L`educazione - Hoepli Scuola

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L`educazione - Hoepli Scuola
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U NITÀ OT TAVA L’EDUCAZIONE
Unità ottava
L’educazione
Padri e figli
(Terenzio, Heautontimorùmenos 75-117)
Durante un giorno di festa, l’anziano Cremete osserva il suo vicino Menedemo che si spezza la
schiena lavorando la terra come uno schiavo. Incuriosito, gli si avvicina domandandogli ragione di
quel comportamento. Per quanto seccato, il vecchio confinante gli risponde.
ME.
Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi
aliena ut cures ea quae nil ad te attinent?
CH.
Homo sum: humani nil a me alienum puto.
vel me monere hoc vel percontari puta:
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ME. (rizzandosi un poco, ma con l’aria di voler subito tornare al suo rastrello) Cremète, tanto tempo ti lasciano i tuoi
affari da interessarti di quelli degli estranei che non ti toccano
in nulla?
CR. Uomo sono e di quanto è umano nulla penso che mi sia
[estraneo.
Ma tu pensi che io sia qui per darti un consiglio o chiedertelo. È
RITRATTI
Terenzio
Uomo, commediografo e portatore di humanitas
A proposito di Terenzio, il commediografo giunto
a Roma come schiavo da Cartagine (Afro era il suo
cognomen) ed entrato nel circolo «progressista» degli
Scipioni (170 a.C. circa), costante fu il suo interesse
ai problemi dell’educazione e ai rapporti fra padri e
figli. Nelle sue commedie troviamo la testimonianza di un passaggio culturale epocale: dalla severità
di Catone – il nemico acerrimo degli Scipioni e del
loro circolo filoellenico, «corruttore» dell’antico mos
maiorum – alla proposta di una paidèia di derivazione
greca, più adatta alla nuova classe dirigente educata
secondo il modello vincente proveniente dal Mediterraneo orientale.
Graecia capta ferum victorem coepit (Epistole 2, 1, 156)
sentenziava Orazio, un secolo e mezzo dopo, prendendo atto dell’egemonia culturale a cui Roma era stata sottoposta dalla Grecia, che pure era stata politicamente e
militarmente assoggettata.
L’evoluzione, però, fu lenta e Terenzio, insieme al suo
teatro, furono in fondo apripista e vittime dei tempi. Il
commediografo pagò infatti con gli insuccessi di pubblico l’argomento e la forma delle sue commedie, non più,
come quelle di Plauto, votate al divertimento linguistico
e motorio ma «lente» e dense di concetti ancora lontani
dalla mentalità del popolo che affollava i teatri. L’Heautontimorùmenos («Il punitore di se stesso»), così come
gli Adelphoe («I fratelli»), il Phormio, ma anche l’Andria e
l’Hecyra («La suocera») sono i titoli di una produzione
breve, situabile tra il 166 e il 160 a.C., che, scavando intorno ai rapporti famigliari, dipinge una società nuova,
animata da ideali non più nazionalistici e romani ma cosmopoliti (lett. da «cittadino del mondo», non di Roma
soltanto), universali. Al centro degli interessi di Terenzio, al di là delle singole vicende e delle maschere delle
commedie, c’è infatti la descrizione dell’humanitas, cioè
della molteplicità di forme in cui si manifesta la comune
appartenenza degli uomini a un’unica natura umana,
non circoscrivibile a formule, come riportiamo nel brano che segue.
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U NITÀ OT TAVA L’EDUCAZIONE
giusto? Per farlo anch’io. Non lo è? Per dissuadertene.
A me serve far così. Tu fa’ come hai da fare.
80 CR. Ma a chi serve torturarsi?
ME. A me.
CR. Fosse anche una pena da poco, già ne soffrirei. Ma cos’è
questa angoscia, dio mio? Cos’è che stai scontando a questo
modo?
ME. (piangendo sommessamente) Ah!
ME. Eheu!
CR. Non piangere, e comunque sia la faccenda mettimene a parte.
CH. Ne lacruma atque istuc, quidquid est, fac me ut sciam:
ne retice, ne verere, crede inquam mihi:
85 (Menedèmo tace) Non star lì zitto, non sentirti imbarazzato,
abbi fede in me, ti dico. Sarà una parola di conforto o un consiaut consolando aut consilio aut re iuvero.
glio o qualcosa di più sostanzioso, ma un aiuto sarà.
ME. Vuoi proprio sapere?
ME. Scire hoc vis?
CR. Ti ho detto perché.
CH. Hac quidem causa qua dixi tibi.
ME. Parlerò.
ME. Dicetur.
CR. Almeno adesso metti giù il rastrello, prendi fiato.
CH. At istos rastros interea tamen
adpone, ne labora.
ME. (tornando a lavorare con rabbia) No!
ME. Minime.
90 CR. (lo afferra per un braccio) Ma sei pazzo?
CH. Quam rem agis?
ME. Lascia ch’io non prenda fiato.
ME. Sine me vocivom tempu’ nequod dem mihi labori’.
CR. (gli toglie di forza il rastrello) No, che non ti lascio.
CH. Non sinam, inquam.
ME. Ah, non sei buono con me!
ME. Ah non aequom facis.
CR. (deponendo a terra il rastrello) Uh, che peso, buon dio!
CH. Hui tam gravis hos, quaeso?
ME. Quel che mi merito.
ME. Sic meritumst meum.
CR. E adesso parla.
CH. Nunc loquere.
ME. Ho un figlio solo, un ragazzino. Ma cosa dico che l’ho. No,
ME. Filium unicum adulescentulum
io lo avevo, Cremète. Ora, se io l’abbia o no, questo è il dubbio.
habeo. Ah quid dixi habere me? Immo habui, Chreme;
nunc habeam necne incertumst.
95 CR. E come?
CH. Quid ita istuc?
ME. Lo saprai. Abita qui una vecchia, povera povera, venuta da
ME. Scies.
Corinto. Lui cominciò ad amarne perdutamente la figlia, tanto
Est e Corintho hic advena anu’ paupercula;
da tenerla ormai quasi in conto di moglie; e tutto a mia insapuei(u)s filiam ille amare coepit perdite,
ta. Quando venni a conoscere la faccenda, non fu con la dolcezprope iam ut pro uxore haberet: haec clam me omnia.
Ubi rem rescivi, coepi non humanitus
100 za ch’io presi a trattarlo, né come richiedeva quel suo cuore ferito di ragazzino, ma con la forza, che è la solita forza dei padri.
neque ut animum decuit aegrotum adulescentuli
Ogni giorno lo sgridavo: «Già! E tu speri di poter continuare a
tractare, sed vi et via pervolgata patrum.
comportarti così, mentre son qui vivo io, tuo padre, che ormai ti
Cotidie accusabam: «hem tibine haec diutius
tieni un’amica quasi in luogo di moglie? Sbagli, se lo credi. Tu
licere speras facere me vivo patre,
amicam ut habeas prope iam in uxoris loco?
105 non mi conosci, Clinia! Io sono ben contento che ti considerino
mio figlio, ma fino a quando ti comporterai secondo le regole;
Erras, si id credis, et me ignoras, Clinia.
che se non ti comporti così, stabilirò io secondo quali regole mi
Ego te meum esse dici tantisper volo
debba comportare con te. Non c’è dubbio, è il non aver niente da
dum quod te dignumst facies; sed si id non facis,
fare che porta a questo. Quando io avevo la tua età, non pensavo
ego quod me in te sit facere dignum invenero.
nulla adeo ex re istuc fit nisi ex nimio otio.
110 all’amore, ma spinto dal bisogno me ne andai di qui in Asia e
lì tra l’armi di guerra trovai soldi e gloria ad un tempo». Ed
Ego istuc aetati’ non amori operam dabam,
ecco alla fine il tornaconto che ne ho avuto: il ragazzo, a sensed in Asiam hinc abii propter pauperiem atque ibi
tirsi ripetere sempre le stesse cose e con tanta severità, si lasciò
simul rem et gloriam armis belli repperi».
convincere, pensò che per gli anni e l’affetto io ne capissi più di
Postremo adeo res rediit: adulescentulus
saepe eadem et graviter audiendo victus est;
115 lui e potessi a lui provvedere meglio di lui stesso. Se ne andò in
Asia, Cremète, ad arruolarsi dal re.
putavit me et aetate et benevolentia
plus scire et providere quam se ipsum sibi:
in Asiam ad regem militatum abiit, Chreme.
rectumst ego ut faciam; non est te ut deterream.
ME. Mihi sic est usu’; tibi ut opu’ factost face.
CH. An quoiquamst usus homini se ut cruciet?
ME. Mihi.
CH. Si quid laborist nollem. Sed quid istuc malist?
Quaeso, quid de te tantum meruisti?
ME.