di lui che parliamo Con cui rivaleggiavi scrivendo canzoni Un’altra battaglia perduta padre mio Perché nell’albo di famiglia Novembre - Dicembre 2013 Lui figura musicista e tu impiegato Ed eri l’unico accidenti dopo una sfilza Di altri musici e scrittori Ecco perché quel vanitoso studio araldico A casa nostra non era mai arrivato Quel vecchio che non reggeva i marmocchi me compreso E si lavava i denti con la salvia E ti parlava accostato senza curarsi di mandare Quel mucido odore di crostata andata a male E ci dava il benvenuto sulle scale Chiedendoci quando ve ne andate? Proprio così non son licenze o fole Quell’uomo là aveva prestigio sociale L’ho detto e quando passava i paesani Si levavano il cappello lo ossequiavano Borghesi e bottegai e contadini Maestro, come andiamo sor Mae’? E la signora Carlotta e li fijioli E la piccoletta Pupa vie’ su bene? Ma di suo aveva ben poco il Maestro Altiero Questo il nome sinora taciuto Le ricchezze venivano tutte dalla famiglia della moglie Carlotta donna dimessa Umile e devota e quasi santificata in famiglia Che davanti alla finestra lavorava a maglia Come in un dagherrotipo di quei tempi remoti Tant’era invece altera sua sorella Gran figura di donna italiana libera emancipata Protofemminista e forse lesbica Che insieme alla Montessori era impegnata Nel rivoluzionario metodo educativo dell’infanzia E qui si aprirebbe un altro sipario famigliare Ma mi fermo Perché non è di quella genia Che ho voluto parlare Ma del padre mio ch’è morto Da sedici anni E ancora non posso congedare 40 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Rimirando una di Adriana Gloria Marigo Nelle ragioni del divenire personale il principio di individuazione ci chiama alla responsabilità dell’integrazione di ogni parte lasciata all’indifferenziato e alle sue oscurità. Obbligati a percorrere la via che conduce allo sviluppo psichico, così da offrirci - a noi stessi, all’altro nella pienezza e totalità delle possibilità individuali, ci rapportiamo con il mondo secondo la nostra specificità che affonda nel misterioso e profondo rapporto con l’animo che ha molteplici volti per mostrarsi, e spesso ci viene incontro attraverso la declinazione del “paesaggio”: della natura, degli uomini, della professione. Con una (Giuliano Ladolfi Editore, 2012) Maddalena Bertolini accompagna il lettore dentro questo percorso che - appena lasciata la superficie privata e pubblica, quasi sempre immersa in una luce gravida d’affettivo nell’incontro con le persone, gli elementi della natura, la temporalità, il lavoro - è già dichiarato nel titolo, un termine bisillabo, carico di forte impatto nella sua asserzione, che tuttavia resta problematico in quanto inclina il lettore alla riflessione: si tratta di articolo indeterminativo che insinua una nebulosità cui aderire per fare chiaro muovendosi in ogni direzione, ma secondo una direttrice prefigurata, al fine d’individuare più tardi che cosa invece è in luce e scintilla protetto dalla indeterminazione o si tratta di nome misterico che comprende in sé una sorta di anonimato qualunquista provocatorio e irridente, poiché sotto e dentro il nome si custodisce un potere significativo, antico, più esattamente arcaico in quanto sapienziale? Da qui - da entrambi i volti del termine - si parte per l’esplorazione del mondo poetico della poetessa di Pergine Valsugana, che spalanca come una casa aperta in estate i territori dei contenuti fortemente metafisici implicati nell’uso della parola, la quale, all’apparenza di impiego comune, risuona per interna forza d’immagine connotando un verso potente e di grazia e diligenza come una mano levata in benedizione, mentre si sta dentro il mondo senza remissione: vado sotto la coperta della pioggia l’acqua mi cerca. Gocciolo come un albero o un lampione come quel cane curioso. Sono un segugio d’acqua sembro perduto: lei chiama il rabdomante e l’uomo trema con il ramo tra le braccia trema ogni fibra ogni mia consistenza, tremo sorgiva freddissima e allegra, giro su me stessa come un’auto che sbanda ti prego non frenare, lasciami scivolare a capofitto sotto il parapetto nel buio di un abbraccio Questa prima poesia, che dichiara che si accoglie ogni cosa, si diventa ogni cosa, se si è disposti ad assumere in sé fiducia e coraggio, portando dentro il sentire e il fare ogni pulsione in quanto indispensabile al viaggio verso l’incontro con il sé completo - privilegio dunque anche per l’ontologia della parola poetica introduce al crescendo di una che si sviluppa per sezioni numeriche fino all’ultima sono, che non a caso si afferma nel termine verbale di tempo presente e di prima persona, nonché singolare. In mezzo, nelle sezioni numeriche, si svolge il percorso del creare la propria specificità in rapporto costante con ciò che costituisce e chi condivide il tempo della poetessa, le sue variabili dipendenti e indipendenti, il suo ferirsi di mondo senza soccombere a dolore o miseria umana: ho messo nella vita tanti figli tanti urti quelle notti sbattute le porte premute sulle assenze e sempre le chiamate: arrivo! l’avamposto della voce arrivo, ancora non lo vedo ma quel verbo mi appende come un chiodo *** fuori sede tu parti e piove: usciamo presto con l’alba alle caviglie in questo odore di cuore calpestato. Io guido e tu hai addosso la barba e la tenerezza del sonno la luce finge di non vederlo e ti seduce. È facile per lei amarti solo perché al buio non esiste. Tu parti, il treno si allontana e il temporale si avvicina la pensilina è una pista d’aereo la stazione è già volata via come un piccione a cui ho dato un panino e un bacio Nella sezione sei incontriamo: pietra dobbiamo parlare io e te adesso sono i miei figli a salire a cercarti a arrampicarsi e godere delle tue gole dei fianchi i diedri delle tue pareti bastarde e redente. Devi accettare il mio patto - risparmia i miei uomini - e lo so che tanto non mi senti e non ti muovono le mie carezze e nemmeno le loro. Lo sai vero che ti amo, che tu sei fatta per me mi fai venir voglia di tutto così conficcata nel petto così bella (chissà com’è bello tuo padre) Nel dialogo con la natura – dialogo che non interrompe quello con l’affettivo familiare e anzi vi porta una connotazione amorevole e di ammirata partecipazione – vi si sente una caratteristica che congiunge modi di altri poeti dell’area tridentina: il domestico va sempre all’incontro – in una sorta di sacra devozione e sacro tremore – con le “…punte/ di tutte le montagne//… e io ritorno intera”. Qui, nella centralità della via dell’individuazione, Maddalena Bertolini testimonia quello che Arthur Schopenhauer ascrive al concetto di principium individuationis, e cioè il principio di ragione il quale conferisce alla “Volontà di vivere, che finisce per auto-limitarsi nella concatenazione di spazio, tempo e causalità” la caratteristica di essere - fin dal principio - infinita e libera. Nella sezione sono si compie il percorso alchemico di questa raccolta in cui la tensione poetica non ha cadute e anzi esprime, in costante “levare” musicale, la presenza di una guida finalistica che attraversa come un viatico i vissuti connotati, raggiungendo la splendida meta dell’integrazione nella completezza del sé: ultima … Quando mi togli dagli occhi questo sguardo corto (lo detesto) mi fai vedere con tutto ridere di tutto ho il dito puntato sull’allegria del ritorno 41 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 Stanley Spencer Rimirando Il poeta è lo psicologo dell’ombra? di Rita Pacilio Molte credenze relative alle popolazioni primitive, evidenziate dagli antropologi culturali, rilevano che la mente umana e la creatività sono sempre state attratte dall’ombra, in particolare dall’ombra del proprio corpo. Sappiamo che ogni individuo è seguito o addirittura incollato alla propria ombra che, se particolarmente inserita nella coscienza, viene percepita buia e profonda. Carl Gustav Jung prende in considerazione il lato oscuro della vita cosciente dell’uomo e definisce sotterraneo dell’anima, ricordando Dostoevskij, questo spazio che è dietro o sotto la maschera dell’agire sociale. L’ombra è considerata demoniaca e perversa dal pensiero religioso perché si pensa, che è qui che agisce il male e il magico mondo della morte. Quando le popolazioni non avevano la scrittura come strumento di comunicazione l’ombra rappresentava un tabù perché veniva a identificarsi con l’anima. Gli indigeni delle isole Salomon, infatti, se calpestavano l’ombra del re venivano puniti con la morte. L’ombra è associata, in molte culture, a paure socioculturali e ancestrali. I poeti, invece, hanno adoperato l’ombra come luogo della rinascita fenicia, dove si vive, da quando si è bambini, la regola della fantasia e la consapevolezza della voce più intensa, potente dell’io. Il pensiero umano, sia percettivo che intellettuale, indaga sulle cause degli avvenimenti tenendosi il più vicino possibile al luogo dove i loro effetti si producono. In tutto il mondo l’ombra è considerata come una propaggine dell’oggetto che la proietta. Il concetto sottostante è che l’oscurità non appare come un’assenza di luce ma come una sostanza positiva di buon diritto. Questo secondo io trasparente dell’individuo è identico o connesso con la sua anima o forza vitale. Porre il piede sull’ombra di una persona è un’offesa grave, e si può uccidere un uomo ferendone l’ombra con il coltello (Rudolf Arnheim – 1954, Arte e Percezione visiva). Se si acquista la consapevolezza di una percezione positiva dell’oscurità, l’ombra può essere riconosciuta come il nostro doppio che protegge e diviene la parte più disponibile all’io cosciente. Il popolare racconto di Stevenson Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, ci convince a governare la nostra coscienza per non trasferire sull’altro il buio, il non conosciuto affinché non ci sfugga il dominio delle responsabilità con la nostra parte dentro/fuori. La nostra parte psichica si pone innumerevoli interrogativi. Se l’ombra rappresenta il male allora la luce rappresenta il bene? Quindi come giudicare il comportamento sociale, psicologico e creativo dell’uomo? Il termine "ombra" nasce nella ricerca psicologica e in particolare nella ricerca psicologica di Jung. Ci sono dei precedenti, ma sempre di ordine psicologico. C'è tuttavia un corrispettivo dell'ombra nei miti di tutto il mondo. Indubbiamente ci si può divertire a trovare in moltissimi miti quest'aspetto negativo dell'uomo. Però è solo apparentemente negativo, perché se ben relazionato all'io cosciente - che se ne deve assumere la responsabilità - in qualche modo diventa positivo, o meglio diventa un propulsore della vita psichica. In genere l'esempio più pregnante dell'ombra dei miti è quello che si trova nei miti degli indiani d'America, il trickster, il briccone buffone, che poi, talvolta, si dimostra essere un aiutante magico, che risolve situazioni che sembravano irrisolvibili nella vita. Però non si deve pensare che l'ombra sia rappresentata solo dal trickster. Qualcuno ha voluto vedere, un corrispondente del trickster nel Mercurio della mitologia classica. Abram Kardiner - è stato un grande storico, fenomenologo delle religioni - si è sforzato di approfondire questa somiglianza. Ci sono probabilmente molti altri esempi di ombra nei miti. Perciò, ripeto, il termine nasce nella psicologia, ma noi possiamo trovare delle vaste corrispondenze nella mitologia. Noi dobbiamo dividere il concetto o la metafora dell'ombra dal concetto di male. L'ombra è male solo in quanto rimane scissa da noi, inconscia, negata, assolutamente separata dal resto della personalità. Sono contento che sia stato introdotto il concetto di male, perché appunto, in una interpretazione un po' superficiale dell'ombra, si potrebbe pensare che il male nasca solo dalla proiezione della nostra ombra. Ahimè, no! Il male morale esiste, eccome! E dobbiamo combatterlo in tutte le maniere. Sarebbe assurdo per esempio pensare che personaggi come Hitler, Stalin, i grandi dittatori del nostro secolo, Salazar, eccetera, siano esclusivamente il frutto della nostra proiezione. No, sono delle persone assolutamente possedute dal male, hanno a che fare ben poco con la nostra proiezione d'ombra. Però il concetto di male viene evocato, nell'analisi dell'ombra, perché noi sentiamo l'ombra come qualche cosa di negativo. Qui è anche una questione di linguaggio. Direi che, parlando dell'ombra, è sempre meglio parlare del negativo che è in noi, piuttosto che del male. Il male è un concetto troppo antico, troppo aulico, anche troppo potente, per essere evocato in un argomento di psicologia di tutti i giorni. (Mario Trevi L’ombra dentro di noi, 31/1/2011). Quando si è bambini l’ombra ricopre un grande significato; addirittura le si dà un ruolo ben preciso. Solo crescendo si tende a dimenticarsi di lei accantonandola nel mondo dell’inconscio come un superamento liberatorio della sua rappresentazione buia e ambivalente. L'ombra fa paura e farsi percepire puri esorcizza il male cui ci si può abbandonare. (A.G.M.) Nell’età adulta l’ombra subisce un’importante metamorfosi fino a diventare un Doppio di Sé ambiguo: sono i romanzi e la scrittura poetica a manifestarci la macchia che ci portiamo dietro come il nemico, il persecutore o addirittura il perturbante. La poesia sa inseguire la vita e i suoi significati inafferrabili e originari. Si spinge verso le marginalità, spesso idilliache, ponendosi in una posizione laterale (accanto) alla Storia (Leopardi, Pasolini). Si tratta di un ascolto evocativo-ideologico-paesano che sembra porre il poeta di fronte a un compromesso intimo. L’ombra è un dormi-veglia (Octavio Paz) che spesso testimonia un lavoro compiuto in una terra sotterranea fatta di vetri, quindi visibile nelle varie immagini nascoste ed enigmatiche. Il compito della poesia è quello di saper dialogare con gli elementi metaforici del linguaggio di ogni giorno in cui le ombre recuperano integrità, verità. Ognuno di noi può incontrare il mondo in un atto amoroso. Rimirando Eso Peluzzi 42 l’EstroVerso La riva sinistra Deliziosamente piccola, terribilmente miope, crudelmente spiritosa e irreversibilmente alcolizzata, Dorothy Parker (1893-1967) è degna di essere annoverata tra i grandi narratori del Novecento americano. Attiva sin dalla gloriosa “età del jazz”, quando animava l’eccentrico circolo di intellettuali che si riuniva all'hotel Algonquin di New York, fino ai turbolenti anni Cinquanta, quando la persecuzione politica della commissione McCarthy le si scagliò contro, a causa della sua mai celata simpatia per il partito comunista. Nota come critica letteraria e teatrale (per riviste come “Vogue” e “The New Yorker”), fu anche reporter di guerra (nel ‘37 si recò in Spagna per raccontare la tragedia del conflitto civile), nonché apprezzata sceneggiatrice ad Hollywood, ma soprattutto scrittrice di racconti e poetessa. In ogni attività si distingueva per la poderosa e raffinata intelligenza del suo umorismo. La vittima preferita del suo spirito graffiante? Se stessa, ovviamente!... A proposito del suo stile unico, W. Somerset Maugham scrisse: «Forse ciò che dà alla sua scrittura il sapore caratteristico, è la capacità di vedere il lato ridicolo anche nelle più amare tragedie della bestia umana. Ha scoperto una verità grave e salutare al tempo stesso: nelle nostre più sentite disgrazie, c’è qualcosa di irresistibilmente comico». La poesia che vi presento, dal titolo "Canto di guerra" (War Song), fu scritta per il suo secondo marito, l'attore e sceneggiatore Alan Campbell, quando venne arruolato per combattere nella Seconda Guerra mondiale. Questi versi si distinguono nettamente dallo stile che aveva sempre dominato nella produzione poetica della Parker: stavolta l’autrice mette da parte la sua vena dissacrante e lo humour macabro, permettendo al suo slancio lirico di svettare con impareggiabile grazia e malinconia. Novembre - Dicembre 2013 di Andrea Giampietro Questa la mia traduzione: Soldato, in una terra strana al di là del mare ondeggiante, cogli il suo sorriso, prendile la mano non sentirti in colpa per me. Soldato, esistono soldati sinceri? Se lei è dolce, allegra e gentile, sfrutta l'augurio che ti mando sino al mattino non restare solo. Soltanto, per le notti che furono, soldato, e le albe che verranno, quando nel sonno ti rivolgi a lei chiamala col mio nome. *** Soldier, in a curious land All across a swaying sea, Take her smile and lift her hand Have no guilt of me. Soldier, when were soldiers true? If she’s kind and sweet and gay, Use the wish I send to you Lie not lone till day! Only, for the nights that were, Soldier, and the dawns that came, When in sleep you turn to her Call her by my name. Rimirando 43 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 PoeSia di Luigi Carotenuto Poco prima di notte di Cristina Annino Con un dipinto dell’Autrice Introduzione di Maurizio Cucchi (L'Arca Felice) Cristina Annino offre un ulteriore saggio della sua poetica con questa nuova silloge, edita, insieme a un suo dipinto, per le preziose edizioni L'Arca Felice dirette da Ida Maria Borrasi. Già dal titolo, Poco prima di notte, la breve raccolta (10 testi), lascia il lettore un po' spiazzato tra la gamma infinita di allusioni possibili. Non riprende nessun testo né verso il titolo, e lascia intendere di chissà quale accadimento che dovrà avvenire (o è già avvenuto) a un'ora incerta, una scelta felicemente straniante. Così è la poesia della Annino, fatta di microracconti che contengono macrocosmi e sfaccettature psicologiche profondamente ricche. Impossibili da catalogare, i suoi versi dal taglio cinematografico e sapienziale, ricchi di “inquadrature” romanzesche, brandelli aforistici, caustici, conditi da un humour così naturale, mai gratuito, una conoscenza della vita tanto acquisita da apparire (e forse lo è, è il dono di un poeta più unico che raro) innata. Riesce a creare sempre qualcosa di nuovo la Annino, nel segno di una scrittura che mostra alcuni suoi marchi, come l'uso dei virgolettati e dei corsivi, il versificare spezzato in maniera irregolare secondo traiettorie sghembe e imprevedibili. Bisogna abbandonare ogni stereotipo per guatare il mare vasto della sua poesia, sprezzante di luoghi comuni e diplomazie servili, nobile quanto basta per assegnare il primato, tra le regole della sua personale pedagogia, al rispetto degli animali: «che non si separi mai ossa / da carne, né il lupo dalla foresta», «[…] è come strappare la testa / ad un santo, ché non possa vedere / chi si inginocchia» (Galateo per l'infanzia sul rispetto animale). Oppure inventarsi dalla visione di un film (The tracker – una guida aborigena –) un dialogo altamente spirituale e pieno di rimandi simbolici: « […] Ci han ferito / già troppo; non potranno perciò / rifarlo sempre, né ammazzarci abbastanza». Un immaginario debordante, come in Metafisica, dove: «[...] le gambe come treni / nel vapore, se ne vanno lontane. / Fuori dal quadro» o nella descrizione ben cucita addosso del Maudit: «L'annoia la gente che neanche / sente. Panorami pesanti, chi / li vede? Gli eventi. / Ci sono giorni d'un silenzio fermo, dice, senza / curiosità». Mentre nel finale dell'emozionante incontro amoroso tra il lui e la lei di Amor sacro amor profano riesce a chiudere il testo con un verso memorabile: «E scende muto dalle case afflitte». Per ultima, in questa silloge, ricollegandosi al tema musicale attraversato nel libro precedente, Chanson turca, la poesia Resurrezione nella musica, dove l'autore si immagina direttore d'orchestra, in allegria di naufragi, potremmo dire, barcamenandosi «[...] sull'orlo d'un / cratere spento». Constatando la libertà assoluta della poesia di Cristina Annino, trovo calzanti le parole di Ernst Jünger nel suo Trattato del Ribelle: «Il Ribelle è il singolo, l'uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice. Abbiamo visto che la grande esperienza del bosco è l'incontro con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l'essenza di cui si nutre il fenomeno temporale e individuale. Anche sul piano morale, questo incontro così importante sia nel guarire sia nel fugare la paura ha un valore altissimo. Porta verso quello strato sul quale poggia l'intera vita sociale e che sin dalle origini è sotteso a ogni comunità. E verso quell'essere umano che costituisce il fondamento di ogni elemento individuale e da cui s'irradiano le individuazioni. In questa zona non ritroviamo soltanto la comunanza: qui c'è l'identità». 44 l’EstroVerso Rimirando Novembre - Dicembre 2013 l’étranger di Davide Zizza Grafica di Nino Federico Poesia a voce alta. I Vuoti di Tony Harrison – segno fondamentale presso di lui – verso i temi politici si traduce in una marcata derisione – «Signore, Tu devi divinamente avere a cuore | Tony Blair il Tuo servitore» (Preghiera di Santo Tony) – Harrison non perde di vista la finalità importante della sua scrittura: riempire i vuoti, i vuoti di senso, i vuoti meccanismi che fanno scattare violenza e distruggere edifici, i vuoti capaci di innescare inutili fratture fra persone. Questo colmare di senso con la parola non fu estraneo ad altri due grandissimi poeti inglesi come D.H. Lawrence e Ph. Larkin. Di fatti se leggiamo The Lords of Life non possiamo non rievocare alla nostra mente The Snake di Lawrence e The Mower di Larkin tanto è evidente il filo conduttore che li accomuna. Cosa impariamo dalla lezione di Harrison? La parola poetica non può nulla! Eppure riempire i vuoti con la poesia significa ridare pienezza ai giorni e tentare di annullare i conflitti, indicare una via migliore. E questo lo si può fare quando la poesia dalla pagina scritta parla a voce alta. Come la sua. Grafica di Nino Federico Chi ha letto Tony Harrison (1937), ricorderà un suo celebre poema intitolato V (1985), che descrive la visita del poeta al cimitero di Holbeck, a Leeds, dove sono sepolti i suoi genitori. Il cimitero è «littered with beer cans and vandalised by obscene graffiti», sporcato da lattine di birra e vandalizzato da graffiti osceni. È un poema dal timbro insieme personale e comune. Non cerca l’abusata etichetta di denuncia (non rientra nello stile del poeta). L’autore mette in rilievo un argomento più tosto, universale e senza tempo: il conflitto! Il conflitto scandagliato a più livelli – “v” sta infatti per versus, contro –, dall’economico al sociale al culturale, quindi nord versus sud, nero versus bianco, sinistra versus destra, comunismo versus fascismo. Guardando ai chronicles di allora, V ha suscitato reazioni davvero discordanti, se teniamo pure conto del drammatico riferimento allo sciopero dei minatori inglesi accaduto nell’anno 1984-1985. Negli anni successivi (2008), Harrison ha pubblicato i suoi Selected poems. Nella traduzione italiana di Giovanni Greco per Einaudi ha per titolo Vuoti. In Vuoti possiamo riconoscere quella voce fulgida e netta, «dantescamente petrosa» e senza retorica che contraddistingue la produzione del nostro poeta inglese vivente. Evita eufemismi, scarta inutili sovrastrutture con lo scopo di portare la vita nell’arte: Harrison è un poeta e quando scrive non le manda a dire, comunica le sue riflessioni etiche e culturali senza rinunciare alla sua incandescente materia creativa, con schiettezza di spirito e di linguaggio. È un poeta onesto, mi verrebbe da aggiungere, non solo per la sua adesione al vero e al reale, ma per una visione sostenuta da forti nessi simbolici. Per es., prendendo discorso sulla granata che sta sulla sua scrivania (Granata), egli narra di quando sopravvisse ad un’incursione aerea tedesca grazie all’umanità dello stesso cecchino il quale anziché bombardare le abitazioni inglesi, quindi la casa di Harrison, sganciò le bombe sul deserto parco di Cross Flatts, «un guizzo di fede» portò il crucco ad obbedire ad un comandamento più alto, «di non bombardare le abitazioni di sotto e di essere umano». Oppure nell’omonima poesia (Vuoti) l’autore riprende una scena dalla sua memoria, un inverno newyorchese fatto di luce dove ritroviamo «le torri ancora inesplose del World Trade Center». Se la disincantata ironia 45 l’EstroVerso Novembre - Dicembre 2013 EstroLab Editrice de l’EstroVerso organizza I laboratori dell’Estro corsi personalizzati di FORMAZIONE in Scrittura Professionale e Scrittura Creativa info alla mail [email protected] Numero 4 - Anno VII Registrazione Tribunale di Catania n. 5 del 9 febbraio 2007 Direttore Responsabile Grazia Calanna Segretario di Redazione Luigi Carotenuto Editore EstroLab In questo numero Grazia Calanna Andrea Cirolla Riccardo Gazzaniga Laura Cavallaro Nino Federico Fabrizio Bernini Danilo Lizzio Raffaella Belfiore Luigi Taibbi Elisa Toscano Daniele Cencelli Alessandra Brisotto Elisa Anfuso Rosario Leotta Claudio Bagnasco Savina Dolores Massa Erica Donzella Alessandro Canzian (Samuele Editore) Giovanni Baldaccini Cristina Annino Alessandra Piccoli Letizia Dimartino Massimiliano Raciti Daniela Marcheschi Lucia Tosi Alessandra Leone Anna Baccelliere Giordana Galli Alessio Annino Sandro De Fazi Paolo Agrati Eliza Macadan Liliana Zinetti Davide Spampinato Luigi Carotenuto Gian Maria Annovi Andrea Carraro Adriana Gloria Marigo Rita Pacilio Andrea Giampietro Davide Zizza l’EstroVerso l’EstroVerso l’EstroVerso l’EstroVerso l’EstroVerso l’EstroVerso