Alphonse De Lamartine a Casamicciola
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Alphonse De Lamartine a Casamicciola
Alphonse De Lamartine a Casamicciola di Domenico Di Spigna Alphonse de Lamartine fu un poeta lirico tra i più grandi della Francia. Venne alla luce a Mâcon nella Borgogna il 21 ottobre 1790 e battezzato l’indomani col nome di Alfonso Maria Luigi, unico maschio tra cinque femmine. A Milly, dove si trasferisce la famiglia nel 1794, compie i primi studi, poi proseguiti presso il collegio di Belley, con predilizione per quelli classici. Fin dalla giovinezza, Alfonso evidenziava contraddizioni nella sua personalità, abitudine ad alterare le date, una latente “megalomania”, grande sensibilità, gusto per la bellezza, non esclusa quella femminile. Già a diciannove anni, quando fu chiamato alla visita militare, aveva avuto una simpatia amorosa per la piccola Caroline Pascal; altro interesse in amore lo provò una sera a casa della signora de La Vernette, quando, sentendo cantare la figlia di un giudice di pace, Enriquette Pommier, ne venne attratto. In seguito si scriveranno e si frequenteranno amandosi, maggiormente la ragazza che lo ammirerà tantissimo. Per distoglierlo dall’amore, i genitori ne favoriscono ed incoraggiano il viaggiare e un itinerario culturale per arrcchire la sua educazione. Giunge il fantasioso giovane sul suolo italiano nell’autunno del 1811, dichiarando di avere diciannove anni, mentre in realtà ne ha due in più. Da quel momento amerà incessantemente l’Italia, di cui aveva acquisito la cultura classicheggiante fin dai suoi primi studi, ammirandone la storia e i suoi protagonisti letterati (Virgilio, Dante, Tasso, Alfieri, ecc.). Dopo varie città, ottiene di poter recarsi a Roma e Napoli. A Roma prenderà alloggio in una buona stanza di Via Condotti, ma il 18 La Rassegna d’Ischia n. 3/2012 primo impatto con la città eterna non sarà da mozzafiato! L’Urbe apparirà alquanto decadente, senza il Papa con i suoi cardinali e il suo nutrito clero. Napoleone aveva esiliato il Pontefice a Savona, la città contava soltanto cinquantamila anime. Il giovane compagno di viaggio era una giovane donna, di nome Camilla, travestita da uomo per non dare adito a pettegolezzi, e insieme con lei Alfonso fa delle gite conoscitive per Roma e dintorni fino ai Colli Albani ed alla tomba di Cecilia Metello. Prende inoltre delle lezioni di italiano pressso il professore Giunto Tardi, che aveva un fratello pittore e tramite questi conoscerà la pittrice Bianca Boni, dalla quale si fa ritrarre per destinare il suo ritratto alla mamma Alice. Dopo aver visitato la chiesa di S. Onofrio (che gli dà l’impresione d’una chiesetta di campagna) ed effettuato delle passeggiate nella campagna romana, alla maniera di Wolfgang Goethe, pensa di completarsi con la città del Vesuvio, che già era stata di Virgilio, lì sepolto, e del Tasso. Vedrà questa capitale adagiata sulle acque del golfo, la sera del trenta novembe, e vi rimarrà per quattro mesi, rinunciando all’ospitalità del cugino di sua madre Dareste de la Chevanne, per stabilirsi in una locanda di Via dei Fiorentini all’estremità della Via Toledo. Il Vesuvio, il mare, le isole del golfo destano in lui un fascino stupendo. Nel mentre si sente in affinità con la gente napoletana, che degli antichi greci hanno il genio dell’espressione ed una certa forma di meditazione, familiarizza con la loro lingua accentuata e sonora in cui lo sguardo e la parola sono più importanti della parola stessa. La natura stessa vissuta in simbiosi dagli uomini del luogo contribuisce ad allietare il suo soggiorno. Compie due “pellegrinaggi” alla tomba di Virgilio; viaggi alla Solfatara di A. De Lamartine Pozzuoli, a Pompei, alle falde del Vesuvio, e si gratifica nell’ammirare le ragazze napoletane dall’alto della sua statura, a loro volta attratte dalla sua biondezza e dall’accento linguistico non del luogo. Visiterà poi Cuma e Baia, per la quale ultima località, un tempo luogo di delizie dei grandi dell’antica Roma, comporrà l’elegia “Il Golfo di Baia”. Rimasto a corto di denaro, è costretto ad accettare l’ospitalità del cugino Antonio Dareste de La Chevanne, direttore della manifattura dei tabacchi. Racconterà poi nelle sue “memorie”: mi trasferii presso la manifattura del magnifico monastero, di cinque o sei piani; il primo, con le arcate sottostanti era adibito alla fabbricazione del tabacco. Vidi qui per la prima volta una ragazza tra le tante, che doveva divenire la “Graziella” ed avere su di me un’influenza imperitura per l’intera mia vita. Tra i due non mancano le premure e gli sguardi languidi, che s’intensificano quando il giovane viene a trovarsi ammalato e, dal momento che lei gli fa da assistente, i due entrano in confidenza. Lui parla dei vigneti che possiede in Francia e dei castelli di famiglia; lei giovane donna di Resina s’innammo- ra e appende una sua medaglia d’argento (quasi un talismano) al letto di Alfonso in segno di dedizione e racconta il suo passato di povera operaia, ma nel contempo si agghinda da ragazza di buona società e, nel caso lui dovesse partire, lei sarebbe disposta a mettersi nella sua valigia. Il bell’Alfonso resta a Napoli quattro mesi, poi, richiamato in patria dalla madre, lascia in lagrime Antoniella, la ragazza che presagisce che quello è un addio definitivo; le loro strade non s’incroceranno più, i loro occhi non si fisseranno vicendevolmente. Lui parte per Roma il sei aprile, lei morirà di tisi qualche anno dopo. Soltanto nel 1816 il futuro poeta, per lettera di Dareste, apprenderà del trapasso della giovane. Ella sarà in seguito l’ispiratrice di tante sue composizioni poetiche, ma soprattutto la “grâce” cioè la Graziella” dell’omonimo romanzo scritto a Casamicciola nel 1844, uno dei più bei poemi lamartiniani. In questo patetico romanzo Antoniella sarà la figlia di un pescatore di Procida, la corallaia, la fanciulla ideale che porterà in mente quale eterno raggio di mera luce, ispiratrice delle proprie opere ancor più di quanto avrebbero potuto essere Caroline Pascal o Henriette Pommier, per la quale ultima in una lettera del quattro maggio 1812 indirizzata all’amico Aimon ( “la mia coscienza”, come lo definiva, alla cui morte dirà d’aver perso tutto quanto gli rimaneva d’affetto e di giovinezza nella sua vita) fa capire di provare mal d’amore. La “padrona servente” del signor Dareste, vale a dire Antonietta Jacomino, di umili origini ma dall’amore romanticissimo idealizzato come Saffo, faranno esclamare ad Alfonso: Elvira e tu, vivrete in eterno! Stando in Francia negli anni successivi, avrà ancora modo di ricordare la giovane lasciata in Napoli, quando a Parigi, assistendo ad funerale di una ragazza piangerà amaramente. Nella sua Borgogna dov’era nato si sente un poco straniero. Com’era lontana Napoli, con i suoi contrasti, Per essere felici bisogna vivere a Napoli Non vi sono due giorni nell’estate di Francia che valgono tutti i giorni del mese di novembre! Si respirano la vita, il sole, l’amore, il genio, i sogni, i profumi dell’anima e dei sensi! Io t’invoco ogni giorno quando, aprendo il mio balcone, vedo questo bel mare scintillante srotolarsi silenziosamente tra gli aranci di Posillipo, percorso in lungo e in largo dalle numerose barche le cui piccole vele latine assomigliano alle bianche ali delle rondini del mare. Ai miei piedi il prato della Villa Reale, seminato di rose già verdeggianti come nei nostri più bei giorni premiverili, a sinistra i monti di Castellammare e di Sorrento in un vapore così leggero che sembrano dileguarsi essi stessi al minmo soffio di vento, più da presso il Vesuvio, con una lava che cola sempre presso Portici e con i suoi torrenti di fumo che il sole al suo sorgere tinge di rosa e che un leggero vento del nord fa inclinare come una colonna infiammata sul mare (Lamartine, Lettera a Virieu, 29 novembre 1820). Pour être heureux il faut vivre à Naples Il n’y a pas deux jours dans un été de France qui vaillent les jours que nous avons tous les jours au mois de novembre! On respire la vie, le soleil, l’amour, le génie, le repos, la rêverie, les parfums de l’âme et des sens! Je t’invoque tous les jours quand en ouvrant mon balcon je vois cette belle mer étincelante se dérouler sans bruit sous les orangers du Pausilippe, sillonnée par des barques sans nombre dont les deux petites voiles latines ressemblent aux ailes blanches des hirondelles de mer. A mes pieds les gazons de la Villa Reale, semés de roses, verdissant déjà comme dans nos plus beaux printemps; à ma gauche les montagnes de Castellamare et de Sorrente nagent dans une vapeur si légère qu’elles ont l’air prêtes à se dissiper elles-mêmes au moindre souffle; plus près, le Vésuve, sillonné du côté de Portici par une lave qui coule toujours, élève ses torrents de fumée que le soleil levant teint de rose et qu’un léger vent du nord fait pencher comme une colonne embrasée sur la mer (Lettre à Virieu, 29 novembre 1820). le sue melodie, i suoi misteri, l’aria, il sole, il mare! L’amore per la segretaria e manufatturiera di tabacchi si risveglia nel suo intimo; il pensiero torna a quella zona portuale della città del sole, in quel convento di S. Pietro Martire. Nelle sue Elegie, farà ancora riferimento ad Antoniella – Graziella, della quale ignora il decesso, e nella sesta elegia diventerà “Elvira”. Dopo altri amori (avrà anche un figlio cui viene dato il nome di Leon) sposa Anne Mary Birch, figlia di un colonnello inglese. Per poter contrarre questo matrimonio (Chambery 6-6-1820), in regola con la fede cattolica dei Lamartine, la signorina Mary Birch, che ha gli stessi anni del francese, abiura la sua religione protestante. Si erano, i due trentenni, conosciuti a Pugnet, non lontano da Chambery (Savoia), presso la marchesa de La Pierre. Questa bruna ragazza albionica, dal naso pronunciato sotto due occhi vivi rivolti all’arte pittorica e musicale, sarà tra l’altro molto amica di Cesarina, sorella del poeta, definita tra l’altro una bellezza italiana! La madre del poeta parlava con molta ammirazione di questa futura nuora. Era una donna sensibile e colta. Nello stesso mese di giugno, il giorno quindici, inizia il viaggio di nozze, partendo da Chambery, con destinazione Napoli, dove Alfonso sarà secondo addetto all’Ambasciata di Sua Maestà il re di Francia presso il re di Napoli e delle Due Sicilie (con nomina del ministro degli esteri Pasquier), passando per Torino, laddove s’incontra con Aimon de Virieu che è segretario d’ambasciata in quella città. Trascorrono una settimana a Firenze. Arrivati nello Stato Pontificio si viene a sapere che il re di Napoli Ferdinando I deve sedare una ribellione, per cui il giovane sposo lascia a Roma la propria moglie, suocera e scudiero per recarsi nella capitale del regno borbonico per vagliarne la situazione. Per fortuna qui non c’è nulla di preoccupante, in quanto il re ha accordato la Costituzione liberale e La Rassegna d’Ischia n. 3/2012 19 quindi il desiderato soggiorno napoletano può compiersi. In una lettera scritta da Roma il 13 luglio di quel 1820 alla signora Raigecourt dice: «Andiamo nel paese della brutale voluttà, Napoli assomiglia più all’Asia che all’Italia, non ha che le delizie del corpo, genti e cose non sono cambiate!, mentre il 29 luglio aveva scritto a Monsieur de Genoude dicendo che Napoli aveva un’aria rivoluzionaria e non più il luogo di riposo e di canti; perfino nei templi di Baia e Pozzuoli s’incontrano i “carbonari”». Primo soggiorno a Casamicciola Una volta giunto a Napoli, il gruppetto venuto dalla Francia alloggia in un appartamento ammobiliato di fronte al Real Passeggio alla Riviera di Chiaia al n° 143. Quivi, senza rischio per la pace del suo ménage, mostra alla giovane sposa il prestigioso diorama napoletano, teatro dei suoi slanci giovanili. Nel rivedere il golfo di Napoli è nuovamente preso dal desiderio di assaporare da vicino Mergellina, Posillipo e le isole che lo delimitano dal golfo di Gaeta, per arrivare sotto le coste frastagliate di Ischia che avrebbe poi abitato e amato tanto, descrivendola come una «sola montagna a picco, la cui cima bianca e folgorante immerge i suoi denti scheggiati nel cielo. I suoi fianchi scoscesi, solcati da piccole valli, burroni, letti di rigagnoli d’acqua (termominerali), sono rivestiti dall’alto in basso da castagneti di colore verde scuro». Questa terra lo affascina, lo appaga e l’innamora tanto che l’immortalerà in versi in una lunga poesia dal titolo Ischia, isola che fa provare la vaporosa dolcezza di una notte mediterranea. Sul promontorio della Sentinella affitta una casetta circondata da colonne rustiche ed una “terrazza asiatica per tetto”. La moglie Marianna è incinta di alcuni mesi e per tale motivo l’ambasciata francese a Napoli gli consente una certa elasticità negli spostamenti settimanali, dall’ufficio napoletano all’isola maggiore del golfo. Era alle dipendenze del cavaliere Gabriel Fontenay, uomo di buon cuore e tollerante col “fantasioso” giovane, al quale aveva cercato di dare lustro, consigliandolo di celebrare la nascita del duca di Bordeaux con un’ode. Questa però, più che una mera opera poetica, era a tratti un’esortazione al liberalismo e per tale motivo non fu ben accetta presso la Corte Francese. In data 30 settembre 1820, scrivendo a Louis de Vignet, suo amico di collegio definito “uomo di genio”, così inizia: «Nel mezzo del mare di Napoli, non lontano da Capo Miseno dove questi lasciò le sue armi e il suo nome, di fronte alla grotta di Cuma e alle rive classiche dell’Eneide, si staglia un’isola di due o tre leghe di circonferenza coronata da una montagna a picco. È come una delle vostre vigne serpeggianti tra i gelsi, i vostri ruscelli, le vostre ville e dolci e pure usanze dei vostri contadini. Sui fianchi ondulanti di questa montagna sono sparse le più incantevoli casette, circondate da vigne, orti e boschetti. Ne ho affittata una e ci abito da un mese». «Là passo il mio tempo a sognare, nei campi o in riva al mare, con Marianna. Rientriamo la sera, ceniamo, dormiamo. Ci perdiamo nei boschi, cadiamo nei fossi. Scende la notte e ritorniamo stanchi morti, incantati dalle scoperte veramente meravigliose. Ho il più bel rifugio del paese. Un promontorio si eleva di sette o ottocento piedi, si protende in mare, come Châtillon nel lago, i suoi piedi sono ricoperti di boschi quasi fino all’acqua; la cima delle vigne che ombreggiano di limoni, di lauri, di melograni, di mirti ecc…. È abitata da una vera famiglia di patriarchi. Là noi viviamo, là noi contempliamo da lontano la cima strepitosa del Vesuvio. Se un destino, come non se ne vedono, mi desse più denaro di quanto posso averne e mi concedesse più di dodici mesi all’anno, verrei qui regolarmente a passarne sette o otto». In questa casetta “asiatica”, nido di felicità dei novelli sposi, che in quell’epoca sorgeva non distante dall’attuale Osservatorio Geofisico, Alfonso tra20 La Rassegna d’Ischia n. 3/2012 Mary Anne Birch De Lamartine scorre tre giorni per settimana, il resto nel suo ufficio napoletano per il suo lavoro all’Ambasciata e, quando rientra sull’isola, Marianna viene ad aspettarlo alla spiaggia della marina, vedendolo da lontano arrivare dalla costa di Capo Miseno. Poi a dorso d’asino si risale per i pendii verso la Sentinella. Lassù si vive al ritmo napoletano con sveglia mattutina, fantasticherie, riposo con la faccia rivolta al mare, qualche bagno alle terme, passeggiate, lettere a parenti, agli amici di Francia, un poco di musica, il tutto in un’atmosfera di abbandono dalle problematiche della vita. Alfonso e Marianna vivono per essi stessi e l’aria del luogo giova alla loro salute. Scrivendo alla marchesa di Raigecourt in data 16.9.1820, dirà: «Ho una bella casa a Napoli con un’incantevole vista, ma la città mi rende insofferente, mentre sto a meraviglia quando mi trovo nelle campagne dell’isola». In un’altra sua missiva datata nove ottobre e diretta all’amico Aimon, si esprime in tali termini: «Ischia è il capolavoro della Baia di Napoli, dell’Italia, del mondo; è il soggiorno completo che abbiamo sognato così spesso… Ischia merita il viaggio a lei solo, dunque vienci…. qui l’aria è elastica, fortificante e secca come sul Moncenisio; l’acqua ghiacciata scende dalle cime dell’Epomeo e sessanta sorgenti naturali ci portano la vita e salute. Gli occhi sono fissi nel Vesuvio che tutte le sere ci serve da fiaccola, siamo seduti sotto le colonne del nostro verde portico nell’attesa delle tranquille ore del sonno dopo il pasto». Dirà ancora: «Sono felice del mio piccolo ménage, gioioso all’ombra delle figure del sole e di mia moglie, passiamo mollemente i giorni a fare niente, a leggere, a errare sotto i boschi, sul mare! Noi ci amiamo, noi non conosciamo la noia». È questo un periodo felice, di grande ispirazione poetica come ricorderà all’amico Aimon, con lettera da Napoli l’otto dicembre. Sulla salubre e ridente collina della Sentinella compone per la sua amata sposa la lunga poesia Ischia, il Canto d’amore e Addio al mare. Legge i versi del suo Canto che sono arpeggi modulati in musica! «… Sotto il cielo dove la vita o la felicità abbonda sopra queste rive che l’occhio si compiace di percorrere, noi abbiamo respirato quest’aria di un altro mondo!» In effetti queste rime evocano con sensuale tenerezza la felicità dei giovani sposi. Restano sull’isola fino a novembre, quando in uno dei quei tiepidi meriggi autunnali, tanto desiderati dai cercatori di sole e di tranquillità, col proposito coltivato nella mente e nel cuore di potervi fare ritorno (e lui lo farà molti anni dopo), ripartono verso la terraferma. Il ricordo per la vaga isola d’Ischia, per l’amena Sentinella e l’amore che vi portò, saranno ancora presenti nelle Memorie Politiche (1863) e Corso familiare di Letteratura, dove riparla con malcelata melanconia di quei graditissimi giorni trascorsi a Casamicciola. Scrive infatti….: «Avevo preso in affitto una graziosa abitazione chiamata la Sentinella, che si vede ancora elevare a piramide in vetta alla punta più avanzata dell’isola. Io m’imbarcavo a Pozzuoli…. trovavo mia moglie alla marina di Casamicciola e insieme risalivamo alla Sentinella». Per coloro i quali abbiano conosciuto questo luogo, alto 126 m. sul livello del mare, aggiungiamo per una chiara conoscenza del sito, che prima del terremoto del 1883, ivi erano ubicati i migliori alberghi e ville della famosa cittadina termale; a mezza costa v’era il complesso alberghiero di cura e soggiorno Sauvè de Rivaz, sull’arce sorgeva l’albergo Grande Sentinella che nel 1815, per tragiche vicende, aveva ospitato il fuggitivo re di Napoli Joachim Murat. Sul versante orientale che declina verso Lacco sorgeva l’Hotel Bellevue che nella seconda metà dell’Ottocento avrebbe ospitato l’eroe dei due mondi Giuseppe Garibaldi e per ben tre volte lo scrittore e filosofo Ernest Renan; ai piedi v’era la Piccola Sentinella con l’attiguo Albergo Europa, conosciuto pure come Villa Pisani dal cognome del suo proprietario Don Crescenzo ed oggi Villa Ibsen in ricordo del drammaturgo svedese Enrik Ibsen, che ivi nel 1867 blandì il suo animo, mentre componeva il Peer Gynt, suo capolavoro. Poco distante ancora un altro ostello, l’Albergo Centrale, che ospitò lo scrittore danese Wilhelm Bergsoe. La comitiva francese il venti gennaio 1821 s’allontana da Napoli e prosegue per Roma, fissando l’alloggio in Via Ruberina ed in questa città sua moglie darà alla luce un bambino al quale sarà imposto il nome di Alfonso junior che verrà battezzato nella chiesa di San Pietro, avendo per padrino il marchese napoletano Gagliati e per madrina la principessa polacca Oginsky. Durante questo periodo in Roma, come di consuetudine, è in giro per la città per discettare poi di sera in casa della duchessa di Devonshire. Nel risalire a Firenze, prende dimora alla Villa Albizzi presso Porta Romana. Il ventotto aprile ripartono e dopo uno scalo a Torino ai primi giorni di giugno il gruppetto s’installa a Tresserve sul lago di Bourget, con la signora Anne Birch un po’ sofferente e monsieur Lamartine, come sempre, vagamente malandato ma piuttosto felice nella quiete di questo luogo. Con l’arrivo dell’autunno si fa ritorno a Mâcon e, pur essendo a corto di denaro, fa re- staurare il castello di Saint Point, che dal 1823 sarà la sua residenza familiare. S’intrattiene cordialmente con i suoi vignaiuoli, si gode le sue terre con i cani e gli uccelli, nelle delizie dell’ambiente agreste. Non rinuncia, il nostro, a diverse riprese, di recarsi a Parigi per sollecitare una segreteria d’ambasciata, esprimendo il desiderio di essere nominato a Firenze nel Granducato di Toscana. Passeranno quattro anni prima che ottenga l’incarico a cui anela. Il 14 magio 1822 , gli nasce a Mâcon un altro erede, stavolta una femminuccia alla quale si dà il nome di Giulia, quello della signora Charles, ch’era stato un suo amore. Pare che l’idea sia venuta alla stessa moglie per onorare un “ricordo d’amore” (quanta sensibilità!). In questo periodo il poeta diventa “filo inglese”, affermando che essi hanno esaltato la persona abbellendola con l’eleganza e, dopo la parentesi in Inghilterra, torna a Parigi dove il quattro di novembre muore a Parigi di tubercolosi il piccolo Alfonso. Il cambio di luogo e di clima non avevano arrecato beneficio al pargoletto e la sua dipartita addolora non poco il poeta e ne risente anche la produzione letteraria. Ma eccolo di nuovo in Italia, a Firenze, dove trascorrerà circa tre anni per il suo lavoro diplomatico e vi acquisterà anche casa, ossia la Villa Viviani in Via Faenza, non lontano dalla stazione, per 100.000 franchi, e che venderà successivamente alla marchesa Strozzi di Mantova, dopo averla prima fittata alla principessa Galitzine. Dirà il poeta, di questa residenza: «È una casina o un convento con una cappella, che il pittore Sylvestris mi ridipinge in gotico, circondata da giardini al sole, da limoni e olivi» Al suo arrivo, nel 1826, aveva abitato nella Casa Buchini in Via dei Serragli. Nel capoluogo del granducato avverrà tra l’altro l’incidente denigratorio verso l’Italia, da lui definita terra abitata da “uomini nati stanchi” e per tale motivo viene sfidato a duello dal colonnello Gabriele Pepe. Protesteranno pure lo scrittore Pietro Giordano ed il poeta Giuseppe La Rassegna d’Ischia n. 3/2012 21 Giusti. Volendo noi, tra l’altro, spezzare una lancia a sua difesa diremo che tale frase non avesse più di tanto d’offesa, dal momento che aveva pur detto della sua terra: “La Francia è una Nazione che si annoia”. Le parole probabilmente erano scaturite dal suo carattere romantico proiettato ad un futuro di elevazione della società. Lo scontro avviene il diciannove febbraio 1826 di fronte alle cascine di porta San Frediano; è un combattimento cavalleresco, non alla morte, ma solo un duello d’onore! All’impeto del Pepe, il francese oppone la calma della sua difesa, ma ne è anche disarmato e ferito ad una mano. Dopo qualche anno appena, forte dell’esperienza diplomatica, non disgiunta dalla sua ambizione, si dà alla politica. Nel 1833 sarà eletto deputato nelle Fiandre a Bérgues, propugnando idee liberali con assistenza ai disoccupati, abolizione della pena di morte e, per quanto riguarda il rapporto “sociale” tra Stato e popolo, affermava che la carità di Stato avrebbe impedito alla ricchezza di essere offensiva alla miseria, di essere rivoluzionaria. Si auspicava inoltre uno Stato scaturito dal suffragio universale ed un’istruzione gratuita per tutti. Queste idee alquanto idealiste non trovarono riscontro alle elezioni presidenziali del 1848, che furono vinte da Luigi Napoleone Bonaparte, arrivando ultimo tra i quattro candidati con soli 17.000 voti. L’estrosità del nostro poeta, la voglia di conoscere nuovi luoghi, nuove culture fanno sì che si organizzasse un altro viaggio, stavolta di lunga durata, per il Medio Oriente, desiderio già espresso a sua madre, in una lettera spedita da Firenze in data 27.12.1827 comunicandole che, per arricchire la sua carriera politica, avrebbe avuto bisogno di viaggiare tre anni in oriente (e che avrebbe preferito essere segretario d’Ambasciata a Napoli e non a Firenze). A riguardo del suo intenso amore per Napoli e il suo golfo scriveva intorno all’anno 1830: «Fate che io riveda quella riva felice dove Napoli specchia in mare d’azzurro le sue case e i suoi colli, 22 La Rassegna d’Ischia n. 3/2012 quegli astri senza nubi, e fiorisce l’arancio sotto il cielo più puro». Non ha torto lo scrittore Marius Guyard quando dice che la vita del Lamartine è troppo ricca di sentimenti e di fatti per essere riassunta in qualche pagina. Il viaggio prende inizio il ventotto maggio da Marsiglia con una nave a sei alberi, di 250 tonnellate di stazza e sedici uomini di equipaggio, chiamata Alceste (di proprietà Bruno Rostand); a bordo con loro i signori Capmas, Delaroyèr, vecchio sindaco di Hondshoot, medico, il suo amico Amedeo de Parsèval, sei domestici, alcuni passeggeri, una capra, un passero, il cane Fido e altri due ancora per sua compagnia. Navigando sotto le coste della Sardegna, il 21 luglio si giunge a Malta. Bisognerebbe attendere dieci giorni di quarantena, per poter porre piede a terra, ma questa viene ridotta a tre per intercessione del console francese a favore dell’illustre ospite, che sarà poi pure ricevuto. Il governatore inglese dell’isola fa scortare nel prosieguo del viaggio la nave Alceste dalla fregata Madagascar. In Grecia fanno scalo a Nauplie (definita miserabile borgata), laddove la figlia Giulia si ammala, come altre volte spesso le accade. Il 19 agosto è al Pireo, quindi Atene e Rodi per arrivare il 6 settembre a Beyrouth, dove la signora Marianna resta a fianco della figlioletta che si è ristabilita, ma solo apparentemente. Lui, Alfonso, a capo di una carovana con diciotto cavalli si mette in viaggio per Nazareth e Gerusalemme. Di poi il giorno venti ottobre, giunge ad Haifa. Ha così visitato molti luoghi sacri percorsi da Gesù Cristo secoli addietro. Queste conoscenze rievocano nella sua memoria gli stessi nomi e luoghi ascoltati nella prima infanzia dalla mamma Alice. Il cinque novembre potrà abbracciare la figlioletta alla quale regala una giumenta e potranno così cavalcare (passione a loro comune) entrambi felici; due settimane dopo (7 dicembre) la ragazzina morirà di “mal di petto” (tisi). I Lamartine restano senza figli! Si pensa allora di dare sepoltura a Giulia nel convento dei Cappuccini, non potendo tornare in Francia in quanto la nave Alceste sarebbe salpata nella successiva primavera. Nel marzo seguente come da programma si riprende a viaggiare e si va verso Baalbek e Damasco; quest’ultima città gli riporta in mente la figura di San Paolo apostolo. Ritornati nell’attuale capitale del Libano, il poeta fa imbalsamare le spoglie mortali di sua figlia, che è imbarcata sulla nave Santa Sofia con destinazione Marsiglia. I viaggiatori francesi, ridotti ai Lamartine, a Ferdinando Capmas (vecchio viceprefetto) e signora più qualche domestico, riprendono il loro viaggio per Rodi, Smirne e Costantinopoli, mentre gli amici dottor Delaroière e Amedeo de Parseval preferiscono il ritorno con l’Alceste. Appresa la notizia della sua elezione a deputato di Bergues, il Lamartine si convince di darsi alla vita politica. Passeranno poi per la Bulgaria, la Jugoslavia, dove potrà osservare la cosidetta “torre dei crani”, con le mura recanti incastrati i teschi di 15 Serbi uccisi dal Pascià per essere stati fautori di una rivolta. Successivamente, via Vienna, Stoccarda, Strasburgo, si otterrà la meta finale del ritorno a Mâcon, sua terra natale; si saranno spesi più di quattromila franchi, per un viaggio, per certi aspetti da ritenersi disastroso. Si consola il poeta, nella sua nazione, per i buoni affari economci, perché vende per 100.000 franchi i suoi lavori Viaggio in Oriente e Jocelin ed ancora una riedizione delle sue opere complete per 24.000 franchi. Tiene inoltre per la prima volta alla Camera dei Deputati un forte discorso, che però non raccoglie molti applausi e qualcuno dirà: è un poeta, non un oratore! Siamo nel 1835, quando il fantasioso Alfonso forte della sua genialità creativa, nel pieno della sua formazione di uomo (e per certa inclinazione alla megalomania), s‘industria per un commercio di vino per gli Stati Uniti: l’affare si rivela un disastro! La sregolatezza nel gestire le proprie finanze, l’alto tenore di vita che conduceva, l’inesperienza per gli affari, nel decennio successivo al viaggio in Oriente, lo porteranno a grossi debiti valutabili in più di un milione di franchi. Una volta scrivendo all’amico Dargaud esclamò: «Se non riesco a trovare denaro, debbo uscire dal territorio francese, rinunciare a tutto e vivere solo con i miei pensieri!» Nemmeno la sua attività editoriale, pubblicando il giornale “Il Bene Pubblico” (attraverso il quale si faceva pubblicità politica) riuscì ad aggiustare le proprie finanze. Sono in definitiva questi anni piuttosto bui, come non di rado capita nel cammino della vita, ed il poeta è stanco nel fisico e nello spirito sia per la dolorosa e prematura scomparsa della figlia, sia per i postumi della malattia che l’ha colpito in Romania (creduto perfino morto). Ne risente in negativo anche la sua produzione letteraria, che palesa un notevole rallentamento. Non manca però, in questo lasso di tempo, la sua opera parlamentare, facendosi notare alla Camera durante la seduta straordinaria, per discutere la legge repressiva contro gli attentati, in conseguenza di quello avvenuto contro Luigi Filippo, da parte dell’anarchico genovese Fieschi, sostenendo da par- te sua la libertà di stampa. Tra l’altro non gli fa difetto un calo di fede. Ma poiché, come si sostiene per tante esperienze, nelle vicende umane, a periodi “grigi” possono seguitare altri più felici, anche per il nostro, qualche tempo dopo, fugate tante amarezze, si schiuderanno anni sereni, cosparsi di soddisfazioni sociali, nonché di un piacevolissimo viaggio, ancora una volta nel Mezzogiorno d’Italia, sotto il cui bel cielo scrisse diverse opere. Domenico Di Spigna I - continua (Procida) - Quando il sole era al tramonto, facevamo lunghe camminate attraverso l’isola. La percorrevamo in tutti i sensi. Al centro compravamo il pane o i legumi che non si trovavano nel giardino di Andrea. Qualche volta portavamo anche un po’ di tabacco, questo oppio del marinaio, che lo rianima in mare e lo consola in terra. Rientravamo sul far della notte, con le tasche e le mani piene dei nostri modesti regali. La famiglia si riuniva, la sera, sul tetto che a Napoli si chiama astrico, per aspettare le ore del sonno. Nulla di così pittoresco, nelle belle notti di questo clima, che la scena dell’astrico al chiaro di luna. Nella campagna, la casa bassa e quadrata assomiglia a un piedistallo antico, che sostiene dei gruppi viventi e delle statue animate. Tutti gli abitanti della casa vi salgono, si muovono o si siedono in attitudini diverse; il chiarore della luna o i riflessi della lampada proiettano e disegnano questi profili sul fondo blu del firmamento. Si vede la vecchia madre che fila, il padre che fuma la sua pipa di terra cotta dal cannello di canna, i giovani appoggiare i gomiti sul parapetto e cantare con note lunghe e languide motivi marinareschi o campestri, il cui accento prolungato o vibrante ha qualcosa del lamento del legno torturato dalle onde o della vibrazione stridente della cicala al sole; le fanciulle infine, con vesti corte, i piedi nudi, le sopravvesti verdi e adornate di oro o di seta, i lunghi capelli neri ondeggianti, avvolti sulle spalle, in un fazzoletto annodato sulla nuca, a grossi nodi, per preservarli dalla polvere. Vi danzano spesso sole o con le loro sorelle: l’una tiene una chitarra, l’altra innalza sulla testa un tamburello con campanellini sonori. Questi due strumenti, l’uno querulo e leggero, l’altro monotono e pesante, si accordano meravigliosamente per rendere quasi senza arte le due note alternative del cuore dell’uomo: la tristezza e la gioia. Si sentono durante le notti d’estate su quasi tutti i tetti delle isole o della campagna di Napoli, anche sulle barche; quell’aereo concerto che insegue l’orecchio di sito in sito, dal mare fino alle montagne, somiglia al ronzio d’uno di quegli insetti che il caldo fa nascere e ronzare sotto questo bel cielo. Questo povero insetto, è l’uomo! Il quale canta alcuni giorni davanti a Dio la sua giovinezza e i suoi amori, e poi tace per l’eternità. Non ho mai potuto ascoltare queste note sparse nell’aria, dall’alto degli astrici, senza fermarmi e senza sentirmi il cuore perturbato, pronto a scoppiare per una gioia interiore o per una malinconia più forte di me (Lamartine - Graziella). (Procida) - Quand le soleil baissait, nous faisions de longues courses à travers l’île. Nous la traversions dans tous les sens. Nous allions à la ville acheter le pain ou les légumes qui manquaient au jardin d’Andréa. Quelquefois nous rapportions un peu de tabac, cet opium du marin, qui l’anime en mer et qui le console à terre. Nous rentrions à la nuit tombante, les poches et les mains pleines de nos modestes munificences. La famille se rassemblait, le soir, sur le toit qu’on appelle à Naples l’astrico, pour attendre les heures du sommeil. Rien de si pittoresque, dans les belles nuits de ce climat, que la scène de l’astrico au clair de la lune. A la campagne, la maison basse et carrée ressemble à un piédestal antique, qui porte des groupes vivants et des statues animées. Tous les habitants de la maison y montent, s’y meuvent ou s’y assoient dans des attitudes diverses; la clarté de la lune ou les lueurs de la lampe projettent et dessinent ces profils sur le fond bleu du firmament. On y voit la vieille mère filer, le père fumer sa pipe de terre cuite à la tige de roseau, les jeunes garçons s’accouder sur le rebord et chanter en longues notes traînantes ces airs marins ou champêtres dont l’accent prolongé ou vibrant a quelque chose de la plainte du bois torturé par les vagues ou de la vibration stridente de la cigale au soleil; les jeunes filles enfin, avec leurs robes courtes, les pieds nus, leurs soubrevestes vertes et galonnées d’or ou de soie, et leurs longs cheveux noirs flottants sur leurs épaules, enveloppés d’un mouchoir noué sur la nuque, à gros noeuds, pour préserver leur chevelure de la poussière. Elles y dansent souvent seules ou avec leurs soeurs; l’une tient une guitare, l’autre élève sur sa tête un tambour de basque entouré de sonnettes de cuivre. Ces deux instruments, l’un plaintif et léger, l’autre monotone et sourd, s’accordent merveilleusement pour rendre presque sans art les deux notes alternatives du coeur de l’homme: la tristesse et la joie. On les entend pendant les nuits d’été sur presque tous les toits des îles ou de la campagne de Naples, même sur les barques; ce concert aérien, qui poursuit l’oreille de site en site, depuis la mer jusqu’aux montagnes, ressemble aux bourdonnements d’un insecte de plus, que la chaleur fait naître et bourdonner sous ce beau ciel. Ce pauvre insecte, c’est l’homme! qui chante quelques jours devant Dieu sa jeunesse et ses amours, et puis qui se tait pour l’éternité. Je n’ai jamais pu entendre ces notes répandues dans l’air, du haut des astricos, sans m’arrêter et sans me sentir le coeur serré, prêt à éclater de joie intérieure ou de mélancolie plus forte que moi. (Lamartine - Les Confidences - Graziella) La Rassegna d’Ischia n. 3/2012 23