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Progetto di ricerca
I contesti di esperienza della comunicazione e della formazione mobile: innovazione e re-mediazione
I CONTESTI DI ESPERIENZA DELLA COMUNICAZIONE E
DELLA FORMAZIONE MOBILE: INNOVAZIONE E
RIMEDIAZIONE
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Direttore della ricerca: prof. Luca Toschi - Ricercatrice: Laura Parigi
Laboratorio di Strategie della comunicazione - Università degli Studi di Firenze
Progetto di ricerca
I contesti di esperienza della comunicazione e della formazione mobile: innovazione e re-mediazione
ABSTRACT
Introduzione
Il digitale mobile: paradigmi o problemi?
In pochi anni, la tecnologia digitale mobile e i suoi dispositivi – laptop PC, Personal Digital
Assistant (PDA), cellulari e smart phone – hanno registrato una diffusione massiva, permeando
molteplici contesti di comunicazione: personale, sociale e professionale.
In ambito educativo, questo fenomeno ha prodotto scenari di sperimentazione che
convergono nel dichiarare un nuovo paradigma per la tecnologia educativa: il mobile learning.
Descritto da parte della letteratura come un’evoluzione darwiniana dell’e-learning, questo
paradigma contiene potenzialità ambiziose. La tecnologia che ha il vanto di stare sul palmo della
mano (handheld) rivoluziona – potrebbe rivoluzionare – il rapporto tra discente e tecnologia digitale
da moto a luogo a moto per luogo, ridefinisce - potrebbe ridefinire - nuovi spazi, digitali, reali,
virtuali, di apprendimento, crea – potrebbe creare – una dimensione temporale di sincronicità,
simultaneità, ubiquità, tra il vivere e l’apprendere.
Le coordinate di un simile paradigma pedagogico\tecnologico e comunicativo pongono un
problema, concettuale eppure empirico, all’instructional design prima ancora che ai soggetti
coinvolti nella formazione mobile. E il presente lavoro di ricerca è interessato ai problemi più che
alle formalizzazioni paradigmatiche delle potenzialità. In particolare, è interessato alle questioni
aperte dall’uso di una tecnologia di comunicazione che aggiunge al digitale un movimento
estrinseco, rendendolo meno domestico e meno asincrono, più ubiquo ed esposto alla molteplicità
dei contesti di esperienza delle persone.
A proposito di problemi, Peter Morville, padre\padrino dell’architettura dell’informazione,
afferma1 che la complessità delle interazioni tra tecnologia situata ed il comportamento dell’utente
in un ambiente ibrido digitale\non digitale renderà più difficile il controllo del rapporto tra forma e
funzione. Tra contenitore e contenuto. Tra ambiente di formazione e processi di formazione della
conoscenza.
Dopo aver registrato che già il Web 2.0 nasce definendo una crisi del sito web come
interfaccia per un’architettura d’informazione, per Morville il problema nuovo è quello creato
dall’esistenza di una rete di informazioni che non è più accessibile da una sola superficie di
trasmissione – lo schermo del computer – ma che è diventato disponibile nella tasca dell’utente,
sempre e dovunque. Di più. Morville aggiunge che il problema si complica ulteriormente quando si
prendono in considerazione sistemi informativi digitali che non reagiscono più solo al
comportamento dell’utente, ma acquisiscono dati – mediante tecnologia GPS, Bluetooth o RFID –
dagli oggetti e sugli oggetti, dall’ambiente e sull’ambiente.
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“The complexity of user experience in today’s environments is not expressed well in typical models of human-computer interaction.
HCI approaches are optimal for applications and interfaces where designers exercise great control over form and function. HII
(Human Information Interaction) approaches are optimal for networked, transmedia systems where control is sacrificed for
interoperability and findability. At the crossroads of ubiquitous computing and the Internet, users may find and interact with objects
through a variety of devices and interfaces. The context of use is difficult to predict and impossible to control. And so, the emphasis
shifts from interface to experience, and from HCI to HII “ L. Danzico, Ambient Findability: Talking with Peter Morville, Boxes
and Arrows
< http://www.boxesandarrows.com/view/ambient_findability_talking_with_peter_morville> , 31/10 /2005
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Divisioni per zero: la complessità dei problemi nuovi
Adam Greenfield ha tentato di dare un nome al problema creando il neologismo everyware.
Secondo la tesi di Greenfield, la tecnologia mobile e l’informatica pervasiva sono destinate a
svincolare il digitale dall’oggetto computer.
Gettando lo sguardo oltre le mobilities, Greenfield annuncia un mondo imminente in cui
l’informazione sarà immanente negli oggetti di uso come la lavatrice o il frigorifero. In questo
presente prossimo, di cui si ha già esperienza quotidiana quando si pensa dispositivi ampiamente
diffusi come il navigatore satellitare, la separazione tra software e hardware, tra informazione e
interazione, potrebbe farsi più sottile. Gli stessi meccanismi di feedback, oggi semplificati ad uno
stimolo-risposta tra uomo e macchina, diventano più articolati quando molti soggetti (e oggetti) si
rivelano in grado di scambiare dati.
Anche Greenfield e Morville, come la letteratura scientifica sul mobile learning, vedono
distintamente un cambiamento paradigma in atto nell’era del dopo personal computer. L’Internet
delle cose, che ci consente di comunicare a distanza, accedere alle informazioni e ricevere\inviare
dati all’ambiente in cui ci troviamo, potrebbe tirare un duro colpo alla nozione culturale di realtà
virtuale a vantaggio di quella che è definita realtà aumentata. Con il personal computer,
l’esperienza dell’utente si è formata in un processo che parte da bisogni e va alla ricerca di
strumenti e informazioni chiusi “dentro” un oggetto, filtro obbligato per la risoluzione di un
problema. E ciò che sta oltre questa porta è stato spesso percepito, coniato e studiato, come oggetto
di un altrove, un’altra dimensione dell’esperienza, più o meno equivocamente virtuale. Le
mobilities e l’informatica pervasiva riportano il digitale in un’esperienza contestualizzata nella
stessa dimensione in cui lavoriamo, viviamo, incontriamo le persone.
Definendo le potenzialità innovative di queste tecnologie, i due autori individuano i
problemi che riguardano la relazione interfaccia\informazione. Dopo aver realizzato per decenni
sistemi di accesso all’informazione per contesti statici – uffici, biblioteche – e utenti fermi davanti
ad un PC – desktop o laptop – i designer si trovano davanti il problema di progettare interfacce per
utenti in movimento. Per fare un esempio, per adattare un client di posta elettronica basta
ridimensionare l’interfaccia perché sia visualizzata nello schermo di uno smart phone, o sarà
necessario pensare a funzionalità che permettano all’utente di ascoltare l’e-mail, oltre che leggerla?
Dopo aver proiettato l’identità dell’utente nell’ambiente di comunicazione digitale attraverso
avatar e icone, le mobilities riportano al centro della comunicazione il corpo dell’utente nella
comunicazione mediata dal computer. Usare la chat su mobile può essere qualcosa di estremamente
diverso dal comunicare a distanza in tempo reale se il sistema informativo è in grado di dirmi dove
si trova il mio interlocutore, cosa lo circonda e quanto tempo impiego per raggiungerlo.
Definire lo spettro dei rapporti tra potenzialità e problemi provocati dalle mobilities e dalle
tecnologie pervasive equivale, per Greenfield a “dividere per zero”. Più realisticamente, per
l’autore, il progettista di sistemi di interazione\informazione dovrebbe imparare a pensare la
convivenza tra digitale e non digitale in maniera meno destrutturata e più sistemica.
E il progettista di tecnologie per la formazione? Quali problemi incontra migrando da
modelli consolidati dell’instructional design verso la complessità del sistema ambiente, utente,
informazione prodotta dalle mobilities?
Il rischio che corre è quello di cadere in due tentazioni. La tentazione dividere per zero,
ipotizzando, per l’apprendimento, ambienti e sistemi di conoscenza che, anziché naturalizzare la
tecnologia, possono provocare crisi di rigetto. Oppure può assecondare la tentazione opposta, quella
di riservare a mobilities e informatica pervasiva esclusivamente la valenza della comodità,
riciclando learning object, assett e pacchetti scorm perfetti per un certo tipo di e-learning in un
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ambiente di apprendimento radicalmente diverso: la classe virtuale.
Se esiste un cambiamento di paradigma indotto dalle mobilities quest’ultimo lascia
immaginare non una ma più rivoluzioni copernicane nell’uso delle tecnologie digitali per la
comunicazione formativa e la didattica. In primo luogo nella dinamica relazionale tra formatore,
soggetti che apprendono e tecnologia: quando il digitale diventa portatile e raggiunge la classe in
aula, nell’edificio scolastico, o in altri contesti e situazioni sul campo, la tecnologia potrebbe
naturalizzarsi in ogni attività formativa e non restare un evento isolato, alternativo agli altri contesti
della didattica. Con l’introduzione di un uso situato del mobile – PDA e cellulari – o di altri
strumenti digitali per la didattica, come la lavagna multimediale interattiva, l’insegnante potrebbe
interporsi, intromettersi, tra il discente e l’oggetto tecnologico. Portato in classe, persino l’elearning, potrebbe risultare risultare meno esposto al ruolo antipatico di metodologia-surrogato, di
soluzione digitale per la formazione a distanza, per diventare strumento attivo della didattica
frontale, quasi a creare una soluzione blended che non alterna momenti online\offline, ma li rende
sincroni. Con le mobilities e l’informatica pervasiva, infine, l’ambiente di comunicazione e di
apprendimento potrebbe essere qui, nella First Life delle esperienze non esclusivamente digitali, e
non essere relegato esclusivamente al virtuale, grafico e metaforico là popolato dai mondi virtuali
delle “vite secondarie”.
Ipotesi, queste, in parte già tratte a conclusione da alcuna letteratura e documentazione sul
mobile learning che, attraverso studi di caso e reportistica sulle sperimentazioni condotte, trova
conferme all’efficacia dei progetti e delle applicazioni prodotte. Da qui, il paradigma nuovo.
Il presente lavoro recupera quel “se” ipotetico iniziale alla luce del quale rileggere la
letteratura scientifica sull’apprendimento mobile e tenta di riscrivere una delle molte risposte
attraverso alcune esperienze significative di mobile learning. Le finalità di questo lavoro sono
molteplici. La prima è quella di comprendere meglio come la letteratura descrive il cambiamento
paradigma prodotto dal mobile learning nell’ambito delle tecnologia di comunicazione e
formazione. Secondariamente, l’analisi condotta intende identificare gli elementi di continuità e di
rottura tra il paradigma del mobile learning e i precedenti.
Lo studio, in parte dedicato alla ricostruzione di uno status artis, in parte condotto in qualità
di studio teorico, asseconda la premessa che un paradigma nuovo non possa esimersi dal definire la
differenza con il vecchio. Nell’analizzare come la letteratura scientifica sul mobile learning stia
demarcando questa differenza si farà uso delle nozioni di spostamento (shift) e salto.
La prima che risale alla definizione di paradigm shift coniata da Thomas Kuhn ne La
struttura delle rivoluzioni scientifiche2. Data la tecnologia come elemento di rottura e crisi a quali
paradigmi ed applicazioni di mobile learning è possibile attribuire lo stato di “scienza normale” 3? E
in quali casi è invece auspicabile preservare l’opinione di una condizione pre-scientifica della
letteratura? In quali altri casi, invece, la crisi e la rottura non avvengono affatto?
I criteri applicati da Kuhn per diagnosticare uno stato di crisi e lo spostamento del
paradigma nascono, appunto, dai problemi. Se il paradigma a cui ci riferiamo per progettare l’uso di
tecnologie nella comunicazione e nella formazione non è in più in grado di risolvere problemi che si
pongono, se i fenomeni creano un numero significato di anomalie che il paradigma non è più in
grado di ricondurre all’errore, allora il mobile-learning produce uno spostamento. Tuttavia per
Kuhn, a scanso di relativismi facili, un paradigma nuovo non è solo differente: lo spostamento è
2
Kuhn, T.S. The Structure of Scientific Revolutions. Chicago: University of Chicago Press, 1962. [trad.it Thomas S. Kuhn, La
struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1969)
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avvenuto quando il paradigma è “migliore”.
In quel caso, la tecnologia mobile, o meglio il suo utilizzo, contribuisce ad un salto di
sistema [Toschi, 2006]. Diversamente essa « [gioca] la carta dell’innovazione tecnologica come
garanzia di una rivoluzione continua ». Il salto di sistema di Toschi si produce in una riscrittura del
reale nel rapporto testo\grammatiche. Affermando, a proposito della rivoluzione digitale, che
l’innovazione non è determinata dalla digitalizzazione del mondo, ma dal modo in cui la tecnologia
informatica ha cambiato l’idea stessa di mutamento, Toschi sostiene: «Questa nuova idea di
trasformazione [..] si trova putroppo a fronteggiare gli sforzi ingannatori che la cultura dominante
che sta [..] giocando la carta della velocità dell’innovazione tecnologica come garanzia di una
“rivoluzione continua”» La novità, l’innovazione autentica, per Toschi, consiste nella capacità del
digitale di mettere in discussione, di riscrivere una grammatica del reale.
La tesi di Toschi incontra il cuore dei problemi sollevati da Morville e Greenfield. La sottile
linea di confine tra quelli che Morville definisce meatspace e cyberspace, prodotta dalle mobilities,
sperimenta solo gli inizi di un’ibridazione e i suoi molti problemi: interfacce piccole, dispositivi
fragili, inadatti ai contesti della vita quotidiana, sistemi di accesso e scrittura, come lo speech to
text, inadeguati all’ambiente in cui dovranno essere utilizzati, spesso rumoroso. Tuttavia, pensando,
per esempio, a tecnologie di localizzazione come il GPS, la riscrittura delle coordinate
spazio\temporali appare più fattuale e meno aspettativa.
La riscrittura è un problema che ha fretta di trovare un suo paradigma: ma, calandosi nei
mestieri dell’architetto dell’informazione, del progettista di interfacce e, infine, dei designer di testi
e grammatiche della formazione, la ricerca di una nuova gamma di relazioni ha la necessità di
diagnostica l’innovazione autentica, da un’innovazione “commerciabile”, affinchè la scrittura del
reale non sia solo un testo sgrammaticato.
Per esempio, simulazione e mobile: un salto verso le “first lives”?
Cosa accade ad una simulazione – ad esempio ad un modello che simula la diffusione di un
virus e le dinamiche del contagio presso una popolazione - quando dal “pianeta piatto” dello
schermo bidimensionale del computer è trasferita in un contesto “reale”, come una classe, una
scuola o una sperimentazione sul campo?
Una simulazione sullo schermo, che ipotizziamo finalizzata ad un’esperienza di
apprendimento attivo e partecipato più che ad un apprendimento di tipo osservazionale, ha, per
quanto complessa, un numero di elementi controllati: ambienti, eventi, ostacoli, condizioni,
comportamenti, attori. Per gli attori che partecipano, l’obiettivo del gioco è evitare di essere
contagiati dal virus che si diffonde incontrando quante più persone possibili. A questo obiettivo la
simulazione offre, supponiamo, una città con strade e palazzi che può essere realizzata utilizzando
da semplici informazioni testuali – come nei MUD – fino sofisticate realizzazioni di grafica
tridimensionale. In questo ambiente, l’attore sceglie un avatar attraverso cui si proietta
nell’esperienza della simulazione. Qui, l’utente decide di muovere il suo personaggio e di incontrare
altri avatar, sani o infetti, esponendosi al rischio del contagio. E per realizzare una verosimiglianza,
la simulazione riproduce alcune condizioni del fenomeno reale, come, ad esempio il tempo di
incubazione o gli effetti di alcuni comportamenti igienici sulle dinamiche del contagio.
L’esperienza avviene in un modello semplificato di un fenomeno complesso in cui vi è la
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L’esempio ricalca Virus, una sperimentazione di simulazione partecipata, realizzata nel 1998 dal MIT Teacher Education
Program con l’uso di PDA e di speciali badge per la rilevazione di dati ambientali. Vedi Participatory Simulations:
Exploring Dynamic Systems through Real World Interactions
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ragione d’essere stessa della simulazione: gli eventi, prodotti dalla combinazione di una serie di
variabili, definiscono i contesti e le situazioni controllate in cui il contagio del virus può accadere
ed infettare l’avatar.
Nella simulazione di sintesi i partecipanti imparano a non farsi contagiare riconoscendo i
contesti rischiosi: più che l’abilità nel prendere decisioni, l’ambiente simulato esercita un’abitudine
cognitiva a reagire in presenza di situazioni note. Non a caso, queste applicazioni nascono e si
affermano come un efficace strumento di addestramento\apprendimento, come applicazioni
tecnologiche che allenano il pensiero "concreto” attraverso un paradigma di e-learning by doing.
Se si concorda nel dire che l’efficacia di una simulazione, tuttavia, è legata al grado di
realismo che riesce riprodurre, la simulazione di sintesi segue due binari per ottenere l’impressione
di realtà:
1. la produzione di un realismo percettivo o simbolico\metaforico che cresce a livello di
dettagli e di ipermedialità, ma resta pur sempre proiettivo e mai immersivo,
2. la determinazione di un realismo dell’evento che la simulazione di sintesi ottiene
calcolando la probabilità di accadere su un insieme definito, più o meno complesso,
di eventi prevedibili.
Situata in un contesto reale, la stessa simulazione richiede le medesime coordinate per
definire lo spazio di apprendimento? La sua efficacia dipende dallo stesso criterio di realismo? E i
modelli di progettazione dell’attività e della tecnologia correlata, possono restare gli stessi?
In primo luogo, delle coordinate attore, evento, situazione, ambiente l’ultima è per così dire
data in natura. Con le tecnologia digitale portatile, lo sforzo raggiungere un realismo ambientale
sul piano visivo e percettivo oppure simbolico, metaforico, è risolto dal contesto in cui l’evento
formativo ha luogo.
L’applicazione Virus, sviluppata dal MIT Teacher Education Program nel 1998, realizza
l’esempio ipotizzato senza costruire un intero ambiente in cui si svolge la simulazione, ma
limitandosi a determinare l’obiettivo del gioco e una serie di parametri e condizioni che riguardano
l’unico elemento di finzione: il virus.
Il virus, che si trasmette attraverso il contatto di speciali rilevatori o mediante tecnologia
Bluetooth condiziona lo stato del giocatore; sano, malato, in incubazione o in convalescenza.
Durante il gioco, la simulazione traccia il comportamento del contagio raccogliendo dei dati sui
contatti tra le persone e la diffusione del virus da cui ricavare il modello astratto di un’esperienza
concreta. A differenza di quanto accade nelle simulazioni di sintesi, questa esperienza può essere
vissuta in classe, limitando la simulazione di contagio a pochi soggetti chiusi in uno spazio ristretto.
Oppure può essere realizzata nell’edificio scolastico, aumentando, nell’esperimento, la popolazione
dei soggetti esposti al contagio in uno spazio più ampio. Infine, può essere prolungata oltre l’orario
scolastico, magari per una settimana, e ambientata fuori dalla scuola esponendo la popolazione dei
soggetti a contagi simulati dovuti a contatti occasionali, che accadono in situazioni imprevedibili.
Sebbene le variazioni di scala siano prevedibili anche in una simulazione di sintesi, la
possibilità di portare il virus simulato nell’ambiente reale di esperienza crea un contesto di
apprendimento autenticamente immersivo. Anziché proiettarsi nella condizione di essere, ad
esempio, il vicino di casa virtuale di compagno di scuola, lo studente coinvolto in questa
simulazione effettivamente è vicino di casa. Una simulazione di sintesi complessa potrebbe esporre
i due vicini di casa ad un contagio virtuale: nell’ambiente di simulazione e per il tempo di durata
della simulazione. La simulazione basata su tecnologia mobile, come nella vita reale, espone i due
vicini in qualunque momento, in qualunque luogo.
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Dirompenti \ evolutive: la misura dell’innovazione tecnologica
In The invisibile computer5, Donald Norman sostiene:
«La maggior parte dei settori tecnologici presenta un modello evolutivo che attraversa
svariate generazioni. Gran parte di essi presenta uno sviluppo a carattere incrementale che
offre tecnologie più efficienti per svolgere lo stesso lavoro all’interno del vecchio
paradigma. Altri invece sono dirompenti [..]. Tali cambiamenti sono quelli che trasformano
la vita della gente…»
A dispetto delle affermazioni di Thomas Kuhn, che considerava il suo lavoro teorico
applicabile esclusivamente alle discipline scientifiche, il paradigm shift è stato “preso in prestito”
dalle scienze sociali e dagli studi umanistici. E, infine, dal design 6. Lo status di questa disciplina,
erede delle arti applicate, ma anche scienza del dar forma, ripristina attraverso la funzionalità
dell’oggetto d’uso un collegamento con l’idea originaria di Kuhn di crisi e incommensurabilità tra
paradigmi: se l’innovazione funziona ed è utile, la crisi del paradigma può dirsi superata.
La nozione di tecnologia dirompente elaborata da Norman è un altro piano dell’idea di shift
del fisico e filosofo della scienza statunitense e al salto sistemico di Toschi. Le tecnologie si
trasformano migliorando oppure inventano nuove relazioni tra gli oggetti (testi?) ed i loro contesti
d’uso (grammatiche?). Il fonografo, cita ad esempio Norman, ha evoluto le sue prestazioni
passando dai cilindri ai dischi, dalle macchine acustiche a quelle elettroniche. Tuttavia non è
cambiata, nel corso dell’evoluzione, la sua funzione di uso: riprodurre suoni registrati su supporto.
«La radio, invece, ha rappresentato una trasformazione dirompente [..] Prima dell’avvento
della radio, l’unica possibilità di ascoltare a casa musica e altre forme di intrattenimento era il
fonografo e, di conseguenza, ogni famiglia ne possedeva uno. Invece con la radio era possibile
ascoltare concerti, notiziari, diversi tipi di intrattenimento per ore e ore, per di più gratis. »
Meno teoretica del paradigma di Kuhn, la tecnologia dirompente di Norman è altrettanto
morale: non basta che sia diversa da una tecnologia precedente, è necessario che la sua applicazione
scriva una relazione tra l’oggetto (testo) e i suoi usi (grammatiche) che non prima non esisteva.
Mobile Virus: ipotesi per la diagnosi di un paradigma
E per quanto riguarda le mobilities? Se sono tecnologie dirompenti, come migliorano il
nostro modo di vivere, comunicare, e infine di insegnare e di apprendere? Se applicazioni come
quella sviluppata dal MIT Teacher Education Program aggiungono elementi di innovazione
autentica, quali sono e come creano un paradigma nuovo e migliore?
1. La simulazione Virus consente all’insegnante di condurre una simulazione fuori degli spazi
soliti della classe e del laboratorio. La possibilità di fare didattica sul campo, tuttavia, è
realizzabile anche senza l’ausilio delle tecnologie digitali.
2. Virus può far durare l’esperienza oltre la durata della lezione: tuttavia, le tecnologie di
comunicazione mediata dal computer, e l’e-learning nella sua forma blended, consentono a
5
Norman D., The invisible computer, The Mit press, Cambridge, Massachussets, 1998 [Trad. It. Il computer invisibile, Milano
Apogeo 2005]
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Anche nei testi precedentemente citati di Morville e Greenfield, lo spostamento di paradigma è preso in prestito dalla
disciplina del design e dalle sue discipline più specialistiche: design dell’interazione, design dell’informazione, design
della formazione.
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I contesti di esperienza della comunicazione e della formazione mobile: innovazione e re-mediazione
docente e allievo di prolungare la didattica.
3. Utilizzando dispositivi di raccolta dati7, l’esperienza didattica realizzata con Virus può
trasformare contesti di vita quotidiana in simulazioni complesse da cui derivare modelli
sistemici. Nell’esperienza raccontata da Colella, Borovoy e Resnick 8 Thinking Tags sono
stati indossati dai partecipanti durante la simulazione. Ciascun dispositivo è stato
predisposto per contenere informazioni sullo stato della persona che lo indossava: infetto,
sano, immune. Attraverso questi dispositivi, gli studenti che hanno preso parte alla
simulazione, hanno raccolto dati sulla dinamica del contagio semplicemente interagendo tra
loro in situazioni di vita quotidiana a scuola. L’elaborazione dei dati raccolti, avvenuta in un
secondo momento, ha consentito loro di elaborare il comportamento di un sistema
complesso partendo dall’esperienza concreta.
Quest’ultima situazione è una situazione nuova? Per diagnosticarlo, proviamo ad elaborare
un’ipotesi di metodo. Lo faremo ricorrendo a tre criteri che derivano dai concetti di novità
(tecnologica, sistemica, paradigmatica) elaborati dagli autori introdotti nei paragrafi precendenti:
a. Il criterio derivato da Norman: il mobile learning è una tecnologia dirompente?
b. Il criterio derivato da Toschi: il mobile learning scrive una nuova grammatica del reale?
c. I criteri derivati da Kuhn: il mobile learning
 produce anomalie significative tali da giustificare una crisi dei paradigmi vecchi?
 determina un paradigma migliore e non solo diverso dal precedente?
Virus: il criterio di Norman
L’uso dei badge Thinking Tags nella simulazione partecipata permette di raccogliere dal
contesto reale uno stesso set di dati predisposti dal fenomeno simulato. Nell’apprendimento situato
sul campo, un’esperienza analoga può essere condotta anche senza l’uso di alcuna tecnologia
digitale, cioè con semplice carta e matita, lasciando gli studenti liberi simulare e osservare il
fenomeno in contesti diversi. Paradossalmente, i Thinking Tags, possono essere valutati come
tecnologia dirompente (soddisfazione del criterio di Norman) in quanto risolvono un’involuzione
dell’esperienza di apprendimento prodotta dalle simulazioni di sintesi. La simulazione
“videogiocata”, infatti, è vincolata a sessioni che impongono condizioni restrittive all’utente e al
docente i quali devono trovarsi davanti al computer, pianificare una presenza in sincrono
nell’ambiente di simulazione digitale e interagire attraverso le funzioni programmate dal gioco.
Indipendentemente dal livello di complessità di quest’ultimo, la tecnologia dei badge, come altre
applicazioni mobile, restituiscono agli utenti una maggiore libertà di movimento che la tecnologia
digitale desktop aveva sottratto. In più, rispetto alla simulazione realizzata con carta e penna, gli
studenti possono manipolare dati digitali, seguire una sceneggiatura di interazione aperta, ma basata
sul modello del fenomeno simulato – il virus – e infine elaborare attraverso strumenti informatici i
modelli matematici raccolti nell’esperienza di apprendimento.
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Il riferimento qui è a Thinking Tags, piccoli dispositivi informatici a tecnologia infrarossa, creati dal Things That Think
Consortium al MIT Media Lab.
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Colella, Borovoy e Resnick, Participatory Simulations: Using Computational Objects to Learn about Dynamic Systems, CHI 98
conference summary on Human factors in computing systems, 1998
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Virus: il criterio di Toschi
A soddisfazione del criterio di Toschi, la relazione tra contesto ambientale e fenomeno
simulato implica una nuova grammatica del reale. L’attività svolta attraverso il software Virus e i
Thinking Tags, infatti, è in parte simulazione –modello dinamico, astratto e computazionale del
virus – in parte fenomeno autentico di cui gli studenti hanno esperienza concreta. Questo crea un
problema rispetto alla definizione, convenzionale e semplificata, di simulazione didattica come
modello di realtà a complessità ridotta per la comprensione e lo studio. I dati raccolti attraverso i
badge Thinking Tags sono ottenuti dal comportamento autentico: i contatti accidentali, le strette di
mano, le conversazioni, gli incontri, le situazioni in cui concretamente un virus potrebbe essere
trasmesso. La carica virale, la durata dell’incubazione, le condizioni di immunità di un soggetto
sono invece dati simulati.
La constatazione è sterile se ci si limita ad affermare che l’”ibridazione” tra le due tipologie
di esperienze è un contesto nuovo, pertanto intrinsecamente innovativo. Al momento esso
rappresenta, più che una potenzialità, un problema. Nell’esperienza di apprendimento esaminata
solo il virus si comporta secondo un modello a complessità ridotta, mentre l’utente si trova
immerso nel contesto complesso delle interazioni reali. La convergenza di queste due tipologie di
dato verso un unico sistema di comunicazione mira a produrre una condizione di realtà aumentata9,
ma rischia di realizzare un effetto di realtà ridotta, nella sua complessità, se a dominare le
interazioni sono poche, semplici, variabili caratterizzanti il modello virus.
In altre parole, la realizzazione della simulazione del virus gioca un ruolo chiave nello
spostamento di questa esperienza di apprendimento dalla simulazione all’esperimento o viceversa.
Da un lato, infatti, la situazione soddisfa le condizioni sperimentali: gli studenti partecipano ad un
fenomeno osservandolo, raccogliendo dei dati, stabilendo delle grandezze fisiche, formulando e
verificando ipotesi. Dall’altro, la situazione si svolge riferita ad un modello di realtà modello di
realtà, e non ad una realtà reale. Se questa esperienza di apprendimento è un esperimento, l’uso di
un virus simulato a complessità estremamente ridotta può invalidare la percezione di
verosimiglianza, o meglio, di veridicità dell’esperienza: i modelli matematici del fenomeno prodotti
da questa interazione tra simulazione e realtà, e l’intera esperienza di apprendimento, potranno
risultare quindi poco significativi. Per evitare ciò, occorre ripensare la grammatica della relazione
tra digitale e non digitale sulla base di simulazioni ad alto grado di complessità e fortemente
dinamiche. La sceneggiatura aperta della simulazione\gioco non basta più e forse occorre progettare
un interlocutore intelligente, abbastanza complesso da poter eseguire azioni anziché subire effetti
[Dennett, 1996].
Se, invece, l’attività che stiamo realizzando con i Thinking Tags è un’attività di educazione
sanitaria e l’obiettivo di instructional design è quello di consolidare alcuni norme igieniche da
tenere presenti quando è in corso la diffusione, la simulazione non ha necessità di raggiungere
livelli di complessità elevata. Più che la verosimiglianza del rapporto tra dati “digitali” e dati
recuperati dal contesto reale, è importante l’azione nel modello di simulazione conduca ad un
apprendimento riflessivo [Activy Theory, Jonassen 2002].
Virus: il criterio di Kuhn
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Con l’espressione realtà aumentata si fa riferimento qui alla definizione di augmented reality quale settore di ricerca che
combina dati generati dal computer con i contesti di realtà. Da questa definizione generica, Mark Weiser , ricercatore
presso lo Xerox Palo Alto Research Center, ha elaborato una concezione di realtà aumentata quale embodied virtuality
che ha anticipato la denominazione di informatica pervasiva – ubiquitous computing.
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Prima di definire se il livello di innovazione introdotto dalla tecnologia dei Thinking Tags è
tale da giustificare l’invecchiamento di un paradigma esistente, occorre però capire se questa
tecnologia dirompente che implica una nuova scrittura del rapporto tra simulazione digitale e
contesto reale di apprendimento, soddisfa anche i criteri di Kuhn. Quali sono, rispetto
all’instructional design, le anomalie introdotte dall’uso di questa tecnologia? Si tratta di anomalie
realmente significative? E, infine, come migliorano, questi nuovi strumenti tecnologici e
concettuali, la progettazione e la realizzazione di esperienze di apprendimento?
La possibilità di riguadagnare una libertà di movimento, che soddisfa il criterio di Norman,
è, come abbiamo visto, un’anomalia anomala: non solo mette in crisi il vecchio paradigma della
simulazione/virtualizzazione, ma forse ci dice addirittura che è sbagliato. Quando, attraverso le
mobilities, l’apprendimento riesce a riconquistare una dimensione peripatetica proibita dalla
stanzialità delle tecnologie desktop, questo ci dice che anche autori autorevoli come Pierre Levy
probabilmente hanno corso troppo nel fare della necessità digitale una virtù. Perché abbiamo
creduto di essere altrove, fuori dal ci [Levy, 1997], quando potevamo essere solo lì: davanti al
computer e connessi in rete? E perché abbiamo ritenuto che il digitale, nel determinare un distacco
dell’esperienza dal qui e ora, facesse qualcosa di buono per la simulazione, quando la simulazione
serve ad avere un’esperienza concreta di un fenomeno e ad apprendere percettivamente oltre che
simbolicamente[Antinucci, 2001]?
Facendoci indossare un occhiale galileiano, i Thinking tags e le mobilities, nel loro piccolo,
fanno apparire la cybercultura come un sistema tolemaico delle potenzialità del digitale e
ridefiniscono la portata di innovazione che la simulazione di sintesi su PC ha introdotto
nell’apprendimento: più percettiva di un libro, certo, – si guarda, si ascolta, si muove il mouse –, ma
meno percettiva e motoria della simulazione con le mobilities che immergono il soggetto nel
contesto naturale a cui accede con tutti i suoi sensi.
Questa prima anomalia, dunque, provoca un felice spostamento a ritroso del paradigma
culturale, se non scientifico, in cui si progetta l’esperienza di simulazione nell’apprendimento.
L’apprendimento esperienziale non è più costretto alla percezione ridotta – e falsificata –
dell’interfaccia grafica, spesso altrettanto astratta e simbolica quanto la pagina del libro, ma torna ad
assomigliare di più a quell’apprendimento di bottega, dove maestro e allievo condividono la stessa
realtà.
Attraverso il digitale, l’apprendimento di bottega guadagna una relazione più stretta tra la
dimensione esperienziale e la conoscenza di tipo simbolico ricostruttivo. Il Participatory
Simulations Project, sperimentazione nella quale Coltella ha utilizzato i Thinking Tags era
finalizzato proprio ad osservare come l’uso di wearable computers potesse facilitare il processo di
elaborazione di regole formali attraverso la raccolta di dati da un’esperienza attuale:
«Participatory Simulations combines the notion of a "formal sandbox", or microworld in
which models can be run, with the affordances of real world experience. By involving a large
number of students (typically between 15 and 30) in a physical, "life-sized" experience, the project
brings a microworld off of the computer screen and into a child’s world.[..] »
Nell’esperienza riportata da Colella, gli studenti coinvolti nella simulazione hanno utilizzato i dati
raccolti attraverso i badge per elaborare affermazioni sull’andamento del fenomeno. Attraverso il
confronto delle analisi realizzate, il gruppo ha potuto verificare quando le affermazioni erano
contraddittorie e come, attraverso la collaborazione, l’esperienza poteva elaborare una teoria.
Ciò che abbiamo guadagnato attraverso le mobilities, implica per l’instructional design un
diverso modello di progettazione dell’apprendimento esperienziale. Al centro del focus non sta più
il problema di costruire un’interfaccia realistica e un modello computazionale del fenomeno che
risulti verosimile in quell’ambiente di sintesi. Il problema, ora, è creare la simulazione di un
fenomeno che sia verosimile rispetto alla finalità dell’esperienza di apprendimento situata nel
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contesto reale.
Il problema ci porta alla seconda anomalia che abbiamo preso in esame, ossia la relazione tra
dati prodotti dalla simulazione digitale e dati raccolti dal contesto naturale dell’esperienza. In
realtà, la relazione tra dato e interfaccia digitale è un fatto che appartiene al dominio della
comunicazione mediata da qualunque computer, incluso un “vecchio” desktop utilizzato
saltuariamente, offline, in un laboratorio. Attraverso l’interazione, valvola di comunicazione
attraverso la quale transitano input e feedback, il comportamento analogico dell’utente dialoga con i
dati digitali.
Nel caso della comunicazione digitale prodotta dai Thinking Tags si verifica qualcosa di
diverso? Nella Partecipatory Simulation di Colella, la diffusione del contagio avviene attraverso
trasmissioni di informazioni tra badge attraverso tecnologia infrarossi. Agli studenti è stato richiesto
di incontrare più persone possibili senza ammalarsi e di tenere traccia degli incontri. Affinché gli
studenti possano indurre le regole formali del fenomeno, non è stata fornita nessuna informazione
su come il virus si diffonda, o meglio su quali dati i Thinking tags si scambino tra loro.
Nel sistema di comunicazione realizzato da questo esperimento, il comportamento degli
utenti produce dati che sono scambiati tra:
 badge e badge
 utente e badge
 utente ed utente
La peculiarità della Partecipatory Simulation di Colella è quella di aver creato
un’interazione opaca all’utente – tra badge e badge – per trasformare la simulazione da un
apprendimento di verifica ad un’esperienza di induzione. Se il livello di immersione nel contesto
reale marca una differenza sostanziale tra l’esperienza situata e un’esperienza simile condotta, ad
esempio, in ambiente in grafica 3d, sul piano dell’interazione la stessa opacità può essere realizzata
in un ambiente interamente sintesi: anche una simulazione partecipata sullo schermo può
nascondere, ad esempio, la variabile del tempo di incubazione del virus e lasciare che siano gli
studenti a calcolarlo. Dire che i Thinking tags, rispetto a questa presunta anomalia, producono la
crisi di un paradigma, sarebbe dunque indossare gli stessi occhiali miopi che ci portano a
considerare una simulazione virtualizzata un contesto immersivo e percettivo per l’apprendimento
esperienziale.
La modalità di scambio dei dati, dunque, non produce alcuna crisi. Una differenza più
significativa, invece, è quella che riguarda il dispositivo di interazione, ossia i Thinking Tags, che
contribuiscono a realizzare questa interazione opaca dall’ambiente simulato, al comportamento
simulato. Considerarli un semplice un dispositivo di gioco, alla stregua di un dataglove o di un
dispositivo Wii, sarebbe un errore perchè questi strumenti non comunicano all’ambiente come
modificarsi in funzione del comportamento utente, non trasferiscono una sua intenzione, ma
rappresentano e modificano la sua condizione di stato nel gioco stesso. Essi sono, piuttosto,
l’interfaccia tra il modello di simulazione – virus – e il contesto reale dell’apprendimento:
modificano l’interazione tra le persone e tra le persone e il fenomeno simulato.
Due su tre, la tecnologia dei Thinking Tags, produce anomalie significative rispetto alla
simulazione di sintesi. Due su tre, le anomalie complicano la vita dell’instructional designer. La
quarta e ultima anomalia, tuttavia, pone il problema più grande, specie se l’instructional designer è
intenzionato a soddisfare il requisito che Kuhn impone per realizzare il paradigm shift: il nuovo
modo di progettare esperienze di apprendimento è migliore dei precedenti e non solo “diverso”.
La quarta ed ultima anomalia che prenderemo in esame riguarda la natura dell’esperienza di
apprendimento analizzata: la Partecipatory Simulation realizzata da Colella è ancora una
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simulazione? La raccolta dei dati sulla diffusione del virus, la formazione delle ipotesi, la loro
verifica sono le condizioni di un esperimento reale solo perché realizzate in un contesto di realtà?
L’autrice, instructional designer dell’esperienza, risponde di no: la Participatory Simulation evolve
il livello di complessità delle simulazioni, ma non crea nessuna realtà ibrida. Meno
paradigmaticamente, e più praticamente, crea le condizioni per simulare la progettazione di un
esperimento.
«[..] students are engaged in collaborative experimental design. Experimental design is one
of the crucial skills of scientific practice. Unfortunately students typically have few opportunities to
practice this difficult task, and it remains out of the reach of many science students.»
Se la sperimentazione di Colella introduce un salto, la responsabilità non è dei thinking tags,
quanto della strategia instructional design adottata: anziché allenare al pensiero pratico,
l’esperienza proietta il soggetto che apprende verso l’elaborazione di un pensiero astratto e
riflessivo e la simulazione introduce elementi di complessità a cui può rinunciare quando la si
riduce ad rappresentazione troppo semplificata di meccanismi nel “mondo piatto” dello schermo di
un PC.
Mobilities e apprendimento: lo stato dell’arte
La Participatory Simulation di Colella è una sperimentazione pionieristica delle mobilities
in ambito educativo. Condotta presso i laboratori di ricerca del MIT nel 1998, precede di alcuni
anni la diffusione sul mercato dei dispositivi informatici portatili multimediali – PdA e smartphones
– e di tecnologie di connessione wireless.
In meno di dieci anni, lo scenario delle tecnologie disponibili è profondamente cambiato. I
cellulari si sono ridotti di dimensioni diventando sempre più portatili ed ubiqui. La possibilità di
comunicare in qualunque momento\in ogni luogo è diventata una necessità [Marrone, 2004] e il
cellulare, da strumento di conversazione telefonica, si è trasformato, come afferma Ferraris nella
sua ontologia del telefonino10, in strumento per registrare iscrizioni - uno strumento di scrittura. Sul
piano delle funzionalità, i moderni smartphones tendono a convergere con i Personal Digital
Assistant ed entrambi ambiscono a rendere maneggevoli le prestazioni dei laptop PC: si collegano
ad Internet, sono utilizzati per scrivere messaggi, chattare, gestire l’agenda personale, annotare
appunti, registrare audio e video.
Infine, le tecnologie mobili sono divenute tecnologie di connessione e di localizzazione.
\Standard e protocolli per la comunicazione tra le reti, come il WAP (wireless application protocol),
UMTS e 3G, hanno collegato i telefoni cellulari alla rete Internet creando accesso in movimento
alle informazioni del World Wide Web. Come per i Thinking Tags di Colella, la connettività dei
dispositivi mobili alla rete ha segnato il superamento di un’involuzione che, forse, era sfuggita alla
cybercultura: ossia che l’informazione a stampa – libri, riviste, quotidiani - è stata a lungo molto più
portatile e accessibile della tecnologia digitale.
Per il knowledge management, l’accessibilità alla rete delle mobilities ha significato una
reificazione delle potenzialità del just in time. La diffusione di sistemi come il GPS (Global Position
System) o GPRS, che consente di individuare la posizione di un dispositivo informatico o di un
apparecchio mobile, hanno aperto il mercato a servizi informativi just in place, basati sulla
localizzazione: dall’elenco dei ristoranti più vicini, all’SMS che informa un guidatore quando si
crea un ingorgo nel traffico, al navigatore che consente di scegliere la strada più breve per giungere
a destinazione. Altri standard, come il Bluetooth, mettono in comunicazione dispositivi che si
trovano nello stesso raggio di copertura (da 10 a 100 metri) e sottraggono alla comunicazione
mediata dal computer la peculiarità di essere tecnologia della comunicazione a distanza: sono
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Ferraris M., Dove sei? Ontologia del telefonino, Milano, Bompiani, 2005
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utilizzati, infatti, per scambiare file di dati digitali – dalla suonerie ai documenti di lavoro – nei
contesti di comunicazione faccia a faccia.
Howard Reinghold11 dichiara una “next social revolution”: come nel passaggio dal
mainframe al personal PC, le mobilities hanno raggiunto bacini di utenza tecnologicamente meno
alfabetizzati e hanno allargato la consuetudine alla comunicazione digitale. E mentre il telefono
cellulare si trasforma in un computer sempre più portatile, l’informatica mobile si configura come
un rito di passaggio verso l’informatica pervasiva.
In questo scenario, i Thinking tags possono apparire anacronistici, ingombranti e buffi
prototipi del Bluetooth. Tuttavia, a dispetto della tecnologia, l’applicazione realizzata da Colella
rimane un esempio evoluto e avanzato di quello che l’instructional design può fare superando i
vincoli del desktop computer.
La letteratura scientifica sull’impiego delle mobilities e lo scenario di sperimentazioni che
essa descrive, infatti, non riguardano solo soluzioni tecnologicamente avanzate di simulazione o di
apprendimento situato. La gamma di applicazioni di tecnologia mobile in ambito educativo soddisfa
una varietà ampia di bisogni e finalità.
Lo Standford Learning Lab, uno dei maggiori attori nel mercato della distance learning
statunitense, ha sviluppato modelli di mobile learning per l’apprendimento della lingua inglese,
realizzando la portabilità, l’adattamento, dei contenuti e delle metodologie utilizzate nell’e-learning:
quiz, glossari, tutor in sincrono per migliorare la pronuncia, audio interattivi da fruire on-demand.
Il progetto M-learning IST Project, sperimentato in Italia, Svezia ed Inghilterra tra il 2001 e
il 2003, ha utilizzato cellulari e smartphones per contrastare la dispersione scolastica. Alle
mobilities, in questa sperimentazione, è stato attribuito un ruolo strategico nella comunicazione tra
formatore e docente: il telefono cellulare è stato semplicemente il medium – personale – che ha
consentito a giovani adulti a rischio di abbandono scolastico di migliorare nella scrittura e
nell’apprendimento della matematica attraverso un sistema di comunicazione SMS con il tutor in un
ambiente informale.
Diversamente MOBIlearn, progetto europeo capitanato da Giunti Interactive Labs, ha
utilizzato il mobile per realizzare programma educativo di argomento sanitario destinato alla
formazione di volontari per il primo soccorso ed un sistema di accesso ad informazioni a supporto
di questi ultimino in caso di emergenza: una convergenza di lifelong learning e just in time
knowledge management che ha utilizzato le potenzialità pervasive del telefono cellulare.
A Taiwan, infine, un consorzio di Università ha sperimentato l’uso di PDA nell’osservazione
sul campo realizzando un’applicazione basata sul riconoscimento automatico di immagini:
sperimentata nell’ambito delle lezioni di scienze naturali, l’applicazione ha supportato gli studenti
nell’osservazione e nel riconoscimento diverse specie di farfalle. L’esperienza, a metà strada tra
l’autoformazione e l’apprendimento situato, è stata definita dai ricercatori [Chen et Al., 2004]
indipendent learning.
Nei quattro esempi di applicazione, che certo non rappresentano tutta la fenomenologia del
mobile learning, i vecchi paradigmi di comunicazione e apprendimento mediati dalle tecnologie
incontrano la stessa intensità di crisi?
La varietà delle esperienze fa pensare, ipotizzare, che non sia così. Limitandosi al contesto
d’uso, questi esempi propongono modalità diverse nell’interazione tra utente, ambiente e
tecnologia:
a. Per il servizio on demand, l’utente è la variabile indipendente. Nell’applicazione sviluppata
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dallo Standford Learning Lab l’esperienza dell’ambiente e quella dell’apprendimento non
sono direttamente collegate. L’utente, interagendo con l’applicazione, richiede di conoscere
il significato di una parola, o di imparare a pronunciarela: dove si trovi o cosa stia facendo
sono condizioni che non incidono sul contesto dei materiali di studio o delle esercitazioni.
Le mobilities forniscono semplicemente accesso ai contenuti richiesti, sostituendo altre
tecnologie, come il desktop computer, o la televisione interattiva, che non sono disponibili
in quel contesto. L’applicazione può essere utilizzata in situazione, ad esempio per sostenere
una conversazione in lingua straniera che sta accadendo in quel momento, in quel luogo, ma
l’elemento che opera la trasformazione da on-demand a just in time, da drill and practice a
apprendimento situato, non è l’instructional designer, ma l’utente stesso.
b. Nel progetto M-learning IST Project, la variabile indipendente è la tecnologia mobile. Il
cellulare è la tecnologia di accesso per raggiungere gli studenti con problemi
alfabetizzazione e che hanno abbandonato gli studi. Il livello di familiarità che i soggetti
della sperimentazione hanno sviluppato verso il personal media crea un canale di
comunicazione che né la scuola né l’e-learning non sono riusciti a creare. L’intero sistema di
apprendimento, ancora una volta apprendimento a distanza, è centrato sulla relazione tra il
cellulare e lo studente: gli esercizi, i materiali e la comunicazione con il tutor dipendono
esclusivamente dalla caratteristiche dell’oggetto posseduto. Dove sia lo studente, o cosa stia
facendo, risultano, ai fini di questa sperimentazione, informazioni che non devono
condizionare l’apprendimento.
c. Nello scenario di formazioni just in time realizzato dal Progetto Mobilearn, la situazione è
indicata come la variabile indipendente. Il learning management system utilizzato dal
progetto è stato realizzato per intervenire su episodi di apprendimento più che su reale
percorso didattico. Destinato ad un contesto informale, l’instructional design della
sperimentazione è centrato sull’accesso all’informazione che serve per risolvere una
situazione complessa che accade fuori dalla piattaforma tecnologica: se l’utente, per
esempio, si trova a dover intervenire in soccorso di una persona che ha un problema di
iperventilazione, il sistema dovrebbe fornire learning object sul comportamento più
adeguato e contatti con esperti. In realtà, la variabile indipendente di questo sistema di
conoscenza è una variabile filtrata: è l’utente, infatti, che riferisce la situazione al sistema
cercando il learning object di cui ha bisogno, non le informazioni la situazione che,
direttamente, gli forniscono la conoscenza adeguata.
d. La sperimentazione sul campo condotta dall’università di Taiwan ha, infine, una variabile
indipendente ambientale. Durante l’osservazione, gli studenti hanno utilizzato il PDA per
acquisire ed elaborare dati sull’ambiente circostante, in particolare, sulle specie di farfalle
che lo popolavano. Attraverso fotografie degli insetti, l’applicazione di image retrieval
realizzata per la sperimentazione, ha aiutato gli studenti ad identificare la specie di
appartenenza della farfalla.
Ad eccezione della prima variabile indipendente, presente anche nei vecchi paradigmi di
interazione uomo-macchina, di comunicazione mediata dal computer e di instructional design, i tre
esempi disegnano modelli molto diversi tra loro.
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La definizione stessa di mobile learning ha contorni sfumati: nell’apprendimento nomade12
ricade il ricorso a tecnologie di connessione wireless, l’impiego di palmari non connessi alla rete,
l’uso gamepad, tablet PC e lettori Mp3, l’utilizzo di applicazioni di intelligenza ambientale.
Nel 2002, Desmond Keegan13 attribuisce al mobile learning il valore di uno stato di fatto. In
virtù delle statistiche d’uso della telefonia cellulare che segnano un aumento esponenziale della
commercializzazione e dell’utilizzo, ecco che si forma il bisogno, l’urgenza del mobile learning:
«In distance learning history, system have always followd the availability of technology
near the distance students[..]»
Per Keegan, il mobile learning è un’evoluzione dell’e-learning, così come quest’ultimo è
stato un’evoluzione dell’apprendimento a distanza. L’esperimento condotto da Colella, pur
anticipando di quattro anni la definizione dell’autore, dimostra tutti i limiti di questa prospettiva.
Secondo Keegan, il salto di sistema introdotto dalle mobilities consiste nel liberare lo
studente a distanza dal vincolo della presenza davanti ad un computer al fine, però, di ottimizza il
tempo da dedicare all’apprendimento.
«Jack is traveling by train to meet a customer. He has to get prepared for the meeting but
after reading through the background material he has time to engage some 3G competence
development. He connects to the e-businness education that started this week[..] The video raises
some interesting points about customer relations’ management [..] He decides to initiate a
videoconference with a collegue in his group to discuss the issue right away».
Nello scenario descritto da Keegan, il mobile è una tecnologia con funzione economica –
ottimizza i tempi morti di Jack – e non pone particolari problemi all’instructional design. A dispetto
dell’apparente ricchezza multimediale della sua esperienza di apprendimento nomade, Jack ha a che
fare con contesti noti come la discussione di gruppo a distanza, la videoconferenza, le unità
didattiche dell’e-learning: miniaturizzati e adattati al piccolo schermo. La tecnologia mobile, per
dirla con Norman, evolve le prestazioni del computer, ma non inventa prestazioni nuove. Ammesso
che sia più comodo – ed ugualmente efficace – leggere, studiare, comunicare in videoconferenza su
di in treno piuttosto che davanti ad un PC, il mobile learning di cui Jack ha esperienza è una
“comodità”.
La sperimentazione di Colella inserisce maggiori elementi di novità nella definizione di
mobile-learning. Per prima cosa elimina la distanza dalla comunicazione mediata dal computer: la
presenza della tecnologia invade il territorio della comunicazione faccia a faccia creando
un’anomalia rispetto alle numerose teorie e modelli della CMC 14. A differenza di quanto accade
nello scenario di Keegan, in cui sono alternati momenti di autoistruzione programmata a fasi di cocostruzione, condivisione delle competenze, l’esperienza attuata da Colella crea le condizioni di
esperienza per un modello didattico dei processi cognitivi superiori15 che forma una “testa ben
12
“Several terms are currently being used to refer to this new learning environment. Wireless is perhaps the leading label, for several
reasons, including its sense of the unwiring of connectivity and the implicit untethering of hardware from local cabling. The term
wireless suffers from several weaknesses, however. First, any term that defines a negative ("less") rather than asserts a categorical
positive risks vagueness and ahistoricity (as does, more famously, the term postmodern). Second, wireless underplays the mobility
aspect of the new environment. Mobile learning, or m-learning, covers this point better, but this term doesn’t imply wirelessness—
that is, I may carry a Palm without connectivity and be mobile but not wireless. Ubiquitous computing, or ubicomp, does a better job
of synthesizing these two features, describing wireless, portable, mobile, and multiple units joined in what the Dutch GIPSY Project
calls a "device ecology."2 However, the term ubicomp is often misunderstood. Mark Weiser’s sense of ubicomp as naturalized
computing is lost when ubiquitous computing refers to "lots of machines" or "decently ready access to labs." [..] We lack a term for
describing the world as a writeable and readable service, encompassing mobile phones forming communities, P2P handheld gaming,
moblogging, and uploading to RFID chips. For now, and to retain the educational focus, I’ll use m-learning.” Alexander B., Going
Nomadic: Mobile Learning in Higher Education, EDUCAUSE Review, vol. 39, no. 5 (September/October 2004): 28–35.
13
Keegan, D. (2002): 'The future of learning: From eLearning to mLearning', IFF Papier, Nr. 119, Fern-Universität Hagen
14
15
Per la definizione del modello si rimanda a “Il modello dei processi cognitivi superiori”, di Persi R., in I modelli della
didattica, a cura di Baldacci M., I modelli della didattica, Carocci, Roma 2004
15
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I contesti di esperienza della comunicazione e della formazione mobile: innovazione e re-mediazione
fatta”, in grado di progettare degli strumenti di indagine della realtà, piuttosto che riempire la testa
di saperi approfittando di qualunque momento e di qualunque luogo.
La definizione Keegan non sembra, dunque, problematicizzare il mobile learning a
sufficienza per discutere l’esistenza di un nuovo paradigma. Il cuore della sua corposa indagine,
realizzata per il programma europeo di investimenti Leonardo da Vinci, sostiene che le nuove
tecnologie serviranno a trasformare l’e-learning attraverso la maneggevolezza dei device, portabilità
dei contenuti e degli strumenti di comunicazione mediata, l’opportunità di far convergere il blended
learning e il knowledge management just in time. E conclude che, se la crescita della curva di
adozione del mobile learning è lenta, la responsabilità è della dimensione degli schermi, delle
capacità di connessione e della limitatezza della memoria disponibile. Cinque anni più tardi, nel
2007, le prestazioni di smartphone, pda e mp3 player sono notevolmente migliorate: eppure
l’evoluzione delle tecnologie non basta a conclamare il passaggio previsto da Keegan da e-learning
a mobile learning.
Molte altre definizioni, più articolate di quella offerta da Keegan, sono maturate nell’ambito
dei modelli pedagogici, oltre che tecnologici. I
n Literature Review ion Mobile Technologies And Learning, Naismith, Lonsdale, Vavoula,
Sharples, identificano sei modelli di mobile learning riferiti ai principali paradigmi teorici
dell’apprendimento.
Il mobile learning comportamentista, basato sul paradigma skinneriano stimolo-risposta, è
strutturato tipicamente nella presentazione di materiali e nella valutazione del feedback ottenuto
dagli studenti. Anche nel paradigma delle drill and practice, metodologia analoga a quella utilizzata
dal mobile e-learning del Standford Learning Lab, gli autori interpretano le mobilities come
tecnologie della presenza più che della distanza. Un esempio di mobile learning comportamentista
è Skills Arena (Lee et al 2004), un videogioco didattico per l’insegnamento della matematica
realizzato per Nintendo Game Boy Advance. Attraverso esercizi su addizione e sottrazione, un
tracciamento avanzato del punteggio e dei record e, soprattutto, la creazione di personaggi di gioco,
39 studenti inglesi di seconda elementare ha confermato un miglioramento della performance e un
maggiore coinvolgimento nelle attività didattiche svolte fuori dalla classe.
Il mobile learning di stampo costruttivista è ispirato al pensiero di Bruner che, tra gli anni
‘60/70, teorizzò l’apprendimento come processo attivo di trasformazione delle informazioni in
conoscenza sulla base di schemi cognitivi individuali. Per questa scuola di pensiero le ICT hanno
rappresentato il medium con le maggiori potenzialità di manipolazione dell’informazione. Le
mobilities si presentano a questo paradigma come la tecnologia del costruttivismo situato in un
contesto di apprendimento realistico e allo stesso tempo “manipolabile”. E la simulazione
partecipata, come quella realizzata da Colella, rappresenta la realizzazione più completa
dell’incontro tra tecnologie digitali mobili e il modello pedagogico.
Il mobile learning situato si sviluppa sul paradigma di Lave (1991), il quale afferma che
l’apprendimento è un processo di partecipazione sociale, oltre che di acquisizione di conoscenze
individuali. Secondo questo modello, l’apprendimento avviene solo nei contesti autentici, ovvero
nella situazioni in cui una conoscenza e una competenza sono realmente in azione. Le mobilities,
sottraendo la relazione tra studenti, docenti e tecnologie alla “vita sullo schermo” riportano
l’apprendimento sul posto: in classe, in laboratorio, sul campo. L’applicazione per la didattica delle
scienze naturali realizzata dall’università di Taiwan soddisfa i requisiti di questo modello.
Il paradigma degli apprendimenti situati attribuisce importanza al contesto di interazione
sociale, oltre che ambientale, in cui si insegna e si impara. Da questo approccio pedagogico deriva il
modello dell’apprendimento collaborativo di cui Naismith et alii riconoscono applicazione nel
mobile learning. Cellulari, palmari e PDA consentono infatti lo scambio di dati e messaggi
16
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aumentando e modificando la comunicazione tra i soggetti, arricchendo la conversazione tra diversi
sistemi di conoscenza [Pask, 1976]. Nell’apprendimento collaborativo mobile, ancor più
marcatamente che nel computer supported collaborative learning (CSCL), spazio della
conversazione non è necessariamente uno spazio della distanza.
Naismith et alii riferiscono della sperimentazione condotta dall’Universidad Católica de
Chile dal 2002 al 2004. Utilizzando una rete di comunicazione wireless peer to peer, un gruppo di
ricercatori ha monitorato l’uso di palmari nell’apprendimento collaborativo faccia a faccia.
Attraverso l’assegnazione di attività a piccoli gruppi di studenti delle elementari, i ricercatori
[Zurita, Nussbaum and Sharples, 2004] hanno osservato come la tecnologia influenzasse la
negoziazione dello spazio fisico e le interazioni sociali.
Gli autori di Literature Review In Mobile Technologies And Learning individuano un
paradigma informale del mobile learning che riguarda tutte le occasioni di apprendimento che non
avvengono nelle tradizionali agenzie formative. Questo modello pedagogico investe sulla
caratterizzazione comunicativa delle mobilities come media personali, oggetti individuali, intimi e
privati di comunicazione.
Conclusione
Sistemi e paradigmi: dove stiamo saltando?
Il lavoro di Naismith et alii riesce a ricomprendere molte delle applicazioni mobile in ambito
educativo attraverso un’operazione di re-mediazione dei modelli pedagogici a beneficio di uno stato
dell’arte che marca alcune importanti differenze con l’evoluzionismo di Keegan.
L’idea di re-mediazione del paradigma pedagogico (e comunicativo) operata da vasti settori
della letteratura sul mobile learning è una visione prospettica, che questo studio deriva dal concetto
di re-mediation16 introdotto da Bolter e Grusin a proposito della transizione dei media analogici alla
scrittura digitale. I due autori hanno elaborato una teoria sullo sviluppo della storia dei media che
individua una forte pulsione di continuità tra forme, modelli e sistemi. Una linea di continuità che si
dipana verso un sempre maggiore livello di realismo e al tempo spesso verso una progressiva
ipermediazione.
Nel remediare il nuovo media rimodella l’identità dei vecchi tentando di presentare
l’innovazione con la soluzione alla mancanze, mai individuate prima, dei media preesistenti. Così
come il cinema è remedia la fotografia aggiungendovi movimento, il mobile learning sembra
aggiungere ai benefici della tecnologia informatica in ambito educativo liberandoci dalla costrizione
della scrivania e dello schermo del computer.
Nel caso delle definizioni di mobile learning ed in particolare della classificazione operata
da Naismith et alii, la remediazione è conciliante: all’ombra di paradigmi pedagogici consolidati
come il comportamentismo, il costruttivismo o l’apprendimento situato l’instructional design trova
degli orientamenti sicuri e una validazione per la sperimentazione e l’applicazione della tecnologia
mobile. La remediazione è però un fatto culturale: rileva, come affermano gli stessi Bolter e Grusin,
un atteggiamento sociale di adattamento a nuove forme comunicative ed espressive senza
necessariamente formulare un modello né per la letteratura, né per la tecnica o la scienza della
progettazione delle esperienze di apprendimento.
Gran parte stato dell’arte sul mobile learning appare culturale più che scientifico:
rassicurante, ottimista, non rileva problemi nel passaggio da una tecnologia all’altra, da un medium
all’altro. Eppure, sottoposta al vaglio ai criterio di Norman, Toschi e Kuhn, anche una sola, “antica”
16
Jay David Bolter and Richard Grusin , Remediation: Understanding New Media, MIT Press, 2000
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I contesti di esperienza della comunicazione e della formazione mobile: innovazione e re-mediazione
ma lungimirante, applicazione di mobilities al contesto educativo fa emergere conflitti forti rispetto
all’idea consolidata che la digitalizzazione sia una virtualizzazione del mondo, che la
comunicazione mediata dal computer sia una comunicazione della distanza e che l’interazione
uomo macchina sia ancora l’unica valvola attraverso cui viaggiano informazioni e conoscenza.
Come abbiamo sostenuto all’inizio di questo lavoro, nell’osservare lo sviluppo di
un’innovazione è interessante accogliere i problemi per verificare se la transizione è pacifica,
remediabile, o se invece non esistano anomalie tali da costringerci a salti. Passando alcune
sperimentazioni attraverso il filtro di Norman, Toschi e Kuhn proviamo a comprendere in quale
direzione saltare.
Il rapporto finale del progetto Mobilearn, progetto europeo per lo sperimentazione di Mobile
Learning capitanato da Giunti Interactive Labs, conclude attribuendo alla tecnologia mobile la
finalità di potenziare la filosofia dell’apprendimento come stile di vita e non come contesto
temporalmente e spazialmente definito. Dal 2002 al 2004, Mobilearn ha sviluppato la progettazione
di tre scenari di applicazione – un master in Business Administration, un programma di
apprendimento contestuale alla visita presso il museo degli Uffizi e un sistema di knowledge
management just in time nell’ambito dell’educazione sanitaria – partendo dal presupposto che le
mobilities sono una tecnologia dell’accesso che amplia le potenzialità dell’e-learning.
I ricercatori del progetto Mobilearn hanno premesso allo sviluppo delle loro applicazioni un
modello pedagogico flessibile – task model for mobile learning - in cui la tecnologia è l’oggetto
scelto dal soggetto che apprende per soddisfare i propri bisogni. Attraverso il dispositivo
tecnologico, lo spazio sociale e mentale dell’utente dialoga con lo spazio concreto e reale
dell’apprendimento. L’infrastruttura del sistema sviluppato da Giunti Interactive Labs e dai suoi
partner ipotizza un paradigma di mobile learning che migliora, a soddisfazione dell’ultimo criterio
di Kuhn, il modello vecchio di mobile learning:
- attraverso un maggiore accesso ai contenuti della formazione
- attraverso contesto in cui l’apprendimento avviene,
- attraverso la tecnologia di comunicazione.
Nell’obiettivo di aumentare il livello di conoscenza degli utenti, i tre scenari sviluppati nel
progetto Mobilearn si sono sviluppati sulla base di un sistema composto da:
a. dispositivi mobili; PDA, tablet PC, cellulare
b. un portale di accesso ai contenuti
c. dei contenuti - prevalentemente learning objects – e degli strumenti di annotazione
d. strumenti per la collaborazione
e. dati sui contesti d’uso e sulla loro relazione con i contenuti
f. sistemi in informazione sulla localizzazione dell’utente
Tra quelli elencati, gli ultimi due sono elementi nuovi. Nell’e-learning su personal computer,
in particolare nell’e-learning pensato per l’apprendimento a distanza, l’ambiente di apprendimento
ha rappresentato prevalentemente un problema di interfaccia grafica, uno spazio metaforico/
simbolico in cui, nella migliore delle ipotesi, ricercare una proiezione di incontro dello spazio fisico
e dello spazio di apprendimento dell’utente. Nell’e-learning blended, che alterna momenti a
distanza con la didattica faccia a faccia, l’interfaccia è uno spazio asincrono, complementare e mai
conflittuale con l’ambiente della presenza fisica.
Se nel passaggio dall’e-learning al mobile learning il contesto e la localizzazione sono
elementi di rottura, e non di remediazione, rimodellazione di un’identità, il problema che emerge è
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la sovrapposizione di tre strati di contesti, testi contemporanei, in uno stesso spazio: lo spazio fisico,
lo spazio semiotico e lo spazio metaforico\simbolico della tecnologia. Pur utilizzando tecnologie di
localizzazione e di raccolta dati sull’ambiente fisico, come il GPS, nel progetto Mobilearn come in
molte altre applicazioni di mobile learning, il problema centrale dell’instructional design è il
contenuto.
Nella modellazione dei contenuti del progetto, le caratteristiche di questi ultimi appaiono
dettate più dai limiti del dove e quando l’utente ne fruirà che dalle potenzialità comunicative e
formative delle mobilities. Essi dovranno essere:
- condensati ed essenziali per evitare un sovraccarico d’informazione e cognitivo:
piccoli atomi concettuali facili da comprendere in un breve lasso di tempo e in una
situazione non adatta alla riflessione
- attraenti, per garantire un livello di attenzione difficile da mantenere in situazione.
- riutilizzabili, per risultare adatti a contesti molteplici.
Se la variabile indipendente di applicazioni come MobiLearn è la situazione, la centralità del
contenuto e la modalità prescrittivia con cui il modello tratta le sue caratteristiche non solo non
riscrivono una relazione tra il testo e la grammatica dell’interazione nell’ambiente di apprendimento
(criterio di Toschi), ma rendono tecnologia mobile limitante anziché dirompente. Al problema di
dover scrivere una sceneggiatura che interagisca con il contesto ambientale, l’instructional design
del progetto risponde con due soluzioni che non compiono un autentico salto di sistema:
- la stereotipizzazione delle situazioni
- la realizzazione di microcontenuti.
La valutazione delle applicazioni del progetto Mobilearn si spinge ben oltre di quanto non
faccia l’elaborazione del modello di instructional design. Nel Museum scenario, sperimentato
presso la Galleria degli Uffizi di Firenze e il Nottingham Castle Museum, non basta che la
tecnologia mobile sia resa pià sensibile al contesto (context aware), ma diventa importante, nella
valutazione dei ricercatori, che diventi un collettore di dati sull’ambiente in cui avviene l’esperienza
di apprendimento. Per definire l’interazione con la realtà non è sufficiente che il sistema riconosca il
learning object più appropriato da erogare di fronte ad un’opera esposta, ma è necessaria una
maggiore interazione tra l’oggetto e il sistema di mobile learning, creando una persistenza
dell’esperienza oltre la situazione in atto.
La valutazione consente alcuni passaggi chiave per valorizzare le potenzialità delle
mobilities. Interpretandole come tecnologie che, moltiplicando le occasioni di accesso alla
conoscenza, garantiscono un apprendimento pervasivo – learning as a way of being – l’aspettativa è
che esse bastino a innovare l’e-learning. Sul campo, come è accaduto ai ricercatori del progetto
Mobilearn, ci si accorge che l’instructional design non si deve preoccupare solo di remediare i
contenuti dell’e-learning, ma che l’interazione ha a che fare con un terzo incomodo: l’ambiente.
Il passaggio dal mobile learning remediato all’uso del potenziale dirompente delle mobilities
avviene utilizzandole come strumento di comunicazione tra l’utente ed una intelligenza ambientale,
a quella informatica dei computer invisibili di cui parla Donald Norman quando descrive
l’emergenza di tornare ad essere analogici in una realtà fatta di oggetti che veicola informazioni
digitali – chiavi smarrite che ci dicono dove sono, sistemi che ci spiegano quale tragitto fare, opere
d’arte che si connetto con la bibliografia e la sitografia che li riguarda – anziché di proiettarsi verso
una dimensione digitale che non è quella naturale, percettiva e fisica, dell’esperienza umana.
Diversamente il salto dell’e-learning al mobile learning è pre-scientifico e preculturale e
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rischia di venire ridiscusso, non per debolezza teorica, ma perché l’instructional design non è
riuscito ad usare la tecnologia mobile. E il paradigma forse non sarà nuovo. Certamente non sarà
migliore.
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APPENDICE: BEST PRACTICES
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