La pozione magica – autrice Sonia Cenceschi Alberto sgusciò

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La pozione magica – autrice Sonia Cenceschi Alberto sgusciò
La pozione magica – autrice Sonia Cenceschi
Alberto sgusciò attraverso i rovi, si accoccolò e attese. Sentiva il cuore scalciare nel petto e lo sgridò
mentalmente, trattenendo il respiro per punizione. Adesso restavano solo lui ed il tempo, che appiccioso
come una bava di lumaca, non voleva saperne di liberare i minuti. Eppure le lumache gli erano sempre
piaciute, ma quelle col castéllu, come le chiamava la nonna. Avrebbe voluto anche lui portarsi dietro la
casa, un piccolo rifugio di foglie di castagno magari, come quelle che lo guardavano dall’alto, ora,
nell’ombra della sera. Lentamente si rilassò, stese le gambe e appoggiando dietro la schiena le palme delle
mani sulla terra ruvida, finalmente espirò, a fondo.
E ora? Quanto mi tocca aspettare?
Pensò alle parole di Giovanni: “quando non ti vedi più le punte dei piedi, nemmeno un pezzettino, ricorda”.
Alberto cominciò allora a immaginare che il buio lo rosicchiasse senza dolore e di essere un po’ come il
pane secco che lui e Luigi tiravano ai pesci del laghetto di nascosto, la domenica, prima di entrare alla
Messa. Sono un tozzo di pane secco e ora mi mangiano tutto, magari tra cento anni trovano le mie ossa e
mi scambiano per un uomo primitivo.
Quando sentì il rombo, l’ombra era ormai arrivata alle tasche dei pantaloni e menomale che non era vero
niente e che le gambe erano ancora tutte lì, anche se un po’ addormentate. Alberto rientrò in apnea e
cercò di affilare la vista come i gatti, per guardare dentro la notte e oltre i cespugli. Nessuno. Forse il
rumore era qualcuno dall’altro lato della valle. La luna, quella si che mi fa paura, guarda che faccia da spia
che c’ha. Si tirò su e lentamente sporse la testa oltre il confine del suo piccolo rifugio. Il cielo era proprio
nudo ora e una luce fredda e azzurrognola virava in toni acidi tutti i colori del bosco. Alberto sentì lo
stomaco gorgogliare e pensò no non ti ci mettere pure tu. Disincastrò un panino dalla tasca interna del
giacchino e ne strappò un angolo, un po’ in automatico, perchè non è che avesse proprio fame. Ecco ora
come minimo è tanto secco che il dente se ne va e non ho nemmeno un bicchiere dove infilarlo, che poi lo
so che era la mamma che metteva i soldi però che noia.
Un altro rombo.
Alberto si accucciò. Stavolta non è dall’altra parte, è proprio sul mio versante. Sentì lo stomaco diventare di
marmo. Il rumore era tanto chiaro che si poteva immaginare una moto, anzi il suo faro anteriore, curvare
sui tornanti e cambiare direzione. E uno. Non devo respirare. E due. Questa curva era più stretta, ha fatto
fatica. Chi me l’ha fatto fare. Mi scappa la pipì. Stringi i pugni che ti passa è solo paura. E se non è lui ma
uno che mi vede e mi ammazza? Il motore gorgogliò accelerando, forse su un rettilineo. E’ alla capanna
Castagnéu. Il freddo ricordò ad Alberto che non stava giocando, ma non è che avesse capito troppo cosa
c’era di mezzo. Mentre pensava che avrebbe potuto farsela addosso lo vide: un grande occhio che tagliò il
freddo a metà con la sua lama bianca, prima timidamente, poi sempre più deciso, illuminando a giorno la
strada e i tronchi intorno. Rallentò. Alberto sentì in bocca un sapore amaro, come quello dello sciroppo per
la tosse che mica faceva tanto effetto ma schifo sì. Il centauro si fermò. Era a circa 30 metri in linea d’aria
dal suo nascondiglio. Spense il motore e il mondo piombò nel buio per un tempo che sembrò interminabile.
Quando ormai gli occhi di entrambi si furono riabituati l’uomo sussurrò le parole magiche: “Chi pè, pè”.
Allora Alberto uscì allo scoperto, senza più preoccuparsi della morte, che poi tanto c’era cresciuto in mezzo,
e corse verso l’ombra venuta dal nulla. Questa lo ammonì di far piano, ma lo abbracciò forte forte da
levargli il respiro e gli chiese sussurrando se aveva fame, come stava Giovanni, che la mamma era tanto in
pensiero, ma giù in città bombardavano e il Signore si era portato via un bel po’ di gente. Alberto pensò che
era normale, che allora non era cambiato niente come al solito, ma non disse nulla e anzi chiese se poteva
fare un giro in moto. Il centauro si guardò intorno, poi sospirò e a voce alta si lasciò scappare un ma sì,
chissenefrega. Svalicarono il monte a quella che Alberto pensò essere la velocità di un aereo, se non è così
poco ci manca, questa la racconto a Luigi appena torno a casa. La moto svoltò in una mulattiera laterale e i
due scesero solo una volta invisibili dalla strada principale, nascondendo il cavallo dietro un gomitolo di
frasche. Senza bisogno di parlare il piccolo seguì il grande scivolando sul sentiero brullo, finchè aggirando
un masso gigante si ritrovarono su un terrazzo di pietra a strapiombo sul mare. Questa è la pace si disse
Alberto, che aveva sentito dire a qualcuno che era una cosa bellissima che non puoi descrivere, ma non
ricordava quando e nemmeno dove. La luna, ora un po’ meno antipatica, illuminava quasi a giorno il
panorama, tracciando una linea netta come di pastello tra cielo e acqua.
Sempre in silenzio si sedettero, l’uomo aprì una borsa di cuoio logoro che aveva a tracolla: tirò fuori una
bottiglietta di vetro opaco e un involto di carta giallognola traslucida che tese ad Alberto. Aprilo, cos’hai,
paura che sia una bomba? No, ma se poi è da mangiare non te ne lascio nemmeno un po’ e non sta bene.
Apri e mangia che io non ne ho bisogno. Dentro c’era un pane, tondo e nuovo, color miele, grande come il
pugno di un gigante. Che poi non so com’è un gigante ma sicuro almeno almeno ha la mano cinque volte la
mia. E se lo scoperchio dentro c’è il salame col burro, meglio che non lo guardo perchè mi viene da
piangere e non è bello, anche se sono felice. Il grande guardò il piccolo addentare quel panino arrivato da
un altro mondo e sorrise. Alberto masticando sentiva la saliva aumentare, ma non era più amara, anzi
sapeva vagamente di castagne arrostite. Guardò la bottiglietta di sbieco, fissando il sughero infilato dentro
a forza da mani muscolose e immaginò che forse proteggeva una pozione magica, perchè sennò mica lo
spingevano giù così tanto quel povero tappo. Magari era una cosa che salvava l’Italia dalle bombe o magari
serviva solo a far innamorare le donne, ma solo quelle belle. Magari fa innamorare la Lara, di Giovanni.
Glielo devo dire così gliela regala quando lei torna da Barga. Le mani forti risvegliarono Alberto dai pensieri
liberando dal vetro un profumo che proprio non aveva mai sentito. Ora sei un uomo, facciamo un brindisi?
Bevo dalla bottiglia, ho dieci anni da questa mattina alle nove e il vino non l’avevo mai assaggiato prima,
anche se a dirlo un po’ mi vergogno. Sento sul palato il gusto del salame e del burro e questo sorso insieme
non so mica se mi piace, ma ci sta proprio bene. Ci sta bene perchè mi sembra di bere una cosa che sa di
ombra quando c’è il sole caldissimo che brucia e vuoi fare il bagno. Perchè ha un colore che mi ricorda la
sabbia che sta laggiù, in fondo in fondo, nascosta tra gli scogli e che non vedo da troppo. Perchè è
leggermente acido e anche se strizzo gli occhi di nascosto da mio papà, mica lo sputo!