Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina

Transcript

Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina
Sicurezza dei pazienti
e gestione del rischio clinico
in medicina complementare
Corso di formazione
promosso da:
Rete Toscana di Medicina Integrata
Centro per la Gestione del Rischio Clinico
e la Sicurezza del Paziente
organizzato da:
Agenzia per la Formazione
Azienda Usl 11 Empoli
Empoli – ottobre 2009
Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico
in medicina complementare
Corso di formazione
Supplemento n. 18 MC Toscana
Registrazione Tribunale di Lucca n. 769
Reg. Periodici del 19-22/03/04
Editing e coordinamento editoriale
Mariella Di Stefano
Coordinamento
Eureka s.r.l. Lucca
Grafica e copertina
Cristina Francesconi
Stampa
Tipografia Francesconi - Lucca
Indice
Prefazione
Daniela Scaramuccia
pag.
5
Introduzione
pag.
7
Interventi e relazioni
pag.
11
Qualità e sicurezza: aspetti irrinunciabili delle
medicine complementari
Valerio Del Ministro
pag.
13
Il quadro normativo regionale delle medicine
complementari e non convenzionali
Sonia Baccetti
pag.
15
Il cambiamento culturale necessario per
migliorare qualità e sicurezza delle cure
Riccardo Tartaglia
pag.
19
Lo studio degli incidenti in sanità
Tommaso Bellandi
pag.
25
Farmacovigilanza e rischio clinico in medicina
complementare
Alfredo Vannacci, Eugenia Gallo
pag.
45
pag.
54
Consenso informato, responsabilità
professionale e risk management in medicina
complementare
Massimo Martelloni
pag.
58
Effetti avversi in agopuntura e medicina
tradizionale cinese
Sonia Baccetti, Maria Valeria Monechi
pag.
70
Fitoterapia e sicurezza dei pazienti
Fabio Firenzuoli
pag.
77
Gli eventi avversi in omeopatia
Elio Rossi
pag.
88
Codice deontologico medico: doveri e sanzioni
Antonio Panti
3
Comunicazione e promozione della sicurezza in
medicina complementare
Mariella Di Stefano
pag.
98
Tavola rotonda
Radici antropologiche del rischio, responsabilità
morale e giuridica per la promozione della
cultura della sicurezza ed etica della scelta
pag. 105
Schede tecniche e applicative
pag. 117
La cultura della sicurezza: indagine esplorativa
Sara Albolino
pag. 119
Esempio di caso studio analizzato con
l’approccio sistemico: ritardo diagnosticoterapeutico in paziente affetto da una grave
forma di eritrodermia
Tommaso Bellandi
pag. 129
Applicazione della FMEA ai percorsi di
trattamento presso l’ambulatorio di MTC Fior di
Prugna
Petra Scrivani
pag. 133
Formazione e medicine complementari: il ruolo
dell’Agenzia per la Formazione Azienda USL 11
Empoli
pag. 138
Conclusioni
pag. 139
Allegati
Modulo di informazione e consenso informato, Azienda
USL 2 Lucca
Scheda Audit
Scheda segnalazione di sospetta reazione avversa
a prodotti a base di piante officinali e a integratori
alimentari
pag. 143
Ringraziamenti
pag. 149
Contatti
pag. 151
4
pag. 145
pag. 147
pag. 148
Prefazione
Le medicine complementari sono antichissime. Nel corso dei millenni l’umanità ha fatto riferimento ad esse per ottenere i migliori risultati nella cura delle malattie e nel sollievo dal dolore. La
medicina basata sull’evidenza non le ha mai “soppiantate”, così
come non ha mai eliminato dall’uso più diffuso una farmacopea
molto antecedente alla chimica moderna.
Milioni di persone in tutto il mondo se ne giovano ancora, moltissimi medici le praticano quotidianamente, mentre in campo
scientifico la discussione sul loro ambito di efficacia prosegue e la
ricerca scientifica sviluppa le branche ad esse dedicate.
La Regione Toscana ha compiuto in questo campo passi molto più
coraggiosi di quanto non sia avvenuto a livello nazionale, avviando
e sviluppando un processo di integrazione che ha trovato nel Piano
sanitario regionale 2008-2010 un momento importante di sintesi.
I principi cardine per la costruzione della Rete Toscana di Medicina Integrata sono stati quelli a fondamento di tutto il sistema
della sanità pubblica: integrazione, libertà di scelta da parte del
paziente, libertà di cura da parte dei professionisti, qualità delle
prestazioni, formazione degli operatori, ricerca. E, ultima ma non
meno importante, la sicurezza del paziente.
A questo tema, delicatissimo, è stato dedicato il progetto formativo di cui questa pubblicazione raccoglie i documenti. Si è trattato
di una iniziativa di grande rilievo, che ha fatto compiere alla rete
delle medicine complementari un ulteriore passo avanti, arricchendo la nostra sanità di un approccio sistematico a garanzia dei
risultati di salute.
Stiamo tracciando una strada innovativa per tutta la sanità nazionale, la strada giusta per estendere le pratiche della sicurezza in
tutte le pieghe del sistema.
Daniela Scaramuccia
Assessore al Diritto alla Salute
e alle Politiche di Solidarietà
Regione Toscana
5
Introduzione
Questa pubblicazione presenta i materiali (interventi, relazioni,
schede tecniche e applicative ecc.) del corso di formazione “Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina complementare”, che si è svolto a Empoli nell’ottobre 2009 su iniziativa della Rete Toscana di Medicina Integrata (RTMI), del Centro
per la Gestione del Rischio Clinico in collaborazione con l’Agenzia
per la formazione della ASL 11 di Empoli.
La valutazione e la gestione del rischio clinico rappresentano
sempre di più una questione importante e irrinunciabile per i professionisti e i manager della salute nella prospettiva di un miglioramento continuo della qualità dei servizi sanitari offerti ai
cittadini. In particolare, la prevenzione degli eventi avversi è il
punto di partenza per garantire al paziente un adeguato livello di
sicurezza e per promuovere lo sviluppo professionale dei clinici e
degli operatori sanitari.
Nell’ambito delle medicine complementari questa esigenza è ancora più forte per un’ampia serie di ragioni che includono la notevole crescita del numero di cittadini che utilizzano queste medicine, la discussione in atto su questa materia nell’ambito scientifico
e il processo di integrazione di queste discipline nelle risorse per
la salute che si sta sviluppando, soprattutto in Toscana, negli ultimi anni.
La domanda di qualità, oltre che di quantità, nelle cure e nell’assistenza rappresenta un altro elemento di stimolo a sviluppare una
valutazione del rischio e a costruire le basi per definire attività
specifiche di prevenzione degli eventi avversi.
L’obiettivo è quello di avviare un programma di gestione del rischio clinico a partire da un’analisi delle pratiche di lavoro reali
all’interno delle strutture sanitarie di riferimento per le medicine
complementari.
Il corso ha preso in esame le medicine complementari e ha definito i criteri appropriati per la valutazione del rischio e il monitoraggio dei percorsi diagnostico-terapeutici. Particolare attenzione
è stata prestata alla relazione fra medico e paziente e alla comunicazione tra le strutture, che risultano tra gli aspetti più critici in
questo contesto.
Alla fine del corso è stato definito un piano operativo con l’obietti7
vo di rendere costanti e quotidiane le attività di controllo e la verifica delle misure adottate nelle strutture pubbliche per la sicurezza dei pazienti e la riduzione del rischio nella pratica clinica.
Il progetto formativo: articolazione e obiettivi
Il corso si è posto l’obiettivo di sviluppare le competenze necessarie per un approccio sistematico e concettuale di metodi e strumenti finalizzati all’identificazione e alla prevenzione dei rischi,
con l’eventuale segnalazione e la gestione degli eventi avversi.
Al suo termine i partecipanti hanno acquisito le seguenti competenze:
- individuare le motivazioni, anche etiche, per l’impegno in materia di prevenzione e gestione del rischio clinico nella pratica
professionale quotidiana;
- individuare le reazioni avverse delle medicine complementari;
- valutare le cause delle insufficienze attive e di quelle latenti;
- attuare interventi per la prevenzione dei rischi e per la gestione
degli eventi avversi e delle relative conseguenze;
- individuare il valore e le potenzialità della documentazione e
collaborare alla sua adeguata gestione e archiviazione;
- individuare le attività a maggior rischio per le diverse figure
professionali e le relative responsabilità;
- attuare la rete di gestione del rischio nell’ambito delle medicine
complementari;
- istruire i pazienti, i familiari, i volontari e gli operatori in materia
di identificazione, prevenzione, e protezione dai rischi e di gestione dei danni e delle relative conseguenze;
- individuare le implicazioni in termini di rischio clinico di procedure, farmaci e tecnologie sanitarie nelle medicine complementari;
- individuare le implicazioni organizzative, economiche e medicolegali del rischio clinico nelle medicine complementari.
Il corso è stato suddiviso in tre giornate. Nella prima sono stati
trattati i principi etici e scientifici per la gestione del rischio clinico
e la loro applicazione nelle medicine complementari.
La seconda giornata ha affrontato gli aspetti normativi e deontologici riguardanti la segnalazione e l’analisi degli eventi avversi in
medicina complementare e la segnalazione e l’analisi degli eventi
avversi dalla teoria alla pratica. Infine, nella terza giornata sono
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stati esaminati gli aspetti tecnico-professionali specifici.
Responsabili del progetto formativo: Sonia Baccetti, Tommaso
Bellandi, Fabio Firenzuoli, Gian Franco Gensini, Danilo Massai,
Elio Rossi, Riccardo Tartaglia.
Ha coordinato il progetto formativo aziendale Alessandro Mancini
e Francesca Maggiorelli ha svolto le attività di segreteria.
Docenti e moderatori
Sara Albolino: staff del Centro per la Gestione del Rischio Clinico
e la Sicurezza del Paziente della Regione Toscana
Sonia Baccetti: Responsabile Rete Toscana di Medicina Integrata
e struttura regionale di riferimento per le MC e la MTC Fior di Prugna - Azienda Sanitaria di Firenze
Tommaso Bellandi: staff Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente della Regione Toscana
Katia Belvedere: Direzione Generale Diritto alla Salute e Politiche
di Solidarietà, Regione Toscana
Simonetta Bernardini: Responsabile del progetto sanitario di medicina integrata dell’Ospedale di Pitigliano
David Coletta: medico di medicina generale, Empoli
Valerio Del Ministro: Responsabile Settore Assistenza Sanitaria,
Regione Toscana
Mariella Di Stefano: Direttore del Notiziario regionale MC Toscana
Fabio Firenzuoli: Responsabile struttura regionale di riferimento
per la fitoterapia - Centro di Medicina Naturale, Az. USL 11 di
Empoli
Gian Franco Gensini: Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia
dell’Università di Firenze
Massimo Martelloni: Direttore della U.O. di Medicina Legale Az.
USL 2 di Lucca; componente medico-legale del Consiglio Sanitario Regionale della Regione Toscana; componente medico-legale
della Commissione Regionale di Bioetica della Regione Toscana
Antonio Panti: Presidente dell’Ordine dei Medici di Firenze
Carlo Pizzirani: Vicepresidente Federazione Nazionale Ordine dei
Veterinari Italiani
Elio Rossi: Responsabile struttura regionale di riferimento per
9
l’omeopatia - Ambulatorio di omeopatia, Az. USL 2 di Lucca
Alberto Schiaretti: Presidente Ordine dei Farmacisti di Firenze
Riccardo Tartaglia: Direttore Centro per la Gestione del Rischio
Clinico e la Sicurezza del Paziente della Regione Toscana
Alberto Zanobini: Responsabile Settore Risorse Umane, Comunicazione e Promozione della Salute, Regione Toscana
Alfredo Zuppiroli: Presidente della Commissione di Bioetica della
Regione Toscana
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Interventi e relazioni
INTERVENTI E RELAZIONI
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Interventi e relazioni
QUALITÀ E SICUREZZA: ASPETTI IRRINUNCIABILI DELLE
MEDICINE COMPLEMENTARI
Valerio Del Ministro
Dirigente responsabile settore Assistenza sanitaria, Regione
Toscana
Nell’augurare a tutti buon lavoro, vorrei condividere alcune riflessioni che valgano anche da introduzione al corso. La prima è che
abbiamo raggiunto un livello così interessante di approfondimento del dibattito culturale e di un pensiero sulle medicine complementari perché la Regione Toscana è partita da un’osservazione,
e cioè dal fatto che i cittadini toscani utilizzavano questa tipologia
di medicine.
Non solo le utilizzavano i cittadini ma anche i medici, come ha
evidenziato un’indagine condotta qualche anno fa dall’Agenzia
Regionale di Sanità (ARS). Secondo quello studio, realizzato su
un campione significativo di medici di medicina generale e di pediatri di libera scelta, il 15% dei medici utilizzava le medicine
complementari, il 58% le consigliava e il 23% le aveva usate su
di sé per vari problemi di salute.
Era ragionevole, dunque, che si avviasse un percorso volto ad accreditare queste terapie, un percorso che potesse garantire determinati livelli di qualità nell’erogazione delle prestazioni ai cittadini,
quindi la stesura di un elenco dei medici che praticano tre medicine
complementari: l’agopuntura, la fitoterapia e l’omeopatia.
La Legge regionale n. 9 del 2007, rivista e modificata dalla Legge
31 emanata nello stesso anno, ha definito un percorso normativo
che, oltre a istituire gli elenchi dei medici che esercitano le tre discipline citate, procede all’accreditamento del percorso formativo
dei professionisti e degli istituti pubblici e privati di formazione in
medicina complementare, prevedendo anche un regime transitorio
per le scuole e i professionisti che già praticavano queste discipline
prima dell’approvazione del citato provvedimento legislativo.
Anche il secondo filone si inserisce nella pianificazione regionale,
potremmo dire nel piano e nella legge, o meglio si inserisce in un
concetto generale di salute intesa come la salute nell’equilibrio di
un soggetto ambiente, che dipende da alcuni determinanti di cui
quello sanitario costituisce solo una parte, poiché determinanti di
salute sono anche le condizioni ambientali, la genetica, le condizioni socio-culturali e quelle socio-economiche e i sistemi sanitari.
13
Corso di formazione
In una logica di pianificazione che guarda più alla salute che alla
sanità, in una logica di pianificazione dunque più ampia dove i
piani integrati di salute sono un momento di programmazione che
unisce le comunità locali - gli enti locali, i comuni, le società della
salute - alla programmazione delle aziende, la visione culturale
delle medicine complementari si inserisce in maniera ottimale.
Un’altra piccola riflessione: perché medicine complementari? Anche questa è stata una strategia vincente della Regione Toscana
e di coloro che hanno lavorato alla definizione della normativa
regionale in materia. Con il concetto di complementarietà, infatti,
si è introdotta un’altra possibilità di scelta non solo per il cittadino, ma anche per il professionista della Toscana che consente, di
fatto, di utilizzare una gamma di terapie più ampia di quelle che
sono consentite in altre Regioni. Non a caso, infatti, le prestazioni
di medicina complementare sono state inserite nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), hanno una tariffazione e un codice di
riconoscimento. Si tratta dunque di un filone normativo che tende
a privilegiare la qualità.
A questo punto, arriviamo a parlare di questo corso, orientati
principalmente verso due aspetti. Prima di tutto dimostrare l’efficacia delle medicine complementari, raccogliere le prove scientifiche, perché la scommessa dell’integrazione si basa sulla possibilità di dimostrare l’azione terapeutica di queste medicine che,
per alcuni versi, è già dimostrata e dimostrabile. Questa deve
essere una prospettiva di sviluppo del sistema e di logica su cui
il sistema si misura.
L’altro tema è quello della sicurezza, che è intrinsecamente legato al
concetto di qualità, poiché non esiste la qualità senza la sicurezza.
Questo concetto fa parte del patrimonio etico del sistema e, se le
medicine complementari non sono una monade ma fanno parte del
sistema, anch’esse devono affrontare la questione della sicurezza.
Credo dunque che questo corso si inserisca in una logica complessiva coerente in cui le medicine complementari rappresentano un’altra opportunità terapeutica offerta sia ai professionisti sia
ai cittadini.
D’altra parte un sistema che si definisce etico, un sistema universalistico, non può non occuparsi di sicurezza. Un sistema che
introduce le medicine complementari come un’integrazione alla
medicina accademica deve considerare la sicurezza come uno
strumento efficace di governo di queste medicine. Per queste ragioni giudico particolarmente interessante questo corso.
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Interventi e relazioni
Il quadro normativo regionale delle medicine
complementari e non convenzionali
Sonia Baccetti
Responsabile del coordinamento Rete Toscana di Medicina Integrata
Questo intervento passa in rassegna in modo sintetico i principali atti normativi che hanno permesso di introdurre le medicine
complementari nel Servizio Sanitario Regionale (SSR) della Toscana, l’unica regione in Italia, e a detta dei colleghi europei e
cinesi anche unica al mondo, con processo di integrazione così
sviluppato.
L’estate scorsa, durante un viaggio di studio in Cina, ho incontrato il Rettore della Facoltà di Medicina Tradizionale Cinese (MTC)
dell’Università di Pechino e quando ho spiegato che in Toscana
questa medicina fa parte del servizio sanitario pubblico e che
ci sono decine di ambulatori pubblici, la sua reazione è stata di
grande sorpresa. Infatti, la sanità in Cina oggi è a carico del cittadino, anche se questi non deve esborsare cifre altissime. La
Regione Toscana è, dunque, una delle esperienze più avanzate in
materia di integrazione e ciascuno di noi deve essere consapevole di essere portatore di un’innovazione e di una specificità di
grande valore.
La politica sanitaria della Regione Toscana si basa su alcuni principi fondamentali. Primo fra tutti quello dell’integrazione, intesa
non come sopraffazione o come annullamento delle differenze,
ma come interazione e rapporto fra pari. Gli altri due principi su
cui si fonda la scelta della Regione Toscana di includere le medicine complementari nel Servizio sanitario pubblico sono la libertà di
scelta terapeutica per i cittadini e la libertà di cura per il medico.
Quando parliamo di scelta terapeutica, ci riferiamo al diritto di
scegliere esercitato da un utente informato e questa condizione
deriva dall’alleanza che deve instaurarsi fra il paziente e il personale sanitario. Altri elementi che distinguono il lavoro della Regione Toscana in questo campo sono il rilievo attribuito al percorso
di formazione e l’appropriatezza delle prestazioni. Altrettanto importanti sono la sicurezza del cittadino - come dimostra questo
corso sul rischio clinico in medicina complementare - l’umanizzazione delle cure e l’uguaglianza di accesso alle terapie. Infatti,
nella maggior parte del mondo le medicine complementari sono
15
Corso di formazione
una prerogativa delle classi sociali medio-alte e con una cultura di
livello corrispondente. Negli Stati Uniti, ad esempio, le cosiddette
“medicine complementari e alternative” (CAM) sono poco diffuse
fra gli Ispanici e gli Afro-americani, mentre sono piuttosto popolari nella popolazione di origine anglosassone.
L’integrazione delle medicine complementari nel SSR significa garantire a tutti gli utenti/cittadini uguale accesso alle cure. Non è
un caso, dunque, se le ricerche condotte in Toscana mostrano che
l’utenza delle medicine complementari è composta soprattutto da
casalinghe, pensionati, dunque anche da persone con un livello
culturale medio-basso, in controtendenza rispetto a quanto indicano i dati internazionali.
Un atto di grande rilievo nella programmazione sanitaria riguardante le medicine complementari è il Piano Sanitario Regionale
(PSR) per il triennio 2008/2010; già nel 1998 tuttavia il PSR conteneva una sezione dedicata a queste discipline. Il Piano Sanitario
Regionale citato afferma che agopuntura, fitoterapia e omeopatia
fanno parte del Servizio Sanitario Regionale, come aveva peraltro
stabilito una precedente delibera, ma specifica soprattutto che in
ogni Azienda sanitaria della Toscana deve essere attivato almeno
un centro di medicina complementare integrata.
Un altro passaggio normativo di rilievo è la Legge regionale n.9
del 2007 che definisce i principi basilari per la formazione degli
operatori sanitari in agopuntura, fitoterapia e omeopatia. Il provvedimento non riguarda soltanto i medici, ma interessa anche
i veterinari e i farmacisti. La legge stabilisce che chi ha seguito
un percorso formativo che corrisponde ai criteri fissati all’interno della norma può, se vuole, inserire questa annotazione negli
elenchi attivati presso i relativi Ordini professionali.
È una novità di rilievo perché se è vero che in Italia anche altri
Ordini, come ad esempio quello di Roma, hanno già attivato gli
elenchi degli esperti nelle varie discipline complementari su base
volontaria, la Regione Toscana è la prima e l’unica che ha istituito
gli elenchi degli esperti di medicina complementare in base a una
legge. Di fatto si tratta degli unici elenchi validi in Italia.
Molti si chiedono perché la Regione Toscana ha deciso di disciplinare soltanto tre medicine complementari (agopuntura, fitoterapia e omeopatia), escludendo altre discipline esercitate da
medici, veterinari e farmacisti oppure le discipline esercitate da
professionisti di altro tipo. Qualcuno ha obiettato, ad esempio,
che manca una norma che riconosca e disciplini la professionalità
16
Interventi e relazioni
dell’osteopata, che in altri Paesi europei ha un profilo e un iter
formativo propri.
È utile chiarire che non potevamo varare una normativa che disciplina nuove professioni, perché questo atto è una prerogativa
esclusiva dello Stato. Le leggi regionali possono regolare soltanto
le figure professionali già esistenti ed è ciò che abbiamo fatto occupandoci di formazione per medici, veterinari e farmacisti.
La legge regionale toscana permette di accreditare gli istituti di
formazione in medicina complementare pubblici e privati e di inserire i professionisti esperti nelle tre discipline complementari
nell’apposito elenco. Si tratta di un primo e importante passo. Gli
elenchi a nostra disposizione, che si riferiscono a febbraio 2009
e sono divisi per disciplina, mostrano che in Toscana ci sono 86
medici iscritti negli elenchi di agopuntura e MTC, 165 in quelli
dell’omeopatia e 17 fitoterapeuti. Secondo l’ultimo censimento
(2009) sono in funzione 71 ambulatori pubblici di medicina complementare: 36 di agopuntura e MTC, 20 di omeopatia e 15 di
fitoterapia.
Un altro passaggio importante del processo di regolamentazione
e integrazione delle medicine complementari è l’istituzione della
Rete Toscana di Medicina Integrata (RTMI). Il ricorso al concetto
di rete all’interno del servizio sanitario rappresenta una specificità e un’innovazione della Regione Toscana. In questo modo viene
superato il vecchio concetto di organizzazione sanitaria, dove le
aziende sanitarie sono in competizione fra loro e ciascuna cerca
di acquisire le proprie eccellenze. Gli ultimi due Piani sanitari della
Regione Toscana hanno come elemento di innovazione comune
proprio la costruzione di un sistema in rete, basato innanzitutto
sulla mutua collaborazione fra le strutture. Questo criterio organizzativo non esclude che esistano dei centri di eccellenza, ma
ciò che conta è che tutte le componenti del sistema sanitario regionale possano svilupparsi. Tutte le attività del sistema sanitario
regionale sono state organizzate in conformità a questi criteri;
l’Istituto Toscano Tumori (ITT), per esempio, non ha un polo oncologico di eccellenza, come accade in Lombardia o in altre regioni italiane, ma si è strutturato intorno a diversi poli che devono
tutti migliorare la loro qualità.
Questo concetto è stato applicato anche all’ambito delle medicine complementari con l’istituzione della RTMI, che ha sede in
Regione presso l’Assessorato al diritto alla salute e promuove lo
sviluppo del nostro settore in collaborazione con il gruppo regio17
Corso di formazione
nale del governo clinico.
Fra le norme che sono state approvate per promuovere l’integrazione, occorre segnalare l’inclusione di esperti in medicine complementari nel Consiglio Sanitario Regionale (CSR) e nei Consigli
sanitari delle Aziende sanitarie regionali. Il CSR è un organismo
consultivo di governo clinico che ha il compito di promuovere e
proporre su questioni che riguardano la qualità. La presenza di
rappresentanti della medicina complementare in questa struttura
permette di lavorare in sinergia con l’intero sistema e di ricordare
che nella nostra regione esiste anche il settore delle medicine
complementari. Sono stati realizzati dei lavori in collaborazione,
comprese le linee guida sulla menopausa, alle quali hanno portato il loro contributo i tre centri regionali di riferimento di Campi
Bisenzio, Empoli e Lucca. Un discorso analogo riguarda i Consigli
sanitari aziendali.
La Rete Toscana di Medicina Integrata si occupa anche di cooperazione sanitaria internazionale attraverso il sostegno a specifici
progetti di cooperazione e mantiene rapporti con altre regioni a
livello nazionale per coordinare le iniziative promosse in materia
di integrazione delle medicine complementari.
Ultimo ma non meno importante, occorre ricordare fra gli elementi basilari delle nostre attività la qualità delle prestazioni e la
ricerca; in quest’ambito è in corso di definizione un progetto di
ricerca europeo circa l’utilizzo delle medicine complementari in
oncologia, in collaborazione con l’Istituto Toscano Tumori.
18
Interventi e relazioni
Il cambiamento culturale necessario per migliorare qualità e sicurezza delle cure
Riccardo Tartaglia
Direttore Centro Gestione Rischio Clinico e Sicurezza del Paziente, Regione Toscana
La gestione del rischio clinico avrà ottenuto dei risultati importanti solo quando il tema della sicurezza sarà diventato un aspetto
intrinseco della pratica clinica di ogni operatore sanitario e quando i manager della sanità saranno in grado di progettare l’organizzazione del lavoro secondo i limiti delle persone.
L’obiettivo prioritario della gestione del rischio è quello di promuovere una cultura della sicurezza. Non è un obiettivo facile da
raggiungere poiché siamo ancora pervasi da una cultura medica
che basa tutto sulle proprie risorse cognitive, sulle proprie conoscenze e competenze tecniche. In realtà livelli più alti di sicurezza
si raggiungono se siamo anche capaci di lavorare insieme sostenendoci l’uno con l’altro e se si inseriscono nel sistema delle barriere protettive che intercettino gli errori cognitivi e organizzativi
prima che determino un evento avverso.
Il punto di partenza di questo cambiamento culturale è stato il
rapporto dell’Institute of Medicine To err is human (2000), che
forniva dati sconcertanti sui decessi causati dagli errori medici. I
dati provenivano da due studi epidemiologici, uno condotto nello
stato dello Utah Colorado e un altro nello Stato di New York. Il
documento riportava un numero di eventi avversi fatali da errori
dei medici superiore a quelli causati da incidenti automobilistici
e infortuni.
Questo primo rapporto è stato seguito da molte altre ricerche,
anche in epoca più recente, che hanno confermato alti tassi di
eventi avversi nella pratica clinica. Una review dei maggiori studi
epidemiologici, pubblicata nel 2009 sulla rivista Quality and Safety in Health Care edita dal British Medical Journal, determina un
tasso di eventi avversi pari al 9.2% ogni cento ricoveri. Laddove
per “evento avverso” si intende un danno al paziente causato
dalla gestione sanitaria, un evento dunque non collegato direttamente alla malattia, ma soprattutto un incidente che si può
prevenire.
Un aspetto importante dell’analisi degli eventi avversi è che a
19
Corso di formazione
migliaia di mancati incidenti, a centinaia di piccoli eventi di lieve
entità, possono corrispondere decine di incidenti severi e alcuni
eventi mortali. È fondamentale, dunque, nell’ambito della gestione del rischio, imparare soprattutto dai mancati incidenti, i più
numerosi.
La cultura nella quale siamo stati formati e di cui risentiamo quando analizziamo gli eventi avversi è quella della colpa, la ricerca
delle responsabilità. Questo culto della responsabilità personale
sta alla base anche di un mancato sviluppo della cultura della
sicurezza.
Concentrarsi sull’incidente in sé e sulla persona, invece che sul
contesto e l’organizzazione in cui l’evento avverso ha avuto luogo
e pensare che la questione si possa risolvere con provvedimenti disciplinari, risponde a una logica che appartiene al passato.
Punire una persona oppure allontanarla dall’ambiente di lavoro
tranquillizza forse l’opinione pubblica ma non rende più sicuro il
sistema.
In un bel film del 1955, Nessuno resta solo di Stanley Kramer con
Frank Sinatra e Robert Mitchum, un film cult per molti chirurghi,
il direttore dell’anatomia patologica dice: “Un medico è memoria,
dovete imparare le 1.500 pagine di questo libro se volete avere
l’immunità per uccidere”. In questa frase c’è tutta l’enfasi di un
film, ma in realtà la nostra formazione di medici si è basata molto
sulla memoria finché qualcuno ci ha detto: “attenzione c’è troppo
ospedale intorno agli operatori”, che non ce la fanno a sostenere
un carico cognitivo e alla fine dimenticano dei passaggi cruciali di
una procedura chirurgica o di un percorso clinico-diagnostico.
Se c’è troppo ospedale intorno agli operatori, dovremo aiutarli
con strumenti di supporto cognitivo, come ad esempio le checklist del percorso chirurgico, questo afferma Atul Gawande, uno dei
maggiori opinion leader (autore di libri di successo e di apprezzati
articoli su New Yorker) che promuove questo cambiamento culturale. Se è vero ciò che dice Donald Berwik, un altro dei guru della
qualità e della sicurezza, e cioè che ogni sistema è organizzato
per ottenere i risultati che ottiene, le conseguenze della cultura
della colpa non possono che essere queste, quelle che abbiamo
avuto fino ad oggi: nascondere gli incidenti, attribuirne la causa
ad altri e ignorare perfino i mancati incidenti.
Per questo è necessario un cambiamento culturale, perché il timore della segnalazione, di capire perché è accaduto un certo
evento, non è legato soltanto al timore delle possibili conseguen20
Interventi e relazioni
ze, penali e giudiziarie, o di perdere la stima dei colleghi ma
dipende dal fatto che la nostra cultura ci spinge a pensare che
quando accade qualcosa abbiamo il dovere di capire perché è
accaduto.
Oggi la maggioranza degli operatori sanitari crede nei sistemi di
incident reporting come strumento per migliorare la qualità del
proprio lavoro.
Poco più di un anno fa il nuovo codice deontologico della Federazione Nazionale Ordini Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) ha stabilito che gli operatori hanno il dovere deontologico
di segnalare gli errori e di avviare approfondimenti e analisi per
evitare che possano ripetersi.
Purtroppo siamo consapevoli che le strutture sanitarie sono affette in alcuni casi dalla cosiddetta “sindrome del sistema vulnerabile”, così definita da James Reason, uno dei principali studiosi
internazionali di errore umano. Tale sindrome è caratterizzata
dalla tendenza a colpevolizzare gli operatori di prima linea, non
considerare gli errori organizzativi, essere troppo condizionati
nella gestione dell’ospedale da indicatori di tipo economico e non
di qualità e sicurezza delle cure.
È ormai dimostrato che un elemento di vulnerabilità del sistema
consiste proprio nel negare i possibili errori organizzativi. È un
errore organizzativo anche non mettere gli operatori in condizioni di agire al meglio della loro competenza professionale con
un’adeguata formazione, ridurre i tempi delle visite, non investire
in attività che migliorano la sicurezza ecc.
In cosa consiste il passaggio fondamentale di questo cambiamento culturale? Organizzare il lavoro in sanità sapendo che le persone possono sbagliare, perché sbagliare è umano, è insito nella
razionalità limitata. Dovremmo dunque come operatori sanitari
considerare attentamente quest’aspetto e concentrarci sul contesto organizzativo e culturale invece che sulla performance.
Dovremmo svolgere un ruolo di supporto, di stimolo, di motivazione e promuovere una cultura dell’apprendimento e della comunicazione.
Un’altra questione fondamentale della gestione del rischio sono le
relazioni umane tra operatori sanitari. È evidente che se non c’è
il clima giusto, è molto difficile sviluppare la gestione del rischio.
In questi anni il Centro Gestione Rischio Clinico della Regione
Toscana è intervenuto in strutture sanitarie dove il livello di conflittualità e tensione era così alto che parlare dei propri errori era
21
Corso di formazione
davvero difficile. Occorre perciò lavorare sull’organizzazione, sulle risorse umane, e non pensare più alla medicina come a un’attività di singoli operatori. Oggi, in effetti, si lavora sempre più in
team, il che richiede una certa capacità di relazione.
Questo cambiamento culturale comporta anche il passaggio da
un’etica medica basata sull’autorità di stato, a un’etica basata
sull’autorità di fatto; da un’etica basata sulle certezze a un’etica
in cui si parla di probabilità, da un’etica basata sui dogmi a un’etica che si basa su dati empirici, sulle valutazioni di probabilità; da
un’etica paternalistica a un’etica basata sulla partnership e sulla
collaborazione.
In questo ragionamento è importante lo studio dell’ergonomia del
fattore umano, come dice Reason: “non possiamo cambiare gli
esseri umani, per loro stessa natura fallibili, ma possiamo cambiare le condizioni in cui essi lavorano”, introducendo nel sistema
delle barriere che permettono di intercettare gli errori prima che
determinino un danno.
È da qui che bisogna iniziare a organizzare il lavoro: progettare
i sistemi e anche le apparecchiature biomedicali. Dobbiamo progettare sistemi che si adattino ai lavoratori e non lavoratori che
si adattino ai sistemi.
Il nuovo approccio alla sicurezza del paziente ha introdotto, accanto al fallimento attivo conseguente a errori di comportamento
dovuti all’operatore, il fallimento latente, cioè gli errori associati
ad attività distanti, in termini di spazio e di tempo, dal luogo
dell’incidente, come le attività manageriali, normative e organizzative. Le conseguenze degli errori latenti possono restare silenti nel sistema anche per lungo tempo e diventare evidenti solo
quando si combinano con altri fattori in grado di rompere le difese del sistema stesso.
Nei nostri ambienti talvolta sono emanate regole senza tener
conto delle loro reali possibilità di applicazione che servono solo a
togliere al management il peso di alcune responsabilità.
Tra le criticità che si devono affrontare per migliorare la sicurezza, la comunicazione ha un ruolo basilare. La Joint Commission
on Accreditation of Healthcare Organizations (JCAHO) mediante
l’analisi di numerosi eventi sentinella utilizzando la “route cause
analysis”, una metodica di studio molto usata per l’analisi degli
incidenti, pone la comunicazione al primo posto come causa di
evento sentinella. Possono esserci incidenti di vario genere collegati alla comunicazione. Si lavora spesso in ambienti con un forte
22
Interventi e relazioni
rumore di fondo, mentre in radiologia ci sono enormi problemi
d’interpretazione delle immagini conseguenti alla complessa comunicazione visiva. Ci sono i problemi di comunicazione legati
all’ambiguità semantica e fonetica ma anche alla deferenza gerarchica e alla conflittualità tra operatori.
Un’altra questione da affrontare nei nostri ospedali riguarda le
tecnologie. Le apparecchiature non tengono conto dell’ergonomia
e dell’usabilità. È necessario a tal fine basare gli acquisti anche
su questi requisiti.
La cultura della sicurezza si aumenta e si diffonde anche con i
sistemi di segnalazione volontaria.
È necessario effettuare audit clinici e rassegne di mortalità per
migliorare il nostro lavoro anche a seguito di eventi significativi.
È però necessario stabilire anche degli obiettivi a breve termine.
Le campagne di sensibilizzazione promosse su alcune buone pratiche, a livello nazionale e regionale, hanno questo significato.
Nella Regione Toscana ne abbiamo realizzate su varie tematiche: l’igiene delle mani per prevenire le infezioni ospedaliere,
la scheda terapeutica unica per evitare gli errori di trascrizione,
la checklist di sala operatoria per evitare dimenticanze prima e
dopo l’intervento chirurgico, la “Modified Early Warning Scale”
per prevenire il rischio di arresto cardiaco.
Occorre anche mitigare gli effetti indesiderati del cambiamento.
Sappiamo, infatti, che i momenti di grande trasformazione devono essere guidati e supportati costantemente. Bisogna dunque
sostenere gli operatori che vivono questi cambiamenti e promuovere il lavoro di gruppo, standardizzare e riprogettare le procedure tenendo conto degli errori.
Questa è la filosofia che abbiamo cercato di promuovere nel Servizio Sanitario Toscano, consapevoli che, per citare Albert Einstein: “I problemi che abbiamo oggi non saranno mai risolti all’interno della stessa cultura che li ha generati”.
È necessario promuovere questo cambiamento culturale e invito
anche voi, se ci credete, a diffondere nelle vostre sedi lavorative
questa nuova cultura del segnalare e imparare dai propri errori,
l’unica che può migliorare qualità e sicurezza.
È molto importante, infine, che anche i cittadini siano consapevoli di queste dinamiche e che insieme a loro, con il loro coinvolgimento, si lavori per metterli in grado sempre di più di fare le
proprie scelte in materia di salute basandosi su dati oggettivi e
su indicatori condivisi.
23
Corso di formazione
Riferimenti bibliografici
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reliability organizations? Appl Ergon. 2010 Jan 25. [Epub ahead
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G. Romano, P. Diana, R. Tartaglia. Edizione Esseditrice Panorama
Sanità 2007.
24
Interventi e relazioni
Lo studio degli incidenti in sanità
Tommaso Bellandi
Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente, Regione Toscana
La prospettiva sistemica
Molti incidenti in sanità e in altri settori vanno studiati secondo
la prospettiva sistemica, per riuscire a comprenderli a fondo e
ottenere un apprendimento organizzativo. Come abbiamo visto
negli interventi precedenti, azioni e fallimenti dei singoli individui
hanno un ruolo centrale, ma il loro modo di pensare e di agire
è fortemente condizionato dal contesto vicino e dalle più ampie
dinamiche organizzative.
Reason (1997) ha descritto gli elementi essenziali degli incidenti
organizzativi. Prima di entrare nel merito delle modalità di analisi
proposte da Reason e delle tecniche sviluppate per il contesto
sanitario, occorre premettere che non tutti gli eventi avversi sono
da ricondurre ai fattori latenti e dunque da indagare in profondità
secondo la prospettiva sistemica.
In alcuni casi gli errori sono confinati al contesto operativo e possono essere spiegati con l’analisi dei fattori individuali e le caratteristiche del compito. In realtà, analizzando le interazioni emergono sempre anche fattori latenti che, però, in alcune situazioni
hanno un peso minore rispetto alle dinamiche del contesto vicino.
In ogni caso, gli incidenti più gravi hanno bisogno di un certo periodo d’incubazione, perché coinvolgono un gran numero di persone e di fattori che vi contribuiscono. In queste circostanze, la
modalità di analisi organizzativa, conseguente all’adozione della
prospettiva sistemica, è di grande efficacia per l’interpretazione
dell’incidente (Vincent, 1998, Taylor-Adams e Vincent, 2003).
L’incubazione dell’incidente inizia con gli effetti negativi dei processi organizzativi di alto livello, come la pianificazione e la programmazione della produzione dei servizi, la previsione del volume di attività, la progettazione e la manutenzione degli ambienti
e delle tecnologie, le strategie di sviluppo e le politiche del personale. I fallimenti a questo livello creano le condizioni latenti di
pericolo che si riversano e si diffondono in contesti operativi come
la sala operatoria o il pronto soccorso. Qui possono creare le
condizioni locali, come un eccessivo carico di lavoro o una cattiva
interazione con le apparecchiature, che promuovono l’attuazione
25
Corso di formazione
di errori o di violazioni. Molte azioni insicure sono commesse sulla
prima linea, ma soltanto poche di esse riescono a penetrare le
difese del sistema generando l’incidente. Il fatto che le barriere di
sicurezza (Hollnagel, 2005) ingegnerizzate nel sistema, come allarmi e procedure, abbiano delle deficienze dovute a errori latenti, ma anche a errori attivi, è illustrato nella figura 1 dalla freccia
che buca le barriere di difesa del sistema generando l’incidente.
Figura 1. Lo sviluppo degli incidenti
Le persone che lavorano sulla prima linea sono gli eredi dei fallimenti del sistema invece che i responsabili di azioni insicure che
provocano incidenti. Il modello non va inteso tuttavia come un
invito a spostare la ricerca dei colpevoli dai professionisti della
prima linea ai manager del livello organizzativo, quanto a considerare che gli stessi manager lavorano in un ambiente complesso, in cui gli effetti di decisioni e azioni non sono immediatamente
evidenti. Pertanto, secondo Reason (2001) i manager non sono
da incolpare né più né meno degli operatori della prima linea,
poiché anche loro, in quanto esseri umani, possono commettere
errori di pianificazione e di esecuzione.
È opportuno dunque che la cultura della sicurezza sia condivisa
a tutti i livelli, affinché manager e progettisti tengano conto delle
condizioni di pericolo che possono derivare dalle loro decisioni o
azioni. Talvolta la percezione del rischio è più bassa in chi lavora
a grande distanza dalla prima linea, perché il mancato contat26
Interventi e relazioni
to diretto con i processi produttivi e il contesto delle operazioni
spinge i manager e i progettisti del blunt end a sottovalutare le
dinamiche della sicurezza nelle prestazioni. È piuttosto da biasimare l’atteggiamento di manager e progettisti che decidono e
agiscono senza un confronto costante con la realtà della prima
linea e senza coinvolgere chi sta a diretto contatto con il processo
produttivo.
In sanità, la distanza tra il blunt end e lo sharp end è in certi
casi accentuata dal fatto che alcune scelte di tipo politico e organizzativo avvengono al di fuori delle strutture sanitarie, sulla
base di valutazioni di rischi e benefici non sempre coerenti con
la missione delle strutture sanitarie. Ci sono quindi problemi di
tipo inter-organizzativo che travalicano i confini delle strutture
sanitarie e che, talvolta, possono essere decisivi per la qualità e
la sicurezza delle prestazioni. Come è stato osservato anche nel
contesto dell’aviazione (Catino, 2003), l’industria dei farmaci e
delle apparecchiature biomedicali, il governo e le agenzie collegate, gli ordini professionali e le società scientifiche contribuiscono
in misura consistente al disegno delle strutture e dei processi di
diagnosi e cura, introducendo un ulteriore livello di complessità
nel sistema che manca nella rappresentazione della figura 1.
Il problema della regolamentazione in sanità è particolarmente
critico, perché se è vero che si tratta di un settore in cui l’autonomia dei professionisti della prima linea è così accentuata che ogni
tentativo di uniformazione delle pratiche rischia di scontrarsi con
tradizioni professionali consolidate, d’altro canto la personalizzazione della relazione è parte importante dell’assistenza, tanto che
risulta inaccettabile una cieca standardizzazione delle procedure
che può avere un impatto negativo sulla sicurezza.
I programmi di qualità e accreditamento calati dall’alto hanno
rappresentato più un eccesso burocratico che un miglioramento
delle pratiche di lavoro per gli operatori, ai quali è stato richiesto
di compilare montagne di carta e moduli di cui non coglievano il significato. Questo intervento di regolamentazione funziona
se attuato nella logica del governo clinico, cioè nell’incontro tra
enti regolatori e professionisti della prima linea (Tomassini et al,
2003).
Vincent e colleghi (1998, 2003) hanno esteso il modello di Reason per applicarlo all’analisi degli eventi avversi in sanità, classificando le condizioni del contesto vicino che favoriscono gli errori
e le caratteristiche del livello organizzativo in un’unica cornice dei
27
Corso di formazione
sette fattori che influenzano le pratiche cliniche (tabella 1).
All’inizio ci sono i fattori connessi alle condizioni del paziente. In
tutte le situazioni cliniche, le condizioni del paziente influiscono
in modo diretto sulle pratiche e sui risultati delle prestazioni sanitarie. Altri fattori, come la personalità del paziente, la lingua ed
eventuali problemi psicologici, possono essere molto importanti
perché influenzano la comunicazione con il personale sanitario.
Anche il disegno del compito, la disponibilità e l’utilità di protocolli
e dei risultati di test diagnostici possono influenzare il processo di
cura e la qualità dei risultati.
I fattori individuali includono conoscenze, abilità ed esperienza
di ogni membro dello staff, che influiscono su qualità e sicurezza
delle prestazioni.
Ogni membro dello staff è parte di un gruppo all’interno di un’unità operativa, parte dell’ampia struttura ospedaliera o territoriale,
a sua volta inserita in un’azienda sanitaria o ospedaliera. Il modo
in cui un individuo opera e il suo impatto sul paziente è vincolato
e influenzato dagli altri membri del gruppo, dal modo in cui comunicano, si supportano e si supervisionano l’un l’altro.
Il gruppo è influenzato dalle azioni e decisioni di tipo organizzativo del management della struttura e dell’azienda sanitaria.
Questo include l’allocazione delle risorse umane e tecnologiche,
la formazione del personale, gli obiettivi e le verifiche periodiche
della direzione, e così via.
La direzione aziendale è a sua volta influenzata dal contesto istituzionale, inclusi i vincoli economici, dalla normativa vigente e
dal più ampio clima politico ed economico.
La cornice dei sette fattori è uno schema utile per l’analisi degli
eventi avversi, che include sia i fattori clinici sia le condizioni
organizzative di alto livello. Rappresenta dunque un’utile guida
per l’analisi degli eventi avversi perché invita a tenere in considerazione un’ampia gamma di fattori che ai diversi livelli sono determinanti dei risultati delle prestazioni sanitarie. Se applicata in
maniera sistematica nell’analisi degli incidenti, consente di stilare
una graduatoria dei fattori di maggior peso sull’esito delle prestazioni e di definire una graduatoria di priorità degli interventi
necessari a prevenire futuri fallimenti del sistema.
28
Interventi e relazioni
Fattori che contribuiscono a determinare le pratiche cliniche
(Vincent et al, 1998)
Tipo di fattore
Determinanti che influenzano le
pratiche cliniche
Fattori del paziente
Complessità e gravità della patologia
Lingua e comunicazione
Personalità e status
Fattori del compito e
della tecnologia
Disegno del compito e chiarezza
della struttura
Disponibilità e uso di protocolli
Disponibilità e accuratezza dei risultati dei test
Supporti alla decisione
Fattori individuali
dell’operatore
Conoscenze e abilità
Competenze
Salute fisica e mentale
Fattori del gruppo di
operatori
Comunicazione verbale
Comunicazione scritta
Supervisione e richiesta d’aiuto
Leadership
Fattori dell’ambiente di
lavoro
Livello dello staff e disponibilità di
risorse umane
Carico di lavoro e organizzazione dei
turni
Progettazione, allocazione e manutenzione delle apparecchiature
Supporto amministrativo e manageriale
Ambiente fisico
Fattori organizzativi e
gestionali
Risorse e vincoli economici
Struttura organizzativa
Politiche, standard e obiettivi
Cultura della sicurezza e priorità
Contesto istituzionale e
normativo
Regolamentazione economica e normativa
Governo del sistema
Collegamenti con organizzazioni
esterne
Tabella 1. La cornice per l’analisi degli incidenti
29
Corso di formazione
L’analisi dei casi
Lo scenario di una prestazione sanitaria può essere esaminato da
molte prospettive, ognuna delle quali può mettere in luce sfaccettature del caso. I casi sono impiegati da sempre per la formazione
degli operatori sanitari e per riflettere sulla natura delle malattie.
Servono anche per illustrare le dinamiche di decision making, la
valutazione delle pratiche cliniche e soprattutto, quando gli errori
sono oggetto di discussione, l’impatto sulle persone di incidenti o
fallimenti. L’analisi degli incidenti, per le finalità della gestione del
rischio clinico, riguarda tutti questi aspetti e include riflessioni più
ampie sull’affidabilità del sistema sanitario.
Sono diverse le tecniche di analisi dei casi in sanità. Negli Stati
Uniti la tecnica più diffusa è la Root Cause Analysis (RCA). Questo
approccio all’analisi dei casi, impiegato dalla Joint Commission,
è molto approfondito e intensivo e richiede tempo e risorse e
ha avuto origine dagli approcci “Total Quality Management” alla
sicurezza in sanità (Spath, 1999). La RCA è promossa e adottata
in molti Paesi, con risultati non sempre corrispondenti agli investimenti in tempo e risorse (Tartaglia et al, 2005).
Per un’ampia serie di ragioni, pare più convincente l’approccio così
detto di analisi di sistema, o “London protocol” (Taylor-Adams e
Vincent, 2003).
Il termine “Root Cause Analysis”, analisi della causa radice, anche
se molto diffuso, è contraddittorio perché sottintende la possibilità di ricondurre l’incidente a una singola causa. Data la complessità del mondo sanitario, questo è molto difficile, perché le pratiche cliniche sono determinate da molti fattori che interagiscono
a vari livelli.
L’esito delle prestazioni è dunque il risultato di una catena di fallimenti invece dell’effetto evidente di una singola causa radice.
Inoltre, un’obiezione ancora più importante rispetto all’uso del
termine “Root cause analysis” riguarda le finalità dell’indagine.
L’analisi dei casi di eventi avversi non mira, infatti, alla ricerca
della causa, ma al miglioramento complessivo di un sistema che
non è stato in grado di prevenire l’incidente. Certo, è necessario
capire che cosa è successo e perché, anche solo per spiegarlo al
paziente e ai suoi familiari. Se la finalità è migliorare la sicurezza
del sistema, bisogna andare oltre la causa e riflettere su ciò che
l’incidente rivela circa i buchi e le inadeguatezze del sistema in
cui è avvenuto. L’incidente è una finestra sul sistema, un breakdown (Winograd e Flores, 1986) che consente di cogliere le di30
Interventi e relazioni
namiche del sistema, impalpabili quando tutto va bene: si parla
quindi di “System analysis” cioè di analisi del sistema (TaylorAdams e Vincent, 2003). In questo senso lo studio dei casi non
è una ricerca retrospettiva della causa radice, ma il tentativo di
guardare al futuro per prevenire i rischi alla sicurezza dei pazienti. La causa radice non è importante, perché riguarda il passato,
non il futuro e le attività di prevenzione dei rischi. Le carenze del
sistema rivelate dall’incidente rimangono presenti finché non si
agisce per rimuoverle, dopo un’attenta analisi dei fattori che vi
hanno contribuito.
Il London protocol è il modello che abbiamo adottato per l’analisi
dei casi di evento avverso nell’ambito delle revisioni tra pari, cioè
negli audit e nelle rassegne di mortalità e morbidità. Le fonti d’informazioni per ricostruire il caso sono le segnalazioni spontanee degli
operatori, la revisione della documentazione clinica o le osservazioni
sul campo. I quesiti principali che guidano l’analisi sono:
1. Che cosa è successo? (i risultati e la sequenza di eventi)
2. Com’è successo? (il tipo di problema nell’assistenza e le condizioni cliniche)
3. Perché è successo? (i fattori che hanno contribuito all’evento)
Ricostruita la sequenza di eventi esaminando la documentazione clinica e le testimonianze dei soggetti coinvolti, si procede
all’identificazione del tipo di problema nell’assistenza, all’osservazione del contesto clinico in cui l’evento è avvenuto e alla descrizione dei fattori che vi hanno contribuito. I problemi nell’assistenza sono azioni o omissioni, oppure deviazioni nel processo
diagnostico-terapeutico che hanno effetti diretti o indiretti sulla
qualità dell’assistenza. Alcuni problemi riguardano il monitoraggio
delle condizioni del paziente, il tempismo della diagnosi, gli errori
nel trattamento ecc. Le condizioni cliniche riguardano, invece, le
caratteristiche principali della prestazione oggetto di analisi e i
fattori del paziente che hanno contribuito all’incidente.
I fattori che hanno contribuito all’evento sono le condizioni in
cui si è verificato l’incidente, ereditate dagli operatori che si trovavano ad agire nel luogo e nel momento dell’esecuzione delle
prestazioni non andate a buon fine. Qualsiasi combinazione di
determinanti può contribuire a un problema nell’assistenza. Gli
analisti devono distinguere i fattori rilevanti solo nella particolare
occasione, da quelli che fanno parte in modo costante dell’uni31
Corso di formazione
tà operativa o dell’intera organizzazione. Per esempio, potrebbe
esserci un problema di comunicazione tra due medici che contribuisce a un evento avverso. Se questo problema non è usuale,
potrebbe non richiedere un’ulteriore considerazione, ma se è ricorrente indica delle carenze del sistema, che occorre approfondire per trovare una soluzione ed evitare che invalidino ancora la
qualità della comunicazione in situazioni critiche.
Sebbene la documentazione clinica sia un’ottima fonte per ricostruire la dinamica degli incidenti, le interviste con i soggetti coinvolti nella gestione del caso oggetto d’analisi sono molto
importanti per rilevare come sono andate le cose nella realtà,
perché talvolta nei documenti ufficiali si tende a riportare solo le
informazioni non compromettenti.
Nel modello toscano, a differenza di quello proposto da Vincent e
colleghi, l’analisi del tipo di problema e dei fattori latenti (Bellandi
et al, 2005) avviene nell’ambito di riunioni con tutti gli attori che
hanno gestito il caso. Il London protocol, infatti, prevede che uno
o più analisti esterni ricostruiscano il caso e lo analizzino con riferimento alla documentazione clinica, alle interviste con gli operatori e a eventuali osservazioni sul campo. Nel modello toscano
invece i clinici, con l’aiuto di un facilitatore interno alla struttura
preparato per questo ruolo, analizzano i casi di incidenti avvenuti
nella propria realtà operativa. Così si favoriscono lo sviluppo di
una visione comune dei problemi e l’impegno a promuovere e
attuare iniziative di miglioramento che scaturiscono dall’analisi,
in maniera più informale e centrata sui comportamenti individuali
con la rassegna di morbidità e mortalità, in modo più approfondito e dettagliato quando si produce un “alert report” a seguito di
un audit clinico GRC.
Ad ogni modo, lo stesso Vincent (2005) suggerisce che il London
protocol può essere impiegato in più modalità e formati in tutti
i contesti sanitari da parte di ricercatori, clinici, risk manager o
gruppi di operatori, che possono usare il modello come guida
strutturata alla riflessione su uno o più incidenti. A seconda della
gravità dell’evento, l’analisi può avere diversi livelli di approfondimento, con la partecipazione di un numero più o meno elevato di
operatori. Il protocollo può essere impiegato per l’insegnamento,
per l’introduzione della prospettiva sistemica con un approccio
pragmatico che parte dall’analisi dei casi e non dall’enunciazione
della teoria. Lo abbiamo fatto nell’azienda sanitaria di Firenze
(Bellandi et al, 2004) e poi promosso a livello regionale.
32
Interventi e relazioni
I fattori che hanno contribuito all’evento avverso sono l’obiettivo
delle azioni di miglioramento, che in alcuni casi sono promosse
dopo un singolo incidente, soprattutto quando le conseguenze
sono molto gravi. Per attuare interventi più ampi e costosi, è necessario raccogliere una casistica di incidenti per rilevare i fattori
latenti che richiedono misure di prevenzione prioritarie. È consigliabile prevedere sempre degli indicatori per valutare nel tempo
l’impatto delle azioni di miglioramento intraprese.
L’analisi dell’affidabilità umana e dei sistemi
L’analisi dei casi di eventi avversi può essere illuminante, per cogliere le deficienze del sistema e definire piani di miglioramento
seguendo un approccio bottom-up. Appresa la prospettiva sistemica, si può procedere anche adottando un approccio diametralmente opposto all’analisi dei rischi per i pazienti. Si può cioè partire,
anziché da uno o più casi di incidenti realmente accaduti, dall’analisi dei processi diagnostico-terapeutici esaminando sistematicamente le possibilità di fallimento, seguendo l’approccio dell’analisi
dell’affidabilità umana e dei sistemi, dall’inglese HRA, Human and
System Reliability Analysis (Kirwan e Ainsworth, 1993).
La HRA è stata definita come l’applicazione delle informazioni rilevanti sulle caratteristiche dei comportamenti degli esseri umani
e dei sistemi alla progettazione degli oggetti, delle infrastrutture,
delle apparecchiature e degli ambienti impiegati nei luoghi di vita
e di lavoro. Le tecniche HRA sono utilizzate sia nell’analisi degli
incidenti, sia più in generale nell’analisi dei processi organizzativi
e sono impiegate da più di 50 anni nelle industrie ad alto rischio
e nel settore militare. Tra queste anche la più nota Failure Modes
and Effects Analysis (FMEA), di cui parleremo più avanti.
Le tecniche HRA sono applicabili in tutte le fasi del ciclo di vita di
un processo produttivo. Le tecniche sviluppate per prevedere in
anticipo i possibili fallimenti di un sistema e le misure di prevenzione e contenimento dei danni sono state associate in particolare alla crescita dell’industria nucleare (Slovic, 2000). Per ottenere
il consenso delle popolazioni all’installazione di centrali nucleari
si è data ampia diffusione ai risultati delle valutazioni dei rischi
fatte con la HRA, per mostrare le capacità di anticipare i rischi da
parte dei progettisti e rassicurare gli abitanti dei territori vicini
agli impianti. Questo tipo di analisi comporta una dettagliata specificazione delle caratteristiche dei processi, la quantificazione di
probabilità e modalità dei fallimenti, la misurazione delle proba33
Corso di formazione
bilità dei diversi tipi di errore umano e, infine, la considerazione
degli effetti conseguenti tutte le possibili combinazioni di errore e
fallimento del sistema, per ottenere una valutazione complessiva
della sicurezza del sistema.
La realtà ha dimostrato in più occasioni che questa modalità di
valutazione dei rischi non è sufficiente a garantire la sicurezza di
processi produttivi ad alto rischio, e ancor meno la sicurezza dei
lavoratori e degli abitanti dei territori vicini agli impianti (Perrow,
1999). La complessità di molti sistemi safety critical rende impossibile e aleatoria un’analisi a priori dei possibili fallimenti del
sistema e degli errori umani. Nonostante questo, si ritiene utile
applicare questo tipo di tecniche in sanità per promuovere una
riflessione tra gli operatori della prima linea prima di introdurre un’innovazione di tipo tecnico o organizzativo. Ad esempio,
prima di introdurre una nuova procedura è utile riflettere sulle
possibili criticità delle diverse fasi della procedura, oppure nel
caso di un’innovazione tecnologica si possono predisporre soluzioni di back-up per affrontare eventuali malfunzionamenti dello
strumento. Considerata la tendenza all’improvvisazione più che
alla pianificazione, nelle pratiche sanitarie l’impiego delle tecniche HRA può favorire lo sviluppo di un pensiero sistemico volto
ad anticipare le situazioni di rischio e preparare gli operatori a
gestirle per salvaguardare i pazienti.
Esistono numerose tecniche di previsione dei rischi che sono state
sviluppate nell’industria in molti casi con fini commerciali, senza
una validazione scientifica o pubblicazioni di supporto. Per chi si
avvicina a questo tipo di tecniche, si aggiunge la difficoltà di varie
sigle impiegate per nominare strumenti spesso simili ma originati
in ambienti diversi, come FMEA, PSA, PRA, SLIM, HEART, THERP,
HAZOP e altri acronimi che in certi casi sono varianti proprietarie
dello stesso approccio HRA (Lyons et al, 2004).
Alcune tecniche sono primariamente finalizzate alla descrizione
dettagliata di un compito o di una sequenza di azioni tecniche. Ad
esempio nella “hierarchical task analysis”, l’attività è scomposta
in una serie di compiti, sottocompiti e operazioni, fino a un livello
di notevole dettaglio che può essere utile per rilevare i rischi di
ogni singola operazione, quantificarli, classificarli e prevedere le
misure di sicurezza da adottare per evitare il fallimento del compito, tenendo conto anche di fattori situazionali e di sistema.
La quantificazione dei rischi ha come fine ultimo la messa a punto
di modelli probabilistici che dovrebbero consentire di prevedere
34
Interventi e relazioni
gli errori e stimare le probabilità di fallimento del sistema. La
quantificazione è l’aspetto più controverso della HRA, perché assegnare valori numerici a eventi incerti e provocati da più fattori,
cioè la probabilità attesa che un operatore commetta un errore, è
una sfida enorme, dal punto di vista scientifico e pratico. Spesso
la quantificazione è affidata al giudizio di un gruppo di esperti e
non è il frutto dell’osservazione rigorosa delle pratiche operative
e della registrazione della frequenza degli errori effettivi. Queste
tecniche hanno di per sé un carattere normativo, tendono cioè a
descrivere le attività come dovrebbero svolgersi e gli errori come
è prevedibile che si verifichino in conseguenza della precedente
descrizione delle attività.
Sono descrizioni per forza di cose sintetiche e non analitiche, che
quindi non possono tenere conto della complessità delle operazioni e dell’andamento dinamico delle pratiche sullo sharp end. In
sanità sono state applicate con successo soprattutto negli ambiti
che, per le caratteristiche delle attività, consentivano una dettagliata descrizione sintetica e una precisa proceduralizzazione,
come il settore emotrasfusionale.
La tecnica che suscita maggiore interesse in ambito sanitario è
la “vecchia” Failure Modes and Effects Analysis (FMEA). Molti organismi che promuovono la gestione del rischio clinico l’hanno
proposta per valutare in modalità sia proattiva sia reattiva i rischi
connessi con i vari step di un processo diagnostico-terapeutico.
La FMEA è una metodologia che guida gli addetti alla sicurezza
nell’analisi delle criticità di un processo di lavoro e nell’individuazione di possibili azioni di miglioramento per ridurre il rischio
d’incidenti. È uno strumento di prevenzione che identifica le aree
deboli di un processo e sviluppa azioni di miglioramento sulla
base di giudizi soggettivi forniti dagli stakeholders del processo.
La finalità dell’analisi è capire quali sono i rischi di un processo,
cioè cosa potrebbe andare male (failure mode) e quali potrebbero
essere le possibili conseguenze (failure effects), al fine di renderlo più sicuro ed efficiente.
Nata negli Stati Uniti in ambito militare nel 1949 per determinare
gli effetti dei fallimenti del sistema e degli equipaggiamenti, dal
1960 è stata impiegata dalla NASA per prevedere i fallimenti,
pianificare le misure di prevenzione e i sistemi di back-up nel
programma spaziale Apollo (Kirwan, 1994). Da allora, la FMEA è
stata impiegata in molti settori safety critical quali l’industria aerospaziale, i processi chimici industriali, il nucleare e l’automotive
35
Corso di formazione
(Ford, GM, Toyota). Dagli anni ’90 viene applicata ai processi di
assistenza e cura sanitari con il nome di “Healthcare Failure Modes and Effects Analysis” (HFMEA®).
FMEA è uno strumento particolarmente flessibile e piuttosto semplice, per questo si impiega talvolta anche, in modalità reattiva,
nell’analisi dei casi insieme al modello sistemico. Prevalentemente è impiegata in modalità proattiva, così come consigliano la
Joint Commission, che impone alle strutture accreditate di compiere almeno un’analisi con FMEA ogni anno (JCAHO: standard
LD. 5.2. luglio 2001), la US Veterans Administration e la National
Patient Safety Agency (NPSA) nel Regno Unito che hanno definito
programmi di training per l’applicazione di FMEA in sanità.
Nella proposta dell’Institute for Healthcare Improvement (2003)
l’applicazione di FMEA in modalità proattiva prevede la revisione
della sequenza di eventi, delle modalità di fallimento (cosa potrebbe andare male?), delle cause del fallimento (perché dovrebbe succedere il fallimento?) e degli effetti del fallimento (quali
potrebbero essere le conseguenze di ogni fallimento?).
L’applicazione di FMEA è suddivisa in sette fasi:
1. Selezionare un processo da valutare con FMEA, tenendo presente che questa tecnica funziona meglio per l’analisi di processi lineari che non hanno molti sottoprocessi. In tal caso
è consigliabile applicare la tecnica a ogni singolo sottoprocesso.
2. Organizzare un gruppo multidisciplinare con tutti gli attori coinvolti nel processo oggetto di analisi, alcuni dei quali
possono essere coinvolti solo per la parte di analisi che li
riguarda.
3. Fare un incontro per analizzare il processo a partire dalla descrizione delle fasi del processo, cercando di descrivere ogni
fase in maniera dettagliata e senza inserire giudizi.
4. Per ogni fase del processo, elencare tutte le possibili modalità di fallimento (failure modes), cioè tutto quello che potrebbe andare male, inclusi i problemi rari e di minore entità.
Quindi procedere all’identificazione delle possibili cause di
ciascuna modalità di fallimento.
5. Per ciascuna modalità di fallimento individuata, fare assegnare al gruppo un valore numerico su una scala da 1 a 10
36
Interventi e relazioni
per la frequenza dell’evento (dove 1 rappresenta una bassissima frequenza, 10 un’altissima), la gravità delle possibili conseguenze (dove 1 rappresenta una bassa gravità, 10
un’altissima) e la probabilità di identificare il fallimento da
parte degli operatori (dove 1 rappresenta un’alta probabilità
di identificazione, 10 una bassa);
6. Calcolare l’Indice di Priorità del Rischio (IPR) per ogni modalità di fallimento, moltiplicando il punteggio della frequenza
(F) per la gravità (G) per la probabilità di identificare (I) il
fallimento da parte degli operatori. Il range dei possibili risultati del calcolo vanno da un IPR pari a 1 a un IPR pari a
1000.
7. Definire i piani di miglioramento, a partire dalle modalità di
fallimento che hanno accumulato un punteggio IPR più elevato e pertanto richiedono interventi prioritari (Vedi figura 2).
Nella definizione del piano di miglioramento è utile tenere presente che se la modalità di fallimento ha una frequenza elevata
sarebbe opportuno eliminare la causa, oppure aggiungere vincoli
di tipo tecnologico o organizzativo, come una procedura che prevede un doppio controllo indipendente, per modificare il processo
riducendo la probabilità del fallimento. Se viceversa la modalità di
fallimento è difficile da identificare da parte degli operatori, bisogna agire per aumentarne la visibilità, ad esempio mediante l’uso
ragionato di allarmi o sistemi di allertamento, oppure inserendo
un passaggio in una procedura per anticipare l’evento. Infine, se
la modalità di fallimento può generare conseguenza molto gravi è
necessario predisporre piani di emergenza per contenere l’escalation verso il disastro o il ripetersi dell’evento a breve distanza di
tempo e di spazio nella stessa struttura sanitaria o in altre dello
stesso sistema sanitario.
37
Corso di formazione
Valutazione del rischio
Identificazione delle possibili criticità
Identificazione degli effetti
Identificazione delle possibili cause
Stima della Frequenza (O)
Stima della Gravità (S) dell’effetto
Capacità di rilevazione della criticità
- Rilevabilità (D)
Calcolo dell’Indice di Rischio
IPR = F x G x R
Figura 2. Schema riassuntivo del processo
L’analisi dei processi e delle procedure in sanità
L’analisi dei processi di lavoro in generale dovrebbe essere il primo passo nella prospettiva di migliorare la produzione e l’erogazione del servizio. La descrizione dello stato attuale dell’organizzazione è, infatti, il punto di partenza per comprendere le
modalità quotidiane di funzionamento di un sistema complesso
come un ospedale, dove la componente sicurezza deve essere
parte integrante del processo e delle procedure e non un fattore
aggiuntivo da spalmare su procedure di lavoro definite.
Nella prospettiva sistemica, lo studio del rischio è considerato
un’opportunità per riflettere sulle condizioni organizzative che lo
hanno favorito: sono proprio i breakdowns delle organizzazioni
a rivelarne le caratteristiche fondamentali, che restano invisibili
nell’ordinaria amministrazione finché non sorge un problema che
richiama l’attenzione degli operatori su un punto critico del processo di lavoro.
38
Interventi e relazioni
Le esigenze di ottimizzazione e miglioramento delle procedure si
congiungono quindi perfettamente con lo studio e il monitoraggio
degli errori e delle situazioni di rischio.
I punti critici di un processo sono le situazioni in cui il rischio
di incidente è elevato perché è più probabile che gli errori commessi dagli operatori abbiano conseguenze dannose, rispetto ad
altre fasi del processo lavorativo o comunicativo.
Gli esseri umani sbagliano continuamente, poiché alla base
dell’errore umano ci sono le stesse funzioni cognitive che guidano il comportamento corretto, ma l’errore diventa pericoloso
solo dove il sistema è più debole, più soggetto a cadute a causa
delle sue caratteristiche strutturali sommate alle contingenze
particolari.
Un certo livello di rischio è connaturato nelle organizzazioni, perché è impossibile prevedere tutte le contingenze di un sistema
dinamico generato dalle interazioni ricorrenti tra gli esseri umani,
che evolve nel tempo insieme all’ambiente circostante. L’individuazione dei punti critici consente, però, di riflettere sui rischi
connessi con le attività umane ed eventualmente di assumere
iniziative per ridurre la pericolosità delle situazioni a rischio.
L’errore attivo dell’operatore della prima linea ha invece una lunga
storia alle spalle, fatta di decisioni organizzative di lungo termine
e di pratiche di risposta a tali decisioni. Quando le pratiche sono
costellate di rischi pronti a esplodere in un incidente, è necessario
ritornare sulle decisioni che hanno influenzato l’evoluzione delle
pratiche per individuare quegli errori latenti che restano invisibili
finché non c’è una caduta del sistema. La differenza fra gestione
del rischio e reazione agli incidenti sta tutta nell’attività di monitoraggio, che consiste nell’analisi dei processi e nella costante
riflessione sui punti critici.
La capacità di percepire i punti critici dall’interno dell’organizzazione è però limitata dalla visione situata degli operatori e del
management. Il significato attribuito dai lavoratori dell’ospedale
alle difficoltà nello svolgimento delle attività dipende dalla cultura dell’organizzazione di cui fanno parte. Assunti e pregiudizi di
quella cultura lasciano perciò una traccia anche nell’applicazione
delle tecniche HRA e nell’interpretazione delle criticità. La tradizionale cultura della colpa, aggravata dalle responsabilità legali che regolamentano lo svolgimento dell’attività medica, rende
molto difficile riconoscere e comunicare gli errori commessi o le
situazioni di difficoltà di un operatore. Gli operatori tendono quin39
Corso di formazione
di a sviluppare localmente delle pratiche per sopravvivere alle difficoltà. Queste restano soluzioni ad hoc e non hanno l’opportunità
di emergere per essere riconosciute dall’organizzazione.
Questa ipotesi, emersa nel corso di ricerche in diverse strutture
sanitarie (Re, 2001; Bellandi, 2002), suggerisce l’esistenza di una
sistematica anticipazione di imminenti crolli del sistema da parte
degli operatori competenti, a tutti i livelli, dall’ausiliare all’infermiere al medico, che operano correzioni continue. Sono i singoli
che continuamente attivano le difese del sistema, correggendo in
modo pro-attivo condizioni di rischio che emergono difficilmente
dalle analisi sull’errore o sulla qualità dell’organizzazione, perché queste correzioni sono viste dagli operatori come interventi
legati all’iniziativa personale, e non come aspetti fondamentali
della propria competenza professionale. Si tratta di iniziative che,
se non attuate, non comportano alcuna violazione degli impegni
contrattuali e professionali; se attuate, cambiano radicalmente la
qualità di risposta del sistema.
Tra il funzionamento “fuori norma” e il funzionamento soggetto
a “certificazione di qualità” esiste una zona intermedia di costruzione quotidiana di qualità. Questa zona non è riconosciuta istituzionalmente pur rappresentando, per ampiezza e rilevanza, un
luogo cruciale per la prevenzione dell’errore. Si tratta di un luogo,
anche psicologico, che segna per ogni operatore la distanza tra
una posizione psicologica di omissione e una posizione psicologica di “presa in carico”.
In questa prospettiva, lavorare per l’emersione dell’errore non
significa diffondere una cultura dell’eccezionalità, ma costruire
una cultura del quotidiano: sviluppare, attraverso un’analisi ergonomica del lavoro, una competenza collettiva che continuamente
attiva e fa emergere il potenziale di miglioramento del sistema.
Cambia l’oggetto stesso dello studio dei fattori di rischio: il punto
di partenza non è identificare la sequenza degli eventi che hanno
contribuito al danno del paziente, ma individuare i comportamenti individuali dei lavoratori e le regolazioni collettive che già nella
situazione attuale determinano un miglioramento nelle prestazioni del sistema.
Il tempo speso nell’analisi di queste attività di miglioramento,
se riconosciuto come attività professionale di medici, infermieri
e operatori, può dotare l’organizzazione della capacità di riprogettarsi, con una progettazione più lenta ma continua, centrata
sul coinvolgimento delle persone, meno emozionante ma più du40
Interventi e relazioni
revole del processo basato sulla sola innovazione tecnologica o
sull’acquisizione di modelli esterni.
In altre parole, può sviluppare nei gruppi un’attivazione e una
ricerca di qualità che trascina, come effetto secondario, le zone
grigie, le zone di debolezza, e permette di affrontare con successo la sfida di migliorare senza indurre la paura, paralizzante, di
dover colpire i punti deboli del sistema.
Per sostenere queste potenzialità di miglioramento distribuite
nell’ambiente ospedaliero si auspica un intervento interdisciplinare che coinvolga le varie discipline scientifiche interessate all’analisi e alla progettazione dei sistemi complessi (psicologia del lavoro e delle organizzazioni, fisiologia, ingegneria, disegno industriale, scienze della comunicazione, studi organizzativi ecc.). L’unica
strada per il miglioramento è riconoscere nell’essere umano, con
i suoi limiti cognitivi e fisici, ma anche con le sue straordinarie
capacità di immaginazione e adattamento, il baricentro della progettazione.
Verso l’integrazione degli strumenti di analisi dei rischi in
sanità
L’analisi dei casi è considerata una tecnica di tipo retrospettivo,
mentre le tecniche HRA come FMEA sono considerate modalità
di analisi proattiva, poiché si impiegano per l’analisi dei processi
diagnostico-terapeutici. Si potrebbe quindi concludere che le tecniche HRA sono superiori perché consentono di anticipare i rischi
ed evitare il prossimo incidente, invece di ritrovarsi a discutere di
criticità del sistema con un altro paziente morto o danneggiato a
causa della cattiva gestione sanitaria.
Probabilmente, quando la sanità sarà più sicura, potremo fare
a meno dell’analisi dei casi e concentrarci sull’applicazione delle
tecniche di valutazione dell’affidabilità. A parte il fatto che è molto difficile immaginare l’azzeramento degli incidenti in sanità e
in qualsiasi altro sistema complesso, ci sono una serie di ragioni
a sostegno dell’integrazione delle tecniche HRA con l’analisi dei
casi, invece che una progressiva sostituzione. Innanzitutto non
c’è una netta divisione tra gli strumenti in discussione: FMEA, ad
esempio, può essere impiegata in modalità reattiva all’interno di
un’indagine condotta seguendo il London protocol.
L’analisi dei casi, pur affrontando situazioni già avvenute, è sempre rivolta al futuro, cioè a identificare le azioni di miglioramento
necessarie a fronteggiare le criticità emerse con il caso analiz41
Corso di formazione
zato ai vari livelli del sistema. Viceversa, la cosiddetta “analisi
proattiva” fa sempre riferimento in maniera più o meno esplicita
alle esperienze precedenti degli analisti. La frequenza, la gravità
e l’identificabilità delle modalità di fallimento nell’applicazione di
FMEA sono frutto del giudizio degli operatori coinvolti nella discussione; questo giudizio non può che basarsi sulle esperienze
precedenti, riferite a uno o più casi specifici.
Occorre aggiungere, a vantaggio dell’analisi dei casi, che di solito le tecniche HRA richiedono un certo livello di astrazione dalla
realtà che può essere difficoltoso per gli operatori coinvolti e pone
il rischio di una deriva verso un’eccessiva reificazione della realtà
operativa (Woods e Cook, 2003). L’analisi dei casi è invece molto coinvolgente per gli operatori sanitari, perché parte dalle loro
testimonianze, dalla ricostruzione di una storia, che come tale
ha un notevole potere di stimolo al confronto con scenari simili e
all’esplorazione dei modi in cui si possono modificare dei passaggi
per ottenere in futuro esiti differenti (Carroll, 1995).
È prevedibile che nel prossimo futuro si tenderà ad applicare entrambe le tecniche in maniera ragionata, cioè nel momento in
cui le strutture per la gestione del rischio clinico raggiungeranno
un maggiore livello di maturità, potranno decidere la tecnica migliore tenendo conto dell’oggetto e della finalità di analisi, come
in ogni buona ricerca che segue un metodo scientifico (Marradi,
1980; Corbetta, 1999).
Gli operatori sanitari possono, inoltre, dare un notevole contributo alla qualità delle tecniche di analisi dei rischi, visto che nessuna delle tecniche citate ha avuto una validazione e una standardizzazione basata su un’applicazione estensiva e monitorata
secondo i principi della medicina basata sulle evidenze (Gardini,
2005).
In altre parole, l’applicazione delle tecniche di analisi del rischio
agli eventi avversi in sanità può guadagnare rigore e scientificità
grazie all’incontro con il settore medico e infermieristico, in cui
negli ultimi anni si è fatto moltissimo per migliorare l’efficacia e
l’efficienza delle pratiche cliniche.
Anche in ambito gestionale è opportuno promuovere una maggiore attenzione alla qualità dei metodi e delle tecniche impiegati,
fermo restando che quando si trattano fenomeni complessi come
il funzionamento di un sistema sociotecnico è molto difficile, o
addirittura aleatorio, pretendere di arrivare a quantificazioni e a
modelli previsionali generalizzabili a tutto il sistema. Un conto è
42
Interventi e relazioni
prevedere la risposta biologica di un organismo a un trattamento terapeutico a seguito di ampi studi clinici randomizzati sulla
popolazione, altra cosa è immaginare le dinamiche di un processo organizzativo all’interno di un sistema complesso come quello
sanitario.
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Corso di formazione
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44
Interventi e relazioni
Farmacovigilanza e rischio clinico in medicina
complementare
Alfredo Vannacci, Eugenia Gallo
Unità di Farmacoepidemiologia, Farmacovigilanza e Fitovigilanza,
Dipartimento di Farmacologia Preclinica e Clinica, Centro di Medicina Molecolare (CIMMBA), Università degli Studi di Firenze
Farmacovigilanza e rischio clinico
La farmacovigilanza è la disciplina che ha il compito di identificare
gli eventi avversi correlati all’uso dei farmaci. L’oggetto della farmacovigilanza sono gli eventi avversi e tutte le reazioni indesiderate che si verificano in corso di terapia, in particolare gli eventi
sconosciuti o quelli nuovi, per natura clinica, gravità e frequenza
(Hauben M, Zhou X. Quantitative Methods in Pharmacovigilance.
Focus on Signal Detection. Drug Safety 2003; 26: 159-186).
Poiché questa disciplina si occupa dell’identificazione di segnali preliminari, il cosiddetto “segnale di allarme”, non richiede
all’operatore sanitario di formulare una diagnosi, ma di segnalare un semplice sospetto, un segnale che permetta al sistema
di mettere in atto in caso di necessità tutte le procedure atte a
garantire la sicurezza dei pazienti. L’allarme a volte può essere
immotivato, ma è compito del sistema e non del singolo segnalatore stabilirlo.
Reazioni avverse
Le reazioni avverse sono risposte dannose non intenzionali che si
verificano alle dosi normalmente utilizzate nell’uomo per profilassi, diagnosi o terapia.
Per “risposta dannosa” non si deve intendere un effetto terapeutico secondario, bensì un evento negativo per il paziente e non intenzionale. A volte, infatti, i farmaci possiedono un pleiotropismo
di azione e il clinico può scegliere deliberatamente di utilizzare un
effetto secondario di un farmaco con fini terapeutici (ad esempio
l’effetto ipnoinducente degli antistaminici di prima generazione).
È fondamentale inoltre che l’evento avvenga alle dosi normalmente utilizzate nell’uomo per profilassi, diagnosi o terapia. Non
si considerano pertanto in farmacovigilanza i sovradosaggi, le assunzioni per tentativo di suicidio; ciò vale anche per i mezzi di
contrasto, per i vaccini ecc.
Come detto, riveste particolare importanza la segnalazione spon45
Corso di formazione
tanea degli eventi avversi gravi.
Sono cinque i fattori da considerare in quest’ottica:
• Se l’evento è fatale: in questo caso è obbligatorio redigere
una relazione alla propria direzione sanitaria.
• Se l’evento minaccia la sopravvivenza: se un paziente è a
rischio di morte, l’evento è considerato alla stessa stregua
del precedente.
• Se l’evento determina un’invalidità o un’incapacità persistente significativa.
• Se l’evento provoca o prolunga il ricovero in ospedale. Ogniqualvolta una persona viene ricoverata in ospedale, oppure
accede al pronto soccorso e richiede un’osservazione anche
breve, perché ha assunto un farmaco, la segnalazione è
obbligatoria.
• Se l’evento causa un’anomalia congenita o un difetto alla
nascita. Per estensione, è opportuno segnalare le reazioni avverse in donne in gravidanza, anche senza aspettare
l’esito della gravidanza.
Le reazioni avverse sono classificate come di tipo A, dose-dipendenti, e di tipo B, non dose-dipendenti. Le prime sono frequenti,
a bassa mortalità e correlate alle caratteristiche farmacologiche
del farmaco (ad esempio l’effetto anticolinergico degli antidepressivi).
Le reazioni di tipo B sono rare, non correlate alle caratteristiche
farmacologiche del farmaco e possono avere un’alta mortalità, ad
esempio quelle che implicano il coinvolgimento del sistema immunitario, come rash cutanei, shock anafilattico, vasculiti, anemia emolitica, sindrome di Stevens-Johnson (Edwards IR e Aronson JK. Adverse drug reactions. The Lancet 2000, 356, 1255).
Nella medicina complementare, in particolar modo in fitoterapia
ma anche con medicinali omeopatici a basse diluizioni, questo
tipo di reazioni può verificarsi anche con bassissime dosi di principio attivo. Se il soggetto ha una particolare predisposizione genetica a sviluppare un certo tipo di eventi, c’è il rischio che possa
verificarsi, per esempio, uno shock anafilattico o una reazione
orticarioide anche con medicinali omeopatici molto diluiti.
46
Interventi e relazioni
Aspetti epidemiologici
Molti studi internazionali condotti in ospedale hanno rilevato l’incidenza delle reazioni avverse sulla salute pubblica. Uno studio
condotto nel servizio sanitario britannico su 18.000 ospedalizzazioni ha mostrato che il 6,5% (1.225) dei ricoveri era legato a
una reazione avversa a un farmaco (Pirmohamed M et al., BMJ
2004, 329;14-19). L’imputabilità e la diagnosi di certezza di reazione avversa al farmaco c’erano soltanto nell’1,3% dei casi.
Circa il 70% delle reazioni avverse, comunque causa di ospedalizzazione, ha un’imputabilità definita come probabile e il 30% come
possibile (sottolineando l’importanza di segnalare il sospetto, per
sollevare il segnale di allarme); quelle dubbie, incerte o negative
non vengono considerate. Lo studio ha mostrato inoltre che la
maggior parte delle reazioni avverse era prevedibile, circa il 72%
è stata addirittura identificata come “evitabile” conoscendo le caratteristiche farmacologiche del farmaco. I farmaci maggiormente coinvolti sono stati i più vecchi (su base epidemiologica occorre
osservare che la grandissima maggioranza delle reazioni avverse
avviene per i vecchi farmaci, che sono anche i più utilizzati). La
durata media del ricovero è stata di otto giorni e ha influito sulle ospedalizzazioni e sulla spesa sanitaria in modo significativo.
Uno studio condotto in Italia riferisce dati analoghi: il 45% delle
reazioni avverse ai farmaci era certamente evitabile, il 30% era
possibilmente evitabile, circa il 70% delle reazioni avverse potrebbero essere evitate (Pilotto et al. Drug Safety 2008).
Globalmente l’incidenza di ADR (Adverse reaction) come causa
di ospedalizzazione è di circa 1-5% nei bambini, circa 5-10%
negli adulti e circa 10-15% negli anziani. Essa aumenta con l’età,
perché crescono la fragilità dell’individuo, la presenza di polipatologia, la poliprescrizione e il rischio di interazioni tra farmaci.
I farmaci chiamati più spesso in causa sono antibiotici e broncodilatatori nei bambini, farmaci cardiovascolari, antinfiammatori e
per il sistema nervoso centrale (SNC) negli adulti e negli anziani
(Kongkaew et al, The Annals of Pharmacotherapy n. 42, 2008).
La presenza di reazioni avverse risente quindi della prescrizione.
La manifestazione di queste reazioni avverse, in particolare nella
popolazione anziana, di cui il 70% è evitabile, lascia intendere
che l’appropriatezza di utilizzo di questi prodotti non è molto elevata. Infatti, uno studio pubblicato da un gruppo italiano su JAMA
nel 2005 osserva che la prevalenza di potenziale inappropriatezza
di prescrizione di farmaci nell’anziano è di circa il 20%. Ci sono
47
Corso di formazione
Paesi, tra cui purtroppo l’Italia, che superano questa inappropriatezza di prescrizione e ci sono Paesi più virtuosi, come la Danimarca, dove si presta particolare attenzione alla prescrizione di
farmaci nella terza età (Gambassi et al. JAMA 2005).
In sintesi, le reazioni avverse ai farmaci sono un’importante causa di ospedalizzazione, mortalità e spesa sanitaria. L’utilizzo appropriato delle medicine complementari, specialmente in geriatria, potrebbe risolvere un problema non solo per il paziente ma
anche per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN).
Aspetti normativi
La farmacovigilanza è normata a livello nazionale dall’Agenzia
Italiana del Farmaco (AIFA), in collaborazione con altri uffici internazionali che fanno capo all’Agenzia Europea dei Medicinali
(EMEA).
Una norma varata 4 anni fa stabilisce che le Regioni possono
avere un sistema regionale di farmacovigilanza. La Toscana ha
creato un Centro regionale di farmacovigilanza alle cui attività
collaborano ASL e Università.
La rete regionale è organizzata in tre livelli: il primo costituito
dalle ASL, il secondo composto dai centri di Area vasta per la
farmacovigilanza (nelle sedi di Firenze, Pisa e Siena). Il terzo,
individuato nel centro di coordinamento regionale, è guidato dalla
Commissione terapeutica regionale, che ha affidato la gestione
specifica delle attività a una sottocommissione per la farmacovigilanza. In questi centri opera personale che svolge in maniera
dedicata attività di farmacovigilanza, compresa la diffusione di
informazioni circa la sicurezza dei farmaci. L’Area Vasta Centro
(II livello) in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e il
Centro clinico di medicina naturale di Empoli ha implementato di
recente un sistema di fitovigilanza che garantisce un’adeguata
sorveglianza dei farmaci, tutelando in modo più efficiente sia il
cittadino sia il malato. Il sistema prevede che l’operatore sanitario che osserva la reazione, la segnali al suo farmacista di primo
livello, responsabile di farmacovigilanza; quest’ultimo lo invia al
secondo livello, il terzo livello integra e infine il tutto va all’AIFA.
Allo scopo di coinvolgere sempre di più gli operatori sanitari nel
processo di segnalazione delle sospette reazioni avverse ai farmaci, la Regione Toscana utilizza strumenti che si sono dimostrati
efficaci in altre realtà europee, come l’invio di un feedback informativo al segnalatore. Un anno dopo l’attuazione di questo siste48
Interventi e relazioni
ma, la Toscana è passata dall’ottavo al primo posto delle regioni
che segnalano in Italia (da 100 a 226 reazioni avverse segnalate
ogni milione di abitanti) fino a superare nel 2009 le 450 segnalazioni per milione di abitanti, ampiamente oltre il gold standard
di 300 segnalazioni indicato dall’Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS).
Dal 2009 esiste inoltre un sistema di vigilanza in formato elettronico, sugli incidenti e i mancati incidenti a dispositivo medico,
che consente di osservare in tempo reale una stima di incidenti e
mancati incidenti.
La vigilanza sulle medicine complementari
Fatta eccezione per la fitoterapia, non esiste ancora un sistema
specifico regionale o nazionale di valutazione degli eventi avversi in medicina complementare. Dal 2003 è stata inserita nella
scheda di segnalazione al farmaco una nuova sezione destinata a
raccogliere informazioni sull’uso concomitante di altri prodotti a
base di piante officinali, omeopatici, integratori alimentari.
Un secondo canale, gestito dall’Istituto Superiore di Sanità, è
dedicato alla sorveglianza delle reazioni avverse da prodotti di
origine vegetale. La segnalazione dell’evento avverso può essere
effettuata tramite un’apposita scheda (scaricabile dal sito www.
epicentro.iss.it) da inviare via fax all’Istituto Superiore di Sanità.
Quando l’operatore si trova di fronte a un effetto avverso correlato all’assunzione di un farmaco e di un fitoterapico, ha la possibilità di segnalarlo sia sulla scheda specifica di fitovigilanza, sia
sulla normale scheda di farmacovigilanza.
Per affrontare correttamente il rischio clinico nelle altre medicine
complementari, occorre fare quindi riferimento in gran parte alla
letteratura, dove queste medicine appaiono relativamente sicure,
in particolare se confrontate con i farmaci di sintesi.
Omeopatia
Per valutare la sicurezza dei farmaci nell’uso clinico, si utilizzano in genere gli studi post-marketing, che sono gli unici a dare
informazioni attendibili sulla sicurezza. Normalmente i farmaci
vengono studiati prima in laboratorio, poi nei trials clinici (fase 1,
fase 2, fase 3) e infine entrano in commercio. Nei trials di fase 3
(i più vicini all’uso clinico) sono escluse molte tipologie di pazienti
(poiché sono condotti su popolazioni selezionate) e l’incidenza
delle reazioni avverse registrate è più bassa rispetto alla pratica
49
Corso di formazione
clinica reale. Nella fase 4, quando il farmaco entra in commercio,
l’osservazione si estende a tutta la popolazione.
La letteratura sulla sicurezza in omeopatia si basa solo sui trials
clinici, quindi non può essere considerata pienamente affidabile.
In omeopatia i lavori che hanno valutato gli eventi avversi sono
pochissimi e particolarmente tranquillizzanti. Una review di tre
articoli pubblicati tra il 1970 e il 1995 (Br Homeopath J. 2000 Jul;
89 Suppl 1:S35-8) rileva che negli studi clinici omeopatia contro
placebo, l’incidenza degli eventi avversi è del 9% per l’omeopatia
contro il 6% del placebo. Si tratta inoltre soltanto di eventi avversi lievi. La conclusione della review è che i medicinali omeopatici,
a diluizioni alte e medio-alte, sono piuttosto sicuri e che è improbabile che causino eventi avversi gravi.
Un’altra analisi (Forsch Komplementmed. 2006;13 Suppl 2:1929) conclude più o meno alla stessa maniera: i medicinali omeopatici hanno scarsi effetti collaterali e scarsi o nessun effetto
tossico. Un report sulla sicurezza dei prodotti omeopatici e sugli
eventi avversi riportati in terapia omeopatica nella pratica clinica,
condotto in Toscana presso l’ambulatorio di omeopatia dell’ASL 2
di Lucca, conferma il dato della letteratura: su 335 visite di follow up consecutive in ambulatorio, si sono registrate soltanto 9
reazioni avverse, meno del 3%, compresa un’allergia al lattosio
che non può essere definita in senso stretto un evento avverso
all’omeopatia. In definitiva, la letteratura riporta che i medicinali
omeopatici sono sostanzialmente sicuri, con eventi avversi che
oscillano dal 3% al 9%, a seconda degli studi valutati, e in nessun
caso eventi avversi gravi (Endrizzi C et al, Homeopathy, 2005,
94, 23-240).
È importante sottolineare, inoltre, che spesso i prodotti naturali
non vengono classificati correttamente né dai pazienti né dai medici. Sono stati, ad esempio, attribuiti all’omeopatia eventi avversi correlati a fitoterapici tradizionali cinesi (Corleto et al, World
J Gastroenterol 2007 13(14):2132-2134), o a sostanze farmacologiche come ormoni tiroidei e anfetamine (Mortelmans et al,
European Journal of Emergency Medicine 11:242–243, 2004).
Agopuntura
L’agopuntura è considerata un atto medico invasivo (anche se in
misura minima), ma assolutamente sicuro se praticato da medici
qualificati e nel rispetto delle buone pratiche cliniche e di disinfezione.
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Interventi e relazioni
White e colleghi descrivono soltanto 6 casi di evento avverso
(pneumotorace o rottura di aghi) su 109.000 pazienti per un totale di oltre un milione di trattamenti (White et al., Acupuncture
in medicine, 2004). Gli autori di questa review sottolineano che
in questi casi gli operatori non erano qualificati.
Andando a valutare la gravità e la tipologia degli eventi avversi
che si verificano in agopuntura nella normale pratica clinica, si
tratta in gran parte di sanguinamento ed ecchimosi (60% dei
casi), dolore o problemi di tipo vegetativo ecc. In totale, in circa
il 6% dei trattamenti di agopuntura si verifica un sanguinamento o un’ecchimosi; un dolore significativo si verifica nel 2% dei
casi; le altre reazioni, come palpitazioni, stipsi, diarrea, perdita
di peso, disturbi circolatori, lesioni di vasi sanguigni, infezioni sistemiche, sono rare o molto rare (Witt, Forsch Komplementmed
2009;16:91–97).
Gli eventi avversi si possono verificare più facilmente nei bambini trattati con agopuntura; ad esempio in circa un terzo di essi
si osserva sedazione, nel 26% dei casi si manifesta dolore e nel
15% compaiono problematiche legate al sistema nervoso periferico, come parestesie ecc. (Jindal, J Pediatr Hematol Oncol, 30,
6, 2008).
Fitoterapia
La principale caratteristica di questa disciplina è l’impiego di fitoterapici (piante medicinali e derivati) in cui, a differenza dei
farmaci convenzionali, è responsabile dell’azione terapeutica non
un singolo principio attivo, ma il fitocomplesso, cioè una combinazione armonica dei diversi principi attivi presenti nella pianta.
La peculiare attività del fitoterapico consiste proprio nell’azione di
squadra esercitata dalle diverse molecole che contiene.
I prodotti a base di piante officinali sono efficaci in molte condizioni, ma il loro profilo di sicurezza è talvolta discutibile. La pianta
deve essere, infatti, considerata come un contenitore di sostanze
chimiche dotate di possibili attività farmacologiche (e per questo
anche tossicologiche), la cui gestione non può essere affidata soltanto all’automedicazione. Come in ogni forma di terapia possono
esserci effetti collaterali, controindicazioni, interazioni farmacologiche ecc.
Esistono piante tossiche, piante efficaci ma responsabili di effetti
collaterali anche gravi e piante con specifiche controindicazioni.
In fitoterapia non dovrebbero mai essere utilizzate le erbe raccol51
Corso di formazione
te spontaneamente, ma solo quelle garantite dal controllo di un
esperto e distribuite attraverso i regolari canali di vendita, come
ad esempio la farmacia.
Molti estratti vegetali, anche ben definiti sul piano farmaceutico e
fitochimico, sono commercializzati ed etichettati nel nostro Paese
come “alimenti”, e quindi non sono soggetti ai controlli eseguiti
di norma sui farmaci. I problemi specifici della fitovigilanza sui
prodotti commercializzati come “fitointegratori” sono diversi: incerta composizione dei prodotti, mancanza di standardizzazione
delle quantità, qualità variabile dei componenti, difficoltà di individuazione dei principi attivi (e quindi dei possibili meccanismi di
azione), problemi di contaminazione e adulterazione, aggiunta di
farmaci di sintesi non dichiarati (cortisonici, diuretici, betabloccanti ecc.), tipologie di preparazioni e prodotti di base. Le donne
in gravidanza, i neonati, i bambini e gli anziani non dovrebbero
utilizzare erbe medicinali senza il controllo del medico.
Un’indagine condotta dal nostro gruppo a Firenze su 172 donne
in gravidanza ha mostrato che il 48% fa ricorso a prodotti naturali, il 30% ne considera l’uso sicuro al pari dei farmaci e il 52%
li considera più sicuri dei farmaci (Lapi et al EJCP, 2008). Questi
dati evidenziano una percezione del rischio estremamente bassa,
tanto che le erbe sono assunte soprattutto nel primo trimestre di
gravidanza, quando il rischio di effetti tossici sul feto è più elevato. I dati toscani sono in linea con quelli internazionali e sono
stati confermati di recente da una indagine condotta in Veneto
(Cuzzolin et al, 2010, in press).
A differenza dalle altre medicine complementari, la fitoterapia ha
un efficiente sistema di fitovigilanza coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità. A giugno 2009 erano pervenute al sistema di sorveglianza delle reazioni avverse 370 segnalazioni, di cui il 68%
interessavano prodotti a base di piante medicinali. Si trattava per
lo più di eventi gravi riguardanti patologie gastrointestinali, patologie della cute e del tessuto sottocutaneo, patologie del sistema
nervoso e patologie del fegato. Nel 34% delle segnalazioni è stato
riferito l’uso concomitante di farmaci convenzionali. In generale,
le segnalazioni hanno evidenziato problemi di adulterazione o di
contaminazione dei prodotti, rischi associati all’uso tradizionale di
alcune piante e rischi di interazione con i farmaci convenzionali.
Alcune segnalazioni di reazioni avverse da fitoterapici hanno riguardato prodotti considerati sicuri fino a pochi anni fa. Quando
piante medicinali utilizzate da secoli o da millenni si mostrano
52
Interventi e relazioni
improvvisamente tossiche, vale la pena chiedersi se esse non
siano utilizzate in modo diverso, a dosaggi troppo elevati o per
scopi diversi da quelli tradizionali. Non è necessariamente tossica la pianta medicinale, ma il prodotto preparato secondo certe
modalità. È stato, ad esempio, il caso della kava (Piper methysticum), epatotossica solo se preparata con particolari tecniche
estrattive che concentrano eccessivamente i kavalattoni, o del tè
verde (Camelia sinensis), dotato di numerosi effetti terapeutici e
preventivi, ma epatotossico se assunto in preparazioni che concentrano eccessivamente le catechine (in particolare la epigallocatechina gallato).
Sugli effetti avversi influiscono anche la posologia e la durata
del trattamento. La liquirizia ad esempio, sicura come alimento o
come fitoterapico in dosi e tempi adeguati, se assunta ad alte dosi
per brevi periodi o a basse dosi per lunghi periodi può causare
ipopotassemia, ipertensione arteriosa e miopatia fino alla rabdomiolisi. Infatti il principale principio attivo della liquirizia, l’acido
glicirizzico, è un inibitore della reduttasi epatica che catalizza la
trasformazione del cortisolo in cortisone causando l’aumento dei
metaboliti ad azione mineralcorticoide. Per queste ragioni, all’assunzione di derivati di liquirizia è stata associata la manifestazione di questi effetti avversi, in particolare in soggetti ipertesi.
In conclusione, è necessario monitorare l’utilizzo dei prodotti a
base di piante officinali per conoscere le possibili reazioni avverse, ma non bisogna dimenticare che molti fitoterapici sono particolarmente utili, e relativamente sicuri, nella terapia di diversi
disturbi.
D’altra parte la medicina attinge da sempre dal mondo naturale
per la ricerca di nuove molecole farmacologicamente attive che,
se dimostrate efficaci, sono entrate a far parte della terapia ufficiale.
L’utilizzo corretto dei preparati a base di piante medicinali richiede sempre la visita e la prescrizione di un medico, dato che le
reazioni avverse gravi sono legate spesso all’uso scorretto del
fitoterapico, alla mancanza di sorveglianza medica o all’utilizzo in
situazioni a rischio (bambini, anziani, gravidanza).
53
Corso di formazione
Codice deontologico medico: doveri e sanzioni
Antonio Panti
Presidente dell’Ordine dei medici della provincia di Firenze
Oggi in Italia la Regione Toscana è l’unica che ha provveduto a
fornire una forma di riconoscimento giuridico delle medicine complementari con la Legge regionale 9/2007; a livello nazionale non
sembrano, per ora, esserci grandi spiragli né spinte particolari
perché si legiferi in questa materia.
È chiaro che l’approvazione di una legge nazionale per queste
medicine avrebbe ben altro valore di un provvedimento regionale
e offrirebbe maggiori garanzie anche sul piano formale.
Il provvedimento di legge emanato dalla Regione Toscana rappresenta in ogni caso un importante passo avanti, che si fonda
su questo ragionamento: viene valutato il curriculum formativo
di medici, veterinari e farmacisti in maniera che si possa dire che
quel professionista è in grado di esercitare l’omeopatia, la fitoterapia o l’agopuntura perché ha frequentato, conseguendo degli
attestati, scuole e corsi di un certo tipo.
Questa forma di selezione, che è a favore del cittadino, è stata
resa possibile dalla citata Legge regionale e da un successivo Protocollo d’intesa siglato fra la Regione Toscana e gli Ordini professionali dei medici, dei veterinari e dei farmacisti. È stato possibile
adottare queste misure perché esse non alteravano il profilo professionale dei medici, non mettevano cioè in discussione aspetti
che sono di esclusiva competenza statale e che solo lo Stato può
modificare.
Il processo di integrazione delle medicine complementari è stato
favorito da un clima di apertura della Regione Toscana nei confronti di queste pratiche, che pure hanno animato e continuano
ad animare molte discussioni all’interno del mondo medico.
Il codice deontologico dei medici dedica alle pratiche complementari o non convenzionali un articolo specifico (art. 15) nel quale si
afferma che il ricorso a pratiche non convenzionali “non può prescindere dal rispetto del decoro e della dignità della professione
e si esprime nell’esclusivo ambito della diretta e non delegabile
responsabilità professionale del medico”.
Quali sono le conseguenze di questa enunciazione? Innanzitutto
che nelle medicine non convenzionali la responsabilità del medico
è diretta e non delegabile, in sostanza chi firma la ricetta ne è
54
Interventi e relazioni
responsabile. Di fronte alla legge il medico è un soggetto responsabile in modo autonomo, benché oggi nei percorsi assistenziali
complessi all’interno degli ospedali cominci ad affermarsi, anche
nella giurisprudenza, il concetto di responsabilità non individuale,
ad esempio la responsabilità dell’azienda o della struttura sanitaria. In questo caso si dice, però, che se un medico decide di
proporre a un paziente una terapia non convenzionale lo fa sotto
la sua esclusiva responsabilità e che egli deve attenersi al rispetto
e al decoro della professione medica. Che senso ha dire questo in
una regione come la Toscana dove ci sono medici che esercitano
l’attività medica integrata con la medicina tradizionale?
Vuol dire che anche nella civile Toscana ci sono medici che sotto
forma di medicine alternative attuano pratiche che vanno contro
il decoro della professione. Ad esempio pensano di curare una
patologia oncologica con polveri più o meno strane, e purtroppo
questi fenomeni avvengono anche in questa regione. Dico ciò per
chiarire che nell’ambito delle medicine non convenzionali occorre
portare avanti un fondamentale lavoro di selezione, nell’interesse
anche dei medici che esercitano queste pratiche.
La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e
Odontoiatri (FNOMCeO) sviluppa un discorso più vasto in materia
di medicine non convenzionali, avendone delimitato il campo e
avendo stilato un elenco di pratiche che sono di esclusiva competenza del medico. Ed è molto importante perché la FNOMCeO
sostiene che è corretto sul piano deontologico non soltanto praticare l’omeopatia, ma anche la medicina ayurvedica, l’antroposofia e le altre discipline da essa riconosciute, ma non altre forme
che non hanno nulla a che vedere con la medicina.
Il codice deontologico continua dicendo, in sintonia con un orientamento moderno della medicina, che i trattamenti che offriamo
alla popolazione devono basarsi su valutazioni scientifiche verificate.
Più avanti l’articolo specifica che il ricorso alle pratiche non convenzionali non deve sottrarre il cittadino a trattamenti scientificamente consolidati e che si richiede sempre una circostanziata
informazione e l’acquisizione del consenso. Ribadisco questo concetto, perché se le persone oneste non hanno alcun problema al
riguardo, purtroppo sono avvenuti episodi incresciosi come quello
della giovane diabetica deceduta a Firenze, all’ospedale pediatrico Meyer, dopo avere sospeso le cure adeguate per la sua condizione. Sono questioni che vanno lette con riferimento alla realtà
55
Corso di formazione
nazionale e non a quella toscana, dove per fortuna problemi di
questo tipo hanno un impatto senza dubbio limitato. Per questa
ragione sono sempre stato un paladino della regolamentazione
delle medicine non convenzionali e l’ho sostenuta anche di fronte
a quei colleghi che, ritenendole terapie non dimostrate, chiedevano perché mai dobbiamo occuparcene. Dobbiamo farlo perché se
regolamentiamo questo settore, diamo un vantaggio ai professionisti seri e degni di questo nome, che esercitano un’attività lecita,
regolare e corretta sul piano deontologico e professionale.
Con lo strumento della legge, e degli atti normativi ad essa correlati, intendiamo poter selezionare, in un ambito in cui ancora
oggi purtroppo esiste un’ampia gamma di situazioni, coloro che
svolgono un’attività lecita sul piano professionale. E lo facciamo
nell’interesse dei professionisti e dei cittadini.
Un altro articolo del codice deontologico, correlato al primo, afferma che il medico deve garantire impegno e competenza professionale, non assumendo obblighi che non sia in condizione di
soddisfare. Egli deve affrontare, nell’ambito delle sue specifiche
responsabilità e competenze, ogni problematica con il massimo
scrupolo e disponibilità, dedicando ad essa il tempo necessario
per una accurata valutazione dei dati oggettivi, in particolare dei
dati anamnestici, avvalendosi delle procedure e degli strumenti
ritenuti essenziali e coerenti allo scopo, assicurando attenzione
alla disponibilità dei presidi e delle risorse. Vale per me che faccio
il medico di famiglia: se mi mettessi, infatti, a prescrivere terapie di cui non ho alcuna competenza specialistica potrei essere
sottoposto a sanzioni perché è acclarato che non esiste il medico
tuttologo. Ognuno è prima di tutto un medico di base e poi si
specializza nelle varie branche.
Il codice deontologico prevede, dunque, che chi esercita l’omeopatia o un’altra branca specialistica deve essere consapevole delle proprie competenze e dei limiti della propria disciplina.
La prescrizione e i trattamenti terapeutici devono essere sostenuti da una diagnosi adeguata, sono demandati all’autonoma responsabilità del medico e devono essere ispirati alle più recenti
acquisizioni scientifiche. Il medico deve sapere tutto dei farmaci
che prescrive, siano essi omeopatici o etici, ed è vietata l’adozione e la diffusione delle terapie non comprovate scientificamente.
È evidente che se gli Ordini dei medici hanno accettato di includere le pratiche non convenzionali in un’area in cui è decoroso e
dignitoso praticarle, come lo è l’esercizio di ogni altra specialità,
56
Interventi e relazioni
si ritiene che, anche in assenza di un ampio numero di studi
come in altri ambiti della medicina, nella pratica quotidiana e
nelle pubblicazioni esistenti ci siano sufficienti elementi per dire
che le pratiche non convenzionali si possono considerare un’utile
integrazione per la salute del cittadino.
Tutto ciò che non è provato scientificamente deve essere sottoposto a una valutazione complessiva, che non può essere soltanto
quella dei trials randomizzati e controllati (TRC), che in definitiva
si possono realizzare soltanto per una piccola parte della medicina.
In conclusione, il codice deontologico medico non solo rende possibile e corretto l’esercizio delle tre medicine citate dalla Legge
regionale toscana (agopuntura, fitoterapia, omeopatia), ma di
una gamma più vasta di pratiche che hanno una specificità, una
tradizione storica e una realtà culturale proprie.
Come presidente dell’Ordine dei medici mi auguro che si compiano ulteriori progressi nell’ambito della formazione e nel rapporto
fra la popolazione e i medici e che si definisca una legge nazionale
che disciplini in base a questi principi l’esercizio delle medicine
complementari.
57
Corso di formazione
Consenso informato, responsabilità professionale e risk management in medicina complementare
Massimo Martelloni
Direttore della U.O. di Medicina legale della Azienda USL 2 di Lucca
Deontologia e pratiche non convenzionali
In questa materia il richiamo è al nuovo Codice di deontologia
medica (16 dicembre 2006) che all’art. 15 parla di pratiche non
convenzionali. L’articolo citato parla di decoro e dignità della professione e valorizza l’utilizzo delle conoscenze scientifiche che
sono alla base di ogni disciplina.
Il riferimento della responsabilità riguarda l’esclusivo ambito della diretta e non delegabile responsabilità del medico. Da questo
punto di vista il commento da fare è sui vantaggi e gli svantaggi
della scelta terapeutica che qualsiasi professionista deve illustrare al proprio paziente.
Questo forte richiamo chiarisce come, in definitiva, tutte le branche mediche debbano comportarsi allo stesso modo: anche in
medicina complementare, dunque, occorre fare ciò che è meglio
per il paziente, optando per scelte comprovate scientificamente in
funzione della salute del paziente che, pertanto, non devono avere un carattere ideologico. Il medico deve agire secondo scienza
e coscienza e sulla base di prove di medicina dell’evidenza.
Informazione e consenso
Un altro aspetto importante dello stesso Codice riguarda la consapevolezza del paziente, con il richiamo all’informazione circostanziata e all’acquisizione del consenso informato al trattamento. Si
tratta cioè di informare il paziente dei vantaggi o degli svantaggi
di quella terapia, anche nel caso in cui egli rifiuti una terapia convenzionale e scelga un intervento di medicina complementare.
Esercizio di terzi non medici
Un altro richiamo forte riguarda l’esercizio di terzi non medici,
in cui si afferma che “è vietato creare delle collaborazioni per
favorire l’intervento nel settore delle cosiddette pratiche non convenzionali di terzi non medici”. Qui il commento riguarda una
questione specifica, cioè la disponibilità del medico verso attività
legate a vantaggi economici, perdendo di vista così l’interesse
della salute del paziente. Il commento generale è analogo: la
58
Interventi e relazioni
medicina complementare è una medicina e per essa valgono le
stesse regole di comportamento richieste a qualsiasi medico. Le
regole della responsabilità in un processo assistenziale valgono,
naturalmente, anche nell’ambito parallelo della professione infermieristica o di altra professione sanitaria.
Fattori di rischio
L’altro importante riferimento in questa materia è l’art. 14 del
Codice di deontologia, che affronta l’individuazione dei fattori
di rischio, e dove si legge: “Il medico opera al fine di garantire
le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e contribuire
all’adeguamento dell’organizzazione sanitaria, alla prevenzione e
gestione del rischio clinico anche attraverso la rilevazione, segnalazione e valutazione degli errori al fine del miglioramento
della qualità delle cure. A tal fine il medico deve utilizzare tutti
gli strumenti disponibili per comprendere le cause di un evento avverso e applicare i comportamenti congrui per evitare che
si ripeta. Questi strumenti costituiscono un’esclusiva riflessione
tecnico-professionale riservata, volta all’identificazione dei rischi,
alla correzione delle procedure e alla modifica dei comportamenti”. È il lavoro questo che facciamo con gli audit e le review, gli
strumenti che utilizziamo normalmente sul piano preventivo.
Modalità dell’informazione
Rispetto al contenuto dell’informazione e della modalità di comunicazione le informazioni, che diamo al paziente, devono avere
contenuti precisi. Il riferimento, da tenere in considerazione, è
rappresentato dall’art. 33 del Codice di deontologia medica del
2006 secondo cui bisogna fornire “la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive delle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze
delle scelte operate”, con l’obbligo del medico a soddisfare “ogni
ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente”.
Si discute dunque di diagnosi, prognosi e alternative diagnosticoterapeutiche, che vanno sempre fatte presenti, e delle possibili
conseguenze, quindi vantaggi e svantaggi rispetto alla salute e
alla qualità di vita e al benessere del paziente.
Questo tipo di colloquio deve essere aperto e tranquillo, mettere
a proprio agio le persone in un rapporto senza barriere; occorre
spiegare come stanno le cose e ciò che si può fare.
Questo aspetto è presente in diversi trattati sulla sicurezza del
59
Corso di formazione
paziente nell’ambito del biodiritto; si pensi alla convenzione di
Oviedo (1997), trasformata in legge dello Stato italiano nel 2001
(L. 145/2001). È questa una legge importante che, all’art. 5, cita
espressamente il fatto che “nessuno può essere sottoposto a un
trattamento sanitario contro la sua volontà”.
In materia di informazione occorre trovare quindi un’alleanza con
il cittadino e informarlo della sicurezza delle cure, fornendo ogni
spiegazione anche nel caso in cui avvenga un incidente. È una
nuova cultura della comunicazione che comprende gli aspetti riguardanti il rischio clinico.
Anche in giurisprudenza si inizia dunque ad avere coscienza di
che cosa voglia dire informare, di quale sia il rapporto tra il medico, e più in generale il sanitario, e il paziente.
La materia giurisprudenziale è cambiata, per fortuna, con le ultime sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione, specie in sede
penale.
Nella medicina complementare, che più di altre medicine ha caratteristiche olistiche e applica un rapporto empatico con il paziente, questi concetti si affermano molto più che nei settori sanitari altamente tecnologicizzati. In questo ambito sta a cuore
soprattutto la relazione con il paziente e la comunicazione diretta
è parte importante dell’azione terapeutica.
Sotto questo profilo è ancora più importante la continuità della relazione terapeutica, perché facilita il rapporto e la comprensione
delle cose dette. E in materia di comunicazione è da augurarsi comunque che nelle nuove strutture si creino situazioni ambientali che
la favoriscano: tempo sufficiente, un ambiente tranquillo, calma,
concentrazione, riservatezza. Quando comunica, il medico dovrà
fare attenzione non solo ai contenuti ma anche alle modalità dell’informazione. Dobbiamo indicare sempre al paziente se ci sono delle
alternative terapeutiche e adeguarci alla sua capacità di comprensione, verificare se ciò che abbiamo detto è stato compreso.
Può essere utile, quando si raccoglie il consenso, la presenza del
personale infermieristico che, avendo un rapporto assistenziale
più stretto e costante con il paziente, potrà sostenerlo e confortarlo ed essendo più a contatto con il paziente, potrà ricevere
quesiti da riportare al medico perché siano date delle risposte.
Occorre saper dialogare, comunicare e far capire che siamo entrati in empatia, cogliere il livello di sofferenza, o di difficoltà psicologica, nel quale versa chi sta davanti al medico.
Il Codice deontologico all’art. 35 sull’acquisizione del consenso
60
Interventi e relazioni
recita: “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o
terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente. Egli deve desistere da atti diagnostici o curativi e
non è consentito agire contro la volontà del paziente”.
I riferimenti di tale articolo nella Costituzione italiana sono l’art.
13, che definisce inviolabile la libertà della persona, e l’art. 32
che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” e non un obbligo
che giustifichi qualsiasi violenza da parte di terzi anche in punto
di morte.
Questi concetti permeano non solo la Costituzione, ma l’intera legislazione nazionale, in quanto sono stati ripresi anche dagli art.
34 e 35 della riforma sanitaria. Il trattamento sanitario è collegato al concetto di libera scelta, che non era preso in considerazione
in passato, quando la salute del paziente era affidata totalmente
al medico. Ci sono voluti molti anni perché si affermasse, finalmente, questo principio in giurisprudenza: la libertà individuale è
un diritto inviolabile, è connessa alla salute e da questo punto di
vista è indiscutibile.
Il sistema di pubblica tutela
Con la riforma sanitaria del 1992 si vara inoltre la carta dei diritti
e nasce il sistema di pubblica tutela con l’istituzione dell’Ufficio
Rapporti con il Pubblico (URP), per la gestione dei reclami e della
Commissione Mista Conciliativa, mentre in Toscana il Difensore
Civico Regionale assume competenze anche in materia di gestione di casi di supposta responsabilità professionale.
Occorre notare però che tutta la materia del sistema di pubblica
tutela non costituisce un ambito formativo universitario per la
professione medica e per le professioni sanitarie.
I passaggi principali di questo percorso di riforma sono costituiti
dalla Legge n. 241/1990 sulla trasparenza degli atti pubblici e
dalla Legge di Riforma della Riforma Sanitaria che, all’art. 14,
pone il problema di progettare l’assistenza anche in termini di
qualità e di appropriatezza nel rispetto dei diritti dei cittadini.
Appropriatezza in ambito sanitario
In realtà le fonti fondamentali di appropriatezza dell’assistenza
sanitaria sono tre:
1. l’appropriatezza clinica, che richiama la medicina dell’evidenza,
61
Corso di formazione
2. la sicurezza, che rappresenta in definitiva l’appropriatezza a
livello organizzativo e cioè rendere i processi sicuri rispetto
ai fattori di rischio,
3. il rispetto dei diritti del cittadino, con la legge sulla trasparenza, la privacy e la materia del biodiritto (consenso
informato, rispetto delle volontà del paziente, testamenti
biologici ecc.).
In questo campo di intervento tutti i Paesi stanno approntando
risposte di tipo laico e in questa direzione vanno anche i codici
deontologici medico e infermieristico.
L’attuazione del consenso informato è però molto carente nella
sostanza, anche se le firme sui moduli ci sono. In ogni caso, molti
moduli di consenso informato non dimostrano che al paziente è
stata data un’informazione adeguata sui rischi specifici degli interventi praticati.
Ci sono, inoltre, carenze nelle modalità con cui si registra la comunicazione, che è avvenuta o non è avvenuta, visto che anche
il personale infermieristico si presta a passare i moduli cartacei
in modo burocratico. In realtà ogni operatore dovrebbe difendere
la propria dignità professionale e cominciare a dire “questa cosa
non la faccio”.
Nell’organizzazione sanitaria le fonti dell’appropriatezza richiedono di discutere e affrontare le problematiche emergenti con
audit, con review, strumenti interni della qualità, che consentono
di capire come organizzare meglio il lavoro. Nella pratica esistono
ancora registrazioni fatte in modo generico, oggi in realtà sempre
meno, o documenti di cure a cui ci si deve sottoporre incompleti,
nei quali non sono spiegati i percorsi disponibili e cosa occorre
fare. Questi documenti possono essere fonte di contenzioso giurisprudenziale, questione che deve essere ben compresa da parte
dei medici.
Il giudice trova, infatti, sempre più spesso consensi informati raccolti da infermieri invece che da medici; occorre invece registrare
ogni passaggio nel processo assistenziale perché ciò è importante
sia ai fini di una corretta assistenza sia ai fini di un procedimento
giudiziario. In altre parole ciò che non è scritto non esiste.
L’atteggiamento della giurisprudenza è comunque cambiato. Non
si parla generalmente più di lesioni dolose, ma di lesioni a carattere colposo.
È emerso in una recente sentenza la valorizzazione della lege ar62
Interventi e relazioni
tis che deve guidare l’atto medico, comunque considerato un atto
teso a beneficere e non a ledere. L’atto medico può comunque
diventare un atto lesivo.
L’importante è comprendere che il comportamento etico e quello
tecnico non devono essere disgiunti e che il fine medico di guarire deve contemperarsi con il fine del prendersi cura con il pieno
rispetto della persona assistita.
Pertanto il medico deve consentire al paziente di aderire liberamente e in modo consapevole al trattamento sanitario.
Il paziente diventa in tal senso una persona assistita, informata
e in grado di poter scegliere in modo libero e cosciente se aderire ai trattamenti sanitari proposti. L’informazione e il consenso
ai trattamenti sanitari da parte della persona assistita diventano
importanti, come lo è per i medici aderire all’interno dell’organizzazione sanitaria alle indicazioni del Codice di deontologia medica, uscendo così dal penoso trend della “medicina difensiva”.
Responsabilità professionale e risk management
In materia di responsabilità professionale, quindi, si possono riassumere i seguenti argomenti:
1. errore medico e responsabilità professionale;
2. evoluzione della giurisprudenza;
3. medicina complementare;
4. attestazione delle buone pratiche;
5. sistema assicurativo tradizionale e autoassicurazione;
6. attività di risk management nelle Aziende sanitarie.
Cerchiamo di capire meglio l’errore medico. Il comportamento
professionale può essere censurabile quando produce conseguenze dannose ingiuste.
L’evento avverso può essere causato da un errore evitabile, quando non siano state adottate le necessarie cautele, oppure può essere prevedibile, ma non evitabile.
Quando si arriva a valutare questa materia, abbiamo di fronte
l’altro protagonista, il paziente, che in pratica spesso e volentieri
vuole qualcosa di più, in realtà spesso vuole un risultato. Occorre
dunque avere percorsi sicuri non solo per assistere il paziente, ma
anche per mettere a sua disposizione le risorse più aggiornate.
In generale c’è quindi la volontà del paziente di trasferire sul medico la responsabilità della malattia che lo ha colpito. In questo
senso l’errore medico non è più tollerato.
63
Corso di formazione
Il contenzioso è comunque maggiore nelle aree dove la medicina
è più progredita. Cresce la qualità tecnica della scienza medica,
ma aumenta la richiesta di risultati.
Dal punto di vista dell’evoluzione della giurisprudenza sono diversi i principi che ispirano la responsabilità medica.
La responsabilità del medico rientra nell’ambito della responsabilità
contrattuale. Tale indirizzo ormai consolidato ha modificato l’onere
della prova e i tempi di prescrizione. Vuol dire che spetta ai medici
e anche alle professioni sanitarie dimostrare di essere stati diligenti,
fatto rilevante che impone la necessità di ben documentare quello
che viene fatto.
In ambito civile comunque la giurisprudenza è sempre più favorevole verso il paziente, mentre in ambito penale la situazione cambia.
Le indagini sulla colpevolezza sono rigorose e fondate su puntuali
regole di garanzia. La prova del fatto deve risultare oltre ogni ragionevole dubbio, quindi occorrono prove certe. La giurisprudenza si ispira a principi di equità e ragionevolezza. Bisogna dimostrare che l’evento non si sarebbe verificato senza una condotta
di carattere colposo.
Parallelamente al caso civile o penale in ambito di risk management devono essere studiati gli elementi circostanziali/organizzativi nei quali si è determinato il fatto.
L’audit rappresenta lo strumento per lo studio di quanto avvenuto
e per l’individuazione delle soluzioni. Con l’audit non si studia il
nesso di causalità tra l’azione e le sue conseguenze.
L’analisi medico-legale del caso serve a capire se il comportamento è stato utile a determinare il fatto nell’ambito di logiche
di carattere giurisprudenziale, sapendo che in pratica giurisprudenziale e medico-legale tra verità clinica e verità processuale
c’è spesso un abisso nel mezzo a dividere i campi. In altre parole, dell’errore medico dobbiamo discutere. Non farlo significa
bloccare l’analisi della vicenda nella fattispecie del rischio clinico,
della sicurezza e della soluzione dei problemi da affrontare sotto
il profilo organizzativo.
A volte abbiamo paura di discutere e questo ci impedisce di agire
nell’ambito della sicurezza e di fare audit. Spesso c’è il timore di
discutere di un problema per paura che poi ci succeda qualcosa
e si teme anche di fare una brutta figura nell’ambiente di lavoro,
ammettendo l’errore. Questa seconda componente pesa più della
prima, come indicato nelle ultime ricerche condotte in Italia.
64
Interventi e relazioni
Occorre quindi distinguere tra verità clinica e verità processuali.
Le verità processuali pongono altre questioni. In ambito penale è richiesta la certezza della prova per poter esprimere un giudizio oltre
ogni ragionevole dubbio; inoltre la linea di tendenza giurisprudenziale è diversa tra l’ambito penale e quello civilistico. In quest’ultimo
ambito prevalgono indirizzi di carattere probabilistico.
Le risposte preventive degli operatori devono basarsi sulla gestione di procedure, protocolli, ovvero su azioni dirette a migliorare
la sicurezza dell’assistenza.
In ambito penale vale il principio: “Peggio condannare un innocente che lasciare libero un colpevole”. La colpevolezza del medico
si basa sulla dimostrazione che senza condotta colposa l’evento
lesivo non si sarebbe verificato, (non basta individuare l’errore).
In Toscana, in realtà, ci sono vari provvedimenti amministrativi
che costituiscono fonti di protezione per chi partecipa alla gestione del risk management.
Sul piano amministrativo chi partecipa all’audit non può essere sottoposto a provvedimento disciplinare. In tal senso l’ultima
delibera della Regione Toscana, (febbraio 2009), ha attuato, finalmente, un’indicazione che a suo tempo avevamo portato dalla
Danimarca.
La Danimarca è l’unico Paese in Europa che ha emanato una legislazione a protezione dell’intero procedimento del rischio clinico
ovvero dell’incident reporting e dell’audit, che non può essere
utilizzato né per provvedimenti disciplinari da parte del datore di
lavoro, né addirittura dalle Corti di giustizia come fonti di prova.
In Italia la magistratura può invece acquisire qualsiasi cosa, si
tratta di capire che quello che facciamo con l’audit non è una
fonte di prova.
A rafforzare il sistema del risk management è intervenuto anche
l’art. 16 del contratto di lavoro dei medici, che richiama la necessità della tutela medico-legale e la necessità del medico di rendersi disponibile per capire perché l’evento è avvenuto e perché
non si ripeta.
Si parla di rischio clinico; questi sono linguaggi contrattuali nuovi,
espressione di una cultura nuova. Si comincia a dire: mi interessa
rendere sicuro il sistema attraverso la partecipazione di tutti al
governo del sistema, il governo clinico, appropriamoci dunque
degli strumenti del governo clinico perché possono essere esercitati bene solo da chi conosce la realtà tecnico-assistenziale.
65
Corso di formazione
In ambito civilistico, come già detto, la situazione per l’operatore sanitario è più debole perché si ragiona ancora in termini di
probabilità soprattutto in ambito omissivo, valutando dove era
possibile intervenire e che cosa sarebbe cambiato in caso di intervento. Quindi c’è la necessità di dimostrare che comunque quel
danno è stato ingiusto e lo si dimostra quando, al di là dell’errore,
si dimostra che l’errore è la conseguenza di un comportamento
imperito, imprudente e/o negligente.
Dall’altra parte, ovvero da parte di chi si difende, è necessario
dimostrare che il danno era inevitabile. Da parte del medico c’è
la necessità di registrare/documentare bene tutto quello che fa,
altrimenti si origina il punto debole che può essere colpito. Anche
la cartella infermieristica va compilata, ma spesso non si fa.
Lavorando insieme si può migliorare. Bisogna imparare ad autovalutarsi a partire dall’esame della correttezza della compilazione
della documentazione redatta. Quando la documentazione è mal
redatta, l’atteggiamento della giurisprudenza è sfavorevole alla
posizione del medico, in quanto viene avvantaggiata la posizione del soggetto che si ritiene danneggiato (e che è considerato
la parte debole tra i due contendenti nel rapporto sanitario). In
ambito civilistico prevale, infatti, l’esigenza di risarcire il danno
sulla necessità di dimostrare l’ingiustizia del danno e spesso la
necessità di documentare l’evitabilità del danno viene sottovalutata. Questi orientamenti comportano costi elevati per il sistema
sanitario. In Toscana i medici sono ben tutelati poiché coperti
da assicurazioni aziendali fino al 31 dicembre 2009 e coperti dal
fondo regionale e da assicurazioni personali per la colpa grave dal
2010, quando inizia la tutela autoassicurativa.
Che cosa possiamo fare allora in queste situazioni sul piano di
valutazione della responsabilità professionale?
1. Cercare di dimostrare che si è fatto tutto il possibile per ottemperare all’obbligazione di buona assistenza (la condotta
professionale è stata adeguata oppure si è discostata dalle
regole dell’arte?).
2. Dimostrare che determinate cause hanno reso impossibile
comportarsi in un certo modo, cause sopravvenute, complicazioni che hanno impedito di assistere bene il paziente (la
condotta ha causato un danno alla persona?).
3. Valutazione del danno alla persona: omicidio o lesioni personali in ambito penale; danno risarcibile in ambito civile.
66
Interventi e relazioni
Qual è dunque l’orientamento della giurisprudenza penale e civile? La valutazione della colpa segue un doppio binario sul grado di probabilità richiesta: la Cassazione penale ammette la responsabilità in caso di elevato grado di credibilità razionale o di
probabilità logica mentre la Cassazione civile richiede solo una
ragionevole probabilità.
La perdita di chance non ha rilevanza in ambito penale; è fonte di
danno autonomo in ambito civile (non c’è bisogno di dimostrare
il nesso).
Consenso informato e giurisprudenza
L’informazione deve consentire al paziente di condividere la scelta medica oppure di decidere in modo diverso.
Non informare il paziente della possibile complicanza alla fine
rende responsabile il medico di quanto succede (in campo civilistico).
Informazione e consenso
La mancanza di informazione e di consenso è ritenuta autonoma
fonte di condotta penalmente rilevante e di danno risarcibile.
Ogni informazione di rilievo va finalizzata al consenso e, soprattutto, alla condivisione.
Contenuti: finalità della procedura consigliata; benefici; benefici
e rischi; alternative.
Le misure più efficaci contro le richieste di risarcimento:
1. informazione chiara;
2. diligenza nell’esecuzione della prestazione;
3. diligenza nella registrazione delle motivazioni alla base delle scelte tecniche;
4. sottoscrizione del consenso.
In medicina complementare per quanto riguarda gli aspetti clinici:
1. circostanze e caratteristiche proprie del caso da esaminare;
2. difficoltà di diagnosi e di prognosi;
3. prevedibilità dell’evento;
4. rilevanza causale di eventuali altri antecedenti causali.
Qui nasce il problema di migliorare sempre di più la comunicazione tra gli stessi operatori.
67
Corso di formazione
Criticità più frequenti
1. Problemi di comunicazione tra i professionisti: le notizie
vanno lasciate con chiarezza al collega che si ritrova poi
davanti al paziente;
2. errata valutazione prognostica, un aspetto importante rispetto alle alternative terapeutiche tradizionali che il paziente potrebbe seguire;
3. errata o mancata diagnosi;
4. trattamento insufficiente.
Conclusioni
Anche in medicina complementare è giusto ragionare sull’attestazione delle buone pratiche per la sicurezza del paziente. Si
tratta dunque di costruire la buona pratica rispetto alla quale
misurarsi.
Anche in questo settore si comincia a entrare non solo nei meccanismi di accreditamento istituzionale, ma anche in quelli di accreditamento volontario, che passa in ogni caso per il rischio clinico.
Si tratta di fatto di creare qualità dal basso.
Quali sono le finalità delle buone pratiche? Rendere visibili i risultati per tutta la comunità e non solo nel mondo della medicina complementare; ridurre il contenzioso per contenere i costi
assicurativi; attivare una competizione positiva per migliorare la
qualità motivando gli operatori e infine rassicurare le associazioni
dei cittadini.
Bibliografia
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Interventi e relazioni
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La cartella clinica e la cartella infermieristica: strumenti di management
e indicatori di qualità delle prestazioni sanitarie, C.G.Edizioni Medico
Scientifiche s.r.l., 2006.
Dinelli F., Martelloni M., De Franco E., Puntoni G., Audit e qualità della
cartella clinica come strumento di miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria, Rivista Professione, n.10, 2008, G. Edizioni Medico
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69
Corso di formazione
Effetti avversi in agopuntura e medicina tradizionale cinese
Sonia Baccetti, Maria Valeria Monechi
Centro di MTC Fior di Prugna, Struttura Regionale di riferimento
per la MnC e la MTC; Rete Toscana di Medicina Integrata, Regione
Toscana
Nata più di 6.000 anni fa in Cina, la medicina tradizionale cinese
(MTC) è l’unica “arte medica” che si è conservata in sostanza inalterata fino ad oggi, ed è utilizzata da 1 persona su 6 nel mondo.
Essa è composta di un insieme di tecniche raffinate che comprendono l’agopuntura, il massaggio tuina, la moxibustione, il fior di
prugna, la farmacopea cinese, la dietetica, la ginnastica energetica ecc. Il meccanismo di azione di queste tecniche è analogo
poiché ognuna di esse è in grado di modificare, equilibrandola,
l’energia del nostro corpo, che sta alla base dell’equilibrio psichesoma, e quindi del benessere. Sulla natura di questa energia vi
sono molte ipotesi per le quali si rimanda ai testi specialistici.
Nel classico approccio terapeutico la scelta della tecnica da utilizzare dipende dalle caratteristiche energetiche del soggetto da
trattare e quindi dalla sua patologia: correntemente, infatti, si
afferma che l’agopuntura ha un’azione disperdente e deve essere
utilizzata nelle patologie da pienezza-calore; il massaggio è più
indicato nelle forme di ristagno dell’energia, la moxibustione in
caso di vuoto energetico e la fitoterapia nelle patologie dell’interno, degli organi e dei visceri. Le ginnastiche energetiche, come
il tai qi e il qigong, hanno una funzione per lo più preventiva e
di riequilibrio dell’energia e si possono dunque utilizzare in ogni
patologia. Anche la dietetica ha un’indicazione preventiva e curativa.
Nel tempo questa metodologia classica si è andata modificando
e oggi in quasi tutto il mondo la scelta terapeutica è fortemente influenzata dalla disponibilità di operatori con una formazione
specifica, dalle attitudini del professionista che esercita la MTC e
dalla scelta terapeutica del paziente. Per esempio in Cina la tecnica più diffusa è la farmacopea, mentre in Europa e soprattutto
in Italia è praticata l’agopuntura, seguita dalla moxibustione e dal
massaggio tuina.
Nelle comunità di cinesi immigrate nel nostro Paese il ricorso alla
farmacopea è molto diffuso e si avvale di farmaci inviati diretta70
Interventi e relazioni
mente dalla Cina; spesso però sono assunti anche farmaci della
farmacopea ufficiale sintetizzati in quel Paese nell’errata convinzione che siano preparati di medicina tradizionale.
Non sono molti i lavori di revisione sugli effetti avversi della MTC.
Le segnalazioni più frequenti riguardano: dolore e sanguinamento, lesioni cutanee, infezioni, ecchimosi per il trattamento con
fior di prugna; dolore, ecchimosi, ustioni e lacerazioni cutanee
nell’utilizzo di coppette. In seguito a massaggio sono stati descritti in letteratura astenia, danni da errata manipolazione, infezioni
e aggravamento dei sintomi. Sono invece noti numerosi effetti
avversi in fitoterapia cinese; ciò è dovuto al fatto che in alcune
ricette sono presenti erbe con una certa tossicità, che la composizione delle ricette non è sempre descritta in modo completo e che
possono essere presenti rimedi non facili da identificare.
Il qigong è una tecnica ampiamente utilizzata, anche nella riabilitazione e in oncologia, della quale non sono riferiti eventuali
disturbi collaterali, anche nei dati bibliografici più recenti.
Sono più numerosi gli studi sugli effetti avversi legati all’agopuntura. Secondo la letteratura internazionale, essi sono costituiti
da lipotimie transitorie, dolore, ecchimosi, vertigini, dipendenza
da agopuntura, infezioni cutanee o allergie agli aghi metallici e
ustioni (in caso di moxibustione). Sono descritti anche rari casi di
pneumotorace, epatite, lesioni spinali, endocardite batterica. Tutti questi effetti si possono evitare con l’applicazione delle normali
tecniche di asepsi o scegliendo una diversa profondità degli aghi
secondo le zone del corpo trattate.
Una review dei lavori pubblicati negli ultimi vent’anni (Ernst E e
coll. 2001) mostra che la percentuale degli effetti avversi gravi è
molto bassa (0.02%-0.1%) ed è legata soprattutto all’infissione
degli aghi da parte di personale non laureato in medicina e con
una bassa professionalità. A un’analoga conclusione era giunto il
National Institute of Health (Stati Uniti) nella Consensus Conference sull’agopuntura del 1999.
Nella review di Ernst e coll. sono descritti 2 casi di pneumotorace
su 250.000 trattamenti, mentre gli effetti avversi minori sono
stati riscontrati in percentuale maggiore. I risultati degli studi
dimostrano che gli effetti avversi più comuni sono dolore all’infissione dell’ago (1 - 45%), stanchezza (2 - 41%) sanguinamento
e/o ematoma ed ecchimosi (0,03% - 38%); l’86% dei pazienti ha
riscontrato una sensazione di rilassamento.
Sulla base della letteratura internazionale White (2004) ha pre71
Corso di formazione
so in esame 715 casi di effetti avversi significativi e ha concluso
che il rischio di gravi effetti avversi in agopuntura è molto basso,
inferiore a quello di altri trattamenti. Esso può essere stimato in
percentuale di 0.05 per 10.000 trattamenti e di 0.55 per 10.000
pazienti. La maggior parte dei 715 effetti avversi era costituita da
traumi (pneumotorace) e infezioni (60% epatite B). Nell’ultimo
periodo questi eventi sono diminuiti con l’utilizzo di aghi monouso
e di migliori tecniche di asepsi.
Un importante lavoro di Jindal e coll. (2008) riferisce gli effetti
avversi in pediatria riportati in 22 studi clinici randomizzati controllati. Gli effetti più frequenti sono stati sedazione (32%), dolore causato dagli aghi (26%) e neuropatie o disturbi del sistema
nervoso (16%). In 9 trials su 782 soggetti di età compresa tra
2 e 18 anni, l’incidenza degli effetti avversi è stata di 1.55 su
100 trattamenti di agopuntura o agopuntura sham, cioè falsa o
placebo (l’arrossamento nella zona della puntura è stato il più
frequente). L’incidenza degli effetti avversi gravi è stata di 5.36
su 10.000 trattamenti.
Witt e coll. (2009) hanno pubblicato uno studio osservazionale
prospettico su 229.230 pazienti, sottoposti in media a 10 trattamenti di agopuntura. Lo studio riferisce che 8.726 soggetti
(8.6%) hanno presentato effetti avversi. I più comuni sono stati sanguinamento o ematoma (6.1%), dolore (1.7%) e sintomi
neurovegetativi (0.7%). Due pazienti hanno presentato pneumotorace e uno ha manifestato una lesione nervosa guarita in 3
mesi. Nessun effetto collaterale è legato alla fase diagnostica,
che si basa esclusivamente sull’anamnesi, sulla presa dei polsi,
sull’esame della lingua e sull’esame obiettivo.
Lo studio del Fior di Prugna
Presso il Centro di medicina tradizionale cinese Fior di Prugna
dell’ASL 10 di Firenze è stato condotto uno studio retrospettivo
attraverso la revisione delle cartelle di circa 24.600 trattamenti,
effettuati su utenti adulti nel periodo 1995-2003. Le tecniche utilizzate erano l’agopuntura, il massaggio tuina, la moxibustione e
il fior di prugna, tutte impiegate in maniera integrata.
Gli operatori avevano una formazione in medicina occidentale
(laurea in medicina e chirurgia, diploma di fisioterapia o massofisioterapia, infermieri professionali) e in MTC.
Per ogni paziente è stata compilata una cartella clinica contenente i dati anagrafici, le abitudini di vita e la professione, l’anamnesi
72
Interventi e relazioni
(occidentale e orientale), l’esame obiettivo (occidentale e orientale), la determinazione della pressione arteriosa e del battito
cardiaco ed eventuali esami clinico-strumentali. Ogni paziente è
stato informato su vantaggi e svantaggi del trattamento e sulle
possibili alternative terapeutiche e ha sottoscritto il consenso al
trattamento su un apposito modulo contenente anche rassicurazioni sulla riservatezza del trattamento dei dati sanitari. Nel
corso di ogni trattamento la cartella clinica è stata aggiornata
annotando la sintomatologia riferita dal paziente, gli eventuali
cambiamenti dell’esame obiettivo, la terapia praticata e gli eventuali effetti collaterali.
Le sedute di agopuntura avevano una durata di 15-20 minuti
secondo la natura della patologia, la costituzione e il peso del
paziente.
Negli adulti, gli effetti avversi del trattamento con fior di prugna
sono stati esclusivamente prurito cutaneo o lieve malore nell’1%
dei casi; con la moxibustione si sono verificati 4 casi di ustioni e
1 caso di lipotimia. Il massaggio ha causato raramente sintomi
collaterali quali astenia, lievi vertigini, nausea e secchezza delle
fauci.
Alcune reazioni avverse dell’agopuntura sono state solo stimate
poiché, essendo poco rilevanti dal punto di vista patologico, ampiamente descritte in letteratura o considerate “normali” in MTC,
non erano state riportate sulla cartella clinica. Per esempio, il
peggioramento della sintomatologia trattata dopo la prima seduta, un evento considerato come un segno prognostico positivo in
MTC e presente in circa il 25-30% dei pazienti. Piccole ecchimosi
sono state riscontrate nell’8-10% dei trattamenti, sia perché i
punti vengono cercati con particolare attenzione sia per il ridotto
tempo di stimolazione degli aghi, secondo la tecnica europea rispetto alle tecniche praticate in Cina.
L’1-2% dei trattamenti ha causato qualche segno di lipotimia
come lieve sudorazione, nausea, disturbi gastrici o lievi vertigini;
i sintomi sono scomparsi in posizione supina o con l’infissione di
aghi specifici. In tutti i casi, gli aghi sono stati mantenuti in sede
e si è potuto terminare normalmente il trattamento alla scomparsa dei sintomi, che sono durati qualche minuto.
Nel 2-3% dei casi l’agopuntura è stata molto dolorosa, ma soltanto 2 pazienti hanno interrotto i trattamenti per questa ragione.
Il 15% dei pazienti ha accusato astenia che, in qualche caso,
determina la necessità di dormire e in casi rari (1%) si sono ma73
Corso di formazione
nifestati tremori muscolari di una parte o di tutto il corpo. È un
evento fastidioso poiché spesso induce paura nel paziente ma
che, una volta passato, lascia il posto a un piacevole rilassamento. Raramente possono comparire disturbi quali riniti, leucorrea,
arrossamenti cutanei o prurito da ricondursi a “evacuazione “ o
“esteriorizzazione” della patologia. Anche questi sintomi, fastidiosi per il paziente, sono interpretati in MTC come un segno
prognostico positivo.
Casi clinici
Si descrivono di seguito alcuni casi in cui sono comparsi sintomi
clinici rilevanti durante o dopo il trattamento, desunti dall’esame
delle cartelle:
- Uomo di 49 anni con cefalea. All’inizio di ogni seduta dopo l’infissione del primo o del secondo ago comparivano ipotensione,
sudore, lipotimia. Il paziente riferiva la stessa sintomatologia in
occasione di prelievi ematici o di esami strumentali. Dopo la terza
seduta si è concordata l’interruzione della terapia.
- Uomo di 78 anni affetto da dolori epigastrici, dito a scatto, problemi circolatori agli arti inferiori in trattamento da circa 2 mesi,
con un graduale miglioramento della sintomatologia. Con il paziente in posizione supina, l’infissione dei punti 10 BL/Vescica, 20
GB/Vescica Biliare, 20 GV/Vaso Governatore e 12 VC/Vaso Concezione non è stata seguita da alcun disturbo. Dopo il trattamento e la stimolazione del punto zusanli (36 S/Stomaco) è comparsa
una sintomatologia vertiginosa ingravescente con impossibilità a
mantenere la posizione eretta. È stato necessario il ricovero ed
è stata formulata la diagnosi di sindrome vertiginosa, trattata
con la terapia farmacologica corrente. Il paziente è stato dimesso
dopo quattro giorni senza sintomi.
- Donna di 45 anni affetta da dolori lombari: 1 giorno dopo il trattamento è comparsa un’infezione cutanea al palmo della mano
sinistra, in corrispondenza del punto 3 SI che era stato punto.
Gli aghi utilizzati, “a perdere”, erano stati tolti dalla confezione e
posti in un contenitore sterilizzato per facilitare il loro utilizzo. La
zona da trattare non era stata detersa, una pratica che peraltro
non è molto utilizzata. La sintomatologia è scomparsa dopo 7
giorni di terapia antibiotica.
- Donna di 60 anni affetta da lombalgia: comparsa di infezione cutanea in corrispondenza di GB/Vescica Biliare 30 regredita
74
Interventi e relazioni
dopo 1 giorno di terapia antibiotica locale.
- Uomo di 35 anni affetto da insonnia e nervosismo: al primo trattamento è stato sottoposto a fior di prugna nella zona dorsale C
7 D 5 e ad agopuntura (20 GV/Vaso Governatore, 20 GB/Vescica
Biliare, 7 HT/Cuore, 17 CV/Vaso Concezione, 3 LV/Fegato, 34 GB/
Vescica Biliare). Subito dopo il trattamento, il paziente ha avuto
un incidente alla guida del motorino e a posteriori ha dichiarato di
essersi sentito “molto strano” uscendo dall’ambulatorio.
- Donna di 48 anni affetta da astenia: trattata con agopuntura per 20 minuti (11 LI/Grosso Intestino, 4 LI/Grosso Intestino,
17 CV/Vaso Concezione, 12 CV/Vaso Concezione, 6 SP/Milza, 3
KI/Rene) ha dichiarato che, all’uscita dall’ambulatorio, ha avuto
qualche minuto di disorientamento spazio-temporale. Questi sintomi hanno causato l’interruzione del trattamento, ripreso soltanto dopo alcuni anni.
- Donna di 36 anni affetta da ipoacusia: 12 ore dopo il trattamento, che prevedeva anche la puntura dei punti shu-mo della
Vescica Biliare, è insorta una colica della colecisti trattata con i
normali analgesici. A posteriori è stata rilevata una calcolosi della
colecisti in precedenza ignorata.
- Uomo di 45 anni affetto da lombalgia, uveite con evidente ristagno dei capillari in zona ipocondriale destra. Il trattamento
utilizzato ha previsto l’uso di aghi (14 LV/Fegato), fior di prugna
per risolvere il ristagno; dopo qualche ora è comparso un dolore
violento riferibile a colica biliare.
In conclusione la nostra esperienza mostra che gli effetti avversi
di massaggio, moxibustione, fior di prugna sono irrilevanti, mentre l’agopuntura può avere effetti collaterali (dolore, ecchimosi,
lieve lipotimia, astenia, tremori, sintomi di evacuazione all’esterno della patologia interna) generalmente lievi e transitori, in analogia con quanto descritto dalla letteratura.
L’agopuntura ha un effetto più profondo e più rapido e richiede
una particolare attenzione quando è praticata su persone deboli
di costituzione, soggetti anziani o affetti da patologie importanti.
Può accadere, ad esempio, che il trattamento di alcuni punti determini il movimento di calcoli renali o della colecisti, con relativa
insorgenza di patologia acuta dolorosa se i calcoli sono di dimensioni discrete (maggiori di 1 cm). Nei pazienti psicolabili o affetti
da turbe psichiche l’agopuntura richiede particolare attenzione
(pochi aghi e tempi di puntura ristretti) poiché potrebbe far rie75
Corso di formazione
mergere problemi profondi.
In campo oncologico è richiesta un’attenzione particolare nella
scelta dei punti da trattare, dei tempi di trattamento o delle tecniche utilizzate. Queste cambiano secondo la fase della malattia
e lo stato generale di salute del paziente.
Bibliografia
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76
Interventi e relazioni
Fitoterapia e sicurezza dei pazienti
Fabio Firenzuoli
Centro di riferimento per la fitoterapia, Regione Toscana, UO Medicina Naturale, Ospedale S.Giuseppe, Azienda USL 11 Empoli
Come si può garantire la sicurezza dei pazienti che si rivolgono
alla fitoterapia? Per qualcuno è semplice, sarebbe sufficiente non
utilizzarla, per varie ragioni. Perché non sappiamo cosa c’è nelle erbe medicinali, i prodotti non sono controllati a sufficienza,
mancano le prove di efficacia, le erbe possono essere inquinate o
adulterate. Ci sono erbe cinesi, indiane, sudamericane e quando
le piante funzionano è certamente dovuto alla presenza di farmaci o all’effetto placebo… Erbe, integratori e nutraceutici non sono
farmaci e perciò non hanno il bugiardino, non riportano in etichetta le indicazioni d’uso e le controindicazioni e non devono essere
prescritti come farmaci. Per di più questi prodotti non si possono
assumere insieme ai farmaci per evitare pericolose interazioni e,
in teoria, dovrebbero essere usati sempre come alternativa e non
come terapia complementare. Di fronte a queste considerazioni
sommarie ma comuni, la risposta sembrerebbe una sola: la sicurezza del paziente si garantisce solo ignorando la questione, non
utilizzando erbe medicinali.
Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, dicevano gli
antichi romani. Le precedenti considerazioni confermano che molti
illustri farmacologi, operatori e professionisti della salute e della
sanità non conoscono le regole che codificano e garantiscono i
fitoterapici. Continuare a confonderli con i prodotti erboristici, con
gli integratori, con le pozioni per rituali magici o con le preparazioni domestiche a base di erbe medicinali non significa screditare il
buon nome di una disciplina ma essere ignoranti. Significa ignorare
le leggi e le norme che definiscono i fitoterapici a tutela della sicurezza e della qualità del medicinale vegetale, cioè del fitoterapico.
Il primo step per la definizione di esatte procedure affinché il medico fitoterapeuta possa lavorare in sicurezza nell’interesse della
salute del paziente, è conoscere le regole che già esistono. Al di
fuori di esse non si parla di fitoterapia, ma si parla d’altro. I principali problemi clinici che occorrono nel nostro settore avvengono
al di fuori della fitoterapia - nell’ambito dell’automedicazione non
controllata, dell’uso di prodotti non medicinali - e si possono ri77
Corso di formazione
condurre all’inosservanza di regole e di procedure esistenti.
Continuare ad affermare che i rischi maggiori delle medicine
complementari derivano dalla fitoterapia è improprio. I rischi derivano dall’uso scorretto delle erbe, non dei medicinali, o dall’uso
di prodotti non medicinali che non fanno parte della fitoterapia.
Occorre prima di tutto informare il medico e gli operatori sanitari
su cosa è un prodotto medicinale e che cosa non lo è. Su cosa
si deve utilizzare per garantire la sicurezza del paziente e sul
modo in cui utilizzarlo. Ciò riduce il problema in misura consistente eliminando una serie importante di fattori di rischio. Per
questo esistono le regole, che molti però ignorano. Perseverare
nella confusione mettendo insieme i prodotti vegetali tout court e
i medicinali fitoterapici, diabolicum est.
I prodotti naturali
È molto difficile riuscire a classificare una pianta come medicinale, alimentare o cosmetica perché da ogni pianta “officinale” si
possono ottenere sostanze numerose e diversificate. Il problema
si pone anche quando si vuole distinguere in maniera chiara i prodotti contenenti derivati di piante: oggi in Italia lo stesso estratto
vegetale può, per esempio, essere incluso in un integratore alimentare e in una specialità medicinale. La situazione è analoga
nei vari Paesi europei.
Questa situazione, tuttavia, può disorientare il paziente e prima
ancora il medico che, sprovvisto di una specifica formazione, rischia di attribuire la valenza di farmaco vegetale a integratori o
prodotti erboristici oppure, al contrario, di sottostimare l’importanza di un farmaco vegetale considerandolo un integratore.
L’indispensabile demarcazione tra i vari prodotti in commercio
serve innanzitutto a garantire la sicurezza e la qualità e per i medicinali anche l’efficacia terapeutica. L’etichetta di un integratore,
per esempio, non può riportare le informazioni per il paziente
presenti nel foglietto illustrativo dei medicinali (indicazioni, controindicazioni, interazioni farmacologiche ecc.), senza considerare che i requisiti di qualità di un integratore o di una preparazione
erboristica non corrispondono a quelli del prodotto medicinale.
Nel primo caso la composizione fa riferimento solo alle esigenze
fisiologiche dell’organismo e non è richiesta una dimostrazione di
efficacia, mentre il medicinale risponde allo scopo di curare una
vera e propria malattia. Questo, tuttavia, non significa che non
sia possibile utilizzare i prodotti giusti al momento giusto. Ben
78
Interventi e relazioni
diversa è la pratica clinica quotidiana del medico, il quale consiglia spesso al paziente cambiamenti nello stile di vita e regole di
igiene. In questo contesto la prevenzione di molte patologie, da
quelle metaboliche e cardiovascolari a quelle oncologiche, non
può ignorare interventi correttivi sull’alimentazione, spesso povera di alcuni nutrienti ed eccedente in altri. In questi casi il medico
può consigliare e prescrivere alimenti particolari e integratori in
base alle necessità del paziente.
Lupo Andreotti, un grande clinico fiorentino scomparso di recente, affermava: “Le malattie non esistono, esistono i malati”. Se
mettiamo al centro la persona, prima ancora che il paziente e la
malattia, è chiaro che il medicinale non è più importante dell’alimento o di altre tipologie di intervento, psicologico, culturale,
musicale, alimentare ecc.
La Comunità europea ha approvato di recente una serie di norme
che identificano alcune categorie di medicinali sulla base delle
modalità di registrazione (standard/semplificata) e in particolare
per la fonte delle prove di efficacia (studio clinico/uso tradizionale) e per le modalità di produzione (industria/farmacia) (vedi
tabella 1). Ha inoltre riconosciuto un’altra grande categoria di
prodotti di uso salutistico, e non medicinale, negli integratori alimentari, cui appartiene la maggior parte dei prodotti a base di
erbe attualmente in commercio. Ai due gruppi citati (medicinali e
integratori alimentari) si aggiungono i dispositivi medici, i novel
foods, i cosmetici e gli aromi.
Tabella 1 - Regolamentazione dei medicinali vegetali (Firenzuoli, 2009)
79
Corso di formazione
Le specialità medicinali vegetali
I medicinali prodotti industrialmente, inclusi quelli di origine vegetale e cioè i fitoterapici (herbal medicinal products), sono definiti specialità medicinali e richiedono la preventiva autorizzazione
all’immissione in commercio delle competenti autorità. Questa
viene rilasciata in base ai dati che riguardano i requisiti di qualità,
sicurezza ed efficacia, in conformità con le direttive europee e la
normativa italiana di recepimento (Direttiva CE 65/65, 2004/27/
CE e successivi aggiornamenti).
Una sostanza, anche vegetale, corredata di tutta la documentazione richiesta, compresi gli studi clinici di efficacia, può seguire
la procedura di registrazione standardizzata. Il farmaco così disponibile potrà essere dispensato come medicinale di automedicazione senza obbligo di ricetta medica, oppure come farmaco
da prescrizione medica, in relazione alla patologia per la quale è
indicato e al rapporto rischio/beneficio.
Molti fitoterapici in commercio sono farmaci di automedicazione
di fascia C. Le procedure di “registrazione semplificata” identificate e normate a livello europeo consentono di immettere sul
mercato come medicinali vegetali due particolari tipologie di fitoterapici (Silano 2006):
• medicinali vegetali di uso consolidato: sono sufficienti i
dati pubblicati in letteratura circa la sicurezza e l’efficacia, ma
non è necessario condurre studi clinici ad hoc. La possibilità di
registrazione è subordinata all’autorità regolatoria; sono ancora
molto pochi i medicinali che l’hanno ottenuta;
• medicinali vegetali tradizionali: è sufficiente l’uso tradizionale da almeno 30 anni, di cui 15 nella Comunità europea. Si
tratta di prodotti composti di una o più sostanze o di preparazioni
di origine vegetale autorizzate per l’automedicazione.
Quest’ultima tipologia di fitoterapico, il cosiddetto “medicinale
vegetale tradizionale”, è la categoria più recente introdotta sul
mercato europeo con la Direttiva CE 2004/24. Questo importante provvedimento consente di registrare molti estratti fitoterapici
attualmente commercializzati sotto forma di integratori. L’origine
“tradizionale” di questa tipologia di medicinale vegetale deve essere certificata dal parere di esperti ed è sufficiente per ottenere
la registrazione. Questo vale anche se il prodotto è già stato commercializzato senza una specifica autorizzazione, come accade
per gli integratori. I requisiti e i documenti necessari per la regi80
Interventi e relazioni
strazione semplificata sono descritti nella Direttiva CE 2001/83;
in ogni caso occorre sempre fare riferimento alle monografie redatte dall’Herbal Medicinal Products Committee (HMPC) costituito a questo scopo all’interno dell’Agenzia Europea dei Medicinali
(EMEA).
L’HMPC predispone anche una lista di sostanze, preparazioni e
combinazioni possibili in cui sono descritte le relative indicazioni,
concentrazioni e la posologia. Entro il 2011 la Direttiva 2004/24
dovrà essere applicata anche ai medicinali tradizionali già in commercio.
Questa direttiva ha come vantaggio la semplificazione e l’armonizzazione delle regole di registrazione nei vari Stati europei, in
modo da garantire la sicurezza dei prodotti. Qualche perplessità
suscita invece il fatto che sono medicinali privi di prove di efficacia per definizione, essendo l’indicazione basata esclusivamente
sull’uso tradizionale e prolungato del prodotto.
Per questi medicinali di automedicazione vale il principio del mutuo riconoscimento tra gli Stati europei. Le aziende si avvalgono
di questa categoria per quei prodotti per i quali non ci sono dati
in letteratura, ma solo l’uso tradizionale, e utilizzano la categoria
dei medicinali di uso consolidato quando ci sono prove di efficacia
sufficienti.
Occorre rilevare che i medicinali registrati in questa categoria
sono ancora molto pochi in Europa (circa una decina) e nessuno
in Italia. Ciò si può spiegare con il fatto che molte aziende del
settore preferiscono commercializzare gli estratti vegetali come
integratori alimentari risparmiando il tempo e il denaro necessari
per la registrazione (circa 20.000 euro per la registrazione di un
farmaco vegetale contro 160 euro per la notifica di un integratore) e gli sforzi indispensabili per soddisfare i requisiti dell’EMEA.
Tutti i fitoterapici registrati secondo le modalità descritte soddisfano i requisiti di qualità, mentre la sicurezza e l’efficacia possono essere variamente ricavate dalle prove cliniche, dalla letteratura o semplicemente dall’uso nel tempo.
Infine la normativa mantiene poche differenze circa le indicazioni salutistiche (claims), poiché consente agli alimenti di vantare
effetti fisiologici, nutrizionali e salutistici presentati e presentabili
spesso in una forma “quasi” simile a quella dei medicinali.
I medicinali vegetali galenici
La produzione non industriale dei medicinali si effettua nelle far81
Corso di formazione
macie private, pubbliche e ospedaliere, in conformità con alcuni
provvedimenti legislativi, a partire dal Decreto legislativo 178 del
1991.
Per garantire qualità e sicurezza del prodotto, il farmacista fa
riferimento alla Farmacopea e alle cosiddette “Norme di buona
preparazione dei medicinali in farmacia”, modificate con Decreto
del ministero della Salute del 18 novembre 2003 pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale il 15 gennaio 2004 (“Procedure di allestimento
dei preparati magistrali e officinali”).
Queste norme sostituiscono le analoghe norme del Formulario
nazionale (FU IX) e consentono l’allestimento di due tipologie di
galenici:
• preparato officinale: medicinale allestito in farmacia in base
alle indicazioni di una Farmacopea dell’Unione Europea e destinato a essere dispensato direttamente ai pazienti della farmacia;
• preparato magistrale: medicinale allestito in farmacia in conformità a prescrizione medica destinata a un determinato paziente (Legge n. 94, 8 aprile 1998).
Il Decreto ministeriale del 18 novembre 2003 indica tutti gli
adempimenti che il farmacista deve osservare per l’allestimento
di una preparazione, la compilazione e l’archiviazione dei documenti, certificati di analisi delle materie prime e ricette mediche,
obbligatorie per i preparati magistrali, nonché le norme per le
etichette da applicare sulle confezioni, che devono riportare i seguenti dati:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
82
riferimenti della farmacia;
nome e cognome del medico prescrittore;
nome e cognome del paziente;
numero progressivo della preparazione;
data di preparazione;
data di scadenza;
composizione quali-quantitativa della preparazione;
eventuali eccipienti;
prezzo di vendita;
uso: interno, esterno o veterinario;
altre eventuali avvertenze: veleno, doping, caustico ecc.;
precauzioni d’uso: “Tenere fuori dalla portata dei bambini”, “Non disperdere nell’ambiente”.
Interventi e relazioni
In base alla tipologia di ricetta medica il farmacista deve conservarla per un periodo variabile da 6 mesi a 5 anni. Il preparato
galenico magistrale è una risorsa importante per il medico e in
particolare per il fitoterapeuta perché consente di personalizzare
la prescrizione e di far preparare un farmaco ad personam. Il ricorso a preparazioni magistrali impone sempre l’obbligo del consenso informato, che può essere anche verbale ma deve essere
sempre personale, esplicito, specifico e consapevole.
La ricetta medica
La ricetta medica riporta sempre i riferimenti del medico prescrittore, il nome e il cognome del paziente, la data di compilazione e
la firma del medico. Nel caso della prescrizione di specialità medicinali, è possibile indicare il nome commerciale della specialità registrata oppure il medicinale equivalente. Nel caso di una prescrizione magistrale, il medico può prescrivere sostanze presenti in
medicinali autorizzati in un Paese della Comunità europea oppure
descritti nella Farmacopea ufficiale o nella Farmacopea europea,
o presenti in integratori o cosmetici in commercio nella Comunità
europea. La ricetta magistrale è valida per 3 mesi.
Una prescrizione magistrale fitoterapica deve indicare sempre:
• il nome botanico della pianta medicinale;
• la droga vegetale, cioè la parte della pianta utilizzata;
• il tipo di estratto;
• la concentrazione-standardizzazione dei principi attivi;
• l’eventuale riferimento alla F.U.;
• la quantità della materia prima per unità (per esempio, per capsula);
richieste dal medico;
• il numero delle capsule per confezione;
• le eventuali modalità di preparazione e confezionamento
• posologia e modalità di assunzione.
È importante definire tutti i dati a cominciare dal nome botanico
della pianta, perché il nome comune varia da Paese a Paese, sono
presenti molti sinonimi e addirittura lo stesso nome comune può
corrispondere a specie botaniche differenti.
Anche in fitoterapia la prescrizione medica deve seguire le regole
del Codice deontologico. Se si osservano queste regole, una buona parte dei problemi è eliminata in partenza.
83
Corso di formazione
Perché parlare di sicurezza?
Esiste un corpus di reazioni avverse all’uso di erbe medicinali
correlato all’impiego di tecniche non validate, all’inappropriatezza
del trattamento, a forme di automedicazione irrazionale, all’uso
di prodotti non controllati o alla sospensione della terapia senza
consiglio medico.
I punti critici sono rappresentati dall’uso scorretto di piante non
controllate, in genere al di fuori del circuito medicinale, per tossicità da contaminazione della pianta o del prodotto da:
• metalli pesanti
• pesticidi
• micotossine
• batteri
• funghi
• virus
• radiazioni
Accade in particolare quando si utilizzano piante raccolte direttamente nei campi, vicino a fonti di inquinamento oppure erbe
provenienti da fonti non sicure. Un altro aspetto importante sono
le frodi, cioè l’aggiunta illegale di farmaci di sintesi alle erbe. Nel
campo dell’automedicazione non controllata o della mancata conoscenza da parte del professionista è motivo di preoccupazione
anche la tossicità intrinseca della pianta che riguarda:
• genere della pianta (ad esempio, Teucrium)
• specie botanica (ad esempio, passiflora)
• droga vegetale (ad esempio, borragine, pomodoro). Del ricino
è tossico il seme “naturale” ma non l’olio estratto (purgante)
• sostituzione o contaminazione accidentale con piante tossiche
Fra gli errori correlati alla mancata conoscenza di farmacologia
e tossicologia delle sostanze vegetali ci sono gli effetti collaterali
prevedibili, generalmente dose-dipendenti. In questi casi le reazioni avverse sono causate spesso da sovradosaggio o sottodosaggio, dall’impiego di prodotti contenenti estratti di piante non
titolati in principi attivi che non consentono l’adeguamento posologico richiesto. La colpa in questo caso non è della pianta, ma di
chi la prescrive e del modo in cui si prescrive. Ad esempio l’uso
prolungato o il sovradosaggio di liquirizia può provocare ipertensione arteriosa e/o ipopotassiemia.
84
Interventi e relazioni
Errori imputabili alla scarsa professionalità del medico prescrittore, del farmacista preparatore o del paziente che acquista il prodotto in canali non controllati sono correlati a reazioni provocate
dal tipo di estratto o di prodotto improprio, come nel caso di:
•
•
•
•
•
•
preparazioni vegetali grezze (non depurate)
presenza di solvente (tinture alcoliche ecc.)
estratti non adeguatamente standardizzati
presenza di molte erbe
prodotti non medicinali
acquisti non sicuri (porta a porta, Internet ecc.)
Esistono inoltre i rischi che hanno a che fare con il paziente e che
il medico è obbligato a conoscere. Giova sempre ricordare che
anche il banale consiglio di un “prodotto naturale” a scopo medicinale richiede sempre un’accurata anamnesi. Trascurarla può
avere conseguenze mediche per il paziente e legali per il professionista:
• variazioni genetiche del metabolismo dei farmaci
• deficienze enzimatiche (favismo)
• allergie (ad esempio a salicilati, Composite, resine ecc.), in
parte prevedibili
• reazioni idiosincratiche, generalmente imprevedibili
• condizioni particolari (anziani, bambini, gravidanza, allattamento) che richiedono specifiche cautele
• malattie in atto o pregresse (gastroresezione, insufficienza
renale ecc.)
Un altro capitolo insidioso riguarda le interazioni tra erbe e farmaci, e cioè le interazioni di piante sulla farmacocinetica (assorbimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione) e sulla farmacodinamica (meccanismo d’azione) di un farmaco. Le conseguenze possibili sono l’aumento di efficacia (fino alla tossicità) del
farmaco o dei farmaci in terapia oppure, al contrario, la riduzione
fino alla perdita di efficacia.
La gestione ottimale di questi aspetti richiede un’adeguata conoscenza della farmacologia delle sostanze vegetali e dei farmaci.
Non è così semplice. Prima di tutto perché una pianta medicinale, o un estratto vegetale, contiene moltissime molecole, spesso
molto diverse tra loro, talvolta sconosciute. La questione si com85
Corso di formazione
plica quando sono prescritte e associate più piante contemporaneamente. Inoltre gli estratti, anche se standardizzati in principi
attivi, riportano di solito soltanto la quantità delle sostanze utilizzate come standard di riferimento (ipericina 0.3% nell’estratto
di iperico, monacolina 4% nell’estratto di riso rosso fermentato
ecc.). Di conseguenza la restante percentuale dell’estratto, che
spesso è quella più consistente, può rimanere variabile o sconosciuta.
In via teorica, quando si prescrivono estratti fitoterapici, c’è sempre una zona grigia riguardante i costituenti non noti che potrebbero modificare la cinetica o la farmacodinamica dei farmaci. Il
problema delle interazioni deve essere noto ai medici, agli operatori e ai professionisti del settore, almeno per gli aspetti noti o
prevedibili.
Nella tabella 2 sono riportate le principali interazioni tra sostanze
vegetali e citocromi e i relativi farmaci da questi metabolizzati.
Si richiede particolare cautela quando si prescrive un prodotto
vegetale, medicinale o non medicinale, a un paziente in terapia
con altri farmaci.
Bibliografia essenziale
Calapai G. European legislation on herbal medicines: a look into the future. Drug Saf, 2008; 31 (5): 428-431.
Firenzuoli F. Interazioni tra erbe, alimenti e farmaci. II edizione, Tecniche
Nuove, Milano, 2009.
Firenzuoli F. Fitoterapia, IV edizione, Elsevier, Milano, 2008.
Silano M. e Silano V. Prodotti di origine vegetale.Tecniche Nuove, Milano,
2006.
86
Interventi e relazioni
Tabella 2. Piante e sostanze naturali che interferiscono (come induttori
o inibitori) con i citocromi e i relativi farmaci metabolizzati (substrati)
(Firenzuoli, 2009)
87
Corso di formazione
Gli eventi avversi in omeopatia
Elio Rossi
Responsabile dell’ambulatorio di omeopatia della Azienda USL 2
di Lucca, Centro regionale di riferimento per l’omeopatia
Oggetto di questa relazione è un lavoro realizzato dall’ambulatorio di omeopatia di Lucca nel 2005, e seguito in particolare dalla
dottoressa Cristina Endrizzi, attualmente in servizio presso l’hospice “Il gelso” di Alessandria (1).
Il punto di partenza è stato uno studio di Flávio Dantas, medico e
docente universitario brasiliano, pubblicato sul British Homeopathic Journal nel 2000. Secondo Dantas, i farmaci omeopatici preparati secondo la farmacopea omeopatica e prescritti da medici
esperti in alte diluizioni sono un intervento sicuro sotto il profilo
quantitativo e qualitativo. Questa conclusione non può essere applicata anche ai cosiddetti “prodotti omeopatici”, preparati utilizzando varie componenti minerali e fitoterapiche in diluizioni molto basse o addirittura non diluiti, sotto forma di tintura madre.
Un altro elemento che ha influito molto sulla decisione di studiare questo aspetto è stata la necessità di garantire all’istituzione
sanitaria il massimo di sicurezza, poiché si tratta di un campo,
quello omeopatico, che non era mai stato inserito prima di allora,
nel periodo 1998-2000, nelle attività sanitarie della Azienda USL
2 di Lucca. Aprire un ambulatorio di omeopatia all’interno di un
ospedale pubblico rappresentava un esperimento circa l’efficacia
e l’azione di questa terapia ma doveva garantire anche la massima sicurezza di intervento.
Abbiamo avviato due tipologie di azione: prima di tutto verificare,
dati alla mano, che non ci fossero effetti avversi degni di rilievo
nella nostra pratica clinica. Questo era dato per scontato da tutti,
ma aveva pochi riscontri in letteratura internazionale.
La seconda attività è stata l’istituzione di un punto informativo
telefonico sul farmaco omeopatico e di farmacovigilanza, attivato
nel novembre del 2003. Da allora abbiamo risposto a numerose
telefonate e per un certo periodo abbiamo anche monitorato la
tipologia delle telefonate e i quesiti che venivano posti, di cui
parleremo più avanti.
Il termine “evento avverso” indica un evento medico spiacevole
che si manifesta nel corso di un trattamento farmacologico o di
altro tipo, ma che non ha necessariamente una relazione causale
88
Interventi e relazioni
con quel trattamento. Una reazione avversa è, invece, una risposta dannosa e non intenzionale a un farmaco che si verifica alle
dosi normalmente utilizzate nell’uomo per profilassi, diagnosi o
cura della malattia, o per modificare una determinata funzione
fisiologica (WHO Technical Report n. 498, 1972).
Di che cosa parliamo allora quando ci riferiamo alla reazione avversa a un rimedio omeopatico? Sono almeno tre le possibilità:
l’”aggravamento omeopatico”, un fenomeno noto e ben descritto
nei testi di dottrina omeopatica; una reazione avversa “non prevedibile” a seguito di una prescrizione appropriata e, infine, la
reazione avversa con aggravamento di sintomi, non seguita da
un successivo miglioramento, in sostanza un errore di prescrizione.
Per “aggravamento omeopatico” s’intende un aggravamento iniziale dei sintomi del paziente seguito da un miglioramento, come
effetto della malattia artificiale indotta dal rimedio omeopatico
simile all’insieme dei sintomi presenti nel paziente. Se la prescrizione è corretta, generalmente questo fenomeno non avviene o
si manifesta in forma molto lieve. Ciò significa che si è scelto un
rimedio con una potenza e una frequenza di somministrazione
compatibili con la capacità del soggetto di tollerare la malattia
artificiale prodotta dal rimedio - che passerà quindi quasi inosservata - purché si accompagni a un notevole miglioramento del
paziente e dei suoi sintomi, con una durata e un’intensità di reazione minima e tollerabile.
Abbiamo analizzato per lo studio le cartelle cliniche di 1.110 pazienti visitati in maniera consecutiva dal 2002 al 2007: 440 sono
stati seguiti per almeno due mesi e rappresentano il 39.7% di
tutti i casi. I casi di aggravamento omeopatico sono stati 67, circa il 6% del totale dei pazienti visitati, e il 15,2% dei casi seguiti
in follow up. In letteratura i dati sono discordanti: il 30.8% o il
25.4% di aggravamento lieve e il 7.8% di aggravamento significativo. Molto dipende tuttavia dalla definizione di aggravamento
omeopatico e di tutte le varianti possibili incluse in essa.
Quando parliamo di reazione avversa, con l’aggravamento dei
sintomi non seguito da un miglioramento, ci troviamo di fronte a
una prescrizione omeopatica inappropriata. Può accadere quando
si somministra un rimedio solo parzialmente simile, non in totale
sintonia con l’insieme dei sintomi del paziente; oppure quando
89
Corso di formazione
il rimedio è adeguato ma non è corretta la posologia, a causa
di una ripetizione intempestiva o troppo frequente del rimedio a
una potenza eccessivamente alta, o al contrario perché è stata
prescritta una potenza troppo bassa, ai limiti della ponderabilità
della sostanza.
La reazione avversa “non prevedibile” dopo prescrizione appropriata può essere, invece, condizionata da una ipersensibilità del
soggetto, che reagisce al rimedio in modo eccessivo e imprevedibile. Oppure, al contrario, si è di fronte a una forma di iporeattività dunque, secondo l’omeopatia classica, l’incapacità della forza
vitale del paziente di reagire in modo adeguato alla stimolazione
indotta dal rimedio.
Il lavoro è uno studio prospettico osservazionale con due bacini di
utenza per la raccolta dei dati:
1) dal novembre 2003 le segnalazioni spontanee casuali telefoniche al servizio di informazione sul farmaco omeopatico e di farmacovigilanza. Sono state prese in considerazione anche alcune
segnalazioni riferite durante la visita omeopatica riguardanti le
reazioni a rimedi omeopatici prescritti al paziente nel passato e
non presso l’ambulatorio di omeopatia di Lucca;
2) dal giugno 2003 i dati sono stati raccolti nel corso della visita
omeopatica di controllo, cioè la visita successiva alla prima eseguita presso l’ambulatorio di omeopatia di Lucca.
Obiettivi del lavoro erano:
• una valutazione generale del rischio e dell’efficacia della terapia omeopatica;
• il monitoraggio sul territorio delle terapie omeopatiche e omeoterapiche utilizzate dai cittadini e prescritte da varie figure
professionali.
In particolare intendevamo verificare il tipo di qualifica delle figure professionali che utilizzano e consigliano la terapia omeopatica, possibilmente le modalità di prescrizione, i problemi correlati
alla dose e alla potenza del rimedio omeopatico e le caratteristiche dei rimedi cosiddetti “complessi”.
Le segnalazioni spontanee sono state raccolte da un medico esperto in omeopatia e catalogate con un’apposita scheda, in cui sono
descritti i dati epidemiologici (luogo di provenienza dell’utente,
età, sesso) e quelli sulla terapia praticata (tipo di terapia omeo90
Interventi e relazioni
patica, rimedio unitario o no, più rimedi somministrati contemporaneamente, medicinali complessi, prodotti definiti omeopatici
ma in realtà fitoterapici, integratori alimentari ecc.).
Per gli effetti avversi segnalati sono state raccolte le informazioni
riguardanti:
• posologia
• dopo quanto tempo dall’inizio del trattamento l’evento è comparso
• se è scomparso con l’interruzione del trattamento (dechallenge)
• se è ricomparso assumendo di nuovo la terapia N.C. (rechallenge)
• eventuali trattamenti farmacologici concomitanti
• grado di relazione tra l’evento segnalato e la terapia praticata secondo 4 possibili valutazioni: assente, dubbia, probabile,
certa
Le segnalazioni di effetto avverso in corso di visita omeopatica di
controllo sono state raccolte da un medico esperto in omeopatia,
diverso da quello che aveva prescritto il farmaco omeopatico,
somministrato generalmente come unica prescrizione secondo i
criteri dell’omeopatia classica.
La valutazione ha considerato i seguenti aspetti:
• tipo di rimedio, dose e frequenza di somministrazione
• dopo quanto tempo dall’inizio del trattamento l’effetto è comparso
• tipo di effetto e intensità (indicata dal paziente secondo una
scala analogico visuale VAS)
• dechallenge/rechallenge
• eventuali fattori concomitanti
• correlazione tra effetto e terapia, secondo 4 possibilità di relazione: assente, dubbia, probabile, certa.
I principali criteri utilizzati per valutare la presenza di una reazione avversa al rimedio omeopatico sono stati:
• la reazione si ripete utilizzando almeno 2 volte lo stesso rimedio;
• la reazione s’interrompe sospendendo il trattamento e ricompare ripristinando la terapia omeopatica (dechallenge e
rechallenge positivi), in assenza di condizioni concomitanti e
91
Corso di formazione
predisponenti;
• esiste una correlazione chiara tra l’espressione dei sintomi del
soggetto e i sintomi del rimedio noti dalla sperimentazione
pura (“proving”); in questo caso si tratta in genere di sintomi
nuovi mai presenti nel soggetto e comparsi dopo l’assunzione
del rimedio (per effetto del cosiddetto “proving”) in assenza di
condizioni concomitanti;
• i sintomi riferiti come indesiderati sono gli stessi presentati
dal paziente prima della cura, ma accentuati per intensità o
frequenza (aggravamento omeopatico);
• non esistono condizioni concomitanti correlate con i sintomi
indesiderati riferiti dal paziente.
I criteri per valutare il nesso causale tra un evento avverso e la
terapia omeopatica o non convenzionale (omeo e fito complesso,
integratori ecc.) sono stati i seguenti:
• correlazione certa: una chiara relazione tra l’espressione dei
sintomi del soggetto e gli effetti del rimedio, con lo stesso
rimedio somministrato almeno due volte; dechallenge/rechallenge positivi; assenza di fattori concomitanti predisponenti;
• correlazione probabile: la reazione avversa non sembra coerente con i sintomi prodotti nella sperimentazione del rimedio
ed esistono fattori predisponenti di chiaro effetto sul problema
del soggetto, ma il fenomeno scompare sospendendo il trattamento e ricompare assumendo di nuovo il rimedio;
• correlazione dubbia: l’effetto sembra dipendere dal trattamento per coerenza sintomatologica, ma non per una relazione
temporale positiva, con dechallenge/rechallenge negativi ed
esistono fattori predisponenti;
• correlazione assente: non sussistono i criteri citati per stabilire
una relazione di causalità.
Sulla base di questi criteri si sono ottenuti i seguenti risultati:
1) su 81 segnalazioni telefoniche casuali, che non riguardavano
informazioni sul medicinale omeopatico ma segnalavano un
evento avverso, sono state registrate 21 reazioni avverse;
2) su 447 visite di controllo su 181 pazienti seguiti nel trattamento omeopatico, sono state registrate 12 reazioni avverse
(2.68% dei casi). Questo dato corrisponde ad altri presenti in
letteratura (2.7% Anelli M et al., Homeopathy 2002; 7.8%
92
Interventi e relazioni
Riley D et al., J Altern Complement Med 2001).
Il 29% dei 181 pazienti visitati era di sesso maschile, il 71%
femminile, l’età media 20,6 anni (minimo 14 mesi, massimo 68
anni). Il 43% dei pazienti è ritornato per eseguire più di 1 visita
di controllo nel periodo di osservazione (follow up da un minimo
di 1 visita a un massimo di 7 visite consecutive).
La frequenza media tra una visita e la successiva è stata di 1,7
mesi (minimo 1 mese, massimo 13 mesi).
Le patologie più frequenti sono state quelle respiratorie (asma
11.1% dei pazienti, infezioni acute respiratorie recidivanti 9%),
problemi dermatologici di tipo allergico (7.6%), patologie di tipo
psicologico come sindromi ansioso-depressive (9%), patologie
del tubo digerente come gastrite e sindrome dell’intestino irritabile (9%), disturbi della menopausa (6.2%) e cefalea (4%).
La tabella seguente mostra il tipo di reazioni avverse registrate durante il trattamento omeopatico in 9 pazienti (2.68%) su
335 visitati in modo consecutivo (seconde visite) dall’1.6.2003 al
30.6.2004.
93
Corso di formazione
Tabella 1. Dati sulle reazioni avverse
Legenda: R.O.: ricovero ospedaliero
94
Dech.: dechallenge
P.O.I.: prescrizione omeopatica inappropriata
Rech.: rechallenge
Interventi e relazioni
Passiamo all’esame di 21 reazioni avverse su 81 segnalazioni casuali selezionate. Nel primo anno di attività del Servizio di informazione sul farmaco omeopatico e farmacovigilanza, il 18% di
richieste di informazioni riguarda gravidanza e allattamento, il
26% effetti avversi indesiderati, cioè 21/81 segnalazioni selezionate non riguardanti una richiesta generica di informazione sul
farmaco omeopatico.
La distribuzione geografica degli utenti, il tipo di prescrizioni e la
qualifica dei prescrittori sono i seguenti:
• Luogo di provenienza: 38% nord Italia, 42% centro e 20%
sud e isole.
• Tipologia del rimedio: 28% rimedio omeopatico unitario,
52% complessi omeopatici o pluralità di rimedi omeopatici,
20% altre terapie (fitoterapia, integratori, oligoelementi, fiori
di Bach).
• Qualifica dei prescrittori: nel 55% il prescrittore è un medico esperto in omeopatia, nell’11% un medico generico, nel
34% la terapia è stata consigliata da non laureati in medicina
e chirurgia.
Al paziente/cittadino si chiedevano le seguenti informazioni:
sesso ed età, per quale patologia aveva richiesto la prescrizione
omeopatica, che tipo di terapia era stata praticata, quale reazione aveva provocato, avversa e/o indesiderata, cosa era successo
sospendendo il farmaco ed eventualmente riassumendolo ed entro quanto tempo compariva l’eventuale effetto avverso. È stato
anche chiesto se erano presenti fattori concomitanti, quali altre
terapie o possibili cause, per esempio di tipo psicologico. In base
a ciò è stato formulato un giudizio di correlazione fra la terapia e
l’effetto segnalato: certa, dubbia, probabile...
Esempi di segnalazione
Una donna di 50 anni, dopo avere assunto un complesso omeopatico (Cuprum Heel, Pascoe D) per la cefalea, ha lamentato
tachicardia e aumento della cefalea, con conseguente ricovero
ospedaliero, in assenza di fattori concomitanti e con una correlazione con la terapia giudicata certa.
Donna di 50 anni affetta da cefalea, con aumento del disturbo
dopo somministrazione di un rimedio omeopatico ad alte potenze
95
Corso di formazione
(Natrum muriaticum 200 CH e M CH) con dechallenge e rechallenge positivi.
Sono stati registrati anche fenomeni di ipersensibilità/allergia: ad
esempio un neonato di 6 mesi, dopo avere assunto un integratore
alimentare (vitamina B), ha avuto una reazione cutanea con edema al volto. I sintomi, comparsi dopo 2 giorni, hanno richiesto il
ricovero ospedaliero.
Gli effetti avversi registrati nelle segnalazioni spontanee riguardano per lo più complessi di tipo paraomeopatico (fitoterapici,
omeopatici in bassa diluizione, a volte iniettabili), ma sono stati
registrati anche effetti provocati da rimedi omeopatici classici in
alta diluizione. È il caso di una donna di 53 anni affetta da nevralgia del trigemino che, dopo avere assunto una dose di Aconitum
30 CH tre volte al giorno, ha manifestato epistassi e agitazione
psicomotoria.
Conclusioni
Torniamo alle reazioni avverse al trattamento omeopatico e alla
loro definizione in base alla classificazione internazionale, che è
cambiata nel corso degli anni.
Nel 1977, su proposta di Rawlins e Thompson, le ADRs (Adverse
Reactions) furono classificate come segue:
• tipo A, dose-dipendenti e prevedibili in funzione delle caratteristiche del farmaco;
• tipo B, dose-indipendenti e imprevedibili.
La nuova classificazione, indicata con la sigla DoTS (Aronson e
Fermer, 2003), è descritta come tridimensionale e prende in considerazione per ogni reazione avversa:
• dose-dipendenza (Do)
• tempo di insorgenza della reazione (T)
• suscettibilità del paziente (S).
Utilizzando queste classificazioni, il fenomeno di “aggravamento
omeopatico” potrebbe essere comparato a:
• una reazione avversa di tipo A, (secondo la classificazione di
Rawlins e Thompson): effetto prevedibile del farmaco come
eccesso della sua azione principale, riproducibile sperimental96
Interventi e relazioni
mente sul soggetto sano (proving omeopatico);
• una reazione avversa tempo-dipendente (reazione prima
dose), secondo la classificazione DoTS di Aronson e Fermer,
poiché occorre considerare anche il fattore tempo (per esempio la frequenza di somministrazione).
L’”evento avverso” potrebbe essere considerato per lo più come
una reazione di tipo B, in base alla dose, in pazienti suscettibili
(reazioni di ipersensibilità).
Rispetto al tempo può trattarsi di reazioni spesso imprevedibili
(e quindi tempo-indipendenti), che possono verificarsi alla prima
dose, oppure dopo un’esposizione continuata e ripetuta al rimedio
(tipo reazione intermedia/tardiva), quando il “livello energetico”
dell’individuo è ampiamente saturato e sollecitato dal rimedio e il
paziente comincia a sperimentare gli effetti del rimedio stesso.
Questo tipo di classificazione, come il tentativo di definire il fenomeno con un linguaggio “più scientifico” o più moderno, è discutibile e può essere contestato a partire da una diversa interpretazione dei fenomeni sia in chiave strettamente omeopatica, sia in
termini di classificazione convenzionale.
In conclusione, esistono reazioni avverse ai rimedi omeopatici
diverse dal fenomeno di “aggravamento omeopatico”. Sono reazioni lievi, di bassa intensità e rare rispetto alle reazioni avverse
da farmaci convenzionali.
È dunque importante, riprendendo l’esortazione di Flávio Dantas,
creare un sistema di monitoraggio chiaro e definito per osservare
il fenomeno dell’aggravamento omeopatico o delle reazioni avverse dopo la somministrazione di rimedi omeopatici.
Riferimenti bibliografici
1. Endrizzi C., Rossi E., Crudeli L., Garibaldi D. Harms in homeopathy:
aggravations, adverse drug events or medication errors?, Homeopathy
2005; 94: 233-240.
97
Corso di formazione
Comunicazione e promozione della sicurezza in
medicina complementare
Mariella Di Stefano
Direttore del Notiziario regionale MC Toscana
La sicurezza del paziente riceve un’attenzione sempre maggiore
negli ultimi anni. L’interesse però si è focalizzato più sull’epidemiologia degli errori e sugli eventi avversi che sulle pratiche atte
a ridurre quegli eventi, sulla prevenzione. Il programma di questo
corso ha scelto questo taglio ed è una novità positiva.
Quando parliamo di comunicazione nell’ambito della salute, occorre distinguere innanzitutto fra la comunicazione sanitaria, che
spetta al medico, agli operatori e alle strutture sanitari, e l’informazione-divulgazione sui media, generalisti e specializzati, compito dei giornalisti.
Le informazioni in materia di salute per essere credibili devono
indicare la fonte e deve essere chiaro se esprimono opinioni o fatti accertati. Esse devono essere aggiornate e verificate a scadenze regolari, formulate in un linguaggio comprensibile e devono
fornire dati obiettivi e imparziali.
È improprio dire che i media non parlano di medicine complementari, almeno negli ultimi anni. Il problema non è la quantità, ma
la qualità e l’affidabilità dell’informazione comunicata al cittadino.
La difficoltà di una buona informazione e divulgazione delle medicine complementari è dovuta a più aspetti e innanzitutto a una
conoscenza parziale, o peggio pervasa da pregiudizi, degli argomenti, ma anche alla confusione che regna ad esempio in Internet e al conflitto d’interesse. Queste discipline sono a volte sottostimate, altre spettacolarizzate, banalizzate o svilite sul piano
esclusivamente commerciale. Talvolta la divulgazione è impropria
o strumentale, gli eventi o i dati sono riportati in maniera errata
oppure separati dal loro contesto di riferimento. Naturalmente
ci sono esempi di buona informazione e divulgazione anche in
Italia, dove manca però quella solida tradizione di giornalismo
scientifico sviluppato in altri Paesi.
Il modo in cui i media parlano di medicine complementari riflette una sostanziale asimmetria, che è correlata al ruolo e al
peso economico di queste medicine e di cui il persistente vuoto
normativo è la cartina di tornasole. Queste medicine infatti, se
si esclude il caso della Regione Toscana, non sono ancora state
98
Interventi e relazioni
disciplinate da una legge nazionale.
La rappresentazione delle medicine complementari sui media è
influenzata anche dalle regole che governano il mondo dell’informazione, ad esempio il rimaneggiamento di un evento secondo i
criteri cosiddetti della “notiziabilità”. Un evento è “notiziabile” se
c’è qualcuno da accusare, se ci sono vittime da compiangere, se
c’è una speranza da suscitare ecc. Le conseguenze implicite di
questo approccio sono la “drammatizzazione” della notizia, la sua
semplificazione nei titoli ed è ciò che spesso si osserva e di cui gli
operatori del settore si lamentano.
In che modo comunicare il tema della sicurezza in questo campo? L’argomento delle reazioni avverse alle piante medicinali, un
tema specifico che riguarda la fitoterapia classica europea e la fitoterapia cinese, è da tempo in primo piano. È giusto e necessario
monitorare questo aspetto, poiché se le piante medicinali svolgono un’azione terapeutica, è chiaro che possono anche scatenare
effetti avversi o interazioni con i farmaci di sintesi. Dell’argomento si occupa, in collaborazione con il Centro di medicina naturale
della ASL 11 di Empoli, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) dal
2002. In quell’anno fu avviato uno studio pilota, all’epoca denominato “Epicentro”, in seguito trasformato in uno studio di fitosorveglianza vero e proprio. Il monitoraggio riguarda i prodotti
naturali in generale, un’ampia categoria che include l’integratore
alimentare, il prodotto “erboristico”, il prodotto omeopatico o paraomeopatico, i fiori di Bach ecc.
Esso prevede la segnalazione spontanea con una scheda di rilevazione scaricabile dal portale dell’ISS. Vale la pena segnalare che
finora, dopo circa sette anni di attività, sono state segnalate circa
340 reazioni, come ha comunicato di recente Francesca Menniti
Ippolito dell’ISS nel corso di un convegno svoltosi a Empoli. Questi dati sono parziali, dunque non esauriscono il problema né lo
documentano in maniera completa, ma si possono considerare
da un certo punto di vista “incoraggianti”, soprattutto se messi in
relazione con il volume totale di prodotti di questo tipo utilizzati
in Italia. Senza minimizzare né sottostimare una questione che
ha un indubbio rilievo nell’ambito della salute pubblica, è giusto
però ricondurla alla sua giusta dimensione e continuare a lavorare per raccogliere un numero maggiore di dati sulla sicurezza
dei prodotti.
Di sicurezza delle piante medicinali si è occupata anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che ha varato specifiche
99
Corso di formazione
Linee guida in materia nel 2004. Queste rispondono all’obiettivo
di identificare la natura dell’effetto avverso, di individuare i metodi per la gestione del rischio e di istituire adeguate misure di
prevenzione. L’OMS intende anche sviluppare un’efficace comunicazione dei rischi e dei benefici delle piante medicinali attraverso
un lavoro che riguarda le istituzioni, la filiera produttiva e i consumatori.
Vale la pena rilevare che le Linee guida dell’OMS distinguono in
modo chiaro fra l’effetto avverso in sé e l’uso improprio da parte
del consumatore. Quest’ultimo fenomeno è riconducibile a più
fattori: dosaggio sbagliato, errori di assunzione del prodotto, interazioni farmacologiche ecc. In questo contesto rientra anche la
qualità scadente del preparato che, ad esempio, può essere adulterato con farmaci di sintesi o contaminato con sostanze tossiche.
Appare evidente che la sicurezza dei prodotti “non convenzionali”, in questo caso dei preparati vegetali, non può essere affidata
soltanto al medico ma, se si vogliono ottenere risultati efficaci,
deve coinvolgere anche le istituzioni, il mondo sanitario, i cittadini e la filiera produttiva.
Negli ultimi anni si sono compiuti indubbi passi avanti in questo
campo, anche grazie all’approvazione e all’attuazione di normative nazionali e comunitarie che regolano il settore e contribuiscono a migliorare la qualità dei prodotti. Questo percorso è ancora
all’inizio, ma si sono poste le basi, con l’intervento mirato anche
del ministero della Salute italiano, per garantire una maggiore
sicurezza del cittadino.
Quando parliamo dei rischi dell’informazione sulla salute, e nel
nostro caso sulle medicine complementari, non si può tralasciare ciò che compare on line. In Internet, infatti, si trovano
spesso informazioni non documentate e talvolta in contraddizione con i dati scientifici verificati. Internet è uno strumento
straordinario che ha rivoluzionato e semplificato il lavoro giornalistico consentendo di accedere alle informazioni in tempo
reale, ma è anche un contenitore subdolo e disomogeneo in cui
abbondano notizie distorte e informazioni discutibili. Il rischio
aumenta se a queste informazioni accedono soggetti inesperti
della materia.
Un’interessante iniziativa per la garanzia delle informazioni mediche e sulla salute presenti in Internet è stata realizzata alla
Fondazione svizzera “Health on the net”. Si tratta di una sorta
di “certificato di qualità” reso visibile da un logo e rilasciato ai
100
Interventi e relazioni
siti web dedicati alla salute che soddisfano questi standard:
le informazioni mediche sono redatte da medici o da professionisti qualificati e sono accompagnate da referenze esplicite e
da link verso i dati;
ogni informazione su eventuali benefici delle terapie è documentata con prove scientifiche “adeguate e ponderate”;
il sito fornisce un indirizzo dove gli utenti possono richiedere
informazioni;
eventuali patrocini e sponsor commerciali sono indicati chiaramente nel rispetto della trasparenza.
Su questo argomento sono stati pubblicati anche alcuni lavori
specifici. In particolare due studi realizzati uno in Canada e l’altro
in Australia hanno analizzato il rapporto tra le cosiddette Complementary and Alternative Medicines (CAM) e la qualità e il valore
delle informazioni su queste medicine disponibili on line. Anche
il Centro di medicina naturale di Empoli ha condotto un’indagine
sull’informazione on line che ha riguardato in particolare alcune
piante medicinali (camedrio, farfara, borragine e Monascus). Lo
studio ha esaminato 522 siti italiani cercando le indicazioni terapeutiche di queste piante, la citazione delle fonti bibliografiche, la
possibilità di acquistarle in Internet, i dati su effetti collaterali e
interazioni farmacologiche, la presenza delle avvertenze ministeriali. Il lavoro conclude che “l’informazione veicolata è insufficiente e a volte rischiosa per i consumatori”. Ad esempio il camedrio,
una pianta non autorizzata in Italia perché considerata dannosa
per il fegato, si poteva acquistare on line e soltanto il 38% dei 60
siti esaminati riportava il divieto.
Questi dati richiedono dunque una riflessione seria sui temi della sicurezza e dell’attendibilità delle informazioni sulle medicine
complementari, sulla loro efficacia ma anche sulla sicurezza. I
media svolgono un ruolo essenziale in questo campo. Il giornalista che tratta questi argomenti dovrebbe avere facile accesso a
informazioni verificate, essere consapevole dell’importanza di garantire attendibilità, precisione, equilibrio e rispetto delle regole,
leggere gli studi possibilmente completi, parlare con gli esperti
per ottenere verifiche e chiarimenti.
Il compito di una corretta informazione è, dunque, anche quello di
raccogliere e diffondere i dati sulla sicurezza e sulla tossicità delle
piante o di altri trattamenti di tipo complementare, evitando però
di cadere nell’atteggiamento opposto. C’è, in effetti, una certa
101
Corso di formazione
stampa che tende a enfatizzare le reazioni avverse dei prodotti
“naturali” utilizzandole, in maniera indiretta ancorché sottile, per
indebolire il valore di strumenti terapeutici ai quali si rivolge un
numero crescente di cittadini anche in Italia. Vale la pena rammentare che gli effetti avversi delle piante medicinali sono in ogni
caso inferiori a quelli di molti farmaci di sintesi. Si ricorda, fra i
tanti, uno studio pubblicato nel 2004 sulla rivista dell’Associazione dei medici statunitensi, JAMA, secondo cui i decessi causati
dagli effetti avversi dei medicinali erano la quarta causa di morte
negli Stati Uniti.
È indicativo a questo riguardo anche il caso di Cimicifuga racemosa, una pianta utilizzata in modo ampio e con buoni risultati
per alleviare la sindrome climaterica. Nel 2006, dopo la segnalazione di effetti avversi sul fegato che sembravano correlati al
suo impiego, l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMEA) diffuse un
comunicato con cui invitava operatori e pazienti a segnalare gli
eventuali effetti avversi della pianta. In realtà un’attenta analisi
degli studi e dei dati consentì di ridimensionare in breve tempo
la tossicità della cimicifuga e nel gennaio del 2007 i prodotti a
base di questa pianta, di cui il ministero della Salute italiano aveva sospeso la vendita per precauzione, sono stati riammessi. I
media, che avevano riportato con grande clamore la sospensione
della pianta, non hanno però documentato la sua riammissione
in commercio, con il risultato che l’immagine della pianta è stata
compromessa.
In materia di informazione per questo settore, si ricorda il Notiziario regionale MC Toscana, una pubblicazione che ha documentato sin dall’inizio il percorso di integrazione delle medicine
complementari nel sistema sanitario della Regione Toscana, uno
strumento di informazione per i cittadini e di confronto per gli
operatori del settore.
La testata si può consultare on line al seguente indirizzo:
http://www.regione.toscana.it/salute/medicinecomplementari/
index.html
102
Tavola Rotonda
TAVOLA ROTONDA
103
Tavola Rotonda
Radici antropologiche del rischio, responsabilità morale e giuridica per la promozione della
cultura della sicurezza ed etica della scelta
Sonia Baccetti
Le strutture di riferimento regionali per la MTC, la fitoterapia e
l’omeopatia, insieme alla Rete Toscana di Medicina Integrata hanno organizzato questo corso di formazione rivolto agli operatori
di medicina complementare che operano nel servizio sanitario
regionale toscano per avviare un processo finalizzato a migliorare
la qualità delle prestazioni di medicina complementare incentrato
sulla sicurezza del paziente.
Il concetto di rischio e di sicurezza del paziente sono cambiati molto nel corso del tempo e la sempre maggiore attenzione
ai problemi della prevenzione dell’evento avverso da parte degli
operatori sanitari è conseguente agli indirizzi di politica sanitaria
nazionale che hanno trovato in Regione Toscana un particolare
sviluppo. Infatti è stata istituita in ogni azienda sanitaria la figura
del clinical risk manager e sono stati attivati il sistema di incident
reporting e la pratica dell’audit clinico affinché, a partire dall’errore o dall’evento avverso scongiurato, possano essere individuate
le strategie migliori per la sicurezza del paziente.
In questa tavola rotonda discuteremo anche delle radici antropologiche del rischio, poiché la capacità individuale di percepire
i possibili danni in relazione alla scelta terapeutica cambia molto
riguardo ai valori propri degli individui e agli aspetti culturali di
ciascuno di essi. Invito quindi i relatori a riflettere su come sia
necessario applicare le metodiche del controllo del rischio clinico
anche al settore delle medicine complementari e come la percezione del rischio sia anche molto diversa in rapporto al gruppo
sociale che sceglie di utilizzare una terapia in maniera “complementare” o “alternativa” alla terapia ufficiale.
Simonetta Bernardini
Il paziente che utilizza le medicine complementari, quale che sia
la sua appartenenza sociale, è sempre uno straniero in patria e
un clandestino, perché si rivolge a medicine non ufficializzate che
nel nostro Paese sono tollerate ma non accolte.
La storia del paziente che si rivolge alle medicine complementari
è la storia di un paziente diviso e questa divisione si osserva nella
medicina territoriale e ancor più a livello ospedaliero. Ancora oggi,
105
Corso di formazione
il medico della biomedicina non è interessato a conoscere e non
vuole essere coinvolto nell’ascolto di una scelta che il paziente ha
fatto, così come ha fatto l’altra. I miei pazienti, per esempio, non
parlano mai male del loro medico curante o della biomedicina, ma
raccontano con dolore una storia di malattia non risolta.
Il fatto che il paziente porti la sua storia prima a un medico e poi
a un altro implica due tipologie di rischio: il rischio della malattia
e un rischio di natura professionale.
Il rischio malattia perché quando il paziente delle medicine complementari non viene inviato da un collega, ma sceglie da solo
il medico complementare senza parlarne con il medico curante,
porta una storia ricca di omissioni e di sottovalutazioni. Egli, ad
esempio, può dimenticare di riferire quali farmaci assume o quali
controlli ha fatto. Il medico di medicina complementare che accoglie questa persona e la sua storia può dunque sbagliare perché il
paziente non gli è stato presentato nella maniera corretta.
L’altro rischio è di natura professionale. Sono convinta che non ci
sia niente di peggio di due categorie che si vanificano l’un l’altra
e che, anziché riconoscere e sostenere insieme la loro professionalità per il bene del paziente, si ignorano.
È un problema importante che non sarà risolto finché le porte del
servizio sanitario non si apriranno per accogliere tutte le risorse
terapeutiche della medicina e finché fra queste non si svilupperà
un dialogo. Questo scambio culturale porterà, nel futuro, a ridisegnare e a ripensare insieme la cura attraverso un processo fondato sull’alleanza di tutte le risorse terapeutiche per i cittadini.
Il problema della divisione fra questi due mondi è ancora maggiore quando si rivolgono alle medicine complementari persone
provenienti da altre culture e con altre aspettative, che sono essi
stessi stranieri e talvolta semiclandestini. Persone che devono
farsi carico da sole della propria storia di malattia e raccontarla a
un operatore che non comunica con chi gestisce quotidianamente
la sua salute.
Alfredo Vannacci
Il concetto di integrazione, il fatto che chi decide di rivolgersi
alle medicine complementari non debba sentirsi uno straniero in
patria, è di grande rilevanza. Per noi è più facile affrontare questi temi perché la Regione Toscana ha fatto passi da gigante in
questo settore rispetto ad altre regioni e persino a livello internazionale. Il clima sta cambiando per promuovere una maggiore
106
Tavola Rotonda
integrazione rispetto al passato fra le discipline complementari e
la medicina convenzionale.
Alfredo Zuppiroli
Vorrei cominciare con un esempio relativo alla cardiologia ospedaliera, che cito in quanto è la disciplina che conosco meglio:
essendo maggiormente incline a pratiche invasive, dunque potenzialmente “a rischio”, si potrebbe pensare che il concetto di
rischio clinico la riguardi direttamente, mentre le discipline non
convenzionali ne sarebbero immuni. Non c’è niente di più falso.
Occorre integrare questi due approcci, perché la medicina è una
sola e faremo un bel salto culturale in avanti quando riusciremo
a parlare di medicina e basta, senza aggiungere a questa parola
nessun altro aggettivo. Dobbiamo con la massima laicità possibile
e in una logica integrata offrire al paziente la soluzione più appropriata per il suo specifico problema.
Possiamo però lasciare la responsabilità di un intervento di salute
soltanto al paziente? Il paziente è un soggetto autonomo portatore
di diritti a priori, quasi fosse un suo tratto genetico, oppure è un
soggetto che deve essere educato nel suo rapporto con la sofferenza e la malattia? Come possiamo fidarci che la scelta del paziente,
magari orientata da mode, da abitudini o da fatti contingenti, sia
quella giusta? I percorsi clinici sono determinati spesso dal tipo di
struttura cui il paziente si rivolge invece che dalle sue reali esigenze cliniche. Dunque il rischio, la probabilità che un evento accada,
è già predeterminato dalla prima scelta del paziente.
Una medicina laica e integrata dovrebbe essere qualcosa che cresce insieme al paziente e che poi confeziona su misura la soluzione più appropriata per la sua specifica patologia, per il suo
sintomo o per il suo problema.
David Coletta
Vorrei iniziare con una citazione di Karl Popper: “Il medico tuttavia deve convincersi con umiltà che nonostante tutto continua a
operare in condizioni di probabilismo, perché tutta la conoscenza
scientifica è ipotetica e congetturale. Quello che possiamo chiamare il metodo della scienza consiste nell’imparare sistematicamente dai nostri errori, in primo luogo osando commetterli, e in
secondo luogo andando sistematicamente alla ricerca degli errori
che abbiamo commesso”.
Se vogliamo migliorare la qualità dell’assistenza dobbiamo porci
107
Corso di formazione
di fronte all’errore in modo diverso. Di solito lo facciamo con sentimento di vergogna, cercando di nasconderlo il più possibile, ma
soltanto riflettendo sugli errori possiamo applicare le procedure
che permettono di evitarli. Gli errori possono essere sì personali, ma più spesso sono errori di struttura e di organizzazione;
essi devono essere comunque valutati se vogliamo promuovere
la qualità delle cure.
I medici di famiglia dell’ASL di Empoli hanno spostato l’asse della
formazione orientandola verso i gruppi Balint e gli audit. Ci siamo
resi conto che solo andando a vedere ciò che ciascuno di noi faceva, dandoci obiettivi e parametri sui fenomeni più importanti, era
possibile correggere gli errori e migliorare la qualità.
Nel 1994 Blumenthal scriveva: “La prima delle sfide che i medici
devono affrontare per ridurre l’incidenza dell’errore è rompere un
patto perverso: i medici dovrebbero ammettere la propria fallacia
e i pazienti accettare la propria vulnerabilità. Il paradosso del miglioramento dell’attuale livello di qualità è che solo confessando e
non biasimando l’errore il suo tasso può diminuire”.
Questi concetti, in realtà, non sono stati assimilati fino in fondo.
In Toscana si sta facendo molto in questa direzione, ma dovremmo riuscire a diffondere la cultura del risk management in maniera più capillare, per migliorare la qualità delle nostre prestazioni.
Ancora nel 1999 il British Medical Journal si chiede: “Quante persone rimarrebbero su un aeroplano dopo che il comandante ha
annunciato che la probabilità di arrivare a destinazione sani e
salvi è pari al 97%, e quella che il personale di volo faccia qualche errore grave è del 6,7%”? La risposta è banale: nessuno salirebbe sull’aereo, ma i dati di un’indagine su due grandi ospedali
americani riportano quelle stesse percentuali di errore.
Dobbiamo applicare tutte le procedure possibili per ridurre l’errore. Si diceva poc’anzi che la medicina integrata è l’unica strada
ed è vero anche ciò che si è detto dei pazienti clandestini, ma
soprattutto è fondamentale che si avvii la comunicazione tra i
professionisti che esercitano le varie branche della medicina.
Il consenso informato è una procedura che tutti i medici devono
applicare. Si tende a pensare che debba essere richiesto soltanto
in caso di procedure invasive, ma sono convinto che il paziente
debba essere informato sempre, anche quando il suo medico stabilisce che deve assumere una statina per ridurre il rischio cardiovascolare. Anche in quel caso dobbiamo spiegargli che il beneficio
della riduzione dell’infarto, stimato ad esempio al 5%, riguarda in
108
Tavola Rotonda
realtà la popolazione generale e che lui in quanto singolo individuo potrebbe avere un infarto anche se si curasse per vent’anni
con quella statina. Nella realtà ciò non accade sempre.
Siamo tutti concordi nel dire che la figura paternalistica del medico appartiene al passato, ma essa resiste ancora. Dobbiamo
condividere con il paziente le terapie e le procedure migliori, negoziare con lui l’approccio migliore per trattare il suo problema
- che può essere un farmaco, la fitoterapia, l’agopuntura o nulla
- ma non sempre lo facciamo. Occorre condividere con il paziente
ciò che stiamo facendo, altrimenti ritorna la figura del medico
paternalista.
È necessario ascoltare il malato, comprenderne gli stati d’animo,
le preoccupazioni, le attese. Valutare il paziente nei suoi ambienti
sociali, antropologici, culturali, capire qual è la sua visione di malattia e di cura. Un certo paziente sceglierà l’omeopatia perché ha
una visione antropologico-culturale della sua salute e della sua
capacità di cura che manca nella medicina basata sull’evidenza,
ma che su di lui funziona. È una scelta personale. Non possiamo
dire che il paziente può scegliere quando si parla di biomedicina e
che non può più farlo per un altro tipo di trattamento, altrimenti
limito la sua capacità di scelta. Posso e devo spiegare le opzioni
possibili, ma in definitiva è il cittadino che deve scegliere, però un
cittadino davvero informato. La formazione/informazione deve
coinvolgere, infine, non soltanto i cittadini, ma anche i medici.
Siamo convinti che si possa vivere senza commettere errori e
senza il rischio, eppure il rischio è insito nella nostra esistenza,
così come l’errore lo è nella medicina e in tutte le attività umane.
L’errore deve essere gestito a livello personale e sociale e soprattutto sul piano dell’informazione.
Parliamo di appropriatezza: da anni ci fanno digerire l’appropriatezza legata esclusivamente all’economicità della prestazione sanitaria. È ora di svegliarci. L’appropriatezza di per sé non
vuol dire nulla: occorre specificare appropriato rispetto a cosa.
Rispetto ai benefici di salute? Rispetto al sistema sanitario che
deve funzionare ed essere equo, solidale ecc.? Rispetto alle procedure? Rispetto alla riduzione dei rischi? Non si può parlare di
appropriatezza in termini generali, ma si continua a parlare del
costo dei farmaci e mai dei benefici di salute che ne scaturiscono.
La stessa riflessione si può fare sulle terapie non convenzionali:
quanto costa la rete toscana di agopuntura, omeopatia, o fitoterapia rispetto ai benefici che offre ai cittadini?
109
Corso di formazione
Il rapporto medico-paziente ci sta molto a cuore. Nella medicina occidentale tecnologizzata questo rapporto sembra ridursi
progressivamente. In fondo quando ho eseguito una TAC o una
risonanza magnetica mi sento a posto e sento di aver fatto il mio
dovere anche quando ho praticato un intervento per liberare le
coronarie. Si parlava di paziente “spezzettato”, in realtà i pazienti
della medicina occidentale sono spezzettati a priori, perché c’è lo
specialista di organo, quello di apparato, il superspecialista, addirittura il cardiologo che si occupa solo di aritmia atriale, il medico
di famiglia che fa il vigile…
Che cos’è allora l’appropriatezza? È fare ciò che è utile, nel modo
migliore, con il costo minore, a chi, e soltanto a chi, ne ha bisogno.
E termino con una citazione antica: “Non sembra difficile, forse
richiede impegno, esperienza, professionalità, umanità e coraggio,
ma siamo medici, non possiamo preoccuparci di gestione sanitaria
quando ancora non siamo riusciti nel processo dell’umanizzazione
della medicina, e non ci siamo riusciti ancora”.
Se poi parliamo di umanizzazione della medicina, non mi convince il ragionamento che fanno a volte i colleghi di medicina complementare, e cioè che sono solo loro a prendere in carico il paziente. In realtà il medico, e la buona medicina, devono sempre
prendere in carico il paziente e chi non lo fa è un cattivo medico.
Se così non fosse, avrebbe ragione l’imperatore Adriano quando
scriveva: “Caro Marco, oggi mi sono recato dal mio medico, Ermogene, appena rientrato da un lungo viaggio in Asia. Mi sono
spogliato, ho adagiato le vesti, mi sono sdraiato sul letto. Caro
Marco, quanto è difficile anche solo rimanere imperatori davanti
a un medico. Il medico di te non vede altro che un amalgama di
linfa e sangue”.
Se fossimo a questo punto, avremmo fallito tutti, ma mi auguro,
anzi sono certo, che non è così. La medicina e la professione medica sono cambiate molto negli anni, ma questa è l’unica strada
da percorrere se vogliamo migliorare la qualità delle cure e ridurre i rischi, perché i rischi sono connaturati al mancato ascolto del
paziente.
Sonia Baccetti
Questi concetti riportano l’attenzione su alcuni pregiudizi che caratterizzano il nostro lavoro quotidiano. Ad esempio la questione
della libertà di scelta del paziente su cui, forse, si è insistito trop110
Tavola Rotonda
po negli ultimi anni. È vero che in passato il paziente viveva una
situazione di assoluta sudditanza, impossibilitato a interferire su
ciò che riguardava la sua salute, ma è anche vero che egli non
può essere lasciato solo in situazioni in cui non ha tutte le possibilità per scegliere in modo corretto. Il paziente deve essere,
infatti, informato correttamente ma talora egli acquisisce i dati in
Internet e arriva in ambulatorio con una sua autonoma posizione
dettata dalle pubblicazioni che ha raccolto. Talora poi i medici di
famiglia non conoscono in maniera approfondita alcune terapie,
come per esempio le medicine complementari, e quindi non sono
in grado di fornire quelle informazioni che consentano una scelta
libera.
È opinione comune ritenere che i medici che esercitano le medicine non convenzionali stabiliscono un rapporto privilegiato con il
paziente mentre i sanitari che praticano la medicina ufficiale sono
spesso accusati di non farlo.
In realtà chi pratica le medicine complementari non necessariamente è più predisposto all’ascolto ma è obbligato ad ascoltare
dal metodo che sottintende alla medicina che esercita. Il grande
sviluppo delle indagini strumentali, che sono parte fondante della
medicina ufficiale, fa sì che l’anamnesi e quindi la sintomatologia
descritta dal paziente abbiano un ruolo sempre più marginale
nella diagnosi. Se riteniamo invece che la comunicazione è un
elemento importante per prevenire il rischio, occorre riflettere
sulla necessità di promuovere un cambiamento non solo nel singolo professionista ma nel sistema della formazione degli studi sanitari, ricollocando la comunicazione al centro del rapporto
medico-paziente.
La gestione del rischio clinico fa parte dell’etica del professionista
e del sistema. Coletta diceva che, quando si parla di appropriatezza, pensare in termini di efficacia o in termini di costo costituisce una scelta etica di rilievo. In che modo allora l’etica riesce a
influenzare la modalità di gestione del rischio clinico?
Alfredo Zuppiroli
Riprendo temi già trattati per sottolineare l’importanza di questo corso che affronta temi di rilievo come la segnalazione degli
eventi avversi, gli audit, la FMEA e altre tecniche.
Senza scomodare la filosofia, l’etica e i grandi sistemi, i medici hanno a disposizione un proprio codice deontologico che
all’art.14 impone di diffondere la cultura della segnalazione
111
Corso di formazione
dell’evento avverso.
Dobbiamo rifuggire dal rischio dell’autoreferenzialità, una mina
che insidia tutte le professioni. Cito spesso a questo proposito un
aforisma di Mark Twain: “quando si ha un martello in mano, tutto
sembra un chiodo”. L’errore è che ognuno con il proprio martello
veda solo chiodi da battere. C’è il rischio che l’inizio di un percorso generi una serie di concatenazioni e di esiti determinati dalla
tipologia di percorso a cui il paziente si riferisce e non dal suo
reale bisogno di salute.
Qui l’etica e la filosofia ci devono venire in soccorso, dobbiamo
ispirarci alla cultura del limite. Uno dei mali della medicina è l’asserzione di infallibilità, il potere supremo della tecnica. Se è ineludibile che la medicina ufficiale debba ragionare in termini riduzionistici, perché si deve poter separare il normale dal patologico, il
falso dal vero, misurare con l’aiuto delle leggi della statistica, corriamo però il rischio che non si riesca a cucire il vestito ad hoc sul
paziente irripetibile e unico che abbiamo davanti. Quel paziente
ha il suo specifico problema, per il quale le leggi della statistica,
della biologia, mi dovrebbero aiutare a capire con quale probabilità si genereranno determinati risultati con certe terapie.
Esiste poi la declinazione personale del vissuto, la storia del paziente, che viene oggi rivalutata nella medicina narrativa ed è un
terreno culturale tipico della medicina integrata e complementare. Di nuovo, dobbiamo tutti ispirarci al principio del limite - il che
vuol dire, come diceva Foucault, che le persone muoiono non solo
perché hanno malattie o subiscono degli incidenti, ma perché
sono mortali. Questo limite però spesso lo dimentichiamo e ancor
più lo dimentica la medicina ufficiale, ma l’errore resta quello del
proprio chiodo, del proprio martello e dell’autoreferenzialità.
Una prima regola etica sta dunque nel principio del limite: trasmettere questo concetto nella pratica professionale quotidiana con i
nostri pazienti: qualunque cura scegliamo, che sia ipertecnologica
o una psicoterapia, dobbiamo ispirarci al concetto di limite.
Lasciamo ad altri dogmatismi e assolutismi, quindi un po’ meno
prosopopea, un po’ più laicità, che significa il saper riconoscere le
posizioni diverse dalle proprie. E ancora umiltà, conoscenza del
limite delle nostre capacità terapeutiche, ma anche educazione
dei pazienti.
Non dobbiamo considerare la segnalazione dell’evento avverso
soltanto come l’ammissione del nostro fallimento professionale.
Fra gli ostacoli che impediscono la diffusione della cultura del ri112
Tavola Rotonda
schio clinico negli ospedali c’è il fatto che molti di noi equiparano
il rischio sanitario per il paziente al rischio giudiziario per l’operatore. La prima reazione è la medicina difensiva: non solo richiedo
mille esami per pararmi le spalle ma, quando vengo a conoscenza
di un evento avverso o di un potenziale errore, non lo segnalo
perché temo le conseguenze della segnalazione.
Attenzione a cadere in questo tranello ma anche a pensare che
le medicine non ufficiali, “meno invasive”, siano innocue. Esse
possono forse avere meno effetti collaterali, ma attenzione non è
per nulla innocua la vostra scelta professionale quando decidete
di usare il vostro martello per quel chiodo, quando le evidenze
suggerirebbero un passo indietro e che per quel paziente e la
sua patologia si dovrebbe utilizzare un altro tipo di martello e di
chiodo.
Cosa significa etica? Sono i valori che guidano le nostre scelte e
non possiamo pensare che le scelte professionali da cui dipende
la salute dei pazienti debbano essere ispirate soltanto alla nostra
coscienza professionale. La famosa formuletta “in scienza e coscienza” non basta più.
Noi medici siamo stati scossi da una sentenza emessa a Firenze anni fa. Nel 1990 un noto chirurgo operò una signora con un
tumore dell’intestino, che aveva manifestato un chiaro dissenso
nei confronti di un ano artificiale. Il chirurgo eseguì un intervento
tecnicamente perfetto, quindi operò “in scienza” ai massimi livelli. Operò secondo la sua coscienza, pensando di fare il bene di
quella signora, ma ne disattese le indicazioni. Alcuni mesi dopo la
donna morì per complicanze innescate dall’intervento e il medico
fu condannato non per omicidio colposo ma per omicidio preterintenzionale. Il giudice lo condannò perché ritenne che quell’atto
fosse stato dolosamente volontario nel ledere la paziente. Fu una
sentenza shock per i medici, poiché da secoli Ippocrate ci rassicurava con la formula paternalistica dell’operare in scienza e
coscienza.
Scienza e coscienza, infine, devono essere patrimonio non soltanto dei medici della medicina ufficiale, ma anche di infermieri,
fisioterapisti, tecnici e di chi pratica la medicina complementare.
Simonetta Bernardini
Nel 2005 un questionario nazionale sul tema del paziente diviso o
condiviso, realizzato in collaborazione con la Federazione Italiana
dei Medici di Medicina Generale (FIMMG), con la Federazione Ita113
Corso di formazione
liana dei Medici Pediatri (FIMP) e con la Società Italiana di Omeopatia e Medicina Integrata (SIOMI) per la parte omeopatica,
mostrò come siano diverse le percezioni del fenomeno medicine
complementari. Scoprimmo, infatti, che la percezione dei pediatri
e dei medici di famiglia di quale percentuale della popolazione si
curasse con le medicine complementari era del 4%, mentre le
statistiche parlavano del 20-22%. Rivolgendo la stessa domanda
agli omeopati, la risposta era intorno al 20-22%.
Questo esempio mostra che non c’è consapevolezza da parte
dei medici del territorio di quante persone utilizzano le medicine complementari, non solo in termini numerici, ma anche delle
motivazioni che le inducono a farlo. Parlando di rischio clinico non
dobbiamo dimenticare che siamo solo all’inizio di un modo nuovo
di intendere la medicina, ancora in costruzione.
Se la biomedicina è malata di standardizzazione, le nostre medicine sono malate “gravi” di individualità, poiché sono cresciute
fuori dall’accademia e dagli ospedali. Si sono organizzate in gruppi più o meno grandi, ma non hanno avuto la possibilità del confronto interdisciplinare, né del confronto all’interno delle stesse
medicine complementari.
Dobbiamo studiare percorsi terapeutici condivisi, provvedere a
stilare delle linee guida sulla formazione uguali in tutto il mondo,
linee guida di intervento e di approccio al paziente mediando fra
l’individualità, qualità essenziale del rapporto medico-paziente
nelle medicine complementari, e la necessità di assistere le persone in strutture di garanzia come ambulatori e ospedali.
David Coletta
Mi occupo di formazione in medicina generale e in venticinque anni
di attività non ho mai sentito né pensato di organizzare un corso
sui determinanti etici della professione medica. Siamo sempre
guidati dalla cultura del fare. Il mio paziente ha la broncopolmonite, devo prescrivergli il tal farmaco o fare un certo intervento.
Non ho mai pensato di fare altro, ad esempio formare i medici su
quegli aspetti etici che sono basilari per la nostra professione.
In realtà più che la cultura del solo fare dovremmo sviluppare
la cultura di come e perché agire. Dovremmo riflettere su cosa
pensa il paziente di se stesso e cosa il paziente preferisce fare.
A volte dovremmo fare un passo indietro e iniziare a riflettere su
cosa facciamo per cominciare a farlo meglio.
Quando abbiamo iniziato con il metodo Balint è stata una scom114
Tavola Rotonda
messa, eppure già dopo il primo anno abbiamo dovuto raddoppiare il numero degli psicoterapeuti che vi partecipavano. Il Balint
è un metodo particolare, ideato da uno psicoterapeuta inglese
che faceva anche il medico di famiglia negli anni Cinquanta in
Inghilterra.
Si procede così: ogni sera due o tre persone illustrano agli altri le
difficoltà relazionali con i propri pazienti. In realtà è una sorta di
“psicoterapia di gruppo”, una metodica di autoanalisi in cui i temi
etici sono affrontati con un approccio pragmatico, e che insegna
gradualmente a relazionarsi meglio con i pazienti, a considerarli
come persone e non come ammalati. Abbiamo cominciato quasi
per caso e da cinque anni il 20% dei medici di famiglia della nostra ASL continua a seguire corsi Balint.
Simonetta Bernardini
La medicina integrata è un’opportunità per ricomporre le varie
branche medicine in un’unica medicina. È un modello di sviluppo
della medicina dove si sperimenta una nuova visione in cui ognuno, con la sua identità, porta i propri contenuti e il suo paradigma
e li condivide nella medicina che cambia. Questo modello ha bisogno di alcuni ingredienti essenziali e innanzitutto di un linguaggio
intelligibile e condivisibile, perché se non si parla la stessa lingua,
non c’è modo di condividere, neanche in medicina. Davanti al paziente e davanti alla legge devo fare il medico e lo sono sempre,
quando pratico l’omeopatia e quando pratico la biomedicina. La
medicina integrata è un modello di ricerca e di condivisione delle
conoscenze mediche. Si può accettare o non accettare, ma è un
percorso, anche se non l’unico, di garanzia per il cittadino e per
la professionalità dei medici.
Sonia Baccetti
Il termine “integrazione” desta molte paure non solo in campo
sanitario, ma anche in ambito sociale. Il concetto di integrazione
rimanda spesso alla sopraffazione di una cultura sull’altra; per
questo preferisco quello di “interazione”, che rende meglio l’idea
del rapporto fra pari. Un altro termine utilizzato è “articolazione”
per rimarcare che ciascuno è portatore di modelli, valori etici e
culturali da confrontare, rispettare, miscelare.
Si sottolinea quindi la necessità di ragionare davvero fra pari,
garantendo una comunicazione bidirezionale. È dal confronto e
dall’integrazione che nasce il melange, una cultura meticcia che
115
Corso di formazione
rappresenta un valore aggiunto e non un limite. Questo anche in
medicina, dove il confronto fra pari nel team terapeutico è garanzia di qualità delle prestazioni.
Alfredo Zuppiroli
Stiamo attenti a non difendere le identità in senso militante. Dobbiamo adattarci alla multiculturalità e alle diverse culture, anche
mediche. Non c’è nessuna volontà di realizzare un melange che
unifica tutto ma, attenzione, di rischio clinico e di errore occorre
parlare. Attenzione a pensare che essere terapeuti significhi fare
la medicina. Therapeyo in greco vuol dire “essere al servizio di”,
il terapeuta esercita una professione al servizio di un’altra e terapeuta era anche lo scudiero del nobile che andava in guerra.
La terapia implica anche la scelta del trattamento (a quali dosi,
con quali soluzioni) che deriva da una diagnosi e la diagnosi è un
processo che deriva da un lavoro d’équipe. In questo noi ospedalieri siamo privilegiati, poiché la professione infermieristica ha
raggiunto un livello di autonomia professionale impensabile fino a
pochi anni fa. La tendenza è creare albi professionali per tutte le
singole professioni, ma l’unica strada è lavorare insieme non perché il massofisioterapista diventi medico o viceversa, ma perché
ognuno possa portare il suo contributo. Cerchiamo di guardare
alle diverse identità in modo positivo, andando l’uno verso l’altro
ed evitando di riconoscere le nostre identità contro chi è diverso
da noi.
Cominciamo ad assumerci le nostre responsabilità, singole e professionali. Chi pratica l’omeopatia ha fatto, in scienza e coscienza
con se stesso, un percorso di diagnosi che permette di ritenere
opportuna e appropriata la sua scelta? C’è stato un processo laico
di riconoscimento dell’altro? In ospedale siamo costretti a farlo
tutti i giorni. Se noi medici tradizionali corriamo il rischio di praticare soltanto una medicina dei numeri e il riduzionismo a simulacri inesistenti, dall’altra parte si rischia di praticare una medicina
autoreferenziale, dove ognuno si dà ragione.
Occorre dunque riconoscere sempre di più l’altro da noi, evitando
la pericolosa deriva dei litigi fra ordini professionali o fra professioni più o meno riconosciute o fra le varie modalità di esercitare
la medicina. La medicina non può che essere una ed è al servizio
di chi soffre.
116
Schede tecniche e applicative
SCHEDE TECNICHE E APPLICATIVE
117
Schede tecniche e applicative
La cultura della sicurezza: indagine esplorativa
Sara Albolino
Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente, Regione Toscana
Premessa
Ai partecipanti al corso di formazione è stato somministrato un
questionario finalizzato a realizzare un’indagine esplorativa sulla
cultura della sicurezza.
In particolare, si è ritenuto opportuno svolgere una valutazione
del vissuto e delle opinioni dei partecipanti rispetto alla segnalazione e analisi degli eventi avversi anche attraverso l’utilizzo dei
sistemi di segnalazione volontaria (incident reporting).
Difatti l’attitudine degli operatori verso la segnalazione degli
eventi avversi, soprattutto attraverso strumenti della gestione
del rischio clinico quali l’incident reporting, è un elemento importante della cultura della sicurezza e, se monitorato nel tempo, è
un indicatore del livello di sviluppo nel tempo della cultura stessa
all’interno di una comunità professionale o organizzazione.
Il sistema di segnalazione volontaria è una componente del sistema di gestione del rischio il cui obiettivo principale è identificare
in maniera rapida problemi che si verificano a livello locale. La
letteratura internazionale evidenzia inoltre come i sistemi di incident reporting per funzionare hanno bisogno che una serie di
condizioni siano soddisfatte. In sintesi queste condizioni possono
essere riassunte in: impiego di risorse esperte, consenso sulla necessità di raccogliere informazioni sui problemi esistenti, impiego
di tempo per mettere in moto il sistema, raccogliere i dati e “vendere” il sistema alle persone che devono usarlo (Billings, 1998).
Ciascuna di esse presuppone il consenso e il coinvolgimento attivo delle persone a tutti i livelli dell’organizzazione. In particolare,
è necessario l’impegno del top management aziendale e delle
altre figure di coordinamento e la diffusione nell’organizzazione
di una cultura della sicurezza “no blame” basata sull’assunto che
eventi inattesi e incidenti sono un’occasione di apprendimento
(Reason, 2001; IOM, 1999; 2004). La realizzazione della survey
relativa ai sistemi di incident reporting, così come è stata concepita, permette di capire quanto questi presupposti siano presenti,
sia dove il sistema deve essere implementato, sia dove è già in
utilizzo (in quest’ultimo caso è possibile anche mettere in relazio119
Corso di formazione
ne i risultati con il livello di reporting raggiunto).
Scopo dell’indagine
• Indagare il livello di conoscenza di strumenti e metodi per la
gestione del rischio clinico dei partecipanti al corso.
• Esplorare le caratteristiche della cultura della sicurezza dei
partecipanti al corso.
• Considerare le opinioni e le esperienze dei partecipanti al corso
circa l’utilizzo di strumenti e metodi per la gestione del rischio
clinico.
Principali risultati
L’indagine ha riguardato nel complesso 22 operatori sanitari, provenienti per la maggioranza dall’area specialistica medica e critica,
in maggioranza donne (68%) e di professione medica (72%).
Area specialistica di lavoro
Grafico 1. Area specialistica di lavoro
120
Schede tecniche e applicative
Dall’analisi dei dati risulta che solo un terzo degli operatori ha
acquisito conoscenze sul tema prima di aver frequentato questo
corso; il canale maggiormente utilizzato è quello dei corsi e delle
conferenze. Ciò evidenzia come la diffusione e la conoscenza dei
sistemi e degli strumenti della gestione del rischio clinico nei contesti sanitari siano ancora scarse.
Grafico 2. Conoscenza della GRC
La scarsa esperienza pregressa in materia di gestione del rischio
clinico fra i partecipanti si evince anche dalle loro risposte rispetto
a cosa sia da segnalare nei sistemi di incident reporting e sulla
loro esperienza rispetto alla partecipazione ad analisi di eventi
avversi
121
Corso di formazione
Eventi da segnalare nell’incident reporting
Grafico 3. Eventi da segnalare nell’incident reporting
È stato coinvolto in un evento avverso
in seguito al quale si è svolto un approfondimento?
Grafico 4. Approfondimento di un evento avverso
Chi ha partecipato a un momento di analisi e approfondimento
di un evento avverso ritiene comunque che questa riflessione sia
utile per migliorare la qualità e la sicurezza.
122
Schede tecniche e applicative
Pensa che il processo di approfondimento
abbia portato a qualche cambiamento positivo?
Grafico 5. Cambiamenti positivi legati a un approfondimento di un evento
avverso
Rispetto alle conoscenze dell’argomento, le opinioni espresse dimostrano però un atteggiamento positivo rispetto alle attività di
gestione del rischio clinico da parte della maggioranza dei partecipanti, i quali vedono la segnalazione come un’azione utile a
migliorare le condizioni di lavoro; quasi nessuno degli intervistati
la considera un’attività priva di valore.
123
Corso di formazione
La segnalazione di EA è un’azione utile a ridurre gli EA?
La segnalazione EA è una perdita di tempo?
Grafici 6-7. Opinioni sulla segnalazione degli eventi avversi
Per quanto concerne invece la comunicazione degli eventi avversi, dalle risposte date emerge, in linea con i risultati degli studi
nazionali1, che la comunicazione del rischio predilige il canale informale e del confronto fra pari. La comunità stretta di lavoro di
1 Progetto di ricerca finalizzata 2004 Finanziamento del Ministero della Salute ex artt. 12 e
12 bis, D.Lgs 502/92 e s.m.i.“La promozione dell’innovazione e la gestione del rischio”.
124
Schede tecniche e applicative
riferimento è il principale interlocutore in situazioni in cui avviene
un evento avverso.
La memoria dell’evento non diventa organizzativa, ma rimane nel
proprio gruppo di riferimento e questo può rappresentare un impedimento all’apprendimento organizzativo della comunità professionale di riferimento più ampia rispetto ai rischi e quindi al
miglioramento della sicurezza.
Se dovesse segnalare un evento avverso
con chi ne discuterebbe per primo?
È venuto a conoscenza di un evento avverso
accaduto a un collega?
125
Corso di formazione
Come ne è venuto a conoscenza?
Grafici 8-9-10. La comunicazione degli eventi avversi
La modalità più frequente con cui si viene a conoscenza di un
evento avverso è parlandone con i colleghi. I sistemi di gestione
del rischio clinico non consentono ancora di acquisire questo tipo
di informazioni con modalità più ufficiali o in occasione di incontri
formali. Per quanto concerne il “vissuto”, cioè l’esperienza reale
di ogni intervistato riguardo alla segnalazione di eventi avversi,
si rileva che quanto dichiarato dai partecipanti è coerente con le
affermazioni degli intervistati nell’indagine nazionale. La maggioranza degli intervistati dichiara di avere avuto da 1 a 3 eventi avversi durante la propria carriera professionale, ma in questa indagine sono di più coloro che hanno sempre segnalato gli eventi.
Quanti eventi avversi le sono accaduti?
126
Schede tecniche e applicative
Le è capitato di segnalare eventi avversi
alla sua struttura di appartenenza?
Se ha risposto si, quanti?
Grafici 11-12-13 Esperienza personale sugli eventi avversi
L’ultimo quesito riguarda le possibili cause di un evento avverso.
Anche in questa risposta i partecipanti hanno dimostrato di avere
un approccio e una percezione corretti delle dinamiche che sottostanno a un evento avverso, perché hanno individuato fra le cause principali la comunicazione, in coerenza con quanto affermato
a livello internazionale dalla Joint Commission.
In generale, l’indagine evidenzia che nonostante il gruppo non
abbia una formazione pregressa in materia di gestione del rischio
clinico e sicurezza del paziente, l’atteggiamento e la cultura di
base dei partecipanti al corso sono positivi: c’è una generale fi127
Corso di formazione
ducia verso la segnalazione degli eventi avversi e l’analisi dei casi
per migliorare i livelli di qualità e sicurezza e una consapevolezza
di quanto elementi organizzativi, come la comunicazione, siano
strategici per la gestione del rischio clinico.
Un monitoraggio nel tempo, realizzato con somministrazioni successive dello stesso questionario, può aiutare a comprendere lo
sviluppo della cultura della sicurezza nel gruppo, soprattutto a
seguito di interventi formativi e organizzativi riguardanti la gestione del rischio clinico e la sicurezza del paziente.
Secondo lei, qual è la causa principale degli EA
Grafico 14. Cause che generano gli eventi avversi
128
Schede tecniche e applicative
Ritardo diagnostico-terapeutico in paziente affetto da una grave forma di eritrodermia
Esempio di caso studio analizzato secondo l’approccio sistemico nell’ambito del corso di formazione
Tommaso Bellandi
Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente, Regione Toscana
Premessa
Il caso discusso è una versione modificata di un evento avverso
di ritardo diagnostico-terapeutico realmente accaduto, riportato
dai partecipanti al corso.
A tutela della confidenzialità di operatori e pazienti il caso è stato trattato omettendo i riferimenti specifici alle persone e alle
circostanze in cui sono avvenuti i fatti. Nella presente trattazione si illustra pertanto soltanto un’astrazione delle fasi principali
nella gestione del paziente, utili a riflettere su alcune criticità e
su azioni per il miglioramento della sicurezza dotate di una generalizzabilità sostanziale ad altre situazioni cliniche, tipiche del
lavoro quotidiano dei medici omeopati, e per alcuni aspetti anche
dei fitoterapeuti.
Nell’ambito del corso il caso è stato presentato e analizzato seguendo l’approccio sistemico, secondo il metodo dell’audit su
eventi significativi in cui si procede dalla descrizione della cronologia dei fatti principali, all’analisi delle criticità e, infine, alla
proposta di azioni di miglioramento.
Cronologia dei fatti principali
Un uomo di 45 anni in trattamento da circa un anno con terapia
cortisonica, prescritta da un dermatologo per una diagnosi di dermatite, decide di sospendere autonomamente la terapia che dava
remissione solo durante i cicli di trattamento per poi ricomparire.
A 15 giorni dalla sospensione della terapia cortisonica, l’uomo
decide di rivolgersi a un medico omeopata, presso il suo ambulatorio privato, per una verifica della diagnosi e per valutare trattamenti alternativi. Durante la visita riferisce al medico l’interruzione volontaria della terapia cortisonica, a causa della percezione
di inefficacia e di effetti collaterali. Il paziente spiega al medico di
aver sofferto di insonnia e di grande ansia in concomitanza con
la dermatite e con l’assunzione dei farmaci. Il medico prescrive
129
Corso di formazione
una cura omeopatica per il trattamento della dermatite e delle
problematiche a essa correlate.
Venti giorni dopo la visita, il paziente telefona al medico per avvisarlo di un aggravamento della sintomatologia cutanea, con
diffusione delle chiazze in ampie aree del corpo. Il paziente in
quel momento era in vacanza all’estero e non poteva recarsi di
persona dal medico, il quale valuta che l’aggravamento è troppo
lungo per essere imputabile al rimedio omeopatico, suggerisce di
continuare la terapia omeopatica ed eventualmente di riprendere
la terapia locale cortisonica se la situazione sembra aggravarsi
troppo.
Trascorsi altri 10 giorni, al ritorno dalle vacanze estive, il paziente
si reca nuovamente dall’omeopata, il quale riscontra una situazione molto più grave di quella descritta nelle telefonate, con
una possibile evoluzione in eritrodermia, dimagrimento ed edema leggero a piedi e caviglie, che non impediva però di calzare
le scarpe. Il paziente riferiva inoltre di aver sofferto, durante la
vacanza, di incubi che, una volta rientrato a casa, erano scomparsi. Valutando la gravità della situazione e le condizioni generali
comunque discrete, il medico prescrive rimedi omeopatici “acuti”,
raccomandando comunque al paziente di tenerlo costantemente
aggiornato sull’evoluzione del caso.
Tre giorni dopo, il medico si mette in contatto telefonico con il paziente, il quale riferisce che i rimedi somministrati non hanno né
migliorato né peggiorato la situazione. A questo punto il medico
raccomanda al paziente, sempre telefonicamente, di eseguire con
urgenza una serie di esami ematochimici e delle urine per accertare rapidamente la situazione.
A questo punto il paziente decide di consultare un altro medico omeopata, che va a visitarlo a domicilio una settimana dopo
la visita precedente e riscontra una grave dermatite sull’intera
superficie corporea con secrezione purulenta in alcune aree. Il
paziente appare defedato, disidratato e febbricitante e mostra
in modo chiaro i segni di una grave forma di eritrodermia. Viene
quindi disposto il ricovero d’urgenza.
Il paziente viene ricoverato e si conferma sia la compromissione
dello stato generale sia lo stato setticemico acuto con epato-splenomegalia e valori inferiori alla norma delle proteine totali e valori al limite dell’albuminemia. Nel corso della degenza il paziente
è sottoposto a terapie infusionali con antibiotici, albumina, soluzioni idroelettrolitiche, a bagni emollienti e con permanganato di
130
Schede tecniche e applicative
potassio e ad applicazione di creme idratanti. Viene dimesso dopo
circa 10 giorni, in buone condizioni. In seguito l’uomo decide di
querelare il primo omeopata per i presunti errori nel trattamento
della dermatite acuta e nella diagnosi del suo aggravamento.
Analisi delle criticità
Nella valutazione del rischio riguardante un caso clinico si considerano le criticità connesse con il fattore umano, il fattore tecnologico e il fattore organizzativo che hanno contribuito a determinare l’evento avverso.
Per il fattore umano andiamo a considerare innanzitutto i fattori
relativi alle decisioni e azioni compiute dagli operatori sanitari
intervenuti nella gestione del caso. Dalla cronologia dei fatti principali non emergono errori particolarmente rilevanti. È tuttavia
possibile, con il senno di poi, sostenere che il primo medico omeopata, in occasione della seconda visita al paziente, avrebbe potuto richiedere gli esami di laboratorio per accertare le eventuali
infezioni in corso, in considerazione dell’aggravamento della dermatite e della possibile sovrainfezione. Inoltre, anziché comunicare telefonicamente la necessità di eseguire gli esami tre giorni
dopo la visita, il medico avrebbe potuto rivalutare il paziente di
persona.
In entrambe le situazioni, il medico ha commesso un errore di regola, poiché ha applicato uno schema decisionale rigido che lo ha
portato a concentrarsi sul trattamento della sintomatologia cutanea cronica e sui problemi ad essa correlati, invece di considerare
il possibile rischio infettivo esplicitato solo nell’ultima telefonata.
Sempre riguardo al fattore umano, nel caso in questione sono
evidenti anche alcuni fattori contribuenti connessi con il paziente
e con il suo ambito familiare. Questi hanno, a loro volta, sottovalutato l’aggravamento delle condizioni cliniche rifiutandosi di
applicare il suggerimento di utilizzare la terapia cortisonica locale
al momento della diffusione delle chiazze, durante il periodo di
vacanza all’estero. Anche il paziente si è ancorato alla sua decisione di rifiutare la terapia cortisonica senza riconsiderare il notevole aggravamento della sua situazione e il suggerimento del
medico omeopata.
Da un punto di vista organizzativo, con questo caso clinico emergono chiaramente i limiti del follow-up telefonico, poiché nella
presa in carico di un paziente affetto da un disturbo di tipo cronico
è mancata una chiara programmazione delle visite successive alla
131
Corso di formazione
prima. L’assenza di questa programmazione avviene in un contesto di visita ambulatoriale estemporanea in cui non è neppure
definito chiaramente un progetto terapeutico, né un consenso informato. Sono inoltre presenti difetti nella comunicazione tra il
primo medico omeopata e il paziente, in quanto la comunicazione
telefonica non è efficace in due situazioni distinte: né al momento
della telefonata durante le vacanze, né dopo la seconda visita il
paziente segue le indicazioni del medico.
Questo comportamento indica probabilmente l’assenza di un rapporto di fiducia tra medico e paziente, condizione preliminare sia
per la condivisione di un progetto terapeutico, sia per la possibilità del medico di affidarsi al giudizio autonomo del paziente in
merito alla gravità delle proprie condizioni cliniche.
Per quanto riguarda i fattori tecnologici, si è di fronte a un eccesso di fiducia del medico nell’utilizzo del telefono per la verifica
delle condizioni del paziente e la prescrizione delle indicazioni per
gli accertamenti diagnostici al momento della telefonata seguita
alla seconda visita. In considerazione di quanto era accaduto in
precedenza, il medico avrebbe, infatti, potuto decidere di compiere una nuova visita, oppure valutare la possibilità di seguire
il paziente a distanza in prima battuta, con l’invio di immagini
digitali dell’edema alle caviglie e della dermatite.
Azioni di miglioramento
Una lista preliminare di azioni di miglioramento per ridurre i rischi
associati alle criticità sopra descritte è la seguente:
- la formazione continua dei medici omeopati sulla gestione delle possibili complicanze della sintomatologia cutanea;
- la predisposizione di protocolli terapeutici aggiornati per il trattamento delle patologie croniche, che prevedano nello specifico la raccolta del consenso informato, la programmazione
delle visite di follow-up, materiale informativo per i pazienti
sulla sicurezza nell’utilizzo delle terapie omeopatiche, in modo
da garantire e documentare l’effettiva presa in carico del paziente da parte del medico omeopata;
- nel caso di impossibilità di contatto diretto con il paziente, per
periodi brevi, l’eventuale impiego di tecnologie web-based per
il telemonitoraggio dei pazienti e per l’eventuale prescrizione
scritta a distanza di farmaci e/o indagini diagnostiche.
132
Schede tecniche e applicative
Applicazione della FMEA ai percorsi di trattamento presso l’ambulatorio di MTC Fior di Prugna
Petra Scrivani
Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente, Regione Toscana
Un esempio di come la tecnica FMEA si possa applicare anche ai
percorsi terapeutici di medicina complementare, è rappresentato
dai risultati di un’analisi dei rischi condotta durante un incontro
del corso di formazione oggetto di questa pubblicazione.
Il gruppo di lavoro era costituito in prevalenza da medici e fisioterapisti dell’ambulatorio di MTC Fior di Prugna dell’Azienda sanitaria di Firenze, ma anche da operatori di altre realtà sanitarie
toscane.
Il primo passo è stato quello di identificare le fasi del percorso
selezionato (vedi tab.1) e rappresentarle graficamente (fig.1).
Tabella 1. Fasi del percorso di trattamento presso ambulatorio Fior di
Prugna
Fase numero
Descrizione sintetica
1
Prenotazione della visita
2
Raggiungere l’ambulatorio
3
Primo incontro
4
Prima visita
4.1
MTC e agopuntura
4.2
Auricoloterapia
4.3
Percorsi specifici
5
Visite successive
6
Visite urgenti
133
Corso di formazione
Figura 1. Percorsi terapeutici al Fior di Prugna
Si è quindi deciso di focalizzare l’analisi sul percorso “MTC e Agopuntura” (lista lepre).
Per ognuna delle fasi del percorso il gruppo di lavoro ha identificato:
- le attività e gli operatori coinvolti;
- i problemi e le criticità che, sulla base dell’esperienza personale, gli operatori ritengono possano presentarsi svolgendo queste attività;
- le cause principali dei problemi;
- le conseguenze di questi problemi sulla salute del paziente,
sull’efficienza ed efficacia del servizio e della terapia.
A ogni problema identificato è stato assegnato un valore:
- Frequenza (F), cioè la possibilità che il problema occorra realmente;
- Gravità (G) delle conseguenze del problema;
- Identificabilità (I), cioè la facilità dell’operatore o del sistema
di rilevare il problema.
La scala utilizzata per assegnare i valori è riportata in tabella 2.
Tabella 2. Scale di valori
Scala
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
Frequenza
Non succede mai
Succede
sempre
Gravità
Non ha alcuna
gravità
È gravissimo
Identificabilità È immediatamente rilevabile
134
Non vi è alcuna
possibilità di
rilevarlo
Schede tecniche e applicative
Quindi è stato calcolato l’IPR (Indice di Priorità del Rischio), cioè
il prodotto dei valori assegnati a Frequenza, Gravità e Identificabilità (FxGxI).
Il risultato di questo lavoro è rappresentato nella seguente tabella.
Tabella 3. Valore IPR
135
Corso di formazione
136
Schede tecniche e applicative
Infine, le attività e i relativi problemi sono stati ordinati sulla base
del valore IPR assegnato dal gruppo di lavoro.
Nella tabella 4 sono riportati i 5 problemi (su 14 identificati) con
il più alto valore di IPR (da soli rappresentano più del 60% del
valore IPR totale).
Si tratta dunque dei primi problemi da affrontare per individuare
le azioni di miglioramento per il percorso MTC presso l’ambulatorio Fior di Prugna.
Tabella 4. Problemi ad alto valore IPR
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Corso di formazione
Formazione e medicine complementari: il ruolo dell’Agenzia per la Formazione Azienda USL 11 Empoli
Il tema delle medicine complementari interessa l’Agenzia per la
Formazione sin dagli anni ’90, quando interviene con percorsi di
formazione sia multiprofessionali sia monoprofessionali.
In particolare, la formazione si è rivolta sia a medici, farmacisti
e professioni sanitari sia agli operatori dell’area benessere con
l’obiettivo di promuovere la disciplina all’insegna di una formazione di qualità che valorizzi i percorsi comuni mantenendo le
differenze professionali.
È ormai un concetto acquisito anche nella cultura occidentale che
l’approccio nei confronti della salute non è ben finalizzato, se le
sue componenti tecniche e professionali non vengono gestite tenendo in considerazione la totalità dell’individuo che risulta esserne la parte attiva.
Da ciò deriva l’esigenza di approfondire i principi basilari secondo
i quali mente e corpo sono inscindibili e che l’individuo deve essere preso in considerazione nella sua piena totalità. Ecco perché
le medicine complementari parlano di molteplicità d’intervento e
di approccio olistico.
Da questo, e per la presenza nell’Azienda USL 11 di Empoli del
Centro Clinico di Medicina Naturale, è scaturita la possibilità di
collaborare per l’organizzazione di attività formative nell’ambito
della medicina complementare, in grado di sviluppare i molteplici
approcci delle terapie oggi più utilizzate.
Valorizzando quest’approccio è nata la collaborazione per l’organizzazione del corso regionale “Sicurezza dei pazienti e gestione
del rischio clinico in medicina complementare”, promosso dalla
Rete Toscana di Medicina Integrata.
Ad oggi, molteplici sono stati gli interventi formativi volti a sviluppare competenze specifiche nell’ambito della clinica e della
diagnosi, nonché della ricerca sugli eventi avversi relativi all’uso
dei prodotti naturali.
Tra le tematiche citiamo corsi quali: Fitovigilanza, Fitoterapia clinica, Fitoterapia in oncologia, in ostetricia, Prodotti estetici, Prodotti
di erboristeria, Pratiche integrative nei percorsi assistenziali…
Inoltre, sono stati organizzati numerosi incontri internazionali e
nazionali sulle tematiche delle medicine integrative.
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Schede tecniche e applicative
Conclusioni
Poche parole a conclusione di questo lavoro comune che riprende
e chiarisce quanto è stato fatto all’interno del Corso di formazione
“Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina
complementare”. Un’iniziativa formativa che, ricordiamo, ha
affrontato per la prima volta questi temi in Italia e probabilmente
in Europa.
L’obiettivo del corso, come è stato affermato nell’introduzione
a questo volume e negli interventi riportati al suo interno, era
avviare un programma di gestione del rischio clinico a partire da
un’analisi delle pratiche di lavoro reali all’interno delle strutture
sanitarie di riferimento per le medicine complementari.
Il corso non si è posto però soltanto obiettivi teorici e culturali,
ma ha voluto entrare nel merito e definire per l’immediato futuro
un piano operativo rivolto all’intera struttura della Rete Toscana
di Medicina Integrata, per rendere costanti e quotidiane le attività
di controllo e di verifica delle misure adottate, nelle strutture
sanitarie pubbliche, per la sicurezza dei pazienti e la riduzione del
rischio nella pratica clinica.
Abbiamo verificato che sono diversi i livelli di rischio, dalla
potenziale tossicità dei prodotti fitoterapici, alla possibilità di
errore nell’esecuzione di atti terapeutici come la manipolazione
vertebrale o l’infissione degli aghi, fino al problema dei problemi,
e cioè la sostituzione della cura, un intervento che nella casistica
recente ha chiamato in causa, anche impropriamente, l’omeopatia
e la medicina ayurvedica.
Tornando al corso, si trattava dunque di cercare di preparare gli
operatori a lavorare “in sicurezza” innanzitutto nelle strutture
pubbliche che erogano prestazioni di medicina complementare,
perché proprio in queste strutture i cittadini accedono prima
di tutto perché si sentono rassicurati. È questa sicurezza che
vogliamo offrire ai cittadini, riducendo al massimo il rischio,
peraltro mai completamente eliminabile, di incorrere in scelte
terapeutiche sbagliate.
Per questa ragione abbiamo cercato di affrontare la pratica
clinica delle medicine complementari, il mondo reale della
terapia e di definire i criteri più appropriati per la valutazione del
rischio iniziando a realizzare un primo monitoraggio dei percorsi
diagnostico-terapeutici.
È risultata chiara e forte la necessità, sempre presente e affermata
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Corso di formazione
anche dal Codice deontologico, di ottenere un consenso realmente
informato da parte del paziente, un consenso dunque che non
sia solo l’espletamento burocratico di un atto formale finalizzato
a ottenere una, presunta, maggiore tutela legale. L’alleanza
terapeutica che si realizza, se non sempre molto spesso, fra il
medico e il paziente nell’ambito delle medicine complementari,
come il dialogo e la comunicazione tra l’utente e l’operatore
sanitario, è un fatto peculiare e significativo nel panorama
sanitario attuale e rappresenta al tempo stesso l’unica vera
garanzia per il cittadino, l’unico baluardo per evitare di ridurre
ogni atto terapeutico a semplice medicina difensiva.
Per anni il settore delle medicine prima definite “non convenzionali”,
poi “complementari” e ora in qualche situazione davvero
“integrate o integrative”, ha vissuto in un mondo parallelo,
separato dal resto. Certo, è accaduto poiché queste medicine
sono state rifiutate, osteggiate, accusate di non produrre prove di
efficacia, di non sottostare ai paradigmi scientifici della medicina
basata sull’evidenza. Oggi si va affermando un modo nuovo e
diverso di concepire la pratica clinica non convenzionale, dove
emerge il ruolo “complementare di queste medicine piuttosto
che l’elemento di “alternativa” ideologica nei confronti della
medicina convenzionale. Questa nuova visione comprende anche
la necessità di svolgere un ruolo sociale a tutela della persona di
fronte all’invadenza di una medicina sempre più tecnologicizzata.
Tutto questo richiede un’attualizzazione del confronto, un rapporto
dinamico con la complessità dei problemi che la società moderna
pone soprattutto in campo sanitario.
La Regione Toscana, dopo avere messo a punto un modello
originale e finora unico nel panorama nazionale, di integrazione
delle medicine complementari nel proprio sistema sanitario, oggi
punta alla qualità delle prestazioni e alla sicurezza dei pazienti
non solo con iniziative specifiche di formazione, come questo
corso, ma soprattutto con la regolamentazione regionale e il
riconoscimento dei percorsi formativi, garantendo così al meglio
la qualità della preparazione professionale.
Garantire sicurezza e ridurre il rischio clinico significa affrontare
la sfida del confronto e uscire allo scoperto, lasciare i fondi marini
e riemergere in superficie. Significa affrontare con coraggio le
criticità del nostro operare sapendo che l’errore medico si può e si
deve combattere con le armi dell’analisi, dell’audit, per dirla con il
140
Schede tecniche e applicative
linguaggio tecnico che abbiamo appreso nel corso, e soprattutto
con gli strumenti della discussione e del confronto professionale.
Oggi a livello internazionale e nazionale la sicurezza dei pazienti
è una priorità di politica sanitaria. Per questo la Regione Toscana
ha avviato dal 2004 un programma di gestione del rischio clinico
rivolto agli operatori e al management delle aziende del servizio
sanitario regionale. Le attività coordinate dal Centro Gestione
Rischio Clinico e Sicurezza del Paziente hanno riguardato
l’organizzazione di un sistema per l’identificazione e l’analisi del
rischio, nonché lo sviluppo di buone pratiche per la sicurezza dei
pazienti, cioè di soluzioni operative per contenere il rischio nei
diversi luoghi dell’assistenza sanitaria.
Il corso è stato pensato e organizzato per essere il primo passo
nell’estensione del sistema di gestione del rischio clinico alle
medicine complementari, tenendo in considerazione le loro
specificità e la progressiva, non sempre semplice, integrazione
con i percorsi assistenziali tradizionali. La gestione del rischio
clinico è basata su un approccio sistemico all’analisi dell’errore
e alla promozione della sicurezza, focalizzato sull’analisi
delle interazioni tra i fattori umani, tecnici e organizzativi che
concorrono a determinare la performance dei servizi sanitari.
Questo approccio è sufficientemente ampio da poter contemplare
le pratiche delle medicine complementari, pertanto i risultati del
corso ci pongono adesso la sfida di realizzare ricerche e interventi
per lo studio e lo sviluppo della sicurezza dei pazienti anche in
questo settore. Visto l’entusiasmo dei partecipanti al corso, le
premesse sono incoraggianti.
Elio Rossi
Tommaso Bellandi
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Allegati
ALLEGATI
143
Allegati
Modulo a griglia di
informazione e consenso
informato
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Corso di formazione
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Allegati
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Corso di formazione
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Ringraziamenti
Sono molte le persone che, in vario modo, hanno contribuito a
realizzare questa pubblicazione. Ad esse vanno i ringraziamenti
più sinceri per le idee e le riflessioni che hanno apportato.
Grazie in primo luogo a tutti i docenti e relatori e ai partecipanti al
Corso di formazione “Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio
clinico in medicina complementare”, e in particolare a Katia Vuono
e Federica Sabatini, medici presso il centro di MTC Fior di Prugna
dell’Azienda Sanitaria di Firenze, per il lavoro sulla scheda di
applicazione della tecnica FMEA al percorso di trattamento presso
il Fior di Prugna.
Francesca Ruberti, dello studio Flu di Pisa, e Carmela Leone,
dell’Ambulatorio di Omeopatia della Azienda USL 2 di Lucca,
hanno svolto un paziente lavoro di trascrizione delle lezioni. A
loro un affettuoso ringraziamento.
Grazie anche a Paolo Fedi, del centro di MTC Fior di Prugna, a Luca
De Grandis di Eureka srl di Lucca per l’attività di coordinamento,
a Sirio Del Grande, Annarita Tognetti e Franco Bocchi dell’Azienda
USL 2 di Lucca, ad Alessandro Mancini e Benedetta Novelli,
dell’Agenzia per la formazione della Azienda USL 11 di Empoli, e
a Cristina Francesconi, della Tipografia Francesconi di Lucca, che
ha curato il progetto grafico e l’impaginazione.
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Contatti
Per stabilire rapporti di collaborazione si possono contattare i Centri di
riferimento per le medicine complementari della Regione Toscana:
Ambulatorio di omeopatia Azienda USL 2 Lucca
Ospedale Campo di Marte
Padiglione B - 3° piano
55100 Lucca
Tel. 0583 449459 - Fax 0583 970618
Rif. Elio Rossi [email protected]
Centro di Medicina Tradizionale Cinese
“Fior di prugna” - Azienda sanitaria Firenze
Via Pistoiese 185
San Donnino, Campi Bisenzio
50013 Firenze
Tel. 055 894771 - Fax 055 8996508
Rif. Sonia Baccetti [email protected]
Centro di Medicina Naturale - Azienda USL 11 Empoli
Ospedale S. Giuseppe
Viale Boccaccio, Blocco H - 3° piano
50053 Empoli
Tel. 0571 702601 - Fax 0571 702639
Rif. Fabio Firenzuoli [email protected]
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Finito di stampare il mese di maggio 2010
da Tipografia Francesconi - Lucca