Cassazione: la ctu esplorativa è ammessa quando non vi

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Cassazione: la ctu esplorativa è ammessa quando non vi
Cassazione: la ctu esplorativa è ammessa quando non vi sono altre
possibilità di indagine
di Licia Albertazzi Cassazione Civile, sezione terza, sentenza n. 2663 del 5 Febbraio
2013.
La c.d. ctu esplorativa, generalmente vietata nel nostro ordinamento, consiste
nell'esperimento da parte del consulente tecnico d'ufficio di indagini approfondite non per
forza legate a documenti e prove dedotte in giudizio dalle parti. Il consulente tecnico infatti,
nella sua qualità di ausiliario del giudice, è tenuto a redigere compiuta relazione
rispondendo ad un preciso quesito formulato dal giudice, più o meno articolato, basandosi
sugli elementi già prodotti in giudizio dai contendenti.
In questo caso il ctu è autorizzato a raccogliere ogni elemento di prova disponibile al fine
di rispondere al quesito giudiziale; deve tuttavia trattarsi di fatti che non debbano essere
necessariamente provati solo dalle parti.
Tale divieto deriva dal principio per cui la ctu non può sostituirsi all'onere della prova a
carico delle parti. Nel caso di specie il giudice di secondo grado aveva accolto l'eccezione
proposta dalla parte interessata in merito alla nullità di ctu esperita, a suo dire non legata
ad alcun quesito giudiziale né ad alcun elemento di prova. Al contrario la Suprema Corte
ha dimostrato come in effetti sussistesse un collegamento, ribadendo in ogni caso come
sia possibile derogare al principio generale in tutti quei casi (eccezionali) in cui la ctu
possa assumere rilevanza probatoria. Si tratta di casi in cui l'accertamento dei fatti risulta
possibile soltanto mediante esperimento di indagini supportate da specifiche competenze
tecniche (in questo senso anche pronunce precedenti della stessa Corte, ad es. sent. n.
1149/2011).
La statuizione in oggetto è di estrema importanza poiché conferma l'introduzione nel
nostro ordinamento di valide eccezioni al principio generale del divieto di ammissibilità di
ctu esplorativa nel caso in cui al contrario sia oggettivamente necessaria, essendo l'unico
mezzo a disposizione del giudice per l'accertamento dei fatti.
Corte Cassazione e anatocismo bancario - sentenza 798 2013
Con la sentenza n.798 del 15 gennaio 2013 la sez. III civile della Corte di Cassazione ha
nuovamente affrontato il tema dell'anatocismo e delle condizioni per proporre l'azione di
nullità della clausola che pattuisce gli interessi e la domanda di ripetizione di quanto
indebitamente addebitato dagli istituti di credito.
Il giudizio deciso dalla Corte in sede di legittimità scaturisce da un decreto ingiuntivo che,
come si evince dalla sommaria ricostruzione del fatto, è stato proposto dal correntista nei
confronti di un istituto di credito al fine di conseguire la restituzione dell'importo di L.
413.785.381 a titolo di ripetizione di indebito oggettivo derivante dall'applicazione di
interessi ultralegali e c.m.s. non validamente pattuiti per iscritto e, comunque, usurari,
relativamente a tre rapporti di conto corrente bancario. Immaginiamo che a sostegno del
ricorso monitorio il correntista abbia allegato gli estratti conto dai quali emergeva,
verosimilmente, il saldo a debito del conto corrente e, poi, una ricostruzione contabile che
determinava l'importo indebitamente addebitato.
Il giudice di primo grado ha accolto l'opposizione al decreto ingiuntivo proposta dalla
Banca. Il correntista soccombente ha impugnato la sentenza di primo grado che, invece, la
Corte d'Appello ha confermato. Pare di poter dedurre dalla pronuncia che si esamina che,
a parere del ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata fosse viziata per mancata
valutazione di tutta la documentazione prodotta da cui sarebbe emersa, sia l'esistenza
della causa debendi vantata dalla Banca, sia l'addebito di interessi e commissioni non
dovuti.
La Corte di Cassazione a tal proposito precisa che "il vizio di motivazione sollevato
dall'appellante appare inammissibile, perchè volto a conseguire un diverso apprezzamento
delle risultanze documentali, già valutate dai giudici del merito con motivazione succinta,
ma comunque adeguata e dissimula, dunque, una richiesta di riesame del merito, inibita in
sede di legittimità. Peraltro il vizio costituito dalla mancata valutazione da parte del giudice
di appello di alcuni documenti sarebbe inammissibile anche perché il presunto errore
giudiziale non corrisponderebbe ad alcuno dei motivi di ricorso ai sensi dell'art. 360 c.p.c.".
Fermo quanto finora precisato la Corte prosegue nelle proprie valutazioni ed esamina
quello che, a suo avviso, costituisce il punto centrale della decisione impugnata ove si
precisa che "è ripetibile la somma indebitamente pagata e non già il debito sostenuto
come illegale".
La Corte di Cassazione ricostruisce l'iter argomentativo che ha condotto il giudice di
secondo grado ad effettuare la citata precisazione. Come hanno chiarito le Sezioni Unite
della Cassazione intervenendo in materia di prescrizione del diritto alla restituzione
dell'indebito, è indispensabile distinguere due tipologie di versamenti annotati in conto
corrente. Solo quando il correntista non ha un'apertura di credito oppure ha un'apertura di
credito e ha superato i limiti della stessa, ogni versamento che sarà annotato a debito
rappresenterà un pagamento in quanto sarà finalizzato a realizzare uno spostamento
patrimoniale in favore dell'istituto di credito che ne accresce il patrimonio a detrimento del
correntista stesso.
La Corte osserva che il presupposto per la restituzione dell'indebito è che esista un
pagamento cioè un versamento solutorio effettuato in assenza di un'apertura di credito
oppure quando il limite dell'apertura di credito è stato superato. La sentenza infatti
statuisce: "nel caso che durante lo svolgimento del rapporto il correntista abbia effettuato
non solo prelevamenti, ma anche versamenti, in tanto questi ultimi potranno essere
considerati alla stregua di pagamenti, tali da poter formare oggetto di ripetizione (ove
risultino indebiti), in quanto abbiano avuto lo scopo e l'effetto di uno spostamento
patrimoniale in favore della banca. Questo accadrà qualora si tratti di versamenti eseguiti
su un conto "scoperto" (cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista,
o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti
dell'accreditamento) e non, viceversa, in tutti i casi nei quali i versamenti in conto, non
avendo il passivo superato il limite dell'affidamento concesso al cliente, fungano
unicamente da atti ripristinatori della provvista della quale il correntista può ancora
continuare a godere."
La Corte prosegue sostenendo che l'annotazione rilevabile dagli estratti conto di una posta
di interessi (o di c.m.s.) illegittimamente addebitati dalla banca al correntista non basta di
per sé a dimostrare che a quell'annotazione abbia corrisposto un versamento solutorio e,
quindi, un pagamento. Il correntista, dunque, sulla base di tali mere annotazioni (magari
ricostruite da una consulenza contabile) non può agire per la ripetizione di un pagamento
che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo. La Corte, infatti, precisa: "Di
pagamento, nella descritta situazione, potrà dunque parlarsi soltanto dopo che, conclusosi
il rapporto di apertura di credito in conto corrente, la banca abbia esatto dal correntista la
restituzione del saldo finale, nel computo del quale risultino compresi interessi non dovuti
e, perciò, da restituire se corrisposti dal cliente all'atto della chiusura del conto."
In altri termini il correntista, nel caso esaminato dalla Corte, esigeva la restituzione
dell'importo corrispondente ad una parte della somma dei saldi debitori dei suoi tre conti
correnti così come risultanti, verosimilmente, dagli estratti conto allegati al decreto
ingiuntivo (il passivo complessivo, infatti, era pari a L. 786.333.219), adducendone
l'illegittimità, senza tuttavia aver dimostrato di aver chiuso l'apertura di credito o anche il
conto e di aver restituito alla Banca il complessivo saldo a debito.
L'ingiungente, dunque, non ha dato prova di quell'arricchimento indebito dell'Istituto di
credito che gli avrebbe dato diritto a conseguire la restituzione, tant'è che la Corte
territoriale aveva affermato che "mancava la prova della corresponsione degli interessi,
segnatamente evidenziando l'inconferenza della mera deduzione dell'illegittimità della
clausola determinativa degli stessi, avuto riguardo all'oggetto dell'azione di ripetizione,
rappresentato dal pagamento indebito e non già dal "debito sostenuto come illegale".
Ne consegue, quindi, che il correntista che voglia esigere la ripetizione dell'indebito
adducendo l'illegittimità degli addebiti di interessi, CMS e valute può farlo solo con
riferimento a versamenti di carattere solutorio e ha l'onere di fornire la prova che tali
pagamenti siano effettivamente avvenuti, cosa che accade con la chiusura dell'apertura di
credito o del conto corrente e con la corresponsione alla Banca dell'eventuale saldo
debitore.
Diversamente, come, peraltro, già precisato da alcuni Tribunali, qualora non si fornisca
tale prova, il correntista non può chiedere la ripetizione dell'indebito ma solo la rettifica del
saldo.
Alfonsina Biscardi
Cassazione: delibere ordine professionale si possono impugnare
davanti al giudice ordinario
di Licia Albertazzi - La sentenza in oggetto tratta dell'interessante questione del concorso
tra giurisdizione civile e amministrativa. Il giudice ordinario ha potere decisionale in tutti
quei casi in cui controversa è l'esistenza o il perfezionarsi di un diritto soggettivo; al
contrario, al giudice amministrativo spetta decidere circa quelle questioni coinvolgenti
una pubblica amministrazione (un soggetto dotato di potere potestativo nei confronti del
privato) e in generale in tutti quei casi in cui meritevole di tutela non sia un diritto
soggettivo ma un interesse legittimo.
Esistono delle eccezioni e tal volta vi sono casi particolari, difficilmente collocabili nell'una
o nell'altra categoria e ciò pone interessanti quesiti circa l'attribuzione del potere
decisionale ora all'uno ora all'altro giudice.
Nel caso di specie la Suprema Corte (sentenza 4370/2013) si è pronunciata circa
l'impugnabilità innanzi al giudice ordinario delle delibere disciplinari emanate dal
Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili.
La Corte ha sottolineato come i provvedimenti disciplinari siano atti idonei ad incidere nella
sfera soggettiva del professionista destinatario e come tali non classificabili come atti
amministrativi, nonostante possano essere così intesi da un punto di vista formale.
La Corte, mantenendo un orientamento consolidato (ad es. Cass. Sez. unite, ordinanza n.
30785 del 30/12/2011) ha nuovamente confermato come spetti al singolo ricorrere al
giudice ordinario al fine di tutelare il proprio diritto soggettivo all'esercizio della professione.
Competente a pronunciarsi è il Tribunale del luogo in cui ha sede il Consiglio dell'Ordine
autore della delibera.
Vai al testo della sentenza n.4370/2013
Cassazione: mobilità e licenziamenti collettivi. Ecco quando basta
elenco dei soli lavoratori da licenziare
"In tema dì procedura di mobilità, la previsione di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4,
comma 9, secondo cui il datore di lavoro, nella comunicazione ivi prevista deve dare una
"puntuale indicazione" dei criteri di scelta e delle modalità applicative, comporta che,
anche quando il criterio prescelto sia unico, il datore di lavoro deve provvedere a
specificare nella detta comunicazione le sue modalità applicative, in modo che la stessa
raggiunga quel livello di adeguatezza sufficiente a porre in grado il lavoratore di
percepire perché lui - e non altri dipendenti - sia stato destinatario del collocamento
in mobilità o del licenziamento collettivo e, quindi, di poter eventualmente contestare
l'illegittimità della misura espulsiva, sostenendo che, sulla base del comunicato criterio di
selezione, altri lavoratori - e non lui - avrebbero dovuto essere collocati in mobilità o
licenziati.".
E' quanto ribadito dalla Corte di Cassazione la quale, con sentenza n. 4667 del 25
febbraio 2013 ha affermato come "discende dal suddetto principio che, poiché la
specificità dell'indicazione delle modalità di applicazione del criterio di scelta adottato è
funzionale a garantire al lavoratore destinatario del provvedimento espulsivo la piena
consapevolezza delle ragioni per cui la scelta è caduta su di lui, in modo da consentirgli
una puntuale contestazione della misura espulsiva, il parametro per valutare la conformità
della comunicazione al dettato di cui all'art. 4, comma 9, deve essere individuato
nell'idoneità della comunicazione, con riferimento al caso concreto, di garantire al
lavoratore la suddetta consapevolezza.".
Nel caso di specie, secondo i giudici di appello, la comunicazione inviata era priva dei
requisiti previsti dal comma 9 dello stesso art. 4 atteso che tale comunicazione, nella parte
in cui si riferisce alle modalità di applicazione dei criteri di scelta, può dirsi adeguata solo
allorché contenga la puntuale indicazione degli elementi che sorreggono la
valutazione comparativa in relazione a tutti i dipendenti tra i quali la scelta è stata
operata e non solo ai destinatari del recesso mentre la comunicazione conteneva
soltanto l'elenco dei lavoratori da licenziare e cioè l'esito della comparazione effettuata e
pertanto non consentiva dì verificare in concreto la reale aderenza ai criteri dì scelta fissati
e la loro corretta esecuzione.
Secondo i giudici di legittimità tale iter motivazionale seguito dal giudice di merito deve
considerarsi erroneo in quanto la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione
del suddetto principio avendo basato la propria decisione esclusivamente sul rilievo
formale che, poiché la comunicazione conteneva l'elenco dei soli lavoratori destinatari del
provvedimento espulsivo e non di tutti i dipendenti fra i quali era stata operata la scelta,
essa non era idonea a consentire una verifica in concreto della reale aderenza della scelta
operata dal datore di lavoro ai criteri fissati in sede dì accordo sindacale.
Nessuna valutazione è stata fatta dalla Corte territoriale sul contenuto complessivo della
comunicazione con la quale si dava puntuale indicazione dell'unico criterio di scelta
adottato e dalla quale si evinceva che la scelta dei lavoratori oggetto del provvedimento di
risoluzione del rapporto di lavoro era stata operata, in esecuzione degli accordi sindacali,
sulla base di un unico criterio, che individuava i destinatari del provvedimento espulsivo
in tutti i lavoratori che entro una certa data sarebbero stati in possesso dei requisiti previsti
dalla legge per avere diritto alla pensione di anzianità o dì vecchiaia.
L'elenco dei suddetti lavoratori allegato a tale comunicazione - precisa la Suprema Corte doveva essere esaminato alla luce del suddetto criterio di scelta che, avendo natura
oggettiva e riguardando, senza alcuna distinzione, tutti i lavoratori in possesso dei requisiti
sopra indicati, rendeva superflua ogni comparazione con i lavoratori privi del suddetto
requisito.
In altre parole per la verifica della corretta applicazione del suddetto criterio era sufficiente
il riscontro della sussistenza, in capo al lavoratore interessato, del requisito del diritto alla
pensione di anzianità o di vecchiaia, requisito desumibile dall'elenco inviato come allegato
alla comunicazione de qua. "In relazione al criterio di scelta adottato, indicato
specificamente nella comunicazione stessa, la compilazione e trasmissione dell'elenco dei
soli destinatari del provvedimento espulsivo, era pienamente idonea a soddisfare
quell'esigenza di tutela, sopra individuata, posta alla base della norma prima citata. Da ciò
consegue che il vizio procedurale che, a parere della Corte d'appello, avrebbe inficiato il
licenziamento non sussiste."
Cassazione: il nuovo proprietario dell'immobile può sfrattare inquilino
anche se morosità è precedente all'acquisto
Nel caso di compravendita di un appartamento che è stato in precedenza concesso in
locazione, l'acquirente subentra in tutti i diritti che il venditore aveva maturato nei confronti
dell'inquilino. Per questo, nel caso in cui vi sia una morosità nel pagamento dei canoni,
il nuovo proprietario ha diritto ad intimare al conduttore lo sfratto per morosità anche se
detta morosità è maturata prima della vendita dell'immobile.
E' quanto afferma la Corte di Cassazione con sentenza numero 12883/2012 specificando
che le cose, oltretutto, non cambiano se il contratto si era già risolto in epoca anteriore
alla vendita.
Come si legge nella parte motiva della sentenza "La fattispecie di vendita di cosa locata
integra invero un'ipotesi di cessione legale del contratto di locazione in capo
all'acquirente, che quale cessionario ex lega subentra nella situazione di diritto e di fatto
facente capo all'alienante al momento della cessione e dal medesimo trasmessagli con
tale atto, senza che risulti al riguardo necessario l'accordo delle parti nè l'adesione del
contraente ceduto (nei cui confronti la cessione acquista peraltro efficacia solamente al
momento della relativa notificazione)".
Per questo l'acquirente anche se il contratto è scaduto può esercitare quei diritti che non si
sono
esauriti
e
che
spettavano
al
precedente
proprietario.
Se poi, come nella specie, il contratto è cessato per l'intimata disdetta alla scadenza
contrattuale "l'acquirente subentra nel diritto di credito alla restituzione già maturato in
capo al locatore-proprietario cedente".
Cassazione: occhio ai pettegolezzi sui vicini, è diffamazione
Attenzione a divulgare pettegolezzi in merito a fatti compiuti da terzi, veri o presunti che
siano, è reato. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, che con la sentenza 8348/2013 ha
condannato un uomo, e non una donna come si potrebbe facilmente presupporre, per aver
diffuso la notizia di una presunta relazione adulterina di una vicina. A denunciarlo,
cognata e fratello della donna che avevano appreso della questione dal vicino stesso.
A far fede è stata in misura maggiore la deposizione dettagliata del fratello della donna,
maggiormente coinvolto nella vicenda a motivo del legame parentale particolarmente
stretto.
Si sarebbe trattato di diffamazione anche nel caso in cui la notizia divulgata fosse stata
vera? Sì, perché per costituzione sono da tutelare l'onore della persona e da rispettare la
vita privata e familiare di un individuo.
"La riservatezza come dignità può cedere dinanzi al pubblico interesse della notizia, ma
non può, in linea di principio, ammettersi che ciò avvenga oltre al soglia imposta dalla
destinazione della notizia a soddisfare un bisogno sociale", ha ricordato la Suprema Corte
nella sentenza.
Scatta quindi la condanna per diffamazione anche in relazione a comportamenti non
approvati dall'opinione comune e fuori dai canoni etici, e non soltanto quando si
attribuisce ad un individuo la paternità di un gesto compiuto che sia penalmente
perseguibile.
Cassazione: si può licenziare dipendente che diffonde notizia della
prossima chiusura della società
Di certo non è un'idea felice quella di diffondere la notizia che la società presso cui si
lavora sta per chiudere. Specialmente se la notizia arriva anche nelle orecchie dei clienti.
A fronte di un simile comportamento la Corte di Cassazione, con sentenza n. 4859 del 27
febbraio 2013, ha affermato che il datore di lavoro può legittimamente licenziare il
dipendente.
La vicenda prese in esame dai giudici di piazza Cavour riguarda un licenziamento intimato
ad un lavoratore che aveva diffuso la notizia della prossima chiusura della società e in
particolare della struttura operativa presso la quale il dipendente svolgeva la propria
attività .
Confermando la decisione della Corte d'Appello, che aveva riformato la sentenza
precedentemente emessa in primo grado dal giudice del lavoro, la Suprema Corte ha
precisato che tali notizie, in quanto provenienti da un soggetto qualificato, per avere il
dipendente raggiunto un posto rilevante in seno alla società, per non essere rimaste
confinate all'ambito interno essendo giunte anche ai clienti, avevano acquisito "una più
ampia potenzialità di effetti" in ordine al danno di immagine per la datrice di lavoro.
Inoltre come sottolineato dal giudice territoriale "l'eventuale attentato alla credibilità di
un'impresa, attraverso dichiarazioni non veritiere, costituiva fatto idoneo a minare in
radice il rapporto di fiducia ed affidamento che il datore di lavoro ha diritto di nutrire
verso il proprio personale e che la inspiegabilità delle ragioni che avevano indotto il
lavoratore a diffondere tali notizie non attenuava ma, anzi, aggravava la entità dell'illecito
rendendo ineludibilmente compromessa la prosecuzione del rapporto.".
Cassazione: limiti al rimborso del danno biologico di lieve entità (c.d.
micropermanenti)
di Licia Albertazzi - Sentenza Cassazione Civile, sezione sesta, n. 4638 del 22 Febbraio
2013.
Il procedimento di risarcimento del danno da lesioni derivanti da incidente stradale ha
subito di recente importanti modifiche. Con l'entrata in vigore della legge di conversione
del c.d. "decreto liberalizzazioni" (Decreto Legge 1/2012 convertito con modificazioni
dalla n.27 del 24 Marzo 2012) il legislatore ha posto severi limiti alla possibilità di risarcire i
danni da micropermanenti (piccoli traumi, colpi di frusta) causati da sinistri stradali di
lieve e lievissima entità. Lo scopo dell'intervento legislativo è chiaro: ridurre quanto più
possibile le frodi assicurative per calmierare i premi di polizza e sviluppare la competitività
delle compagnie assicurative italiane (1).
In linea con tale intervento la Suprema Corte ha confermato l'impossibilità per l'impresa di
assicurazione di provvedere al rimborso delle spese mediche nel caso il danneggiato
non provveda a fornire adeguati e precisi riferimenti in merito alla struttura sanitaria presso
cui si è fatto curare. In particolare la Corte afferma come, in tutti quei casi in cui la vittima
non si sia rivolta ad una struttura convenzionata con il servizio sanitario nazionale, la
stessa debba provvedere a fornire idonea e adeguata certificazione medica attestante il
danno subito e le medicazioni ricevute. Dai documenti deve emergere chiaramente il
nesso tra diagnosi ed incidente stradale. In caso contrario la compagnia è legittimata a
negare il rimborso.
(1) La legge in oggetto ha inserito due commi all'art. 139 cod. delle ass.ni private
prevedendo precise cautele da adottare in caso di liquidazione del danno biologico di lieve
entità.
Cassazione: nessuna indennità da avviamento se il conduttore non
prova il contatto con il pubblico
di Licia Albertazzi - Cassazione Civile, sezione terza, sentenza n. 4773 del 26 Febbraio
2013.
L'articolo 34 della legge 392/1978 (regolamentazione della locazione di immobili ad uso
commerciale) prevede a carico del locatore l'obbligo di versamento di un'indennità di
avviamento alla cessazione degli effetti del contratto.
Tale somma è pari a 18 o 21 mensilità (a seconda che il conduttore abbia esercitato o
meno attività turistico-alberghiera) e non va versata soltanto nel caso in cui a recedere per
giusto motivo o con congruo preavviso sia lo stesso conduttore. L'ordinamento ha previsto
tale cautela proprio per tutelare la posizione del conduttore ed evitare che il locatore, con
una semplice disdetta, possa approfittare dell'attività già consolidata dalla controparte
contrattuale e goderne i frutti in prima persona senza versare alcun idoneo compenso.
E' anche vero però che, per avere diritto a tale indennità, l'attività esercitata dal conduttore
deve riguardare specificamente i rapporti con il pubblico, poiché il fatto stesso di aver
creato una clientela più o meno stabile costituisce senza dubbio fonte di ricchezza.
Secondo la Suprema Corte questo fatto deve essere provato dallo stesso conduttore che
richieda il pagamento dell'avviamento; in caso contrario, dal locatore non potrà pretendere
il versamento di alcuna indennità. Nel caso di specie infatti la Corte ha sottolineato come
non sia idoneo a tal fine il solo ipotetico contatto con l'utenza esterna, non essendo
sufficiente soltanto l'aver ottenuto idonee autorizzazioni amministrative all'esercizio di
una determinata attività commerciale.