Introduzione

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Introduzione
Introduzione
di Antonio Dell’Atti e Federica Miglietta
Nel secondo semestre del 2007 due avvenimenti portavano alla ribalta
l’esistenza e la forza finanziaria dei Fondi Sovrani, denominati in inglese
Sovereign Wealth Fund (SWF). Nel settembre Qatar Investment Authority e
Borsa di Dubai erano entrati nel capitale del London Stock Exchange e di OMX,
piattaforma che raggruppa le borse valori scandinave. Appena più tardi, nel
novembre 2007, a mercati chiusi e in piena tempesta finanziaria, il colosso
statunitense Citigroup aveva raggiunto un accordo con Abu Dhabi Investment
Authority per la cessione del 4,9% del proprio capitale a 7,5 miliardi di dollari.
I Fondi Sovrani, protagonisti di questi investimenti, rappresentano, secondo la
definizione del FMI, veicoli d’investimento di proprietà dei governi, creati per
gestire e amministrare le disponibilità finanziarie generate da surplus della
bilancia dei pagamenti e dalla vendita di materie prime (principalmente di tipo
energetico). Tali disponibilità finanziarie, nell’ordine di migliaia di miliardi di
Euro, hanno acceso l’interesse dei media e dei Governi.
Prefigurando intenzioni ostili e non senza esagerazione, la stampa ha voluto
attribuire ai Fondi Sovrani la caratteristica di barbarians at the gates, ovvero di
investitori pronti ad invadere i mercati occidentali con intenzioni speculative ed
in grado di assestare la spallata definitiva ad un sistema finanziario già in pieno
crollo, così come fu con l’Impero Romano di Occidente.
I governi dei Paesi interessati dagli investimenti, dal canto loro, pur
apprezzando l’immissione di liquidità, hanno palesato i propri timori. In primo
luogo si teme che il movimento di flussi ingenti di capitale possa accrescere la
volatilità dei mercati. In secondo luogo esiste la possibilità che alcune
acquisizioni finanziarie possano nascondere intenzioni politiche dai parte dei
Paesi proprietari dei Fondi Sovrani (per esempio Cina, Russia o Paesi Arabi). I
timori sugli investimenti derivano dal fatto che i più importanti Fondi Sovrani
non hanno delle strutture societarie trasparenti né esplicite strategie di
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investimento; in aggiunta, la scarsa democraticità di alcuni dei Governi
proprietari dei Fondi Sovrani e gli investimenti effettuati in settori strategici
come il credito e le infrastrutture energetiche hanno reso evidenti i rischi di un
intreccio finanziario e politico senza controllo.
In risposta ai dubbi da parte dei Governi e delle autorità di vigilanza, i
manager dei Fondi Sovrani hanno tenuto a precisare che i loro investimenti non
sono speculativi, rispondono a logiche di lungo periodo e tendono a
massimizzare il valore di portafoglio tramite una efficiente diversificazione.
Hanno negato, cioè, qualsiasi intenzione speculativa di breve periodo che
destabilizzerebbe i mercati occidentali, già alle prese con una crisi finanziaria e
reale di difficile soluzione.
L’Unione Europea ha dichiarato con chiarezza di non voler intervenire con
misure protezionistiche sul fronte degli investimenti e ha promosso insieme al
FMI, in collaborazione con i principali Fondi Sovrani, la nascita e l’adozione del
cosiddetto Protocollo di Santiago, codice di condotta volontario attraverso il
quale i Fondi Sovrani si impegnano a più trasparenti misure di governance e a
palesare i propri obiettivi di investimento. Gli obiettivi di investimento devono
rispondere a criteri di rischio rendimento, così come la gestione delle imprese
partecipate deve seguire logiche esclusivamente aziendali.
Quest’ultima precisazione relativa alla gestione aziendale, che potrebbe
sembrare pleonastica, intende rispondere ad una preoccupazione di tipo
economico-religioso. Alcuni dei più importanti Fondi Sovrani, infatti, sono di
proprietà di governi arabi le cui strutture legali e commerciali si richiamano
esplicitamente all’Islam. In virtù di questa coincidenza tra vita economica e
struttura dello Stato ci si è chiesti se non esista la possibilità che i Fondi Sovrani
arabi di cultura islamica vogliano gestire le società acquisite secondo i principi
religiosi della Shari’ah, la Legge Islamica. In base al Protocollo di Santiago, la
risposta sembrerebbe essere negativa.
Di tutte le tematiche appena citate, dei Fondi Sovrani in generale e di quelli
arabi in particolare, ci occuperemo nel corso del capitolo primo.
La seconda parte del libro invece, si concentra sulla finanza islamica, fondata
sul libro sacro dell’Islam, il Corano e sulla tradizione e predicazione di
Muhammad, Profeta dell’Islam. La vita del Profeta, nato nel 571 d.c. a Mecca,
nell’attuale Arabia Saudita, può essere divisa in due periodi; durante il primo
periodo, trascorso nella città natale, la predicazione di Muhammad affronta temi
squisitamente religiosi come l’Unicità di Dio, il Paradiso, l’Inferno, la
Resurrezione. Con la sua predicazione contro i mali del tempo, il Profeta
Muhammad si inimica i ricchi mercanti di Mecca e i sentimenti di vendetta che
animano i componenti del suo stesso clan lo costringono ad emigrare a Medina
con i suoi seguaci. L’anno della migrazione, il 622 d.c., rappresenta l’inizio del
sistema di datazione islamico. A Medina il Profeta diviene un punto di
riferimento non solo religioso ma politico ed i primi musulmani, suoi seguaci,
assumono cariche politiche e di governo della città. In questo periodo il Profeta
risolve tutta una serie di dispute che sorgono all’interno della città e la sua
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predicazione assume un connotato sempre più politico e normativo. Per questa
ragione il Corano, ovvero la Parola di Dio dettata al Profeta per mezzo
dell’Arcangelo Gabriele, contiene una serie di regole che disciplinano tutti i
campi della vita umana, ivi compresi il commercio e le transazioni di affari, le
successioni, l’organizzazione della famiglia.
Da quanto detto si comprende come l’Islam rappresenti uno stile di vita, una
visione del mondo completa e complessa che trova la sua guida nel libro sacro.
Non esiste nell’Islam una differenza tra lo Stato, le sue regole, l’economia e la
religione: tutto è din-wa-dunya, niente può essere scisso dal Corano.
Cosa è dunque, in questa ottica, la finanza islamica? Essa rappresenta una
finanza basata sul Corano, sui suoi principi, sulle sue prescrizioni.
Nell’ultimo decennio si è spesso parlato di banca e finanza islamica ma i
principi alla base dei sistemi economici islamici rimangono arcani, sconosciuti
alla maggior parte degli operatori economici. Eppure, i fedeli musulmani
rappresentano una quota significativa della popolazione mondiale, avendo
superato il miliardo di unità.
Questo libro intende rispondere ad una serie di interrogativi sulla finanza
islamica e a tal fine proponiamo una introduzione di tutte quelle regole religiose
che modellano l’economia dei Paesi islamici. Nella trattazione discutiamo la
riba, il divieto di interesse imposto ex-ante e rendiamo palese come il divieto di
interesse non implichi una economia di gratuità né tantomeno un sistema
economico arretrato nel quale il rendimento degli affari sia poco importante.
Vietando l’imposizione di un tasso di interesse slegato dai risultati
dell’investimento e affermando che si ha diritto agli utili solo laddove si
condividano i rischi del progetto imprenditoriale, il Profeta pone le basi per una
economia basata sui beni reali più che su quelli finanziari e raccomanda
l’utilizzo di schemi di partecipazione societaria. La finanza islamica non è
dunque una prohibition-driven finance, ovvero una finanza basata sulle
proibizioni, ma piuttosto raccomanda la condivisione, la chiarezza nei contratti e
negli accordi e costruisce una relazione immediata tra l’investimento, le società e
il rendimento.
Il sistema economico islamico utilizza una serie di contratti base, che Iqbal e
Mirakhor (2007) definiscono come i “building blocks” necessari per strutturare
contratti validi per transazioni più complesse. L’innovazione finanziaria, infatti,
per rispondere alle esigenze del commercio e della finanza crea in continuazione
nuove strutture, derivanti, però, dalla combinazione dei contratti della
giurisprudenza classica. L’economia islamica è dunque al passo con la modernità
ma affonda le radici in un pensiero economico e in un corpus normativo antico
di quasi quindici secoli.
Per guidare il lettore per gradi attraverso il pensiero economico islamico
abbiamo ritenuto di trattare le basi dell’economia islamica nel corso del capitolo
secondo, focalizzandoci poi sulla finanza islamica per le banche (capitolo terzo),
per le società di gestione del risparmio (capitolo quarto), per le assicurazioni
(capitolo quinto).
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Il lavoro si è avvalso della collaborazione di valenti colleghi di accademia
(Mariantonietta Intonti e Giacomo Nocera) e di esponenti del mondo del lavoro
(Mohamad Assaad Bakkar e Mark Smyth) citati in calce ai rispettivi paragrafi,
che i curatori desiderano ringraziare.
In particolare, l’argomento dei fondi comuni islamici è stato affrontato da
Mark Smyth, managing director di Failaka, società di consulenza con sede a
Dubai e Chicago specializzata sull’analisi dei fondi comuni islamici.
Mohammad Assaad Bakkar, avvocato libanese specializzato sulla finanza
islamica, si è invece occupato dei sukuk, certificati di partecipazione assimilabili,
latu sensu, alle obbligazioni.
Infine, ma non per ultimo, i curatori desiderano ringraziare la Banca Popolare di
Puglia e Basilicata per il contributo offerto per la stampa del volume.
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