Cassazione: può essere condannato per lite temeraria

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Cassazione: può essere condannato per lite temeraria
Cassazione: può essere condannato per lite temeraria anche chi ha
vinto il primo grado di giudizio
Corte di Cassazione civile, sezione sesta, ordinanza n. 24546 del 18 Novembre 2014.
Il terzo comma dell'art. 96 codice di procedura civile, così come introdotto dalla legge 69/2009,
consente al giudice di condannare il ricorrente al pagamento di una somma equitativamente
determinata, se viene accertata la mala fede o la colpa grave della parte soccombente.
Tale disciplina è inserita tra gli istituti contemplanti la responsabilità aggravata e, per determinarne la
sussistenza, occorre che venga delineato il contenuto dei requisiti della mala fede e della colpa grave.
Sul punto la giurisprudenza è sostanzialmente unanime nel confermare che per lite temeraria si debba
intendere la “coscienza dell'infondatezza della domanda (mala fede) o nella carenza della ordinaria
diligenza volta all'acquisizione di detta coscienza (colpa grave)”.
Una volta accertata la sussistenza di tali requisiti è possibile emettere condanna per lite temeraria
anche nei confronti di chi aveva avuto ragione in primo grado se è poi risultato del tutto soccombente
in appello. Insomma, niente scuse: aver vinto il primo grado di giudizio non è certo un buon motivo
per resistere ad un appello palesemente fondato. La mala fede e la colpa grave possono comportare
l'applicazione dell'art. 96 del codice di procedura civile.
Riferimenti normativi:
Art. 96 codice di procedura civile. Responsabilita' aggravata
Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il
giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che
liquida, anche d'ufficio, nella sentenza.
Il giudice che accerta l'inesistenza del diritto per cui e' stato eseguito un provvedimento cautelare, o
trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l'esecuzione
forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l'attore o il creditore
procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni e' fatta a norma del
comma precedente.
In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può
altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma
equitativamente determinata.
(22/11/2014 - Avv. Licia Albertazzi)
Cassazione: per accertare la condominialità di un bene non serve
chiamare in causa tutti i condomini
Se un condomino chiede l'accertamento della condominialità di un bene non deve necessariamente
chiamare in causa tutti i condomini. Lo chiarisce la Suprema Corte con la sentenza n. 21685 del
14.10.2014. Una decisione che merita qualche riflessione.
Nulla questio sulla legittimazione ad agire del singolo condomino nelle azioni giudiziarie, che hanno a
difesa la proprietà comune.
Configurandosi il condominio come un ente di gestione sfornito di personalità giuridica distinta da
quella dei singoli condomini, l’esistenza di un organo rappresentativo unitario, quale l’amministratore,
non priva i singoli partecipanti della facoltà di agire a difesa dei diritti, esclusivi e comuni, inerenti
all’edificio condominiale (Cass., sent. n. 1011 del 21.01.2010). Il diritto di ciascun condomino investe la
cosa comune nella sua interezza (sia pure col limite del concorrente diritto altrui), sicché anche un
solo condomino può proporre le azioni reali a difesa della proprietà comune, senza che si renda
necessario integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i partecipanti.
La sentenza n. 21685 del 14.10.2014, che ha ribadito tale principio, contiene però una doverosa
precisazione: non è necessario integrare il contraddittorio nei riguardi degli altri condomini, non
sussistendo un caso di litisconsorzio necessario, quando il condomino agisca per l’accertamento della
natura condominiale di un bene e il convenuto ne eccepisca la proprietà senza però mettere in
discussione la comproprietà degli altri soggetti, non formulando alcuna domanda riconvenzionale.
Ed infatti, al contrario, se il convenuto in revindica eccepisce, in contrasto con i condomini attori, che
la proprietà del bene rivendicato non è comune ai sensi dell’art. 1117 c.c. ma appartiene a lui soltanto
ed occorre, ai fini della domanda di rivendicazione, l’accertamento del titolo di proprietà opposto dal
convenuto, si configura un’ipotesi di litisconsorzio necessario ed il contraddittorio dev’essere integrato
nei confronti di tutti i comproprietari, essendo dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico ed
inscindibile, onde la sentenza può conseguire un risultato utile solo se pronunciata in contraddittorio di
tutti i soggetti attivi e passivi del rapporto, mentre la mancata partecipazione al giudizio di alcuni
condomini rende ad essi inopponibile la pronuncia (Cass., sent. n. 13064 del 22.12.1995); ed ancora:
“in tema di condominio, ciascun partecipante è legittimato a proporre le azioni a difesa della proprietà
della cosa comune senza necessità di integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri condomini
salvo che la controparte non si limiti a negare la situazione soggettiva dell’attore, ma opponga la
proprietà esclusiva del bene contestando il diritto di tutti i condomini, sicché la controversia riguardi
l’esistenza stessa della condominialità e pertanto un rapporto soggettivo unico ed inscindibile, nel qual
caso è necessaria la presenza nel processo anche degli altri condomini, dovendo la pronuncia avere
effetto nei confronti di tutti” (Cass., sent. n. 8531 del 19.10.1994).
Avv. Mara Battaglia
Questioni procedurali. Il coordinamento tra l’art. 183 e il nuovo 183
bis c.p.c.: le possibili insidie.
Il Decreto Legge 12 settembre 2014 n. 132, convertito in Legge n. 162, del 10 novembre 2014,
pubblicato in pari data sulla Gazzetta Ufficiale, con l’art. 14 ha introdotto il seguente articolo: «183-bis
(Passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione). - Nelle cause in cui il tribunale giudica in
composizione monocratica, il giudice nell'udienza di trattazione, valutata la complessità della lite e
dell'istruzione probatoria, può disporre, previo contraddittorio anche mediante trattazione scritta, con
ordinanza non impugnabile, che si proceda a norma dell'articolo 702-ter e invita le parti ad indicare, a
pena di decadenza, nella stessa udienza i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, di cui intendono
avvalersi e la relativa prova contraria.
Se richiesto, può fissare una nuova udienza e termine perentorio non superiore a quindici giorni per
l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali e termine perentorio di ulteriori dieci giorni
per le sole indicazioni di prova contraria.
2. La disposizione di cui al comma 1 si applica ai procedimenti introdotti a decorrere dal trentesimo
giorno successivo all'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.».
Il menzionato art. 183 bis dispone, pertanto, che per i procedimenti “introdotti” e, quindi, iscritti a ruolo
dopo il 10 dicembre 2014, su decisione del giudice istruttore, è possibile il passaggio dal rito ordinario
a quello cd. sommario di cognizione, ex art. 702 bis c.p.c.
Il precedente art. 183, al sesto comma, dispone invece che: «Se richiesto, il giudice concede alle parti
i seguenti termini perentori:
1) un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di memorie limitate alle sole precisazioni o
modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte;
2) un termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove, o modificate
dall'altra parte, per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni
medesime e per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali;
3) un termine di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni di prova contraria.».
Nessun dubbio che, fino al 10 dicembre p.v., il giudice istruttore all’udienza di comparizione delle parti
e trattazione della causa in presenza di una richiesta di termini ex art. 183, VI co., avrà l’obbligo di
concedere i termini perentori di cui al suddetto articolo, salvo non ritenga la causa matura per la
decisione e, quindi, procedere ai sensi dell’art. 187 c.p.c..
Ciò si traduce nella possibilità per l’avvocato di articolare i mezzi istruttori, anche alla luce delle
avverse difese, negli atti successivi all’introduzione del giudizio (I, II e III memoria istruttoria) senza
necessità di "scoprire le carte subito”, potendo tranquillamente scegliere di non indicare i propri mezzi
di prova nell’atto di citazione che, generalmente, introduce il giudizio di cognizione ordinaria.
Con l’introduzione del nuovo art. 183 bis c.p.c. la mancata indicazione dei mezzi di prova nell’atto
introduttivo del giudizio comporterà non pochi rischi.
Ed invero potrebbe accadere che il giudice istruttore, nelle cause in cui il Tribunale giudica in
composizione monocratica, valutata la complessità della lite e dell’istruzione probatoria - la norma, per
avere un senso, presupporrebbe che il giudice istruttore conosca la causa (e abbia letto l’intero
fascicolo) già alla prima udienza - potrebbe disporre con ordinanza, si badi bene, non impugnabile, il
passaggio al rito sommario di cognizione (ex art. 702 bis) e, pertanto, invitare le parti - qualora non lo
avessero già fatto nell’atto introduttivo del giudizio - ad indicare, a pena di decadenza, i mezzi di
prova e a produrre i documenti di cui intendono avvalersi già nella medesima udienza.
E’ pur vero che, se richiesto, il giudice può fissare una nuova udienza e concedere termine perentorio
non superiore a quindici giorni per l'indicazione dei mezzi di prova e produzioni documentali e termine
perentorio di ulteriori dieci giorni per le sole indicazioni di prova contraria, ma è altrettanto vero che
l’uso del verbo “può”, nel suo significato letterale, sta ad indicare una mera facoltà del giudice e non
certo un obbligo, di talché il chiesto termine potrebbe anche essere negato, con tutte le probabili
nefaste conseguenze in termini di onere probatorio.
Pertanto, con decorrenza 11 dicembre 2014, è consigliabile articolare tutti i mezzi di prova e produrre
tutta la documentazione a supporto sin dall’atto introduttivo del giudizio ovvero “presentarsi” alla prima
udienza di comparizione e trattazione della causa già “preparati”, avendo già contezza delle
circostanze e deduzioni istruttorie da proporre nonché del nominativo dei testimoni eventualmente da
indicare, senza poter fare ciecamente affidamento sui termini di cui all’art. 183, VI comma, c.p.c., ben
potendo il giudice istruttore obbligarvi, valutata la complessità della lite (sommariamente aggiungerei),
ad indicare immediatamente i mezzi di prova alla prima udienza.
Avv. Paolo Accoti
Cassazione: si ai bed and breakfast nei condomini. Non c'è cambio di
destinazione d'uso
Corte di Cassazione civile, sezione seconda, sentenza n. 24707 del 20 Novembre 2014.
Chi vuole aprire un'attività di bed and breakfast può farlo anche all'interno di un condominio senza che
tale attività comporti una variazione della destinazione d'uso.
E non c'è neppure bisogno dell'approvazione dell'assemblea dato che non si tratta di un'attività che
può arrecare pregiudizio agli altri condomini.
A dare il via libera a un fenomeno in costante crescita è la Corte di Cassazione (sentenza n.
24707/2014) secondo cui le attività di bed and breakfast e di affittacamere non comportano un
utilizzo diverso degli immobili da quelle che sono le "civili abitazioni" e non possono determinare danni
per gli altri condomini.
Nel caso preso in esame dai giudici di piazza Cavour un condominio citato in giudizio i proprietari di
alcuni appartamenti per aver esercitato attività di bed and breakfast in violazione del regolamento
condominiale.
Il condominio aveva chiesto di bloccare le attività di B&B facendo appello a una disposizione del
regolamento in base alla quale sarebbe stato vietato destinare appartamenti ad uso diverso da quello
di civile abitazione o di ufficio professionale privato.
In primo grado il tribunale aveva bloccato le attività ma la sentenza è stata poi ribaltata in corte
d'appello con una decisione confermata poi dalla suprema corte di Cassazione.
Correttamente i giudici di merito avevano anche evidenziato come la destinazione a "civile abitazione"
fosse proprio un presupposto per potervi svolgere un'attività di bed and breakfast".
Nella parte motiva della sentenza la Corte afferma che è sì facoltà dei regolamenti condominiali,
adottati in via di accordo tra i condomini, prevedere limitazioni alle destinazioni d'uso degli
appartamenti; ma che tali limitazioni devono essere espresse, non potendo desumere in via
interpretativa alcuna limitazione aggiuntiva.
(23/11/2014 - Avv. Licia Albertazzi)
Cassazione: Perché sussista il reato di abuso d'ufficio serve una
doppia "ingiustizia"
Con la sentenza n. 48036/2014, la VI Sezione Penale della Corte di Cassazione ha ribadito che per
l'integrazione del reato di abuso di ufficio ex articolo 323 codice penale è necessario che sussista il
requisito della cosiddetta "doppia ingiustizia" nel senso che "ingiusta deve essere la condotta, in
quanto connotata da violazione di legge, ed ingiusto deve essere l'evento di vantaggio patrimoniale, in
quanto non spettante in base al diritto oggettivo regolante la materia".
Nel caso di specie, l'accusa mossa agli imputati era quella di avere assunto, con rapporti di lavoro
subordinato o di collaborazione a progetto, una serie di soggetti (in molti casi legati da rapporti di
parentela o di amicizia con esponenti politici locali) senza previo esperimento di procedure concorsuali
o di selezione.
Secondo il giudice di ultima istanza, il reato di abuso di ufficio non si è perfezionato proprio perché
non è dato ravvisare nell'accaduto la "doppia ingiustizia".
La violazione di legge a cui fa riferimento l'art. 323 c.p., chiarisce la Corte, riguarda sia la condotta
del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, sia le condotte che
siano dirette alla realizzazione di un interesse in conflitto con quello per quale il potere è conferito.
Ma proprio in relazione a tale secondo aspetto è necessario dimostrare il dolo intenzionale la cui prova
esige il raggiungimento della certezza che la volontà dell'agente sia stata orientata proprio a procurare
il vantaggio patrimoniale: tale certezza non può essere ricavata esclusivamente dal rilievo di un
comportamento "non iure" osservato dall'agente, ma deve trovare conferma anche in altri elementi
sintomatici, che evidenzino la effettiva "ratio" ispiratrice del comportamento.
Nella specie, conclude la Corte, "la valorizzazione come fine pubblico perseguito dagli agenti della
necessità di ricollocare i dipendenti delle società estinte e l'assenza di altri elementi sintomatici ha fatto
ritenere che i ricorrenti non avessero perseguito favoritismi personali, escludendo il dolo intenzionale
richiesto dalla fattispecie contestata".
Riferimenti normativi:
Art. 323 codice penale.
Abuso di ufficio. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato
di pubblico sevizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge
o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo
congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.
(24/11/2014 - G.C.)
Morte del lavoratore: Cassazione, il requisito della "vivenza a carico"
come presupposto per ottenere dall'INAIL una rendita da perdita del
contributo economico
Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, sentenza n. 24517 del 18 Novembre 2014.
La Cassazione ha rigettato il ricorso promosso dai familiari della vittima di un uomo deceduto in un
incidente stradale mentre si recava sul luogo di lavoro.
Il giudice del merito, dopo aver accertato che si trattasse di infortunio in itinere, aveva tuttavia respinto
la richiesta dei familiari di vedersi riconoscere dall'INAIL una rendita per mancanza di contributo
economico, prima fornito dal figlio, indispensabile per il mantenimento della famiglia.
Secondo l'art. 85 del D.p.r. 1124/1965 (T.U. assicurazioni malattie professionali nell'industria) vi
sarebbe vivenza a carico nel caso in cui “gli ascendenti si trovino senza mezzi di sussistenza autonomi
sufficienti e al mantenimento di essi concorreva in modo efficiente il defunto”. Due sono quindi gli
elementi necessari per integrare la vivenza a carico: il concorso efficiente del lavoratore deceduto al
mantenimento degli ascendenti attraverso aiuti ecoomici che, “per la loro costanza e regolarità,
costituivano un mezzo normale, anche se parziale, di sostentamento”; e la mancanza, per gli
ascendenti, di sufficienti mezzi di sussistenza.
E' importante sottolineare come il concetto di “sufficienza” non sia delineato dal legislatore con
precisione, restando al giudice del merito l'onere di valutare caso per caso.
La dipendenza economica deve assumere rilevanza diretta nei confronti del lavoratore defunto, “con la
conseguenza che, ai fini della sussistenza del diritto alla rendita, non è sufficiente la dimostrazione
della sola circostanza della loro convivenza con l'assicurato o che da questi ottenevano un parziale
mantenimento”. Il ricorso è rigettato.
(21/11/2014 - Avv. Licia Albertazzi)
Cassazione: legittimo il sequestro conservativo del trust simulato
È pienamente legittimo il sequestro conservativo degli immobili familiari, conferiti in uno “sham trust”
(ovvero in un trust simulato o fittizio), costituito “come mero espediente per creare un diaframma tra
patrimonio personale e proprietà costituita in trust, con evidente finalità elusiva delle ragioni creditorie
di terzi, comprese quelle erariali”.
Così ha stabilito la Corte di Cassazione, con sentenza n. 46137 del 7 novembre 2014, rigettando il
ricorso di un soggetto indagato per bancarotta fraudolenta e confermando il provvedimento di rigetto
della richiesta di riesame, da parte del Tribunale di Parma, del sequestro conservativo disposto dal Gip
del medesimo tribunale.
Condividendo l’esito delle statuizioni del tribunale e rigettando in toto le doglianze del ricorrente, circa
l’impignorabilità dei beni sottoposti a sequestro conservativo, in aperta violazione dell’art. 11 della
Convenzione dell’Aja dell’1.7.1985 in materia di trust, la cui costituzione produce la segregazione del
patrimonio conferito, la Cassazione ha affermato, invece, che il trust costituito dall’imputato insieme ai
familiari, alla luce delle qualifiche di trustee e di beneficiario allo stesso attribuite unitamente alla
madre (entrambi titolari originari dei beni conferiti nell’istituto), è da considerarsi simulato (c.d. “sham
trust”) e come tale improduttivo dell’effetto segregativo connaturato all’istituto.
La S.C. ha colto l’occasione per ricordare che il trust “tipico istituto di diritto inglese, si sostanzia
nell'affidamento ad un terzo di determinati beni perché questi li amministri e gestisca quale
"proprietario" (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del
trust, ai soggetti indicati dal disponente”, per cui il presupposto, coessenziale alla natura dell’istituto, è
che il disponente “perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri
che possano competergli in base alle norme costitutive”.
Tale condizione è assolutamente ineludibile, tant’è che ove risulti che la perdita del controllo dei beni
da parte del disponente sia solo apparente, ha aggiunto la Cassazione, “il trust è nullo e non produce
l’effetto segregativo che gli è proprio”. Così affermando, la S.C. ha quindi ritenuto conforme il
provvedimento cautelare emesso nel caso di specie, considerata la situazione di mera apparenza
dell’istituto, visto che il ricorrente continuava ad amministrare i beni conservandone la disponibilità nella
qualità di trustee, oltre ad esserne beneficiario, insieme ai familiari.
(21/11/2014 - Nemes)
Antitrust: multa da 1 milione di Euro a Trenitalia. Il sistema che
sanziona i passeggeri senza biglietto è "pratica commerciale
scorretta"
La L'Antitrust ha inflitto a Trenitalia una sanzione amministrativa da un milione di euro per "pratica
commerciale scorretta" sulle procedure applicate alle "irregolarità di viaggio" in caso di mancanza di
biglietto da parte del viaggiatore.
Il sistema di accertamento e repressione delle irregolarità di viaggio nel trasporto ferroviario passeggeri
viene considerato dall'Authority eccessivamente oneroso perché impone al trasgressore, oltre al
pagamento del prezzo dovuto per il viaggio in corso, anche una sovrattassa (variabile da 50 a 200
euro) e un'ulteriore somma a titolo di oblazione.
E ciò accade "anche quando i passeggeri sono nell'impossibilità - per forza maggiore o addirittura
disservizio imputabile a Trenitalia - di regolarizzare la propria posizione e anche a fronte di posti liberi
a bordo treno". A giudizio dell'Autorità Garante della concorrenza e del mercato, l'attuale regime di
controllo dei titoli di viaggio mira non solo a reprimere gli abusi, ma è strumentale alla rigidità del
sistema tariffario in contrasto con quanto prevede il Codice del Consumo. A questo procedimento per
pratica commerciale scorretta si è aggiunto un altro procedimento sui tempi degli indennizzi a favore
dei passeggeri aperto su segnalazione di diverse associazioni dei consumatori e di numerosi cittadini.
Trenitalia si è formalmente impegnata a ridurre i tempi degli indennizzi entro marzo 2015. Tra le
novità, le richieste di rimborso potranno essere presentate entro tre giorni dall'arrivo a destinazione
invece dei venti giorni attuali e il diritto all'indennizzo scatterà in caso di ritardo superiore ai trenta
minuti sull'orario previsto, in luogo della soglia di un'ora attualmente prevista.
È previsto un ulteriore margine di tre minuti sull'eventuale ritardo nelle stazioni dei grandi nodi
ferroviari come quelle di Torino, Milano, Bologna, Firenze e Roma . Il bonus (non in denaro) pari al
25% del prezzo del biglietto sui servizi nazionali di media e lunga percorrenza potrà essere scontato in
viaggi successivi.
(18/11/2014 - G.C.)
Cassazione: quando è la donna a “portare i pantaloni”. Anche l'uomo
ha diritto al risarcimento danni per la perdita del lavoro domestico
Corte di Cassazione civile, sezione terza, sentenza n. 24471 del 18 Novembre 2014.
In sede di appello, è negato a un uomo il risarcimento del danno patrimoniale da perdita del lavoro
domestico poiché “non rientra nell'ordine naturale delle cose che il lavoro domestico venga svolto da
un uomo”. Una motivazione che, tralasciando ogni commento etico e sociale, finisce sotto la scure
della Cassazione civile poiché viziata da illogicità e contraddittorietà.
Dopo aver premesso che il lavoro domestico è sicuramente una “utilità suscettibile di valutazione
economica, e che la perduta possibilità di svolgerlo costituisce un danno risarcibile” la Suprema corte –
oltre a mettere in dubbio tale “ordine naturale delle cose” - conferma che il riparto del lavoro
domestico tra i coniugi è “ovviamente frutto di scelte soggettive e costumi sociali”, di sicuro non
sindacabili da un giudice.
Il principio vigente nel nostro ordinamento è infatti quello della pari contribuzione dei coniugi ai bisogni
della famiglia, così come enunciato dall'art. 143 cod. civ. E, in assenza di prove contrarie, “è
ragionevole presumere che i cittadini conformino la propria vita familiare ai precetti normativi, piuttosto
che il contrario”.
L'aver riportato, a seguito di un incidente stradale e come nel caso in oggetto, lesioni gravi e
invalidanti che per parecchio tempo hanno costituito impedimento al regolare svolgimento del lavoro
domestico, rappresenta sicuramente idonea fonte di risarcimento del danno.
Il ragionamento della Corte d'appello è errato e discriminatorio, avendo presunto, sulla sola base del
sesso maschile, che l'interessato non apportasse alcun vantaggio domestico diretto alla famiglia.
Per le motivazioni sopra esposte, poiché “la perduta possibilità di svolgere lavoro domestico costituisce
un danno patrimoniale, pari al costo ideale di un collaboratore cui affidare le incombenze che la vittima
non ha potuto sbrigare da sè”, il ricorso è accolto e la sentenza cassata con rinvio.
(21/11/2014 - Avv. Licia Albertazzi)
Cassazione: più larghi i confini della provocazione. Escluso il reato di
ingiuria se le offese sono dirette a chi ha tenuto comportamenti
'sconvenienti'
Perché si possa parlare di ingiuria è necessario che si realizzi l'offesa all'onore o al decoro di una
persona. Ma è pur vero che l'ingiuria non è punibile se le parole offensive sono pronunciate nello stato
d'ira determinato dal fatto ingiusto altrui e come immediata reazione.
In un caso esaminato dalla Corte di Cassazione (Sentenza 13 novembre 2014, n. 4704) su un uomo
convivente della figlia dell'imputato, incombeva un provvedimento del Tribunale dei minori che gli
impediva di avere contatti con le figlie della compagna perché il suo atteggiamento turbava la serenità
delle piccole.
Nonostante il provvedimento di divieto del Tribunale per i Minorenni l'uomo si era presentato (in
compagnia della sua compagna) lì dove si trovavano le bambine che in quel momento erano in
compagnia dei nonni e e che al suo arrivo avevano iniziato a piangere.
L'uomo in realtà, forse proprio per non avere problemi, si fatto accompagnare dai Carabinieri per
lasciare effetti personali alle bambine, ma al suo arrivo si era visto accogliere con parole "poi per te
ci penso io, sei una cosa inutile".
L'uomo risentitosi delle offese ricevute presentava querela e dopo una condanna in primo grado veniva
assolto in sede di appello, ottenendo il riconoscimento della causa di giustificazione di cui all’art. 599,
secondo comma, codice penale dato che sussisteva pur sempre un divieto imposto del Tribunale per i
Minorenni che in quel modo era stato violato.
Il caso è poi finito dinanzi alla V Sezione Penale della Cassazione, che ha definitivamente assolto
l'imputato perché il fatto non costituisce reato.
La Corte ha ritenuto corretta l'applicazione dell'esimente di cui al secondo comma dell'art. 599 del
codice penale in base al quale non è punibile chi ha commesso i reati di ingiuria e diffamazione nello
stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso.
La peculiarità della sentenza sta nel fatto che secondo la Corte, ai fini dell’applicabilità dell’esimente "è
sufficiente che la reazione sia determinata dal fatto ingiusto altrui e l’ingiustizia non deve essere
valutata con criteri restrittivi, cioè limitatamente ad un fatto che abbia un’intrinseca illegittimità, ma con
criteri più ampi [...] anche cioè quando esso si traduca nell’inosservanza di norme sociali o di costume
regolanti l’ordinaria, civile convivenza".
Per questo secondo la Corte possono costituire provocazione anche comportamenti "sconvenienti o,
nelle particolari circostanze, inappropriati"
La corte ha disatteso l'assunto della persona offesa secondo cui il suo “atteggiamento provocatorio”
risulterebbe "escluso, di fatto, per la presenza dei carabinieri, da lui stesso sollecitati
nell’accompagnamento e per la mancata interferenza nell’incontro, trovandosi egli a distanza".
Secondo la cassazione infatti l’atteggiamento provocatorio "può ricavarsi anche dalla mera presenza
fisica, non accompagnata da azioni particolari, ma che sia in sé idonea a generare un forte
turbamento psicologico, connotato da impulsi aggressivi, per le modalità di tempo e di luogo in cui
essa risulti avvertita".
Nel caso di specie il fatto di essersi presentato a casa dell'imputato, seppur accompagnato dai
carabinieri, è stato avvertito come "fatto ingiusto", perché contrario al provvedimento del Tribunale che
gli impediva di avere contatti con le bambine.
La Cassazione ha insomma allargato i limiti dell'"ingiustizia" del fatto facendovi rientrare anche atti
contrari alla civile convivenza o ritenuti dall'uomo comune inappropriati e non solo quelli palesemente
sprezzanti.
(19/11/2014 - G.C.)
Consiglio di Stato: ricorso per esclusione da concorso in Polizia
Tizio viene escluso dalla selezione di 907 posti di Allievi agenti di Polizia di Stato, in quanto nello
stesso anno aveva presentato domanda di partecipazione ad un altro concorso indetto per carriere di
altre Forze di Polizia ad ordinamento civile e militare. All'esito di varie complesse fasi di giudizio
scaturite dall'opposizione del ricorrente all'esclusione il Consiglio di Stato, con la pregevole sentenza
n.3226/14 del 26.06.2014, stabilisce come -ai fini del decidere- l'Amministrazione sia tenuta a
comprovare in giudizio ogni attività espletata: comunicazioni, notificazioni, registri delle Segreterie Tar,
riassunzioni. Il tutto con l'espressa finalità di verificarne l'operato.
In punto di fatto, l'odierno appellante partecipava al concorso, indetto con bando pubblicato sulla G.U.,
4^ s.s., n. 93 del 28.11.2008, per 907 posti di Allievi agenti della Polizia di Stato (successivamente
elevati, con decreto del Capo della Polizia in data 09.12.2009, a 1078 posti), collocandosi tra gli
idonei alla prova preselettiva, al 1xxx posto.
Con d.m. in data 1xxxx notificatogli il 1xxxxx, egli è stato escluso da detta selezione per violazione
dell'art. 2, quarto comma, del bando di concorso, nel quale è previsto che "I candidati nello stesso
anno non possono presentare domanda di partecipazione ad altri concorsi indetti per le carriere iniziali
delle altre Forze di Polizia ad ordinamento civile e militare e del Corpo militare della Croce Rossa,
pena l'esclusione dal concorso".
Avverso detto provvedimento di esclusione egli ha proposto quindi ricorso dinanzi al Tar per la Sicilia,
deducendo, in particolare: a) la retroattività della clausola del bando applicata nella fattispecie; b) che,
in ogni caso, esso ricorrente ha sì fatta domanda per l'accesso all'Arma dei Carabinieri, ma è anche
vero che egli non si è presentato alle prove relative a tale concorso: comportamento concludente
(quello appena citato) che evidenzia la sua volontà di porre nel nulla ovvero di rendere priva di effetti
la domanda di partecipazione per la selezione nell'Arma dei Carabinieri; c) la violazione dell'art. 3
legge 241/90 e l'eccesso di potere per disparità di trattamento.
Con ordinanza 21 maggio 2010, n. 428, il Tar ha respinto la domanda cautelare proposta.
Con successiva ordinanza lo stesso Tar si è pronunciato sul ricorso per regolamento di competenza
proposto dall'Amministrazione resistente e, preso atto dell'adesione del ricorrente, ha ordinato la
trasmissione degli atti del ricorso al Tar per il Lazio, sede di Roma.
A seguito della prosecuzione del giudizio dinanzi al Tar per il Lazio, con ordinanza n. 4786/2011, resa
a seguito della trattazione della causa all'udienza pubblica del 12 maggio 2011, è stata ordinata
l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei candidati risultati idonei all'esito della procedura
selettiva in questione.
All'udienza del 9 gennaio 2012 il Tar rilevato che parte ricorrente non ha adempiuto all'ordine di
integrazione del contraddittorio oggetto dell'ordinanza n. 4786/2011 (con la quale è stato specificato
che a tali incombenti la parte ricorrente avrebbe dovuto provvedere nel termine perentorio di giorni
sessanta decorrente dalla data della notificazione ovvero, se anteriore, della comunicazione in via
amministrativa della presente decisione, ulteriormente provvedendo, entro l'ulteriore termine perentorio
di giorni trenta dal completamento delle anzidette formalità di notificazione, al deposito della
documentazione attestante il rispetto dell'incombente in questione), ha dichiarato il ricorso
improcedibile, ai sensi dell'art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a., non essendo stato integrato il
contraddittorio nel termine assegnato.
Avverso detta sentenza propone appello l'originario ricorrente, deducendo che l'inottemperanza alla
ordinanza 4786 "deriva esclusivamente dalla mancata conoscenza della stessa, stante la
comunicazione al difensore a mezzo di deposito in cancelleria del Tar Lazio, posta la mancata
elezione di domicilio in Roma" e che quest'ultima, a sua volta, "conseguiva al mancato ricevimento
dell'ordinanza presidenziale resa dal Tar Sicilia nel procedimento N. 8xxxx0 reg. ric. a mezzo della
quale si sarebbe dovuta comunicare la trasmissione del fascicolo e lo spostamento del procedimento".
"In mancanza di conoscenza della pendenza del giudizio dinnanzi al Tar dichiarato competente con la
detta ordinanza", conclude, egli "non ha potuto in alcun modo eleggere domicilio presso di questo".
Ritiene quindi, in definitiva, "scusabile a fronte delle censure ... il motivo per il quale è rimasta
sconosciuta tanto la trasmissione del fascicolo quanto la pendenza del giudizio dinnanzi al Tar Lazio
ricevente, con le ovvie conseguenze negative per il ricorrente trasfuse in sentenza" e chiede "la
rimessione al Tar che ha pronunciato la sentenza oggetto della presente impugnazione ai fini del
prosieguo del giudizio di primo grado consequenziale alla riforma della sentenza, onde consentire
all'odierno appellante di essere rimesso in termini ai fini di ottemperare all'ordinanza del maggio 2011".
Si è costituita in giudizio per resistere, prima con formule di mero stile e poi con articolata memoria,
l'Amministrazione appellata.
Il Collegio ritiene necessario acquisire, ai fini del decidere, anche tenuto conto del sollecito di ogni
opportuna verifica riguardo all'attività posta in essere formulata nelle sue difese dalla stessa
Avvocatura Generale dello Stato, i seguenti atti, non presenti (o presenti in maniera incompleta) nel
fascicolo trasmesso dal Tar Lazio ai sensi dell'art. 6, comma 2, dell'All. 2 al c.p.a.:
1) copia della comunicazione all'odierno appellante, ex art. 33, comma 3, c.p.a. (e non, come dedotto
dall'appellato, ai sensi dell'art. 31, comma 4, della previgente legge n. 1034/1971, non applicabile
ratione temporis alla fattispecie, che non rientra, almeno quanto a detta comunicazione, nella ipotesi di
ultrattività della disciplina anteriore prevista dall'art. 2 del Titolo II dell'All. 3 al c.p.a.), dell'Ordinanza
presidenziale del Tar per la Sicilia, sede di Palermo, n. 33/2010;
2) copia del registro tenuto dalla Segreteria della Sezione Prima del Tar per la Sicilia, sede di
Palermo, ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett. d), dell'All. 2 al c.p.a., nella parte riguardante la citata
ordinanza n. 33/2010, completa della annotazione di cui al comma 3 dello stesso art. 2;
3) copia dell'atto di riassunzione del giudizio davanti al Tar per il Lazio, sede di Roma, ai sensi
dell'art. 15, comma 4, terzo periodo, c.p.a. (recante gli estremi identificativi della parte che ha
provveduto alla riassunzione);
4) estremi della ricezione, da parte del Tar per il Lazio, del fascicolo del ricorso ad esso trasmesso
dal Tar Sicilia in esecuzione in esecuzione dell'Ordinanza Presidenziale n. xxxxx0;
5) copia della comunicazione all'odierno appellante del decreto di fissazione dell'udienza pubblica;
6) copia della comunicazione all'odierno appellante, ex art. 33, comma 3, c.p.a., dell'Ordinanza del
Tar per il Lazio, sede di Roma, n. 4xxxxx1;
7) copia della comunicazione all'odierno appellante del decreto di fissazione dell'udienza pubblica del
9xxxxx, ai sensi dell'art. 71, comma 5, c.p.a.;
8) copia della comunicazione all'odierno appellante, ex art. 89, comma 3, c.p.a., dell'intervenuto
deposito della sentenza del Tar Lazio, sede di Roma, n. 6xxxx2.
Tutte le comunicazioni di cui sopra devono recare gli estremi della relativa ricezione (data e firma, o
rapporto fax dal quale risulti l'esito positivo della ricezione stessa) da parte del destinatario.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), ordina quindi il deposito degli atti di cui in
motivazione, da effettuarsi da parte dei soggetti, nei termini e con le modalità ivi indicati.
Avv. Francesco Pandolfi
Fare pipì vicino all’ingresso di casa non costituisce reato se manca
l’elemento soggettivo
Secondo consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, sono atti contrari alla pubblica decenza
tutti quelli che in spregio ai criteri di convivenza e di decoro che debbono essere osservati nei rapporti
tra i consociati, provocano in questi ultimi disgusto o disapprovazione come l'urinare in luogo pubblico.
Tuttavia non costituisce reato ex articolo 726 del codice penale, l’aver compiuto atti contrari alla
pubblica decenza, consistenti nell'avere orinato vicino all'ingresso della abitazione, quando manca
l’elemento soggettivo (v. gli elementi del reato). E’ quanto precisato dalla Corte di cassazione, con la
sentenza del 17 novembre 2014, n. 47244.
Il giudice di pace in primo grado aveva assolto l'imputato valorizzando una testimonianza in base alla
quale sarebbero emersi tali da escludere il reato.
Il caso finirà dunque in cassazione sul ricorso del procuratore generale della corte di appello il quale
denunciava l'illogicità della decisione del primo giudice dato che i fatti sarebbero stati ammessi nella
loro materialità.
Secondo il procuratore generale la sentenza di 1° sarebbe stata anche contraddittoria perché avrebbe
dapprima avvalorato una soluzione assolutoria per assenza dell'elemento soggettivo per poi decidere
con la formula del non aver commesso il fatto.
La corte di cassazione ha respinto il ricorso richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali in base ai
quali "sono atti contrari alla pubblica decenza tutti quelli che in spregio ai criteri di convivenza e di
decoro che debbono essere osservati nei rapporti tra i consociati, provocano in questi ultimi disgusto o
disapprovazione come l'urinare in luogo pubblico. Né la norma dell'art. 726 cod. pen., esige che l'atto
abbia effettivamente offeso in qualcuno la pubblica decenza e neppure che sia stato percepito da
alcuno, quando si sia verificata la condizione di luogo, cioè la possibilità che qualcuno potesse
percepire l'atto"
La corte nel testo della sentenza (qui sotto allegato) spiega anche quali sono le differenze tra atti
osceni e atti contrari alla pubblica decenza.
Fatte queste precisazioni i giudici di piazza Cavour osservano che se è vero che la sentenza di primo
grado contiene delle imprecisioni terminologiche, "l'apparente antinomia fra motivazione e dispositivo
della sentenza è risolvibile ritenendo che la formula utilizzata nel dispositivo" secondo cui quale
l'imputato deve essere "assolto dal reato di cui all'art. 726 cod. pen. 'perché non lo ha commesso', va
intesa non, certamente, nel senso che il reato è stato commesso da altri, ma nel senso che la
condotta del C. non integra gli estremi del reato, cioè, essa non costituisce reato, così come riportato
in sentenza".
Il riferimento che il primo giudice ha fatto alle modalità in cui si sono verificati fatti, conclude la Corte,
deve far ritenere che il giudice di pace abbia ritenuto carente l'elemento soggettivo del reato, anche
con riferimento al profilo della sola colpa.
(20/11/2014 - Luigi Del Giudice)
Cassazione: Legittimo l'abbandono del tetto coniugale se lui è un
violento
Con ordinanza numero 24.830 del 21 novembre 2014 la Corte di Cassazione ha chiarito che
l'abbandono del tetto coniugale da parte della moglie può trovare giustificazione nel fatto che il marito
ha tenuto un comportamento violento nei confronti della sua consorte.
E così se di norma l'allontanamento dalla casa coniugale può avere conseguenze giuridiche rilevanti
(dato che chi se ne va di casa senza un valido motivo, viola uno dei doveri coniugali e rischia
l'addebito della separazione), ci sono diverse ipotesi in cui un coniuge può andar via di casa
legittimamente.
Uno di questi, appunto, è il verificarsi di episodi di violenza.
Nel caso preso in esame dai giudici di piazza Cavour il tribunale di Velletri, occupandosi della
separazione di due coniugi, aveva dichiarato l'addebito a carico del marito che aveva determinato la
crisi coniugale per via dei suoi comportamenti violenti.
L'uomo aveva impugnato la sentenza presso la Corte d'Appello di Roma chiedendo che la separazione
fosse invece addebitata la moglie per essersi questa allontanata dalla residenza familiare.
I giudici della Corte territoriale avevano però evidenziato come l'allontanamento della moglie fosse
giustificato e causato proprio dalla condotta violenta del marito. Nella sentenza, la corte d'appello di
Roma aveva valorizzato anche il fatto che la violenza dell'ex marito aveva anche provocato gravi
lesioni personali alla moglie e che "La vicinanza di tali ultimi accadimenti lesivi con la crisi coniugale
che ha portato alla separazione" deve indurre a ritenere "l'ascrivibilità ad essi della intollerabilità della
prosecuzione della convivenza".
(22/11/2014 - N.R.)
Cassazione: come vincere la presunzione di colpa del conducente che
ha investito un pedone. Estensore dott. Marco Rossetti
Corte di Cassazione civile, sezione terza, sentenza n. 24472 del 18 Novembre 2014. Estensore Dott.
Marco Rossetti.
L'art. 2054 codice civile in tema di investimento del pedone da parte dell'automobilista pone a carico
di quest'ultimo una presunzione di colpa iuris tantum – che ammette, cioè, la prova contraria. Per
questo, spiega la Cassazione, spetta al conducente del mezzo provare che il pedone si è comportato
in modo anomalo e imprevedibile, infrangendo una o più regole del Codice della strada, comportandosi
in un modo tale da rendere inevitabile l'impatto.
Tale prova può valere, se non per una discolpa totale, quanto meno a fondare un concorso di colpa a
carico dell'investito.
Nel caso di specie il conducente ha allegato la circostanza che il pedone avrebbe attraversato la
strada fuori dalle strisce pedonali; ma tale comportamento non è di per sé idoneo ad escludere la
responsabilità dell'autista.
Secondo la Corte per vincere la presunzione di colpa del conducente, occorre dimostrare che il
pedone ha tenuto una condotta anomala, violando le regole del codice della strada e parandosi
imprevedibilmente dinanzi alla direzione di marcia del veicolo investitore.
La corte chiarisce in particolare che:
1. Il pedone può essere ritenuto responsabile esclusivo del sinistro soltanto quando si pari
improvvisamente e imprevedibilmente dinanzi alla traiettoria del veicolo;
2. la violazione di una regola di condotta da parte del pedone non è di per sé sufficiente a ritenere la
colpa esclusiva di questo;
3. La violazione di una regola di condotta da parte del pedone è sufficiente a ritenere un concorso di
colpa del pedone stesso ex articolo 1227 c.c. nella causazione del sinistro.
Nel caso di specie il giudice del merito ha erroneamente applicato un concorso di colpa al 50% sulla
base del fatto che vi erano delle oggettive difficoltà a definire la dinamica dell'incidente. La motivazione
della sentenza, impugnata dal pedone, risulta viziata da contraddittorietà e violazione di legge, giacché
le regole processuali stabiliscono una presunzione relativa a carico del conducente, presunzione che
non è stata sconfessata da alcuna precisa prova contraria.
Nel rinviare alla corte d'appello di Perugia la Cassazione da le seguenti raccomandazioni:
1. Si deve tenere conto del fatto che l'insufficienza di prova della colpa del pedone ridonda a
svantaggio del conducente;
2. va accertato se nel caso di specie vi è la prova di una condotta colposa del pedone e in cosa
consiste;
3. va eventualmente ripartita la responsabilità in base ai criteri dettati dall'articolo 1227 comma 1 del
codice civile e cioè "dapprima spiegando adeguatamente quale delle colpe concorrenti debba
intendersi più grave, e quali conseguenze delle rispettive condotte imprudenti debbano ritenersi
maggiori; e quindi ripartendo la colpa in proporzione alla gravità della colpa e all'entità delle
conseguenze che ne sono derivate".
(19/11/2014 - Avv. Licia Albertazzi)
Cassazione: lecito pedinare la cognata per vedere chi frequenta
Se si sospetta che la moglie del proprio fratello abbia una qualche frequentazione extraconiugale è
lecito pedinarla senza bisogno di rivolgersi a un'agenzia investigativa.
E' quanto afferma la Corte di Cassazione (sentenza 20 novembre 2014, n. 48264) occupandosi della
vicenda di un uomo che era finito sotto processo con l'accusa del reato di cui agli articoli 134 e 140
testo unico leggi pubblica sicurezza "per avere eseguito attività investigativa, di pedinamento, ricerca e
raccolta di informazioni" nei confronti della cognata.
L'assoluzione veniva motivata sulla base del rilievo che la configurabilità del reato richiede che l'attività
di vigilanza e di investigazione sia esercitata in forma imprenditoriale o professionale.
Nel caso di specie però il cognato, insieme a un altro uomo, aveva effettuato solo dei semplici controlli
saltuari senza alcun supporto organizzativo.
La persona offesa nel corso del giudizio aveva affermato che "nessun dato normativo consentirebbe di
restringere la previsione dell'art. 134 T.U.LP.S. all'attività imprenditoriale" e che comunque nel caso in
esame il pedinamento si sarebbe protratto per diversi mesi.
Secondo la Cassazione è corretta la decisione dei giudici di merito di assolvere l'imputato perché la
caratteristica delle attività di investigazione di cui tratta l'art. 134 r.d. n. 733 del 1931 (T.U.LP.S.), è
che detta attività "sia svolta, per conto terzi, in forma professionale".
Quando le attività investigative vengono svolte in modo imprenditoriale, esse sono tali da poter
interferire con la funzione di polizia, in quanto costituiscono attività integrativa di essa.
Per questo in tal caso è necessario che vi sia il rilascio di un'autorizzazione prefettizia. In buona
sostanza sono proprio le attività professionali e imprenditoriali che possono costituire un pericolo di
compromissione della sicurezza pubblica e della libertà dei cittadini.
Al contrario non possono integrare la violazione delle norme oggetto del capo d'imputazione quelle
semplici attività di controllo e di ricerca di informazioni svolte da un privato nel suo particolare
interesse nei confronti di una singola persona.
(22/11/2014 - N.R.)