Augusto Ponzio. Plenaria, 6-7-2011

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Augusto Ponzio. Plenaria, 6-7-2011
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Augusto Ponzio
Parola propria e parola altrui in Michail Bachtin
1. Michail Bachtin e il suo Circolo
L’interesse per Michail Bachtin (1895-1975) e il suo Circolo ebbe inzio dall’edizione
inglese del 1973 (New York, Seminar Press) di Marxismo e filosofia del linguaggio:
Problemi fondamentali del metodo sociologico nella linguistica, di Valentin N. Vološinov,
una delle voci più importanti del cosiddetto “circolo bachtiniano” (1885-1937), libro
pubblicato originariamente a San Pietroburgo, allora Leningrado, per Priboj nel 1929 e
successivamente nel 1930 nella collana “Problemi di metodologia e di teoria della
letteratura”. Fu questa la prima traduzione in assoluto di Marxismo e filosofia del
linguaggio. Da essa, curata da me e nella traduzione di Nicola Cuscito, fu tratta l’edizione
italiana del 1976 (Dedalo), tranne per l’introduzione (non compresa nell’edizione inglese)
che fu tradotta direttamente dall’edizione russa del 1930 da Rita Bruzzese.
I saggi di L. Matejka e di I. R. Mateika, che accompagnavano l’edizione inglese, da
loro curata, di Marxismo e filosofia del linguaggio furono pubblicati in italiano nel volume a
mia cura e con una mia introduzione, Michail Bachtin. Semiotica, teoria della letteratura e
marxismo (Dedalo, 1977), insieme ai saggi di V.V. Ivanov, del 1973, “Significato delle idee
di M. Bachtin sul segno, l’enunciazione e il dialogo per la semiotica contemporanea” , al
saggio di M. Bachtin, “Il problema del testo” (1960-61), tutti tradotti da Nicoletta Marcialis,
e al saggio, tradotto da Giuseppe Mininni, di Julia Kristeva “La parola il dialogo il romanzo”
(1969).
Successivamente promossi anche l’edizione italiana, nella traduzione della stessa R.
Bruzzese, di Freudismo. Studio critico (1927) di Vološinov (Dedalo, 1977 con introduzione
di G. Mininni; nuova ed. a cura di A. Ponzio, trad. it. di L. Ponzio, Freud e il freudismo.
Studio critico, Mimesis, 2005) e di Il metodo formale nella scienza della letteratura Pavel
N. Medvedev (1891-1938), nella collana della Dedalo “Teoria del linguaggio e della
letteratura”, diretta da Vito Carofiglio, Rosa Rossi e Silvano Sabbadini e da me. Nella stessa
collana, nel 1980 pubblicai sotto il titolo di Il linguaggio come pratica sociale, nella
traduzione di Rita Bruzzese e N. Marcialis, la raccolta dei saggi di Vološinov apparsi tra il
1926 e il 1930: “La parola nella vita e nella poesia”, “Che cos’è il linguaggio?”, “La
costruzione dell’enunciazione”, “La parola e la sua funzione sociale”, “Le più recenti
tendenze del pensiero linguistico occidentale”, “Poetica e linguistica”. (Questa raccolta è poi
stata pubblicata, nella traduzione di L. Ponzio con il titolo di Linguaggio e scrittura,
Meltemi, 2003.
La terza parte di Marxismo e filosofia del linguaggio dal titolo “Per una storia delle
forme dell’enunciazione nelle costruzioni linguistiche. Saggio di applicazione del metodo
sociologico ai problemi della sintassi”, apparve in traduzione italiana dal russo nel 1995
nella raccolta di scritti del “Circolo di Bachtin”, Bachtin e le sue maschere, a cura di A.
Ponzio M. De Michiel e P. Jachia (Bari, Dedalo) — contenente scritti di Vološinov, Ivan I.
Kanaev (1893-1984), Pavel N. Medvedev e dello stesso M. M. Bachtin). Nella traduzione
dal russo di Luciano Ponzio questo testo è stato pubblicato come libro della collana “Il
segno e i suoi maestri” – diretta da Cosimo Caputo, da Susan Petrilli e da me – (Lecce,
Pensa Multimedia, 2010) con il titolo Parola propria e parola altrui nella sintassi
dell’enunciazione, con una mia introduzione, insieme a La parola nella vita e nella poesia.
Nella stessa collana, nel 2009, è apparsa l’edizione critica a cura di L. Ponzio e mia di Per
una filosofia dell’atto responsabile (1924-24) insieme (in appendice) al “Frammento del I
capitolo di L’autore e l’eroe nell’attività estetica” (1924). Nel 1999, da me curata, fu
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pubblicata la traduzione integrale dal russo di M. M. De Michiel di Marxismo e filosofia del
linguaggio (Lecce, Manni).
Tra le prime traduzioni di Marxismo e filosfia del linguaggio in altre lingue vanno
ricordate anche quella spagnola del 1976 (dalla versione inglese del 1973) di M. R.
Russovič, El signo ideologico y la philosophia del lenguaje (Buenos Aires, Nueva Vision) e
quella francese di M. Yaguello, Le marxisme et la philosophie du langage, del 1977
(Minuit). Nel 2010 è apparsa una nuova traduzione francese dal russo (edizione bilingue), a
cura di Patrick Sériot e Inna Tylkowski-Ageeva (Limoges, Lambert-Lucas).
Si attribuisce generalmente a Bachtin un ruolo di non poco conto nella progettazione e
realizzazione di Marxismo e filosofia del linguaggio, pubblicato nello stesso anno (1929) in
cui apparve la sua monografia Problemi dell’opera di Dostoevskij (trad. it. di M. De
Michiel, Edizioni dal sud 1997, nuova ed. 2010). Ciò avviene anche con altre opere riferibili
al cosiddetto “circolo di Bachtin”. Esse sono: Freudismo, di Vološinov; il libro di
Medvedev del 1928, Il metodo formale e la scienza della letteratura (trad. it. Bari, Dedalo,
1977); i saggi di Vološinov apparsi tra il 1925 e il 1930. Tra questi quello meno o non
affatto “bachtiniano” sembra essere “Al di là del sociale. Il freudismo” del 1925 (trad. it.
nella raccolta Bachtin e le sue maschere, Bari, Dedalo 1995., e in appendice a Freud e il
freudismo, Milano, Mimesis, 2008), in cui la critica a Freud risulta priva, a differenza del
libro del 1927, di qualsiasi apprezzamento della concezione freudiana e sembra ridursi
fondamentalmente all’opposizione tra il “naturalismo” o “biologismo” di Freud e la
prospettiva storico-sociale del marxismo. Mentre il saggio più “bachtiniano” è stato
generalmente considerato “La parola nella vita e la parola nella poesia”.
Un discorso a parte merita il saggio del 1926 “Il vitalismo contemporaneo” (trad. it.
nella raccolta citata Bachtin e le sue maschere, Bari Dedalo, 1995; e in Vita, a cura di A.
Ponzio, serie “Athanor”, 5, Roma, Meltemi, 2002), apparso con il nome del biologo Ivan I.
Kanaev. Da parte dello stesso Kanaev abbiamo l’esplicita dichiarazione, resa a Sergej. G.
Bočarov, uno dei curatori delle opere di Bachtin, dell’”appartenenza” a Bachtin di questo
saggio.
Sotto il suo il suo nome Bachtin pubblicò nel 1919 un breve articolo intitolato “Arte e
responsabilità”; nel 1929 il libro Problemi dell’opera di Dostoevskij; nel 1929 e nel 1930 le
introduzioni ai volumi XI e XIII delle Opere scelte di Tolstoj; nel 1963 Problemi della
poetica di Dostoevskij, nuova edizione rivista e ampliata della monografia precedente; e nel
1965 l’opera di François Rabelais e la cultura popolare del Medioevo e del Rinascimento,
rifacimento della dissertazione Rabelais nella storia del realismo presentata nel 1941
all’Istituto Gor’kij di Mosca e discussa nel 1946 (il capitolo su Rabelais e Gogol’, omesso in
Bachtin 1965, fu pubblicato in versione ampliata in Kontekst 1972, ora in Bachtin nella
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raccolta del 1975, trad. it. Estetica e romanzo, Einaudi, 1979). A ciò vanno aggiunte le
pubblicazioni (parziali) tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà degli anni
Settanta di testi scritti negli anni Venti-Quaranta, e la “Risposta a una domanda del Novyj
mir” (Bachtin 1970). L’unica pubblicazione tra il 1929 e il 1963, cioè tra la prima e la
seconda edizione della sua monografia su Dostoevskij fu “Esperienza di studio del
fabbisogno delle aziende collettive “ nella rivista Sovetskaja torgovlja [Il commercio
sovietico], 3, 1934, resoconto del suo lavoro di economo nella cooperativa distrettuale di
consumo di Kustanaj nel Kazachstan, dove era stato confinato.
La questione della “paternità” – la “questione omerica” è un po’ fuori posto, per la
verità, nel caso di chi come Bachtin e gli altri due autori in questione,Vološinov e
Medvedev, affermavano il carattere essenzialmente “semi-altrui delle parole”.
Il “circolo di Bachtin” non era una “scuola” nel senso accademico del termine, né
Bachtin era un “caposcuola”, né, in questo senso, un “maestro”, sicché non solo
l’espressione “circolo” e fuorviante se gli si attribuisce un significato di scuola ma lo è
anche e a maggior ragione l’espressione “di Bachtin”, se la si intende in termini di
derivazione, di appartenenza, di genealogia. Si tratta piuttosto di un sodalizio, di un’intensa
e affiatata collaborazione, all’insegna dell’amicizia e in base interessi e competenze diverse
a partire dalle quali ci si trova a occuparsi di temi comuni.
Alla stessa maniera in cui Bachtin come risulta dal saggio sopra menzionato si occupò
anche di biologia, il biologo Kanaev pubblicò, rispettivamente, nel 1972 e nel 1970, due
libri su Goethe. A Goethe era essenzialmente dedicato il libro di Bachtin del 1936-38 Il
romanzo di educazione e il suo significato nella storia del realismo di cui restano soltanto
alcuni testi, in parte solo in maniera frammentaria, dai materiali preparatori ad esso. Si può
senz’altro dire che l’opera di Goethe insieme a quella Dostoevskij e di Rabelais era il terzo
importante tema di riferimento della ricerca di Bachtin. A quanto risulta dalle lettere
scambiate con Kanaev, Bachtin conosceva entrambe le opere di Kanaev nella forma del
dattiloscritto. In una letetra datata 11 ottobre del 1962, Bachtin sottolinea all’amico
l’estraneità di Goethe al ricorso a due coppie di concetti in opposizione che invece sono
assunte generalmente come centrali nel pensiero occidentale: fenomeno ed essenza e
soggetto e oggetto: l’essenza non si cela dietro al fenomeno ma si manifesta nel fenomeno;
come pure nessuna contrapposizione di soggetto e oggetto tra conoscente e conosciuto, ma
compartecipazione, confronto. Nelle “Note” alla raccolta dei saggi di Bachtin del 1979 (trad.
it. Einaudi, 1988: 409-410), S. Averincev e S. Bočarov hanno riportato, oltre questa lettera a
Kanaev anche un’altra, del 1969, ancora a proposito di Goethe, dove Bachtin indica
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all’amico come in Goethe non ci sia neppure, nei confronti di queste ed altre abituali
contrapposizioni, l’idea che debbano essere superate in qualche sintesi, l’idea di una loro
conciliazione in un sistema compiuto: c’è invece in Goethe l’insistenza su una attiva
compartecipazione fra termini, aspetti e posizioni che solo da un punto di vista esterno e
astratto possono essere visti in un rapporto di contraddizione.
È anche singolare, come risulta nella raccolta da me curata insieme a Margherita De
Michiel e Paolo Jachia, degli scritti di Bachtin, Kanaev, Medvedev e Vološinov tra il 1919
e 1l 1929, che fosse Pavel Medvedev a dedicarsi tra il ‘25 e il ‘26 a recensioni concernenti
Dostoevskij – precisamente del libro di I. Neifel’d, che proponeva un’interpretazione
psicoanalitica di Dostoevskij, e della raccolta, a cura di A. S. Dolinin, di “articoli e
materiali” di Dostoevskij .
Per quanto riguarda Vološinov, anch’egli si occupa negli anni Venti di argomenti che
ritroviamo nella monografia del 1928 di Medvedev sul metodo formale e in quella di
Bachtin su Dostoevskij del 1929. Nel libro di Vološinov su Freud del 1927 si trova la
distinzione tra “ideologia ufficiale” e “ideologia non ufficiale” che ha un ruolo centrale nel
Rabelais di Bachtin, per quanto riguarda il rapporto tra la letteratura dell’UmanesimoRinascimento e la letteratura comico-ppopolare del Medioevo.
Vološinov, quando a Nevel’ nel 1919 entrò in rapporto con Bachtin, con il filosofo
Matvej I. Kagan (1889-1937), con il filosofo e critico letterario Lev V. Pumpianskij (18911940) e con la pianista Marja V. Judina (1899-1970) (v. come Bachtin stesso presenta questi
incontri e rapporti nelle conversazioni del 1973 con Viktor Duvakin, trad. it. di Rosa Stella
Casotti, Bachtin, In dialogo, a mia cura, Napoli, Edizione Scientifiche Italiane, 2008), era
originariamente musicologo e compositore. I suoi primi articoli agli inizi degli anni Venti –
antecedenti al saggio su Freud del 1925 e a quello del 1926 su “La parola nella vita e nella
poesia” – sono sulla “filosofia e la storia della musica”
L’amicizia e la frequentazione di Vološinov e Bachtin continua nei primi anni Venti a
Vitebsk, dove essi coabitano in una casa in affitto, e successivamente a Leningrado (San
Pietroburgo) – dove Bachtin alloggia con la moglie in una stanza dell’appartamento del suo
amico biologo Kanaev –, fino all’esilio di Bachtin a Kustanaj nel Kazakistan in seguito al
suo arresto il 24 dicembre del 1928 per la sua partecipazione al circolo religioso filosofico di
Aleksandr A. Mejer (1874-1939), che si proponeva di conciliare socialismo e cristianesimo,
e all’accusa, nel verdetto di condanna, di “relazioni a carattere antisovietico”.
Perciò probabilmente anche l’orientamento degli studi universitari di Vološinov, la sua
scelta del Dipartimento di letterature e di arti della Facoltà di Scienze sociali, il cui decano
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era il linguista Nikolaj Ja. Marr, e, terminati gli studi universitari, la sua iscrizione nel 1924
al dottorato presso l’Istituto delle lingue e delle letterature dell’Oriente e dell’Occidente
(ILJaZV), sempre a Leningrado, dove ebbe per insegnanti Lev Jakubinskij e Vasilij
Desnickij), risentono soprattutto dell’influenza del sodalizio con Bachtin, con Medvedv e
con gli altri che ne facevano parte.
Nel rapporto Vološinov (riprodotto tra gli “Annessi” alla traduzione francese del 2010
di Marxismo e filosofia del linguaggio a cura di Sèriot e Tylkowski-Ageers, 2010)
dell’attività da lui svolta nel 1925–26 come incaricato di corsi all’ILJaZV, ritroviamo, nel
piano di un lavoro, diviso in dieci capitoli e intitolato “Saggio di poetica sociologica”, i temi
dei suoi articoli che appariranno nella seconda metà degli anni Venti, tra cui anche quello
della “Parola nella vita e nella poesia”.
Ma essi sono anche i temi degli articoli di Medvedev (trad. it. in Le maschere di
Bachtin, cit,) e del suo libro del 1928. E sono anche i temi a cui lavora Bachtin, fin dai suoi
primi scritti del 1920-24: “Per una filosofia dell’atto responsabile” (trad. it. 2009, cit), e
l’ampio saggio “L’autore e l’eroe nell’attività artistica” (che dà il nome alla traduzione
italiana, Einaudi, L’autore e l’eroe, della raccolta del 1979 degli scritti di Bachtin), di cui il
frammento del primo capitolo pubblicato postumo (1986) si trova, come ho già detto, in
appendice a Per una filosofia dell’atto responsabile (2009).
Quando per il dottorato all’ILJaZ presenta il piano della sua attività di ricerca per
l’anno 1927-28, sotto la direzione di V, Denickij e N. Jalolev (anche questo – già pubblicato
in The Bachtin Circle a cura di C. Brandist, D. Shephered e G. Tihanov, Manchester
University Press, 2004 – negli annessi alla traduzione francese del 2010 di Marxismo e
filosofia del linguaggio a cura di Sériot e Tylkowski-Ageers), Vološinov indica come tema
della sua ricerca il rapporto tra parola propria e parola altrui. Anche chi conosce dell’opera
di Bachtin soltanto la sezione intitolata “La parola in Dostoevskij” del suo Dostoevskij, nella
prima edizione del 1929 o nella seconda del 1963, oppure L’autore e l’eroe, anche
nell’edizione del 1975 priva del I capitolo, non esiterebbe a indicare come “bachtiniano”
questo tema. La ricerca presentata da Vološinov si intitola “La trasmissione della parola
altrui”, e corrisponde essenzialmente alla terza parte di Marxismo e filosofia del linguaggio.
L’uso dell’aggettivo “bachtiniano” per indicare la sua “scuola”, come pure
l’espressione “circolo di Bachtin”, si va affermando quando Bachtin, dopo vari decenni di
oblio, ritorna a essere noto, mentre è ancora in vita (muore nel 1975), e i suoi scritti
cominciano ad essere conosciuti anche a livello internazionale. La scomparsa negli anni
Trenta di Vološinov (per tubercolosi) e di Medvedev (arrestato a Leningrado,viene fucilato
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il 17 luglio del 1938) ha contribuito certamente alla dipendenza della stessa riedizione delle
loro opere negli anni Settanta dalla notorietà di Bachtin in quanto “opere bachtiniane”, e in
quanto essi facevano parte del “circolo di Bachtin”, comunque si intendano queste
espressioni e qualsiasi sia il ruolo che con esse si voglia attribuire a Bachtin.
Bachtin stesso, nelle conversazioni del 1973 con V. Duvakin (v. Bachtin, In dialogo,
Napoli, ESI, 2008), parla di “circolo di Bachtin” ma dicendo precisamente che egli faceva
parte di un gruppo, aveva intorno a sé un circolo, formatosi a Nevel’, salvo per Medvedev, e
che poi crebbe e si consolidò a Vitebsk prima e a Leningrado poi, “circolo che ora chiamano
‘circolo di Bachtin’” (si veda, per quanto riguarda Medvedev, l’interessante introduzione
alla recente traduzione in francese del suo libro del 1928, a cura di Benèdicte Vauthier e
Roger Comtet, pref. di Youri Medvedev, Toulouse, Presses Universitaires di Mirail, 2007, il
cui frontespizio è significativamente: Pavel Medved, Cercle de Bakhtine, Le mèthode
formelle en littérature.
Certamente all’evidenziazione del carattere dialogico della parola un importante
contributo fu dato da L. P. Jakubinskij, discepolo di Baudouin de Courtenay ed uno degli
esponenti dell’OPOJaZ (Società per lo studio del linguaggio poetico), docente all’ILJaZV
quando Vološinov era dottorando e autore di un saggio saggio del 1923 intitolato “Sul
discorso dialogico”, menzionato in una nota nella III parte di Marxismo e filosofia del
linguaggio semplicemente per informare che “nella linguistica russa c’è un unico lavoro che
affronta il problema del dialogo”. Anche Jakubinskij aveva mostrato l’insufficienza delle
categorie della linguistica quando, anziché a frasi monologiche isolate, vengano applicate
all’interazione verbale del dialogo. Ma anche se per insegnanti, nel senso scolastico e
accademico del termine, Vološinov ebbe Jakubinskij, come pure Desnickij e non Bachtin,
credo che non si possa avere nulla da ridire quando Bachtin (nel 1964) riferendosi a
Vološinov (che per altro era quasi suo coetaneo e con quale si era incontrato quando
entrambi avevano più o meno ventiquattro anni) dice, in una lettera a Vadim V. Kožinov
(uno dei curatori degli scritti di Bachtin), che può a buon diritto chiamarlo suo allievo.
Volosinov, Medvedev non sono certamente dei prestanome; è banale precisare che essi
sono persone in carne ed ossa, ciascuno con la propria vita, la propria formazione, i propri
valori, la propria preparazione, la propria ideologia e i propri “ideologemi”. Ma per quanto
concerne il “circolo di Bachtin” essi ne sono, insieme a Bachtin, le voci. Lo sono in maniera
“paritaria”. Questo va detto solo in contrasto con l’idea che nel gruppo, ivi compresi Kagan,
Pumpianskij, ci dovesse essere un leader, un Maestro, un caposcuola. Ma, e questo è
l’essenziale, lo sono in un rapporto di reciproca incommensurabilità – come accade in un
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rapporto eccezionale, fuori ruolo, fuori identità, fuori appartenenza, in un rapporto tra
differenze reciprocamente non indifferenti, in un rapporto tra singoli, in cui ciascuno è
unico, inclassificabile, insostituibile.
Fin dal suo trasferimento da Pietrogrado (San Pietroburgo) a Nevel’ nel 1918 e quindi
fin dalla formazione del “circolo filosofico” poi denominato “scuola di filosofia di Nevel”, il
lavoro di studio e di ricerca di Bachtin si intreccia con quello di alcuni suoi collaboratori ed
amici di quel gruppo che verrà indicato come “circolo di Bachtin”, al punto da non poter
essere nettamente distinto da esso, quasi a conferma della sua tesi del carattere “semi-altrui”
della “parola propria” e a dispetto dei critici che si accaniscono a stabilire proprietà e
paternità.
E anche quando, in seguito alla repressione staliniana si sfalda il “circolo”, muoiono
Medevedev e Voloπinov e Bachtin è confinato prima in Kazachstan e poi in Mordovia, le
loro voci, in un dialogo ininterrotto, continuano a sentirsi nella ostinata prosecuzione della
sua ricerca fino al 1975, anno della sua morte. L’ascolto delle voci, di Voloπinov e di
Medvedev, come pure di Punpianskij, di Kagan, di Judina, di Boris M. Zubakin (18941938), del musicologo Ivan I. Sollertinskij (1902-1944), del poeta Kostantin Vaginov (18991949), per quanto autonome, indipendenti, singolari, sui generis esse suonino, avviene nel
testo dell’autore Bachtin, a partire da esso, nel contesto del “circolo di Bachtin” come voci
dell’ininterrotto dialogo bachtiniano, anche quando siano altri autori (i critici di Bachtin) a
riportarle e a evidenziarne l’originalità e la differenza specifica. In questo senso
“bachtiniano” è il testo in cui esse si presentano inevitabilmente oggi, testo polifonico, in cui
le voci, compresa quella dell’autore Bachtin, interagiscono tra loro risuonando in una stessa
voce.
Separare queste voci e considerarle indipendenti l’una dall’altra significa fare la stessa
cosa che è stata fatta riguardo alle voci della polifonia di Dostoevskij: Bachtin parla a tale
proposito di “dostoevskismo”:
Il “dostoevskismo” è lo sfruttamento reazionario puramente monologico che viene fatto della
polifonia dostoevskiana. Esso si chiude sempre nei limiti di una coscienza, fruga in essa, crea il culto
dello sdoppiamento della persona isolata. Ma la cosa principale della polifonia di Dostoevskij è
invece proprio ciò che si compie tra diverse coscienze, cioè la loro interazione e interdipendenza.
Non bisogna andare a scuola da Raskol’nikov e da Sonja, da Ivan Karamazov e da Zosima, separando
le loro voci dal complesso polifonico dei romanzi (e con questo stesso deformandoli) […] (Bachtin,
Dostoevskij, Poetica e stilistica, 1963, trad. it. Einaudi,1968: 52).
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Se si fa questa stessa operazione nei confronti della polifonia del “circolo bachtiniano”
con il nobile scopo di restituire ogni opera al suo “vero autore”, non sorprende che si possa
giungere alla conclusione, come fa Patrik Sériot (“Préface” all’ed. franc. di Marxismo e
filosofia del linguaggio, cit. p. 87), che “è difficile trovare un testo più antidialogico (e meno
carnevalesco) di Marxismo e filosofia del linguaggio, discorso di verità, parola autoritaria,
che non ammette ipotesi. Vološinov non dubita mai”.
Bachtin al passo in cui critica il “dostoevskismo”, aggiunge che, invece, “bisogna
andare a scuola dallo stesso Dostoevskij in quanto creatore del romanzo polifonico” (ibid.).
Il “dostoevskismo” è ricondurre la parola all’identità di chi la proferisce. Per Bachtin andare
a scuola da Dostoevskij significa, invece, riconoscere l’alterità della parola, riconoscimento
opposto al primato dell’identità.
Malgrado gli intenti come quello di Sériot di riportare Marxismo e filosofia del
linguaggio nel suo “proprio contesto”, nella sua “temporalità e nella sua spazialità propria”,
poiché questo “proprio” è inteso in senso ristretto, in termini di appartenenza e di identità,
ciò che si perde di vista è appunto la polifonia dell’effettivo contesto della parola di
Vološinov, il contesto “bachtiniano”: bachtiniano nel senso che abbiamo chiarito sopra, e
non di nuovo riferito a un’identità, a un autore, a una paternità.
Nelle conversazioni con Duvakin Bachtin racconta del suo amico e poeta Konstantin
K, Vaginov e della sua poesia dissacrante, blasfema per l’epoca. Bachtin racconta degli
amici del suo circolo, dei vecchi amici scomparsi Pumpianskiij, Vološinov, Kagan,
Medvedev, Sollertinskij, Judina, e dei nuovi, V. N. Turbin, V. V. Kozinov, Bočarov,
Leontina Sergeevna Melichova, Georgij D. Gacev… Racconta della sua amica straordinaria,
Marija Veniaminovna Judina, musicista, che dentro la musica “trasportava tutto ciò che si
trovava al confine” tra la musica e le altre arti, al confine tra la letteratura e la filosofia, tra la
musica, la poesia e la religione, e perciò “non si inquadrava assolutamente nella cornice del
professionismo musicale”, “qualsiasi professionismo era assolutamente estraneo a persone
come lei”. In Marija Veniaminovna Judina si trovavano insieme filosofia, mitologia,
religione e musica “che sono le cose più affini al mondo”. E poi: “Maria Veniaminovna era
una persona assolutamente non ufficiale. Tutto ciò che era ufficiale le pesava. Come, del
resto, anche a me. Anch’io non posso soffrire ciò che è ufficiale”.
Bachtin persona non ufficiale: di un altro circolo rispetto a quelli ufficiali, pubblici,
incline alla non ufficialità già ancor prima del suo arresto e della sua condanna; e proprio per
questo capace, nei molti e lunghi anni di totale estromissione dalla cultura dell’epoca, di
procedere nel suo viaggio di scrittura, in dialogo, in ascolto.
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2. Bachtin e il marxismo
Nel 1981 pubblicai con l’editore Bertani di Verona Segni e contraddizioni. Fra Marx e
Bachtin, dove confrontavo la posizione di Marx con quella del circolo bachtiniano. Prima di
rispondere alla domanda se si può parlare di marxismo a proposito di Bachtin e del suo
Circolo, anzi prima di porla, è opportuno ricordare che, durante una discussione in cui
ciascuno diceva di essere marxista e accusava altri di non esserlo “Marx disse ridendo:
Posso dire una cosa soltanto: che non sono marxista” (Hans Magnus Enzensberger, Colloqui
con Marx ed Engels, Einaudi, 1977). Un Marx non ortodosso, impegnato negli ultimi anni
della sua vita essenzialmente a risolvere questioni concernenti il calcolo differenziale –
superando la versione algebrica di Lagrange e procedendo isolatamente e autonomamente
nella direzione di Cauchy e Weierstrass –, avevo incontrato nel mio lavoro di traduzione dei
suoi Manoscritti matematici, a cui ho già fatto riferimento. Intanto con il “marxismo
ortodosso” applicato a questioni linguistiche avevo avuto a che fare traducendo e
presentando in italiano (pp. 5-78) di Jean-Baptiste Marcellesi, Linguaggio e classi sociali.
Marrismo e stalinismo (Dedalo, 1978,in cui sono raccolti i relativi alla discussione del
marrismo (la teoria di N. Ja. Marr) avviata nel 1950 da Stalin in persona sulla Pravda con il
suo intervento sulla linguistica che demoliva quella che era stata considerata fino ad allora la
teoria linguistica “di Stato”.
Il marxismo del Circolo di Bachtin non era certamente il marxismo ortodosso, ma
tanto meno lo si può chiamare, come fa Patrick Sériot (“Preface” a Vološinov, Marxismo
et philosophie du langage, 2010, cit. p. 57) “marxismo accademico”. Il marxismo di
Vološinov, secondo Sériot, è “una metateoria delle scienze umane”. Vološinov, egli dice,
non cita mai Marx”. A smentire quest’ultima affermazione basta la citazione nel libro di
Vološinov del 1927 su Freud e il freudismo, addirittura collocata come epigrafe – epigrafe
eliminata nella traduzione inglese – dalla VI delle tesi di Marx su Feuerbach: “Menschliche
Wesen ist kein dem einzelnen Individuum innewolmendes Abstactum. In sein Wiklicheit ist es
das Ensemble der gesellschaftlichen Verhältinisse”. Su questa enunciazione, che assume un
senso del tutto diverso a seconda che si traduca Menschliche Wesen con “essenza umana” o
con “essere umano” nel senso di esistente umano, di individuo umano, come risulta dalla
discussione tra Adam Schaff e Luciene Sève svoltasi nella rivista l’Homme et la Société (i
testi di questa discussione furono da me tradotti in italiano e commentati nell’introduzione,
intitolata “Il problema dell’individuo umano e la traduzione e il senso delle Tesi di Marx su
Feuerbach”, al libro del 1975 già ricordato, Marxismo e umanesimo (pp. 5-48). Afferma
Sériot: Vološinov “n’a jamais été membre d’aucun parti politique”; “il ne cite jamais le nom
de Marx”; “le mots ‘politique’ et ‘revolution’ sont extrêmament rares dans ses écrits”, “il ne
se propose jamais de changer quoi que soit”, “il n’a jamais été impliqué dans de activités
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révolutionnaires ou mê me militants”, “il na mais fréquenté les quartiers prolétaires”; si
tratta di uno strano marxismo, conclude Sèriot, un “marxisme sans praxis, sans politique e
sans Marx” (ibid.)
Certo, Vološinov, come Bakhtin, Medvedev e altri componenti del Circolo
bachtiniano ma anche come Lev Vytgoski, non aveva l’abitudine di invocare, diversamente
dai costumi dell’epoca, l’autorità di Marx, non erano militanti, non si dichiaravano
“marxisti”, come se il “marxismo” fosse una fede. Ma senza dubbio erano “dissidenti”. la
loro vita testimonia questo. Bachtin fu esiliato, Medvedev fucilato, gli altri furono
emarginati e incarcerati. Essi non si limitavano a ripetere la formula del carattere
sovrastrutturale e classista della lingua diversamente da N. Ja. Marr, morto anch’egli nel
1934, come Vygotski, ma la cui teoria dominò, l’ho ricordato, fino al ‘50 quando, con gli
articoli di Stalin sulla Pravda, al marrismo si sostituì, nel campo dello studio della lingua e
del linguaggio, un’altra teoria, che dogmaticamente faceva ricorso anch’essa all’autorità, ma
questa volta, come era già successo per altre scienze, a quella di Stalin in persona.
Vološinov, nell’introduzione – eliminata nella edizione inglese – di Marxismo e
filosofia del linguaggio inizia affermando coraggiosamente che “Fino ad oggi non esiste
alcun lavoro marxista di filosofia del linguaggio, né si trovano, in lavori marxisti dedicati a
temi affini, considerazioni sul linguaggio in qualche modo definite e sviluppate. […] A ciò
si deve aggiungere che in tutti i settori appena sfiorati o del tutto trascurati dai fondatori –
Marx e Engels – si sono saldamente installate categorie meccaniciste. Tutti questi settori si
trovano ancora fondamentalmente in uno stato di di materialismo meccanistico
predialettico” (Marxismo e filosofia del linguaggio, Lecce, Manni, 1999: 115-117).
Per quanto riguarda Bachtin, mi limito solo ad accennare che nel Rabelais, che occupa
un ruolo centrale nella sua opera complessiva, in contrasto con la riduttiva interpretazione
dominante della concezione di Marx, viene sviluppala l’idea da lui introdotta che l’umano si
realizza pienamente là dove finisce il regno della necessità. Nel Rabelais si sostiene che la
festa nella sua manifestazione non vincolata, diversamente dalla “festa ufficiale”, a identità,
ruoli, appartenenze, e come espressione del diritto umano all’infunzionalità, è – non meno
del lavoro non ridotto a merce e alienato, ma in quanto trasformazione, creatività,
invenzione – una modalità specificamente caratterizzante dell’individuo umano, non
astrattamente
inteso,
ma
considerato
nell’insieme
dei
suoi
rapporti
sociali.
Conseguentemente potremmo dire, con il Marx dei Grundrisse, che la vera ricchezza sociale
non è il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile, disponibile per l’altro – l’altro da sé e
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l’altro di sé –, e con Bachtin il tempo della festa ufficiale, che come risulta dal suo
Rabelais, è collegato con il “tempo grande” della scrittura letteraria.
3. L’ascolto e il dialogo
Nel riproporre la lettura dei testi di Bachtin tra il 1919 e il 1929, anche attraverso la
loro traduzione italiana, e nel presentare in italiano le sue conversazioni tenute con Duvakin
tra il 22 febbraio e il 23 marzo del 1973 (Bachtin, In dialogo, 2008, cit.), il mio intento
principale è stato quello di mettere in discussione alcuni degli equivoci ricorrenti nella
interpretazione dell’opera bachtiniana. In questo senso un contributo notevole è dato da
quanto Bachtin stesso dice comversando con Duvakin nel 1973. Già il suo dichiararsi
“filosofo” in queste conversazioni (“filosofo: è ciò che sono stato e ciò che sono fin ora”),
smentisce esplicitamente la riduzione ricorrente di Bachtin a critico della lettura. Ma questa
sua dichiarazione si trova anche altrove, in maniera altrettanto diretta nel saggio del 196061, “Il problema del testo”. Per Bachtin la sua ricerca non rientra né nella linguistica, né
nella filologia, né nella critica letteraria e tanto meno nella semiotica, ma, attraversando i
confini di queste discipline e stabilendo tra loro un rapporto dialogico, essa si caratterizza
come “filosofica”. Da qui l’importanza del testo del 1920-24 – che ho riproposto più volte in
traduzione italiana e nel 2003 in edizione critica –, dove il punto di avvio è chiaramente
quello filosofico, precisamente quello di una “filsofia dell’atto responsabile”.
Secondo Bachtin, l’atteggiamento filosofico consiste nel rifiutare la chiusura
all’interno di un campo disciplinare in una “ontologia regionale”, dirrebbe Husserl, ma
anche la chiusura sul piano di un’ontologia “ontologie générale”, risultato di una visione
totalizzante estena e astratta. Questo movimento al di là dell’essere così, questa ricerca
dell’altrimenti, dell’oltrepassamento delle frontiere viene espresso da Bachtin tramite il
prefisso “meta”. Nella seconda edizione del Dostoevskii, Bachtin denomina la sua ricerca
metalinguistica. Ma “filosofia del linguaggio”, va altrettanto bene. L’atteggiamento
fondamentale e anche il tema ricorrente della ricerca bachtiniana è l’ascolto della parola
altrui. L’atteggiamento critico, privo di pregiudizi, della filosofia del linguaggio sta nel
riconoscimento dell’apertura inevitabile della parola propria, dell’enunciazione propria, alla
parola altrui. Sta qui il punto di incontro tra
1) la terza parte di Marxismo e filosofia del linguaggio di Vološinov dedicata allo
studio delle forme dell’enunciazione nelle costruzioni sintattiche della lingua (parte
determinante e conclusiva, ben diversamente, dunque, da come è stata generalmente
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considerata, cioè come qualcosa di giustapposto o fuori tema rispetto alla questione del
rapporto tra marxismo e filosofia del linguaggio),
2) il capitolo del Dostoevskij di Bachtin riguardante “la parola in Dostoevskij” e
3) il saggio del ‘26 di Vološinov “La parola nella vita e nella poesia”, come ho
cercato di mostrare nell’introduzione a M. Bachtin e V. N. Vološinov Parola propria e
parola altrui nella sintassi dell’enunciazione (Lecce, Multimedia 2010: 9-72), che riunisce
questi due testi di Vološinov.
La prospettiva che, con Bachtin, io chiamo “filosofia del linguaggio”, si presenta
anche come filosofia dell’ascolto, ascolto della parola altrui, della sua ricezione e della
comprensione rispondente, responsiva, nei suoi confronti.
Come ho mostrato in The dialogic Nature of Sign (Toronto, Legas 2006) e nella
presentazione all’edizione brasiliana del mio libro in collaborazione con Patrizia Calefato e
Susan Petrilli del 1994 (2a ed. 1999, Roma-Bari: Laterza), Fundamentos de Filosofia da
Language (Petropolis, Vozes, 2007: 9-68), poi ripresa come capitolo I° di Lineamenti di
semiotica e di filosofia del linguaggio (con Susan Petrilli, Graphis, 2008: 3-84), il problema
fondamentale della filosofia del linguaggio è il problema dell’altro, e il problema dell’altro è
il problema della parola, della parola come voce, riconosciuta come domanda di ascolto.
Una filosofia del linguaggio, dunque, come arte dell’ascolto. È per questo che Bachtin, io
credo, prende Dostoevskij come modello: Dostoevskij sapeva ascoltare le parole, e sapeva
intenderle come voci, cioè nella loro differenza singolare.
L’ascolto non è esteriore alla parola, una aggiunta, una concessione, un’iniziativa di
chi la riceve, una scelta, una gentile concessione, un atto di rispetto nei suoi confronti.
L’ascolto, dice Bachtin, è un elemento costitutivo della parola, che non può essere
evidenziato dalla liguistica a condizione che divenga meta-linguistica. La parola, egli dice
(in “Le problema del testo” (1960-61), “vuole sempre l’ascolto, cerca la comprensione
rispondente, e vuole, sua volta, rispondere alla risposta, e così ad infinitum; non si limita a
una comprensione che avviene nell’immediato ma si spinge sempre oltre (in maniera
illimitata). La parola fa parte di un dialogo in cui il senso non avrà mai fine”.
La peggior cosa che possa accadere alla parola è l’assenza di ascolto (lo evidenzia
bene una pagina di Primo Levi riportata da Fabio De Leonardis nel volume di Athanor
intolato Umano troppo disumano: l’assenza di ascolto, ivi incluso il voler sentire,
l’interrogare, il “veniamo ai fatti” di La folie du jour di Maurice Blanchot; non il tacere, che
al contrario è proprio la condizione dell’ascolto – “il tacere dell’ascolto parla” – soprattutto
quando assume la forma della scrittura letteraria (come sottolinea Bachtin negli “Appunti
del 1970-71”), ma il silenzio. L’ascolto è l’arte della parola, il suo mestiere, la sua maniera,
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il suo attitudine, la sua prerogativa, la sua modalità particolare. Ma, come mostra Bachtin, ci
vuole l’arte verbale, l’ascolto letterario, ci vogliono i “generi secondari”, “complessi”, “i
generi della parola indiretta, oggettivata, raffigurata”, ci vuole lo scrittore, l’écrivain
(secondo la distinzione proposta da Roland Barthes tra écrivains et écrivants) per esaltare
l’ascolto comme arte della parola. Sta qui il rapporto tra la filosofia del linguaggio come arte
dell’ascolto e la scrittura letteraria (rinvio a questo proposito al libro a cura di Susan Petrilli,
Philosophy of language as the art of listening, Edizioni dal Sud, 2007).
Il rapporto tra lingua e enunciazione, tra langue e parole, non è un rapporto diretto, un
rapporto duale. Esso passa per i generi del discorso. Ogni enunciato, ogni testo verbale, fa
necessariamente parte di un genere di discorso. Si parla sempre non soltanto in una certa
lingua ma anche in un certo genere di discorso. Nel testo del 1952-53, “Il problema dei
generi di discorso” (trad. it. in Bachtin, L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi 1988), Bachtin si
occupa direttamente dei generi letterari, e aveva l’intenzione di scrivere un libro su questo
argomento. Egli distingue tra i genri primari o semplici, vale a dire i generi della vita
ordinaria – i generi della rappresentazione ufficiale, della realtà sociale, dei ruoli, dei
rapporti interpersonali quotidiani, della parola funzionale e oggettiva – e i generi secondari o
indiretti o complessi che raffigurano i primi: sono i generi della raffigurazione (izobrazenie)
litteraria, i generi della parola indiretta. Sono appunto questi ultimi quelli che possono
mettere in evidenza, in tutta la sua ampiezza, la disponibilità della parola verso la parola
altrui, mostrare come la parola propria viva della ricezione della parola altrui, della sua
interpretazione e della sua trasmissione, della sua comprensione rispondente. Ecco perché
una filosofia del linguaggio e una metalinguistica, una linguistica dell’ascolto, necessitano
del rapporto con la scrittura letteraria, in tutti i suoi generi e non soltanto nel genere
romanzo. Anche questa riduzione dell’interesse di Bachtin al solo genere romanzo,
costituisce un altro grosso limite dell’interpretazione ricorrente del pensiero bachtiniano.
Volendo indicare i punti essenziali della critica che, nei miei lavori su Bachtin, ho
rivolto ai fraitendimenti in cui sono incorsi i suoi interpreti maggiori, cioè proprio quelli che
hanno maggiormente contribuito alla sua conoscenza e divulgazione (come Todorov, Clark,
Holquist, Wladimir Krysinski e anche René Wellek, che ha incluso Bachtin nella sua A
History of Modern Criticism, riservandogli ben ventiquattro pagine), essi si possono
formulare così:
1) Il fatto stesso che Bachtin all’inizio della sua ricerca, specificamente nel saggio del
1920-24, “Per una filosofia dell’atto”, e in quello del 1924, “L’autore e l’eroe nell’attività
estetica”, per analizzare l’intreccio tra parola propria e parola altrui, per mostrare la presenza
di voci diverse in una stessa parola, esordisca facendo ricorso al genere lirico, esattamente
scegliendo come esempio la poesia di Puskin, Razluka (Dipartita, 1830), a cui dedica una
analisi abbastanza approfondita, smentisce l’idea preconcetta, abbastanza diffusa, secondo la
quale Bachtin avrebbe accordato poca attenzione al genere lirico, interessandosi unicamente
al genere romanzo, e evidenzia il carattere erroneo dell’interpretazione della sua concezione
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del dialogo nei generi letterari come contrapposizione rigida tra “generi monologici”, tra cui
vi sarebbe la poesia lirica, e “generi dialogici”, come il romanzo, soprattutto nella sua
espressione polifonica. Qualsiasi testo letterario, per essere tale, richiede la presenza di più
voci, di più punti di vista, richiede che in esso ci sia l’ascolto dell’altro: l’io, in quanto tale,
“è esteticamente improduttivo”, dice Bachtin. “Per le rive della patria lontana / Stavi
lasciando il suolo straniero” è l’inizio esteticamente valido cui perviene Puškin dopo aver
corretto quello della prima stesura, “Per le rive di una terra straniera / Tu stavi lasciando il
paese natio”. Non per motivi metrici o di musicalità o di “bellezza estetica”, ma perché in
quest’ultimo, a differenza del primo, c’è solo il punto di vista di un io (l’”autore”, russo) che
soffre per la partenza della donna amata (l’”eroina”, italiana) che va via, sicché non un sola
parola appartiene alla voce di lei, mentre nell’altro, quello della stesura definitiva, nelle
parole che lo compongono si sente tanto la voce di lei che torna nella sua patria e lascia la
terra straniera quanto la voce di lui che già soffre per la sua lontananza.
2) Il termine bachtiniano “dialogicità” non è sostituibile con “intertestualità”
riservando i termini “dialogo e “dialogico” per indicare lo scambio di battute fra
interlocutori. Dialogica è già, al suo interno, la singola battuta, e lo stesso monologo è
dialogico, come lo è il discorso interno, il parlare o il pensare con una sola voce, che in
effetti, proprio per questo, non è mai “una sola voce”. Il ragionare (sia parlando agli altri, sia
a se stessi) – l’inferire, l’argomentare – è costitutivamente dialogico. La ragione (cfr. di
Bachtin gli appunti del 1970-71), che solo astrattamente è ragione formale o ragione
dialettica, concretamente è ragione dialogica, che come tale, non può mai avere ragione
dell’altro. E anche il termine bachtiniano “metalinguistica” non può essere sostituito con
“translinguistica”, perché quest’ultimo ne elimina il carattere critico. Riducendo il termine
“dialogo” al rapporto fra le repliche e riducendo l’istanza “metalinguistica” allo studio
specialistico della “translinguistica”, della cui “competenza” sarebbe il discorso, e non la
lingua, non le relazioni logiche o stilistiche, si minimizza, se non proprio nullifica, la portata
rivoluzionaria dell’orientamento bachtiniano. La “rivoluzione copernicana” di Bachtin sul
piano filosofico, come quella di Dostoevskij da lui evidenziata sul piano artistico,
riguardano l’uomo nella sua interezza, nella sua vita, nel suo pensare e nel suo agire: rispetto
alla “critica della ragione pura” di Kant e alla”critica della ragione dialettica” di Sartre, essa
inaugura, con Bachtin, una “critica della ragione dialogica”
3) La posizione di Bachtin è ben diversa da quella di Buber, Heidegger, Sartre, anche
dalla scuola neokantiana di Marpurgo (Herman Cohen, Paul Natorp, Ernst Cassirer), cui la si
è voluta accostare, finendo con precludere la comprensione della sua originalità e effettiva
specificità per quanto riguarda la concezione dell’alterità, che è inseparabile da quella del
dialogo.
4) Per Bachtin l’individuo umano è dialogico suo malgrado; il dialogo non è una
prerogativa della personalità umana, ma un suo limite, un ostacolo della sua identità, alla sua
autodeterminazione, un impedimento alla sua definizione e compimento. Il dialogo in
Bachtin non è una sorta di dovere morale. non è il risultato dell’iniziativa dell’io, ma il
luogo della sua costituzione e manifestazione. Il dialogo non aspetta per sussistere che l’io si
decida a rispettare l’altro. Il dialogo che Bachtin evidenzia attraverso Dostoevskij non
dipende dal rispetto dell’altro. Il dialogo non è il risultato di un atteggiamento di apertura
all’altro, ma consiste nell’impossibilità della chiusura, e si evidenzia proprio nei tentativi
tragicomici di chiusura,di autonomia, di indifferenza.
5) Spesso di confondono due piani diversi: quello della sperimentazione artistica del
romanzo polifonico (che è tale, precisa Bachtin, solo in senso metaforico) e quello della
dialogicità come impossibilità reale di chiusura all’alterità. Il fenomeno che Bachtin chiama
polifonia non è semplicemente un altro nome per dialogicità, Bachtin usa due parole diverse
perché si tratta di due cose diverse, appartenenti a due piani diversi: la polifonia è una
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creazione artistica, una visione; la dialogicità è l’aspetto che la polifonia del romanzo ha
permesso di vedere dell’uomo e della sua vita.
6) Non è vero, come invece si è voluto capire, che Bachtin, intende negare la presenza
in Dostoevskij della voce d’autore e della suo personale prospettiva. Per Bachtin, da parte
dell’autore nei confronti dell’eroe non c’è né indifferenza, che comporterebbe la riduzione
delle voci a semplici oggetti rappresentati, ma neppure c’è “immedesimazione”. La polifonia
non consiste nella tendenza del romanzo verso il dramma, verso “l’oggettività” e
l’”impersonalità”, verso la “scomparsa dell’autore”. Se la polifonia conistesse in ciò, essa
sarebbe realizzata dai generi drammatici sicuramente meglio di quanto possa fare il genere
romanzo. Per Bachtin il romanzo polifonico di Dostoevskij è costruito in modo da rendere
l’interazione dialogica irrinunciabile, irrimediabile. Nessun momento dell’opera si crea dal
punto di vista di un terzo non partecipe. Bachtin è molto chiaro sotto questo riguardo,
rispondendo, nell’edizione del ‘63 del suo libro su Dostoevskij, alle osservazioni fatte da
Anatolij V. Lunačarskij nella recensione (in Novij mir, 1929, 10) all’edizione del 1929.
Infatti Lunačarskij, avendo inteso, alla stessa maniera di alcune letture recenti, la polifonia
come oggettività e drammatizzazione in cui l’autore si annulla, propone di attribuire la
polifonicità anche a Shakespeare e Balzac. Bachtin rispondendo a Lunačarskij risponde,
anticipatamente, anche a coloro che successivamente sono incorsi nello stesso travisamento.
Il limite di Balzac è di ordine soggettivo e consiste nel fatto che, nei suoi romanzi, non
riesce a staccarsi dalla rappresentazione oggettiva della parola dei personaggi. Per quanto
concerne Shakespeare, si tratta, secondo Bachtin, di un limite oggettivo, dovuto al fatto che
“il dramma è per sua natura estraneo a una vera polifonia; il dramma può essere a più piani,
ma non può essere a più mondi; esso ammette solo uno e non più sistemi di riferimento”
(ibid.). Dunque non solo l’oggettività e la drammatizzazione del dialogo non coincidono con
la polifonicità, ma possono costituire anche un ostacolo alla sua realizzazione. In
Dostoevskij Bachtin ritrova la prospettiva teorizzata in Per una filosofia dell’atto
responsabile. Con il romanzo polifonico di Dostoevskij, la scrittura letteraria perviene alla
piena consapevolezza del fatto che non ci si può accostare all’altro e comprenderlo nella sua
alterità “facendolo oggetto di un’analisi neutrale, non partecipe; non lo si può comprendere
nemmeno fondendosi con esso, immedesimandosi in esso. No, a lui ci si può accostare e lo
si può svelare – più precisamente, lo si può costringere a svelarsi – solo per mezzo dello
scambio dialogico con lui. E raffigurare l’uomo interiore, come lo intendeva Dostoevskij, si
può solo raffigurando questo scambio dialogico con l’altro. Solo in questo scambio,
nell’interazione dell’uomo con l’uomo si manifesta anche l’”uomo nell’uomo”, tanto per gli
altri che per se stesso”. L’eroe in Dostoevskij non è oggetto della parola autoriale. La parola
dell’autore è parola rivolta alla parola, rivolta, dice Bachtin, a qualcuno presente – che
proprio per questo si manifesta nella sua alterità, cioè come capace di sottrarsi alla parola su
di lui, di reagire ad essa, di trarsi fuori, con la sua eccedenza, dalla parola che lo presenta –,
e non come parola su di un assente, che può perciò illudersi di essere esaustiva e definitiva.
7) Il dialogo in Bachtin, come pure in Dostoevskij, dove Bachtin lo ritrova raffigurato,
non è, egli lo dice esplicitamente, dialogo tra idee come quello di Platone, A Platone
interessa l’idea disincarnata, interessa l’idea in quanto tale, e non come evento dialogico,
non come evento del dialogo stesso. In Platone, la partecipazione dell’idea, non è
partecipazione al dialogo, ma partecipazione all’essere dell’idea. In tal modo le differenti e
non indifferenti voci sono annullate nell’unità di questa comune appartenenza. Inoltre, per
Bachtin, un altro elemento di distinzione fra i due tipi di dialogo è dato dal fatto che, in
Dostoevskij, il dialogo, a differenza di quello di Platone, non è conoscitivo, non è filosofico.
Ancora una volta si ribadisce che l’altro non è un semplice mezzo per conoscere la verità.
Ed è interessante che Bachtin accosti piuttosto il dialogo di Dostoevskij al dialogo biblico ed
evangelico, per esempio al dialogo di Giobbe, per la sua struttura internamente infinito,
senza possibilità di sintesi e fuori dalla sfera della conoscenza.
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