Giustizia: Giudici di pace, troppi compiti e poche tutele
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Giustizia: Giudici di pace, troppi compiti e poche tutele
Giustizia: Giudici di pace, troppi compiti e poche tutele In una nota la magistratura di Pace rappresentata da Unagipa e AnMap ha rappresentato al presidente della Repubblica "la grave situazione di precariato in cui versa la categoria dei giudici di pace, magistrati ordinari investiti di alte funzioni pubbliche, ma senza le tutele fondamentali garantite dalla Costituzione ad ogni cittadino e lavoratore". Gli esponenti della categoria rimarcano l'inconciliabilità "del rapporto a termine del magistrato di pace con la definitiva stabilizzazione dell'istituzione della giustizia di pace, componente ormai irrinunciabile della giustizia ordinaria, investita di competenze sempre piu' ampie in materia penale, civile ed amministrativa". Si sottolinea anche "l'incostituzionalita' del mancato riconoscimento ai magistrati di pace delle tutele fondamentali spettanti a qualsiasi lavoratore, a tempo pieno, parziale od occasionale: la previdenza sociale, la tutela della maternita' e della salute, l'assicurazione obbligatoria per infortuni e la violazione del precetto costituzionale di indipendenza della categoria, priva delle garanzie ordinamentali spettanti a tutti i soggetti investiti di pubblici poteri, con particolare riferimento al diritto di difesa nei procedimenti disciplinari e paradisciplinari". La nota si conclude evidenziando l'esigenza di "preservare l'autonomia degli uffici del Giudice di Pace, la cui direzione deve restare affidata ad un organo interno alla magistratura di pace, che garantisca, con la sua presenza costante, l'imparzialita' ed il buon andamento dell'Ufficio e l'esigenza di attuare il principio fondamentale di autogoverno della magistratura, prevedendo un'adeguata rappresentanza della giustizia di pace all'interno del Csm". Giurisdizione del giudice amministrativo anche sui diritti fondamentali se P.A. spende “in concreto” potere autoritativo È del giudice amministrativo la giurisdizione in materia di lesione di diritti fondamentali come quelli tutelati dalla costituzione (nel caso di specie di tratta dell’art.32 che tutela il diritto alla salute) se P.A. spende in concreto potere autoritativo. Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con l’ordinanza n.5290 depositata il 5 marzo 2010, in seguito alla proposizione del regolamento preventivo di giurisdizione da parte di una comunità montana, in relazione ad un giudizio pendente davanti al giudice ordinario. Gli Ermellini precisando questa essenziale differenza, e cioè che nel caso di specie non si trattava di un “mero comportamento” (che comporterebbe la giurisdizione del giudice ordinario anche in materia urbanistica) della pubblica amministrazione ma di un vero e proprio “esercizio di potere” concretizzatosi attraverso una delibera Giunta Esecutiva della Comunità Montana, hanno stabilito che “anche in materia di diritti fondamentali tutelati dalla costituzione, quali il diritto alla salute (art.32 Cost.) – allorché la loro lesione sia dedotta come effetto di un comportamento materiale di poteri autoritativi e conseguente ad atti della P.A. di cui sia denunciata la illegittimità, in materie riservate alla giurisdizione esclusiva dei giudici amministrativi - come quella della gestione del territorio – compete a detti giudici la cognizione esclusiva delle relative controversie in ordine alla sussistenza in concreto dei diritto vantati, al comportamento o alla limitazione di tali diritti in rapporto all’interesse generale pubblico dell’ambiente salubre, nonché alla emissione dei relativi provvedimenti gli effetti della futura decisore finale sulle richiesta inibitorie, demolitore ed eventualmente risarcitorie dei soggetti che deducono di essere danneggiati da detti comportamenti o prevedimenti e che pertanto la presente controversia spetta alla giurisdizione del giudice amministrativo”. La differenza, tra il “mero comportamento” e l’ “esercizio in concreto del potere”, deve presiedere, (sulla base di quanto statuito dalla Consulta con la storica sentenza 204 del 2004), al riparto di giurisdizione: al di là infatti dei “blocchi di materie” devoluti dal legislatore del ’98 (d.lgs.80/1998 come modificato dalla legge 205/200) alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (giurisdizione in cui ha cognizione anche dei diritti soggettivi), è necessario, perché sia abbia la giurisdizione del giudice amministrativo, l'esericio in conreto di potere autoritativo e non di un "semplice comportamento" della P.A, altrimenti, anche nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sarà competente il giudice ordinario. In questo caso, invece non si è trattato di un “mero comportamento” ma di un atto autoritativo della P.A e cioè della delibera della giunta esecutiva della Comunità montana, che è servita a fondare la giurisdizione del giudice amministrativo. P.A., Brunetta: Stop alle raccomandazioni arrivano i concorsi chiavi in mano Roma, 13 mar. - (Adnkronos) - Concorsi pubblici 'chiavi in mano' per porre un freno alle raccomandazioni e risparmiare tempo e denaro. E' la nuova scommessa messa in piedi dal ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta che punta ad offrire alle pubbliche amministrazioni, centrali e periferiche, un servizio completo per la realizzazione dei concorsi. "Stiamo lanciando un programma che si chiamerà 'Vinca il migliore' e che collega Formez Italia con la Bocconi per offrire a tutti gli enti pubblici, centrali e periferici, dal piccolo comune al grande, il nostro servizio chiavi in mano per la realizzaZione di concorsi", spiega Brunetta in un'intervista all'ADNKRONOS . L'idea è quella di sgravare gli amministratori di un 'peso' e di liberarli da possibili pressioni. "Siamo in grado -spiega- di fornire un servizio completo a costi ridotti, dalla preparazione del bando alla preselezione, dallo svolgimento delle prove alla certificazione fino alla proclamazione e alla formazione dei vincitori, per evitare che di volta in volta una amministrazione si metta a organizzare un concorso senza neanche sapere da dove cominciare... ". Il tutto in un'ottica di dematerializzazione e di semplificazione. "L'ente pubblico potrebbe essere permeato da sollecitazioni di vario tipo, - continua Brunetta - per questo l'incarico dovrebbe essere dato a un'agenzia terza, in maniera 'blind' (cieca). L'agenzia, che viene chiamata da un comune del profondo sud o del profondo nord, invece non può essere permeata - sostiene ancora il ministro così siamo in grado di liberare gli amministratori dalle eventuali sollecitazioni che sono fonti solo di problemi". Naturalmente le pubbliche amministrazioni sono libere di scegliere se usufruire del servizio o meno, il pacchetto ha un costo anche se inferiore a quanto costerebbe farselo in proprio. "Non c'è alcun obbligo da parte dell'ente ad affidare un concorso a Formez-Bocconi - spiega Brunetta - tuttavia c'è la garanzia di una buona reputazione". Il ministro infatti, racconta di aver voluto la joint venture con l'Università Bocconi "per avere il meglio delle esperienze internazionali". Il comune di Napoli sta sperimentando il sistema 'chiavi in mano' e lunedì prossimo chiuderà i battenti del concorso-corso Ripam per 530 posti di lavoro, per la presentazione delle domande esclusivamente on line . "Il primo ad averci chiesto il servizio è il comune di Napoli, ed e' sintomatico" commenta il ministro. La previsione è di chiudere il concorso entro un anno solare, con notevoli risparmi di denaro, molti comuni infatti, non indicono bandi proprio per non affrontare spese insostenibili. Anche il risparmio di tempo ha un altro risvolto sotto il profilo della qualità, siccome spesso dall'inizio del percorso all'assunzione passa moltissimo tempo, le gradutorie possono risultare vecchie, ovvero i vincitori di concorsi, i migliori, spesso finiscono per rinunciare al posto perché nel frattempo hanno trovato un'altra occupazione. Il nuovo sistema tra l'altro, prevede una sorta di riforma dei concorsi a partire dai quiz, improntati a nuove formulazioni (più scientifiche) e con processi di valutazione automatizzati che garantiscono una maggiore oggettività di giudizio, di qui il contributo anche dell'Università Bocconi. Modifiche normative in vista sotto il profilo della sicurezza e dell'ambiente dove si svolgono i concorsi (distanza tra posti, sterilizzazione del segnale telefonico, ecc). Formez Italia, la nuova Spa, presieduta da Secondo Amalfitano, la cui mission va dalla formazione all'accesso nella pubblica amministrazione, comunque metterà a disposizione di Regioni, Comuni e Province il 24% del capitale per consentire un azionariato diffuso. Il ministro ha poi parlato del fenomeno della corruzione. Promettendo che sarà presto disponibile una mappa del rischio corruttivo basata non solo sulle denunce ma anche sull'osservazione dei fenomeni. E' quanto garantisce Brunetta dopo la recente approvazione del ddl anticorruzione da parte del Consiglio dei ministri, un provvedimento che prevede l'istituzione di un osservatorio e di piani anticorruzione da parte delle singole amministrazioni che dovranno convergere in un unico piano nazionale. "La corruzione è un argomento molto caldo e avere un osservatorio analitico che mette sotto osservazione continua i fenomeni, non solo le denunce, ma tutti i fenomeni - spiega Brunetta - è un elemento di trasparenza e chiarezza che fa da 'pendant' al piano". D'altra parte, continua il ministro, "noi non abbiamo attualmente una statistica organica sui temi della corruzione, per cui vengono fuori spesso allarmi motivati, a volte immotivati con statistiche più o meno credibili". Cosi' invece, verra' messa a punto "una mappa del rischio corruttivo - sostiene Brunetta - in modo da indirizzare eventuali investimenti per combattere il fenomeno in determinate aree piuttosto che in altre, in determinati passaggi o tipologie, dove porre maggiore attenzione. Saranno i singoli dirigenti a fornire le informazioni al dipartimento della Funzione pubblica". Infine l'economia e la questione Fiat: "I posti di lavoro vanno difesi però la logica di una multinazionale è quella di una multinazionale. Quindi fa bene il ministro Scajola a trovare tutte le soluzioni alternative e la Fiat, dal canto suo, ha il diritto di essere un player globale". Così Brunetta in merito a un possibile futuro meno italiano per il Lingotto. "Noi non possiamo essere orgogliosi della Fiat quando si compra la Chrysler e - spiega - vergognarci quando ... è la stessa Fiat. Bisogna essere equilibrati". Legittimate a far reprimere la condotta antisindacale solo le organizzazioni che siglano accordi applicati in tutto il territorio nazionale Sono infatti rappresentativi e possono promuovere il procedimento previsto dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori solo i sindacati che hanno stretto con le aziende contratti collettivi applicati in tutto il territorio nazionale. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 5209 del 4 marzo 2010, ha accolto il ricorso della Tirrenia che si era opposta all'azione di un sindacato (che non aveva firmato contratti collettivi applicati in tutta Italia) che chiedeva il pagamento dei contributi sindacali. Secondo la sezione lavoro "in tema di rappresentatività sindacale il criterio legale dell'effettività dell'azione sindacale equivale al riconoscimento della capacità del sindacato di imporsi come controparte contrattuale nella regolamentazione dei rapporti lavorativi. Di conseguenza, al fine del riconoscimento del carattere "nazionale" dell'associazione sindacale richiesto per legittimare l'azione di repressione antisindacale ex art. 28 stat. lav. - assume rilievo, più che la diffusione delle articolazioni territoriali, la capacità di contrarre con la parte datoriale accordi o contratti collettivi, anche gestionali, che trovano applicazione in tutto il territorio nazionale e attestano un generale e diffuso collegamento del sindacato con il contesto socioeconomico dell'intero paese, di cui la concreta ed effettiva organizzazione territoriale si configura quale elemento di riscontro del suo carattere nazionale piuttosto che come elemento condizionante". Va sanzionato notio che non indica prezo di vendita nel regito Il Notaio ha l'obbligo di indicare nel rogito di compravendita il prezzo pattuito dalle parti. E ciò anche se la mancata indicazione del prezzo non determina la nullità della vendita. Il comportamento del Notaio resta comunque censurabile sotto il profilo deontologico giacchè rende meno protetta la posizione del venditore nel caso in cui si pongano problemi di risoluzione o di rescissione. La decisione è della terza sezione civile della Corte che con sentenza n. 5065/2010 ha anche ricordato quanto in precedenza dai giudici di merito. La Corte territoriale aveva parlato di una procurata "instabilità" giuridica degli atti rogati. Il Notaio aveva sostenuto di aver inviato le parti a fare i pagamenti non in contanti ma mediante assegni bancari o circolari di cui avrebbero dovuto tenere una fotocopia. Ciò però non lo esime da responsabilità perchè in tal modo il Rogito ha abuto lo scopo evidente di avvantaggiare sotto il profilo fiscale l'acquirente e ciò si pone in contrasto con il principio dell'equidistanza dagli interessi delle parti che deve caraterizzare l'opera professionale del notaio. L'azienda paga per l'infortunio sul lavoro provocato dal dipendente distaccato Azienda sempre responsabile degli incidenti sul lavoro provocati dai dipendenti distaccati. Infatti paga i danni il datore che, in virtù di un collegamento societario o perché ha esternalizzato l'attività produttiva, ha mandato presso altra impresa i lavoratori. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con una sentenza dell'11 gennaio 2010, ha respinto il ricorso di un'impresa che era stata condannata per l'infortunio provocato da un suo dipendente, distaccato in un altro cantiere, che, alla guida della gru, aveva ferito un collega dell'altra azienda. Fuma spinello del nipote scambiandolo per sigaretta, 81enne a giudizio per guida sotto l’effetto di droga Roma, 8 mar. (Adnkronos) - Guida pericolosa sotto l'effetto di sostanze stupefacenti. È questa l'accusa contestata a un automobilista di 81 anni finito sotto processo per avere fumato una 'canna', mentre era in auto. L'uomo però si difende e sostiene di aver preso lo stupefacente da un pacchetto di sigarette lasciate sulla sua automobile da un nipote. P. G., di 81 anni, sarà processato il 18 giugno prossimo dal Tribunale di Tivoli, assistito dagli avvocati Giacinto Canzona e Anna Orecchioni. I fatti risalgono al 31 luglio di due anni fa quando una pattuglia di carabinieri fermò l'automobilista per un controllo. A mettere in allarme la pattuglia fu uno strano odore che c'era all'interno dell'auto. Da qui la denuncia e il successivo rinvio a giudizio per avere appunto guidato sotto l'effetto di una 'canna'. Esposizione all’amianto? Riconoscimento benefici previdenziali solo se esposizione è “qualificata” e ultradecennale Con la sentenza 3453 depositata il 15 febbraio 2010, la Corte di cassazione (sezione lavoro), accogliendo il ricorso proposto dall’Inps, non ha riconosciuto ad alcuni lavoratori i benefici delle prestazioni pensionistiche derivanti dal rischio da esposizione all’amianto: per tali benefici, ha stabilito la Corte, l’esposizione non deve essere generica ma “qualificata” e ultradecennale, e cioè tale da superare le soglie previste dall’art.13, comma 8, della legge n. 257/1992 (norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto). Secondo la ricostruzione della vicenda, la Corte di Appello di Milano, confermando quanto stabilito in primo grado, aveva riconosciuto ad alcuni lavoratori il loro diritto alla rivalutazione del periodo contributivo, ai sensi dell’art.13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, sul presupposto dell’avvenuta esposizione ultradecennale ai rischi dell’amianto. Tale accertamento si basava su di una consulenza tecnica d’ufficio che aveva accertato la configurabilità di un rischio da inalazione di amianto con superamento dei valori soglia fino al 1986 e invece, per il periodo successivo al 1986, anche se non erano stati superati tali valori, vi era stata in ogni caso, un’esposizione a rischio inalatorio pericoloso per la salute. La Corte, accogliendo il ricorso dell’Inps e decidendo nel merito la questione ha stabilito che “l’accertamento dell’esistenza di un’esposizione “qualificata” richiede che il giudice verifichi se il lavoratore abbia dimostrato che nell’ambiente nel quale si svolgeva la lavorazione vi era una concentrazione di polveri di amianto superiore ai valori di rischio sopra indicati e che egli è stato esposto al rischio per oltre dieci anni”. “Nel caso di specie - ha poi aggiunto la Corte - manca la prova del superamento, a partire dal 1986, dei valori di soglia previsti dalla legge come si desume chiaramente dalla motivazione della sentenza impugnata che fa esplicito riferimento ai risultati della consulenza tecnica d’ufficio la quale ha affermato che a partire dal 1986 la concentrazione di fibre di amianto era probabilmente inferiore ai valori di soglia; del tutto ingiustificato deve pertanto ritenersi il riconoscimento del diritto oggettivo del presente giudizio”. Cassazione: si ai pedinamenti con il satellitare. Non serve autorizzazione del giudice Non occorre l'autorizzazione preventiva del giudice per iniziare un pedinamento satellitare di un indagato. E' quanto afferma la quinta sezione penale della Corte di Cassazione (sentenza n. 9667/2010). Secondo gli Ermellini "la localizzazione mediante il sistema di rilevamento satellitare (Gps) degli spostamenti di una persona nei cui confronti siano in corso indagini costituisce una forma di pedinamento non assimilabile all'attivita' di intercettazione di conversazioni o comunicazione". Ed è per questo che "non e' necessaria alcuna autorizzazione preventiva da parte del giudice". Sulla scorta di tale motivazione la Corte ha respinto il ricorso di tre indagati nei cui confronti il gip di Alessandria aveva disposto la misura carceraria in base a pedinamenti fatti con il Gps. Gli indagati si sono difesi in Cassazione affermando tra le altre cose "la violazione sulla disciplina della privacy". Respingendo il ricorso la Corte ha ricordato che non si può configurare violazione di privacy dato se sono in corso indagini posto che il pedinamento satellitare non prevede la preventiva autorizzazione. Cassazione: scattano le manette per ufficiale giudiziario che ritarda notifiche I funzionari che ostentano inerzia al lavoro possono finire sotto processo. L'avvertimento viene dalla Corte di Cassazione che con sentenza n. 8996/2010 ha chiarito che e' reato manifestare un "perdurante e patologico rifiuto di esercitare i doveri del proprio status e del proprio ufficio". E' stata così convalidata dalla Sesta sezione penale della Corte una condanna ad un anno di reclusione per rifiuto di atti d'ufficio e per interruzione di pubblico servizio nei confronti di un ufficiale giudiziario che, affermando di essere oberato dal lavoro aveva rifiutato di effettuare notifiche, facendole tal volta con ritardi di mesi o addirittura di anni. A nulla erano valsi i solleciti del dirigente giacchè l'ufficiale giudiziario continuava a ritardare le notifiche determinando ritardi alla giustizia. Il caso finiva in Tribunale e poi in Appello dove la Corte territoriale condannava l'ufficiale giudiziario a un anno di reclusione per i reati di cui agli artt. 328 e 340 del codice penale. Ricorrendo in Cassazione l'ufficiale giudiziario ha sostenuto che non era provato il danno alla giustizia e che in ogni caso era sommerso da una "enorme mole di lavoro con una drammatica carenza di personale". La Suprema Corte ha respinto il ricorso evidenziando che "il rifiuto di atti di ufficio non sanziona penalmente la generica negligenza o la scarsa sensibilita' istituzionale del pubblico ufficiale, ma il rifiuto consapevole di atti da adottarsi senza ritardo, per la tutela dei beni pubblici, rispetto ai quali gli sono state conferite proprio quelle funzioni". Cassazione: licenziabile chi invia troppi sms dal cellulare aziendale Il telefonino messo a disposizione del lavoratore dall'azienda non si deve considerare come un 'benefit' ma come un verto e proprio strumento di lavoro. Per questo spiega la Cassazione, chi ne abusa è a rischio di licenziamento. E non si parla solo di telefoncate. Anche l'abuso di invio di sms privati può portare alla perdita del posto di lavoro. La precisazione arriva in relazione al caso di un dipendente Telecom licenziato perchè sorpreso ad inviare una media di circa 100 sms al giorno, la Suprema Corte (Sentenza n. 5546/2010) ha ricordato tra le altre cose che "il fatto che l'abuso del cellulare di servizio avvenga con l'invio di sms e non con telefonate non esclude l'inadempimento perche' con l'espressione traffico si intendono comprese tutte le possibili modalita' di utilizzo dell'apparecchio". L'uomo nel suo ricorso aveva sostenuto di avere inviato gli sms "in assoluta buona fede, visto che l'azienda aveva posto il veto sulle telefonate". Piazza Cavour ha però messo in luce la "rilevante gravita' della condotta attestata da circa 50 mila sms con una media di oltre 100 messaggi al giorno". Fatto che secondo la Corte ha rotto "il vincolo fiduciario" tra dipendente e azienda. E così la sezione Lavoro ha confermato la legittimità del licenziamento. Cassazione: lavoratore in malattia va a trovare mamma malata. L'assenza è giustificata Il lavoratore in malattia che non viene trovato in casa al momento della visita fiscale, può essere giustificato dal fatto di essersi recato a trovare la mamma malata. Esistono infatti esigenze di solidarietà e vicinanza familiare che legittimano la non reperibilità fiscale. Parola di Cassazione. La Corte spiega che tali esigenze di "solidarieta' e di vicinanza familiare" sono senz'altro meritevoli di tutela "nell'ambito dei rapporti etico sociali garantiti dalla Costituzione". Piazza Cavour (sentenza 5718/2010) ha così respinto un ricorso dell'INPS che non voleva invece riconoscere l'indennita' di malattia per il fatto che il lavoratore, essendo in malattia, avrebbe dovuto farsi trovare in casa. Sta di fatto che il lavoratore si era dovuto recare a fare visita alla madre ricoverata in un centro specialistico di riabilitazione a seguito di un intervento cardiochirurgico. Era però rimasto intrappolato nel traffico e non era rientrato in tempo per la visita fiscale. Cassazione: intercettazioni si rivelano false? Non integra reato di diffamazione l’articolo che relaziona sulle stesse Non è colpevole del reato di diffamazione il giornalista che relaziona su intercettazioni che poi si rilevano false. Lo ha deciso la Corte di cassazione sottolineando, con la sentenza n. 5081/2010, che rileverebbe “l’involontarietà” dell’errore: infatti, “il giornalista – ha precisato la Corte, scagionando un noto gruppo editoriale del Paese - va esente da responsabilità non in virtù della mera verosimiglianza dei fatti narrati, ma solo a seguito dell'avvenuta dimostrazione dell’involontarietà dell’errore, dell'avvenuto controllo, con ogni cura professionale, da rapportare alla gravità della notizia e all'urgenza di informare il pubblico, della fonte e dell’attendibilità di essa, onde vincere dubbi e incertezze in ordine alla verità dei fatti narrati”. Secondo la ricostruzione della vicenda, gli Ermellini hanno sostanzialmente confermato quanto statuito dalla Corte d’Appello territoriale. In primo grado però, il gruppo editoriale, era stato condannato a risarcire un avvocato di 50 mila euro all’avvocato recentemente scomparso: l’articolo, steso sulla base delle intercettazioni, era stato considerato diffamatorio dal Tribunale di Roma. La Corte ha invece abbracciato un altro indirizzo: “il riferimento alla verità putativa circa le notizie e le intercettazioni riportate dal giornale appare corretto poiché, con apprezzamento di fatto insindacabile, la Corte d’appello ha ritenuto che nel momento in cui furono pubblicate, i giornalisti avevano motivo di ritenerle vere anche se il successivo svolgimento dei fatti le ha smentite”. Prof licenziato a Pordenone perché usa il dialetto. La Lega: "In classe solo italiano" Roma, 11 mar. - (Ign) - Non ha avuto maestro Marcello D'Orta che della sua disavventura - errori e strafalcioni degli alunni compresi - ne ha fatto il libro bestseller 'Io speriamo che me la cavo'. Anzi. Il suo collega campano, finito al Nord in una scuola di Pordenone, tra richiami e contestazione, alla fine ha ricevuto una visita ispettiva ed è stato licenziato perché usava il suo dialetto d'origine in classe. A raccontare la vicenda è stato il Messaggero Veneto. Nelle due classi dei plessi primari di Vallenoncello e di via Vesalio nel settembr scorso era scoppiato infatti un putiferio. "Ci parla una lingua strana" aveva detto uno degli alunni. "Non lo capiamo" si era lamentato un altro. Da lì l'intervento dei genitori, il dirigente scolastico e alla fine la visita ispettiva. Mentre la dirigente scolastica della sede centrale Rosmini, Nadia Poletto si trincera dietro "un no comment" e suggerisce ai suoi collaboratori di fare altrettanto, c'è chi invoca maggior rigore sui banchi di scuola. "Si sforzino di parlare l'italiano in classe - ha detto Claudio Serafini, responsabile enti locali della Lega Nord di Pordenone -, da noi ci sono moltissimi insegnanti meridionali. Più della metà forse anche di più. Non abbiamo niente in contrario al fatto che vengano qua ad insegnare, ma se devono parlare in dialetto lo facciano a casa". Se avessere parlato friulano? "Sarebbe stato lo stesso - aggiunge - di più le dico che avrebbe dovuto essere lo stessso se io che sono di Pordenone fossi andato a insegnare a Napoli. Mica potevo mettermi a parlare in dialetto e pensare di passarla liscia". I colleghi invocano l'intervento dei sindacati, ma Adriano Zonta della FLC Cgil minimizza. "Non è stato licenziato per quello - dice il segretario provinciale del comparto scuola Cgil -, ma solo perché non faceva bene il suo lavoro. Non conosco direttamente il caso perchè non è un nostro iscritto, ma da quel che ho capito credo sia una vicenda montata dai giornali. Se l'hanno licenziato è probabile che il vero problema sia che non riusciva a tenere la classe . Qualche parola di dialetto - diciamoci la verità - la usiamo tutti. Se c'è stata un'ispezione e ha stabilito che non sapeva insegnare, probabilmente, non si è trattato soltanto dell'uso di qualche parola di dialetto, ma per un'inadeguatezza nel saper controllare la classe e gli studenti".