la possibile fiscalità delle operazioni di finanza islamica

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la possibile fiscalità delle operazioni di finanza islamica
IL FISCO
CHE VERRÀ
LA POSSIBILE FISCALITÀ DELLE
OPERAZIONI DI FINANZA ISLAMICA
LA GESTIONE STRAORDINARIA DELLE IMPRESE 2 2016
Federico DI CESARE
Avvocato - Di Tanno e Associati
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La c.d. “finanza islamica” è oggetto di un interesse crescente nel panorama finanziario internazionale, tanto da costituire un segmento considerevole dei mercati finanziari nonché
un modello alternativo di intermediazione finanziaria. Anche l’Italia appare interessata alla
finanza islamica, quantomeno dal punto di vista dei possibili investimenti che soggetti appartenenti al mondo islamico potrebbero effettuare in società industriali e finanziarie del nostro
Paese. Oggetto del presente lavoro è quello di fornire una breve panoramica dei prodotti
finanziari islamici più comunemente utilizzati, analizzandone la fiscalità applicabile alla luce
del vigente ordinamento tributario nazionale.
1
Premessa
Negli ultimi tre decenni le operazioni finanziarie poste in essere in conformità ai precetti
della legge religiosa islamica (Shari’ah) sono
cresciute da 150 a 1.900 miliardi di dollari
USA, con l’80% degli investimenti detenuti da soli cinque Paesi (Iran, Arabia Saudita,
Malesia, Emirati Arabi Uniti e Kuwait)1.
Tuttavia, nei tempi recenti, anche fuori dalle
aree dei Paesi islamici (in particolare nei Paesi anglosassoni) si va sempre più diffondendo
l’uso, da parte di banche e di istituzioni finanziarie, di strumenti contrattuali secondo
modelli islamici2. A seguito di questa crescita
oggi la finanza islamica rappresenta un fetta considerevole della finanza mondiale, con
centinaia di istituzioni finanziarie islamiche
autorizzate che offrono prodotti e servizi finanziari islamici Shari’ah compliant3.
L’Italia appare interessata alla finanza islamica
sia dal punto di vista dei possibili investimenti
che soggetti appartenenti al mondo islamico
potrebbero effettuare in società industriali e
finanziarie del nostro Paese, che dalla possi-
1 Cfr. Ernst & Young, “World Islamic Banking Competitiveness Report”, 2012-2013. Per ulteriori approfondimenti sul tema si
rinvia al prezioso contributo di Alvaro S. “La finanza islamica nel contesto giuridico ed economico italiano”, Riv. dir. comm.
obbl., 2015, p. 533 ss.
2 Come illustrato nel documento “Islamic Finance: Opportunities, Challenges, and Policy Options”, International Monetary Fund,
6.4.2015.
3 Cfr. Ali R. “Islamic Finance: a practical guide”, Global Law and Business, 2008. Si è occupato del tema anche Draghi M. nella sua
relazione al “Seminar on Islamic Finance”, Roma, Banca d’Italia, 11.11.2009.
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bile raccolta di capitali che gli intermediari
italiani potrebbero effettuare da soggetti residenti nei Paesi islamici, così come dagli oltre
1,5 milioni di musulmani che oggi risiedono
in Italia4. In particolare, per quanto attiene al
tema degli investimenti effettuati in Italia da
parte dei fondi d’investimento dei Paesi islamici, occorre osservare come essi siano stati e
siano tuttora significativi, con importanti investimenti effettuati da operatori provenienti,
soprattutto, dalla Libia, dal Qatar e dagli Emirati Arabi Uniti5.
Il presente lavoro ha lo scopo di fornire una breve panoramica dei prodotti finanziari islamici
più comunemente utilizzati, cui segue l’indicazione, in via di massima, della fiscalità applicabile ai singoli modelli contrattuali, alla luce del
vigente ordinamento tributario nazionale6.
2
I principi
della finanza islamica
Per discorrere di finanza islamica, è necessario liberarsi dell’assioma, tipico della finanza
occidentale, secondo cui religione, etica ed
economia viaggiano su binari separati.
Nell’Islam, difatti, i precetti contenuti nella
Legge di Dio (Shari’ah) non hanno una valenza
limitata alla sola sfera privata, ossia al rapporto
intimo tra uomo e Dio, ma costituiscono principi validi e cogenti per ogni settore della vita
della comunità dei credenti (Umma). Il fedele
musulmano è tenuto ad osservare tali precetti
anche nella sfera pubblica, sociale, giuridica ed
economica7. L’economia islamica rappresenta,
quindi, quel complesso di pratiche, transazioni,
contratti e relazioni tra soggetti che trovano
ispirazione e sono conformi ai dettami e alle
tradizioni della legge islamica.
Conseguentemente, l’analisi dell’economia e
della finanza islamica non può prescindere dalla conoscenza dei contenuti religiosi
dell’Islam, della sua storia e delle sue fonti
giuridico-religiose. Queste ultime, in particolare, possono essere così sinteticamente e
gerarchicamente indicate 8:
1.Corano (Quran), libro sacro dell’Islam, che
contiene le rivelazioni che il profeta Maometto (Mohammed) afferma di aver ricevuto da Dio tramite l’arcangelo Gabriele. Il
Corano è composto da 114 capitoli (Sure),
di lunghezza assai variabile, a loro volta divise in versetti. Solo il 3% dei versetti ha
contenuto propriamente giuridico e, inoltre, si tratta in prevalenza di disciplina di
settori specifici (diritto di famiglia e successioni) con brevi cenni alla compravendita e al prestito. La materia finanziaria trova
una disciplina minimale in quattro Sure9;
2. i detti del Profeta (Hadith), trasmessi prima
oralmente e poi trascritti;
3.la Tradizione (Sunna), intesa come tutto
quello che riguarda la vita del Profeta e dei
suoi primi seguaci e costituiscono l’esempio
per la condotta di vita di ogni musulmano.
4 L’analisi è tratta da Alvaro S. “La finanza islamica nel contesto giuridico ed economico italiano”, Quaderni giuridici CONSOB, 6, 2014.
5 In passato la Lybian Araba Foreign Investment Company (LAFICO) ha detenuto partecipazioni, ad esempio, in Fiat e nella
Juventus. La Ferrari è stata partecipata dal fondo di Abu Dhabi Mubadala Investment Company. Il Qatar ha attualmente una
forte presenza in Italia, con investimenti, tra l’altro, nel settore alberghiero e turistico in Costa Smeralda, nel settore immobiliare a Milano, e nella fashion industry.
6 Per approfondimenti generali si rinvia a: AA.VV. “Finanza Islamica: un’opportunità per le imprese italiane”, Convegno ODCEC,
16.4.2010; Hamaui R., Mauri M. “Economia e finanza islamica”, Il Mulino, Bologna, 2009; Miglietta F. “L’assicurazione in
contesto islamico: l’istituto del takaful”, Giuffrè, Milano, 2007; Porzio C. “Banca e Finanza Islamica”, Bancaria Editrice, Roma,
2009; Scarcia Amoretti B. “Il Corano. Una lettura”, Carocci, Roma, 2009; Vadalà E. “Capire l’economia islamica”, Yorick Editore, Messina, 2004.
7 La parola Islam è un termine arabo, infinito del verbo ‘aslama (“sottomettersi”) il cui participio presente al plurale maschile
è muslimùn (“musulmani”). Musulmano è quindi colui che è sottomesso a Dio (Allah).
8 L’esposizione che segue è prevalentemente tratta da Dolce R. “Finanza islamica. Elementi costitutivi e possibili implicazioni fiscali nell’ordinamento italiano”, il fisco, 2008, p. 3831 ss.; Giustiniani E. “Elementi di finanza islamica”, Riv. Guardia di
finanza, 2005, p. 1943 ss.
9 In particolare: Sura n. 2, versetti 275-279; Sura n. 3, versetto 130; Sura n. 4, versetto 161 e Sura n. 30, versetto 39.
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Proprio la possibilità di estendere la Sunna,
non solo alla tradizione di Maometto, ma
anche a quella di altri soggetti, come gli
Imam (capi delle comunità religiose islamiche) è alla base della divisione dei musulmani tra Sunniti e Sciiti;
4. il lavoro dottrinale/interpretativo delle principali scuole giuridiche islamiche (Madhhab)
finalizzato alla corretta interpretazione della
volontà divina rivelata nel Corano e nei detti
del Profeta.
Oggi, peraltro, nella stragrande maggioranza
dei Paesi islamici la legge applicabile ai contratti (e, più in generale, all’economia e alla
finanza) non è la Legge di Dio, ma la legge
dello Stato. Infatti, solo in due Paesi musulmani (Iran e Sudan) la Shari’ah è presente sia
come insieme di regole religiose, sia come
diritto positivo, in quanto gli stessi si sono
dotati di un vero e proprio sistema giuridico
islamico (Fiqh). Solo in questi due Stati, pertanto, la finanza islamica e il sistema bancario finanziario islamico risultano, in qualche modo, obbligatori. Molti Paesi islamici,
invece, pur affermando che le fonti religiose
del diritto islamico sono le fonti principali del
loro diritto, hanno costruito sistemi giuridici ibridi che mescolano norme ispirate alla
tradizione del diritto musulmano classico con
norme tipiche di sistemi di common law ovvero di civil law (Malesia, Bahrein, Pakistan
ed Emirati Arabi Uniti)10. Altri Paesi islamici,
infine, sono ricorsi a sistemi giuridici di tipo
“occidentale”. Tale scelta è spesso dipesa da
motivi storici ed in particolare dal tipo di colonizzazione che hanno subìto.
Sulla base di quanto sopra, pertanto, discendono le seguenti considerazioni:
• il diritto islamico non costituisce un corpus
juris coerente, uniforme e valido per tutti i
Paesi musulmani;
• la finanza islamica può essere definita come
l’insieme delle attività finanziare che, seppur
soggette alle leggi statali di ogni singolo Paese, sono svolte senza infrangere i principi
della Shari’ah;
• qualsiasi contratto (o clausola contrattuale) dovrebbe ritenersi lecito in assenza di
un’esplicita regola religiosa che lo vieti.
3
La struttura
della finanza islamica
Il termine “finanza islamica” indica il complesso di pratiche, transazioni e contratti finanziari che sono conformi ai dettami delle
fonti di diritto islamico. Se il divieto dell’usura
è comune a tutte le principali religioni (cattolica, ebraica, musulmana, induista e buddista)
e, sostanzialmente, deriva dall’attenzione di
Dio verso i più poveri, il più stringente divieto di arricchimento (ribà) è previsto solo
nella religione islamica. In particolare, tutti
i credenti musulmani sono consapevoli che
la ribà, ovvero l’interesse, imposto o subito,
ha un valore peccaminoso ed è severamente
condannato e proprio il binomio “Islam - divieto del tasso di interesse” restituisce alla
finanza islamica quella definizione di “prohibition - driven finance”, ovvero di finanza basata sulle proibizioni.
Il Corano non fornisce una definizione di
ribà, trattandosi di concetto ben noto all’epoca di Maometto, contrapposto alla sacralità dell’elemosina. Nel contesto di operazioni
commerciali e finanziarie, tuttavia, esso deve
essere interpretato nel senso di considerare
illecita l’applicazione di un tasso di interesse,
indipendentemente dal fatto che esso possa
dirsi usuraio o meno: si tratta di un divieto
assoluto la cui mancata osservanza in un’operazione commerciale o finanziaria preclude totalmente la possibilità di qualificare la
stessa come operazione conforme alla Shari’ah11.
10 Così, ad esempio, il sistema civile ed economico di Dubai è di tipo duale: il diritto civile è ancorato al diritto canonico, mentre
il diritto commerciale segue le regole e la prassi del commercio internazionale.
11 Cfr. Flora P. “La finanza islamica: principi generali ed esperienze internazionali”, Fisc. int., 2009, p. 104 ss.
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Pertanto risulta vietato, secondo gli studiosi
islamici, qualsiasi tasso di rendimento, positivo, fisso e predeterminato, che venga
garantito a prescindere dalla performance
dell’investimento. Più in particolare, senza
pretendere di voler svolgere in queste un’analisi approfondita della Shari’ah, si ha ribà in
presenza di un tasso di interesse:
• fissato in partenza;
• legato al fattore temporale ed all’ammontare del prestito;
• dovuto a prescindere dai risultati economici
ottenuti con l’impiego del denaro prestato.
Da un punto di vista prettamente economico
si può quindi affermare che la nozione occidentale classica di interesse come “remunerazione per il differimento del consumo” è rifiutata; può essere remunerato solo lo sforzo
fisico e intellettuale delle persone e mai la
mera attesa.
Per questa ragione nel sistema economico
islamico il “tasso di interesse” è sostituito dal
“tasso di profitto”, che rappresenta la misura reale della crescita effettiva del capitale
attraverso il suo impiego e investimento12.
I contratti che implicano attività puramente speculative (maisir) sono del pari proibiti. Questo non significa che la legge canonica
sia contraria alla speculazione commerciale.
Operazioni che conducano a profitto sulla
base di effettive azioni commerciali e produttive sono lecite, mentre non lo sono quelle in cui il risultato dipende dal caso, e che
si avvicinano alla scommessa o al gioco. La
legge coranica considera illecite le clausole
contrattuali che conducano ad un ingiusto
guadagno da parte di un contraente a spese
di terzi. Così, nei contratti di finanziamento,
è clausola illecita quella che prevede a carico del debitore inadempiente interessi di
mora o penali13. La giurisprudenza islamica,
conscia della funzione di simili previsioni, ha
dato efficacia a quelle previsioni che da un
lato onerino il debitore non adempiente di
qualche sorta di penale e dall’altro obblighino
il creditore a destinare la stessa a istituzioni
caritatevoli islamiche.
Ancora, i contratti che sono connotati da elementi incerti o aleatori (gharar), in relazione all’oggetto o al momento dell’esecuzione
sono nulli. Di qui, per esempio, il divieto dei
contratti assicurativi essendo la prestazione
dell’assicuratore legata all’evento incerto del
sinistro. Tuttavia, tale divieto non è di carattere assoluto quale quello concernente il ribà
ed è volto, in realtà, a limitare situazioni ove
il grado di aleatorietà è giudicato eccessivo
ovvero non socialmente utile. Conseguenza
di tale principio è la decisa preferenza per
operazioni strutturate sulla base di contratti di scambio a prestazioni istantanee, ove
nessuna delle parti sia in grado di sfruttare
la variazione dei prezzi di mercato a proprio
beneficio. Rientrato, ulteriormente, nel divieto di gharar: la vendita di cosa futura, la vendita ad un prezzo non determinato (anche se
determinabile), la vendita ad una data futura
e incerta.
La Legge di Dio vieta, infine, lo svolgimento
di attività concernenti l’uso, il commercio o
l’investimento (diretto o indiretto) in determinate attività, quali le bevande alcoliche, il gioco d’azzardo, la pornografia, la carne di maiale, le armi da fuoco, il tabacco, ecc.
(maisir). Corollario di questo principio è che
risulta vietato, altresì, l’investimento azionario in società, quotate o meno, che siano
direttamente o indirettamente coinvolte nelle
suddette attività o nel commercio, produzione, ecc., dei menzionati beni14.
12 La proibizione del ribà ha ovviamente effetti importanti anche per il funzionamento dell’attività bancaria islamica.
13 È questa l’interpretazione di Gabelli M., “Principi e struttura della finanza islamica: un primo approccio anche fiscale”, Fisc.
int., 2010, p. 321 ss.
14 Secondo Forte G., Mauri M., Miglietta F. “La gestione del risparmio nella finanza islamica”, Banca impr. soc., 2011, p. 263-297,
mentre per alcune attività il divieto è perentorio, per altre non vi è unanime consenso (come nel caso di tabacco, musica e
film) e la sua applicazione dovrebbe essere demandata ad una valutazione non formale ma sostanziale dell’attività, tenendo conto anche delle varie soglie di tolleranza di volta in volta stabilite.
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I principali strumenti
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finanziari
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Conseguenza dei precetti imposti dalla religione è una netta contrapposizione tra la finanza c.d. “tradizionale” e la finanza islamica.
Va tuttavia sottolineato che la Shari’ah non
proibisce in alcun modo la concessione di finanziamenti e, in generale, l’attività finanziaria: il fatto che non sia concesso prevedere
alcuna forma di interesse non implica necessariamente che ogni forma di profitto sull’impiego del capitale sia preclusa ai soggetti finanziatori. La necessità, quindi, di combinare
i precetti della Shari’ah nel mondo finanziario
con il diritto alla fruttuosità del capitale investito ha dato luogo all’elaborazione di modelli
contrattuali complessi, tra cui si ricordano, di
seguito, le fattispecie più comunemente utilizzate15.
Il mutuo islamico (Murabahah)
Si tratta della tipologia contrattuale più frequente che rappresenta circa l’80% del volume degli affari realizzati in conformità alla
Shari’ah. È un contratto gratuito, laddove il
mutuatario è tenuto a restituire al mutuante
il solo capitale prestato. L’eventuale remunerazione va commisurata ai benefici che il
mutuatario ricava dalla somma e dai costi
che il mutuante sopporta, con un tasso che
tenga conto dei risultati effettivi dell’impiego
del capitale. Le banche islamiche prevedono,
difatti, il “tradizionale” mutuo senza interessi
al solo scopo di beneficenza.
La murabahah costituisce, in particolare, uno
dei mezzi maggiormente usati per il finanziamento all’esportazione. Essa consiste in due
contratti di vendita susseguenti: il venditore
vende l’oggetto ad un compratore intermedio,
questo vende l’oggetto al compratore finale
con una maggiorazione, la quale compensa il finanziamento da parte del compratore
intermedio (di regola una banca o un’istituzione finanziaria). La garanzia della banca nei
confronti dell’importatore viene normalmente
esclusa, e la banca trasferisce all’importatore
i suoi diritti di garanzia verso l’esportatore.
Si realizza, così, un finanziamento intermedio che non si pone in contrasto con il divieto
del ribà, in quanto si tratta di due contratti di
vendita, e non di un negozio di credito.
Una variante della murabaha è costituita
dal c.d. tawarruq, struttura in cui il cliente
finale, anziché utilizzare il bene acquistato
nella propria attività d’impresa, lo rivende al
produttore originario ovvero ad un terzo. In
tal modo, il cliente finale ottiene, tramite la
rivendita del bene, la disponibilità immediata di risorse finanziarie a fronte di un debito
da estinguere in rate periodiche: in pratica,
il medesimo effetto economico derivante
dall’applicazione di un tasso di interesse ad
un finanziamento.
I contratti partecipativi
(Musharaka e Mudarabah)
Una ulteriore forma di finanziamento, per
mezzo della quale si evita una violazione dei
divieti del ribà e del gharar, è costituita da
una forma partecipativa, la musharaka (accordo di compartecipazione) nella quale profitti e perdite sono distribuiti tra entrambe
le parti in proporzione alla rispettiva partecipazione. In particolare, la gestione dell’investimento spetta in via esclusiva al cliente,
mentre il soggetto finanziatore ha titolo per
ottenere esclusivamente la remunerazione
del capitale investito tramite una partecipazione agli utili dell’investimento. Le eventuali
perdite sono imputate a ciascuno in propor-
15 La verifica della conformità alla Shari’ah delle operazioni finanziarie deve essere svolta antecedentemente alla conclusione
degli accordi: per tale motivo, gli enti finanziari e creditizi che pongono in essere operazioni di finanza islamica devono istituire un comitato interno, composto da eminenti studiosi della legge islamica, che ha il compito di accertare la conformità
all’operazione proposta alla Shari’ah ed emettere un giudizio di conformità alla Shari’ah dell’operazione proposta.
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zione alla quota di partecipazione agli utili.
Si tratta, generalmente, di uno strumento
di credito utilizzato per l’espansione delle
attività piccole e medie imprese, e nell’ambito di progetti di lungo periodo. Gli studiosi
islamici sostengono che tale forma sia la più
appropriata dal punto di vista della Shari’ah16.
Altra figura di contratto partecipativo è la
mudarabah (riconducibile ad una forma di
associazione in partecipazione), nella quale
un investitore fornisce liquidità ad un’altra
persona, che intende investire denaro in una
iniziativa commerciale, insieme al soggetto
che conduce tale attività. Ne consegue che
la banca “conferisce” il capitale, mentre l’apporto del cliente è costituito dall’esperienza
nell’attività di investimento in prodotti conformi alla Shari’ah, gestione e, se del caso,
lavoro. I proventi generati dall’investimento
vengono ripartiti tra i contraenti in base ad
una percentuale predeterminata, ma non possono essere garantiti, così come non è garantita la restituzione del capitale investito. Le
eventuali perdite rivenienti da questa tipologia contrattuale sono pertanto integralmente
imputate al soggetto che apporta il capitale,
cui non è concesso alcun potere di controllo
sull’andamento dell’investimento17. Se l’affare
si conclude con un profitto maggiore di quello
stimato, la parte eccedente va al cliente; se,
invece, il profitto è inferiore alla previsione,
la banca dovrà accettare una quota minore.
Si tratta di una delle forme di finanziamento
più comuni nel mondo islamico, solitamente
utilizzata nel caso di fondi di investimento.
L’appalto islamico (Istithna)
Si può definire un contratto ove una parte
offre all’altra di fabbricare un bene, descritto
in contratto, con data di consegna e prezzo
predeterminati. A sua volta, il soggetto finanziatore stipula un accordo parallelo con
il cliente finale, ad un prezzo maggiorato rispetto a quello di acquisto. Il pagamento del
prezzo può essere differito rispetto alla consegna. Tale tipo di contratto si applica tradizionalmente a beni immobili in costruzione,
dove la proprietà degli stessi viene trasferita
al completamento del bene. L’istithna è, quindi, spesso utilizzato anche in operazioni di
project finance.
Il leasing islamico (Igarah)
Tale tipologia contrattuale è assimilabile ad
un leasing, in cui il soggetto finanziatore
acquista un bene e lo concede in locazione
dietro il pagamento di una commissione e
di canoni periodici. Nella forma base la banca/finanziatore compra il bene e lo affitta
all’imprenditore il quale corrisponde un canone periodico, comprensivo del costo d’acquisto del bene di un quota per l’utilizzo del
medesimo. La banca rimane proprietaria del
bene per tutta la durata del contratto. Nella
variante di affitto con riscatto (igarah wa-iktina ‘a) l’imprenditore/utilizzatore assume la
responsabilità di acquistare il bene alla fine
del periodo d’affitto. I canoni periodici costituiscono parte del prezzo d’acquisto alla
scadenza dell’affitto. Si tratta di un contratto
comunemente utilizzato per i finanziamenti
immobiliari18.
I certificati islamici (Sukuk)
I sukuk sono dei titoli (o, meglio, certificati
di partecipazione) rappresentativi di quote
di proprietà indivisa su un patrimonio complessivo costituito da beni materiali. Tali
strumenti non hanno, quindi, generalmente,
la natura di strumenti di debito. In particolare, un’emissione di sukuk è molto simile ad
una operazione di cartolarizzazione, in quanto viene creato un veicolo (Special purpose
16 Questo è anche il parere di Altieri E. “Banche islamiche in contesto non islamico e regime fiscale”, Rass. trib., 2007, p. 1752.
17 Così Flora P., cit., p. 105.
18 Così Dolce R., cit., p. 1948.
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vehicle - SPV) dotato di propria soggettività
giuridica che riceve dal proponente dell’operazione determinati asset a fronte dei quali
la SPV emette dei certificati che verranno
sottoscritti dagli investitori. I fondi raccolti
dai sottoscrittori vengono utilizzati dalla SPV
per pagare gli asset ceduti dal proponente il
quale, a sua volta, utilizzerà gli stessi fondi
per finanziare dei progetti conformi alla Shari’ah. Gli investitori diventeranno i proprietari
degli asset e la SPV, per loro conto, stipulerà
un contratto con il proponente per l’utilizzo
dei beni. Quando i sukuk vengono acquistati
(o venduti), l’acquirente (o il venditore) non
acquista (o vende) solo il pezzo di carta rappresentativo de beni, ma anche i beni dallo
stesso rappresentati ed, acquista (o cede) il
rischio ad essi collegato.
Si differenziano pertanto dagli strumenti obbligazionari tradizionali per il fatto che non
sono certificati rappresentativi di debito (che
danno diritto alla corresponsione di interessi) e dalle azioni in quanto non rappresentano una quota di partecipazione nel capitale
sociale dell’emittente. Diversamente, i portatori dei titoli hanno solamente il diritto
ad una quota degli utili rivenienti dal bene
sottostante.
5
Le possibili
implicazioni fiscali
L’ordinamento tributario italiano non contiene disposizioni normative che qualifichino in
modo certo e incontrovertibile il trattamento
tributario delle operazioni di finanza islamica, né risulta che siano stati emanati dei
documenti di prassi amministrativa (come
avvenuto in Francia) per disciplinare la materia. Si pongono, perciò, diversi problemi a
causa dell’assenza di una specifica normativa
diversamente da quanto avviene in altri Paesi europei come il Regno Unito e l’Irlanda.
Tuttavia, posto che l’attuale vuoto normativo
non impedisce la strutturazione di operazioni
conformi alla Shari’ah, in assenza di norme
espresse o di posizioni ufficiali, la verifica
necessaria al corretto inquadramento delle operazioni di finanza islamica, sia ai fini
delle imposte dirette che di quelle indirette,
non può che essere condotta, in via analogica,
esclusivamente sulla base dei principi e delle
disposizioni tributarie vigenti19.
Tralasciando le eventuali problematiche
transnazionali (ritenute domestiche, applicazione dei trattati contro le doppie imposizioni, ecc.) la valutazione del possibile inquadramento dei proventi derivanti da operazioni
di finanza islamica all’interno del sistema tributario italiano non può prescindere da una
scelta fondamentale tra l’approccio “sostanzialistico” e quello “formalistico”, posto che
le conclusioni sotto l’aspetto fiscale possono essere molto diverse anche se la basi di
partenza sono le medesime20. Addirittura, in
molti casi e sotto diversi profili, la legislazione
tributaria vigente potrebbe finire per penalizzare tali operazioni rispetto a quelle di finanziamento tradizionali.
In tal senso se la situazione di svantaggio della
finanza islamica rispetto alle operazioni “classiche” è riconducibile al rilievo dato alle risultanze giuridico-formali rispetto ad approcci
tesi a dare maggiore rilevanza alla sostanza
economico-finanziaria dell’operazione, un’impostazione di tipo sostanziale (soprattutto alla
luce del fatto che nei contratti esaminati la
prevalenza della sostanza sulla forma è essenziale, quando non è la ragione stessa del contratto) potrebbe portare a dei risultati “soddisfacenti” con riferimento al comparto delle
imposte dirette (in special modo per i soggetti
IAS-Adopter) ma essere causa di significati-
19 Il presente lavoro si limita ad analizzare alcune problematiche di natura fiscale rivenienti da operazioni di finanza islamica.
Non va comunque trascurato il fatto che le suddette operazioni pongono rilevanti interrogativi anche di natura internazionalprivatistica e regolamentare.
20 Cfr. Morri S., Tami A. “Le sfide della globalizzazione: gli istituti della finanza islamica”, Riv. dott. comm., 1, 2011, p. 85 ss.
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va difficoltà per le imposte indirette. Si pensi
all’imposta di registro che è imposta d’atto e
dovuta per ogni singola transazione sulla base
del suo contenuto e non quale atto complesso.
Si pensi ancora all’IVA che interessa ogni singolo contratto e passaggio, con sfasamenti e
rischi di indetraibilità in funzione dell’oggetto
o dei soggetti coinvolti21.
Questi rilievi generali trovano un riscontro
nelle esperienze di quei Paesi che hanno già
adottato delle iniziative tese ad eliminare possibili svantaggi collegati a strumenti rispettosi
della legge coranica. È così possibile notare,
ad esempio, come le disposizioni britanniche
in tema di finanza islamica si sono rese necessarie proprio perché “[…] there is no doctrine of substance-over-form in UK tax law.
Rather, the United Kingdom taxes transactions according to their legal form, so the legal
manner in which a transaction is structure and
documented determines the taxation of that
structure, unless there is a specific statutory
provision to the contrary. Without a specific
code to tax Islamic finance products, the way
in which they would be taxed would be determined by analysing the individual stages of the
transaction and applying general principles of
UK taxation to each. This could result in an Islamic finance product being subject to a higher
or, indeed, lower tax cost than a similar non-Islamic finance product”22.
Su tali basi, quindi, perlomeno per quanto attiene il comparto delle imposte sui redditi,
sembra più corretto propendere per un approccio di natura sostanzialistica, che porti
a caratterizzare una determinata operazione
finanziaria in base alla relativa natura econo-
mica, anziché prediligere l’aspetto formale, limitato ad un’applicazione acritica delle norme
che formalmente disciplinano le singole fasi
dell’operazione. Una valutazione meramente
basata sulla forma dell’operazione non consentirebbe, peraltro, di rappresentare correttamente l’operazione di finanziamento nel
suo insieme, ancorché strutturata in maniera
peculiare per ragioni extrafiscali23.
Seguendo un’impostazione di tipo sostanziale, è ragionevole ritenere che i proventi derivanti dalla maggior parte degli strumenti
di finanza islamica siano da ricomprendere nella “clausola residuale” di cui all’art.
44 comma 1 lett. h) del TUIR, ai sensi del
quale si considerano redditi di capitale “gli
interessi e gli altri proventi derivanti da altri
rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale, esclusi i rapporti attraverso cui possono
essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto”. Il
reddito di capitale è, quindi, quello che deriva
da un rapporto avente ad oggetto l’impiego
del capitale, con l’esclusione di quei rapporti
attraverso cui possono essere realizzati differenziali positivi e negativi in dipendenza di
un evento incerto. È dunque sufficiente individuare un rapporto “diretto” di impiego di
capitale in un’operazione di finanza islamica
affinché il provento ad esso riferibile possa
essere classificato tra i redditi di capitale. Diversamente, dovrebbero essere esclusi dalla
categoria dei redditi di capitale quei proventi (ancorché formalmente connessi all’impiego di capitale) derivanti da operazioni in
qualche modo eventuali e incerte, in quanto
collegate ad eventi aleatori. Come già detto,
21 La tipicità del caso tenderebbe così a trovare la soluzione, almeno nelle ipotesi più complesse, nell’interpello onde superare
l’aspetto formale per privilegiare la sostanza, e ciò anche in forza delle particolari ragioni religiose e culturali.
22 Così Cape J. “General Legal Framework Applicable to the Taxation of Islamic Finance”, Derivatives & Financial Instruments, 5,
2010, p. 40.
23 Cfr. Flora P., cit., p. 108. A tale riguardo, si segnala come l’autrice, a proposito della possibilità che le operazioni di finanza
islamica possano essere in qualche modo disapprovate dall’ordinamento tributario italiano in un’ottica antielusiva, è dell’avviso che (nota 14) “senza voler tuttavia entrare in questa sede in un’analisi della materia, non sembra ragionevole pervenire alla
conclusione secondo cui tali operazioni dovrebbero essere disapprovate dal sistem a in quanto strutture assai più lineari e semplici consentirebbero di ottenere il medesimo risultato. Al contrario, sembrerebbe addirittura potersi affermare che le motivazioni
di carattere religioso che sottendono alla scelta di una determinata struttura di finanziamento (e che non consentono, pertanto, di
porre in essere soluzioni normalmente disponibili sul mercato della finanza tradizionale) devono essere considerate un elemento
sufficiente per consentire la disapplicazione delle norme antielusione”.
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naturalmente, l’analisi dell’intera operazione
sottesa allo strumento di finanza islamica
deve essere condotta sotto un profilo sostanziale, in quanto l’intera operazione potrebbe
comunque essere “sostanzialmente” riconducibile ad un rapporto di impiego di capitale,
con il conseguente diverso regime impositivo.
Ulteriormente, per quel che riguarda le operazioni di finanza islamica centrate su una
condivisione dei profitti e delle perdite,
dove le remunerazioni riconosciute agli investitori sono impostate in relazione ai risultati
dell’impresa o di un determinato affare, si può
ritenere che tali operazioni basate sul profit
and loss sharing debbano essere inquadrate
nel nostro ordinamento come forme di compartecipazione agli utili con il trattamento
proprio dei dividendi (o a questo analogo) in
capo al percettore, e come costi non deducibili in capo all’erogante, ai sensi dell’art. 109
comma 9 del TUIR.
Sembrerebbe possibile, infatti, trattare fiscalmente tali titoli e contratti (sempreché siano
idonei a configurare redditi di capitale) in
analogia a quanto previsto in tema di contratti di associazione in partecipazione o di cointeressenza impropria, il che, appunto, porta
al trattamento di indeducibilità dal reddito
dell’erogante e alla tassazione conformata al
regime di dividendi in capo al percettore. Questo, naturalmente, con una riserva nel caso in
cui l’apporto (ad esempio, nella mudarabah)
consista esclusivamente in opere e servizi e
non anche in capitali, nel cui caso tornerebbero ad applicarsi le regole generali che prevedono l’imponibilità dei proventi in capo al
percettore e la deducibilità dei corrispettivi
dal reddito dell’erogante24.
Nondimeno, poiché alcuni modelli contrattuali islamici (sukuk) dovrebbero essere classificati tra i “titoli non azionari”, i relativi proventi
dovrebbero generalmente essere sottoposti,
sulla base delle diverse peculiarità remunerative dello strumento finanziario, alla disciplina
di cui all’art. 44 comma 2 lett. a) (per i titoli
similari alle azioni) o lett. c) (per i titoli similari alle obbligazioni) del TUIR. Va comunque
sottolineato come generalmente i sukuk non
si prestano ad essere inquadrati come titoli
similari alle obbligazioni, cosicché il regime di
imposizione previsto dalla lett. c) del comma
2 dell’art. 44 del TUIR dovrebbe applicarsi solo
ove il regolamento dello strumento preveda
delle clausole specifiche per renderlo similare
alle obbligazioni “tradizionali” (ad esempio, si
pensi alla condizione dell’obbligo incondizionato di rimborso del capitale a scadenza).
L’assenza di una specifica disciplina fiscale
applicabile alle operazioni di finanza islamica, infine, comporta ulteriori problematiche
qualora si consideri anche il comparto delle
imposte indirette. È proprio la fiscalità indiretta che, in realtà, per le sue caratteristiche
strutturali può rappresentare un aggravio,
in particolare, per l’introduzione di transazioni asset-based di finanza islamica; questi
prodotti, come detto, moltiplicano le transazioni, ossia gli atti di trasferimento di attivi
rispetto ai prodotti tradizionali, e le imposte
sui trasferimenti sono strutturate per colpire
ogni singolo atto giuridico di trasferimento
come manifestazione di capacità contributiva tassabile. A tale riguardo, giova richiamare
l’art. 20 del DPR 131/1986 ai sensi del quale “l’imposta [di registro] si applica secondo
l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli
atti presentati alla registrazione, anche se
non vi corrisponde il titolo o la forma apparente”. Trattandosi d’imposta d’atto, appunto,
il contenuto e la natura dell’atto devono desumersi dalle clausole in esso previsto. Pertanto, la centralità data dalla norma all’atto,
depone a favore di una molteplice tassazione
basata sul singolo atto, perdendo di vista l’operazione unitaria complessiva composta da
una pluralità di atti. Vale tuttavia segnalare
come si riscontra in giurisprudenza una certa casistica che ha adottato un orientamento
24 Per un’ampia disamina sull’argomento si veda Escalar G. “Il nuovo regime di tassazione degli utili da partecipazione e dei
proventi equiparati nel decreto legislativo di riforma dell’imposizione sul redditi delle società”, Rass. trib., 2003, p. 1922.
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teso a superare la tassazione del singolo atto
per gli effetti giuridici che esso produce singolarmente, laddove si ravvisino elementi di
collegamento tali da evidenziare un effetto
giuridico unitario espressivo della capacità
contributiva da tassare25. Conseguentemente,
nel caso in cui l’effettiva volontà delle parti
fosse ben documentata, sembrerebbe in linea
di principio possibile seguire un approccio
“sostanzialistico” anche ai fini dell’imposta di registro.
Seguendo tale orientamento (in particolare,
Cass. 19.6.2013 n. 15319), si potrebbe altresì superare l’ostacolo costituito dalle imposte
ipotecaria e castale, ancorché tali tributi si applichino in conseguenza delle formalità di trascrizione presso i pubblici registri immobiliari a
prescindere dall’effettiva volontà delle parti26.
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25 È questo il caso, ad esempio, delle sentenze di Cass. 19.4.2013 n. 9541, CED Cassazione, 2013, e Cass. 16.2.2010 n. 3571,
in Banca Dati Eutekne.
26 Cfr. Cass. 19.6.2013 n. 15319, in Banca Dati Eutekne.
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