siamo quello che mangiamo?

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siamo quello che mangiamo?
ALiM
SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO ?
Verso una nuova geografia politica del cibo
E LENA
DELL ’A GNESE
Ciò che noi mangiamo, pur essendo il frutto di percorsi millenari
che hanno attraversato il pianeta, è paradossalmente un tratto
culturale che tende a essere fortemente connotato in termini
territoriali (km 0, piatti tipici, ristoranti etnici ecc.) e identitari.
Spesso utilizzato e rappresentato come confine etnico, il cibo può
acquisire un significato politico significativo ed essere assunto
come spazio di resistenza. Le pratiche alimentari e le loro
rappresentazioni all’interno della cultura popolare meritano per
questo un’osservazione critica approfondita.
LA GEOGRAFIA CULTURALE DEL CIBO
Si tende a ritenere che, un tempo, il supporto ecologico delle società umane fosse prevalentemente verticale o, al massimo, obliquo; ossia, si pensa che nel passato si mangiasse solo quello che si produceva nel proprio intorno territoriale e che si scambiassero
le eccedenze acquistando i prodotti all’interno di un mercato di vicinato. Si considera
pure che, con la modernizzazione, il supporto ecologico delle società umane sia andato
progressivamente allargandosi, sino ad assumere l’attuale dimensione ‘orizzontale’.
Secondo questa teoria, se una volta l’approvvigionamento era di portata regionale, oggi
si assumono ingredienti provenienti da ogni angolo del pianeta, talora ignorando le
conseguenze che l’incremento dei livelli di consumo può arrecare a territori tanto lontani (CLAVAL 1983). Il che è difficile da negare. L’amore per le creme spalmabili alla nocciola, per esempio, è ormai diffuso in tutto il mondo, e poco importa se, per ottenerle
o, meglio, per produrre l’olio di palma che ne rappresenta un ingrediente primario, si
disboscano enormi distese di foresta equatoriale. Ci comporteremmo diversamente se,
mentre spalmiamo felici la crema alla nocciola sulla nostra fetta di pane (ma anche
mentre inzuppiamo biscotti e merendine nel cappuccino, visto che l’olio di palma è un
ingrediente ubiquitario anche nei prodotti industriali da forno), vedessimo gli alberi
bruciati del Borneo.
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Dunque, che un tempo si mangiasse cibo ‘più locale’, mentre oggi, quando si apparecchia, si metta in tavola il pianeta, è vero, ma non del tutto. Anche in passato capitava
che il cibo, o alcuni suoi ingredienti, arrivassero da molto lontano. Ad esempio, le spezie, tanto ricercate nel Rinascimento europeo, compivano viaggi lunghi anni per arrivare
dalle isole delle Molucche sulle tavole di chi poteva permettersi la relativa spesa. Alcuni
autori le considerano non tanto un prodotto apprezzato per il gusto, o un elemento necessario per rendere più appetibile la carne, della quale in realtà c’era grande abbondanza, ma semplicemente una sorta di status symbol: erano costosissime, quindi
utilizzarle era segno di particolare distinzione (MONTANARI 1993). Ma non viaggiavano
solo ingredienti tanto sofisticati; alle Maldive, per esempio, coltivare il riso sarebbe
stato difficile, ma lo si importava, già ai tempi di Ibn Battuta (uno dei maggiori esploratori della storia del mondo islamico del XIV secolo), dal sub continente indiano, barattandolo con la produzione locale più rilevante in termini economici, ossia con una
conchiglia che in buona parte dell’Asia e dell’Africa orientale veniva utilizzata come valuta di scambio, la Cypraea Moneta1.
Va sottolineato che, pur se prodotto nelle vicinanze, il cibo che si consumava non era
necessariamente ‘tipico’ o comunque originario della zona. Essenze vegetali e prodotti
agricoli hanno seguito percorsi di diffusione lunghi millenni, sino a raggiungere aree
lontanissime da quelle di origine. La disseminazione di molti di questi prodotti in alcuni
casi è stata lentissima, in altri assai rapida, talora accidentale e, talvolta, volontaria.
Comunque, seguendo le tracce delle migrazioni via terra e via mare, attraversando gli
oceani, percorrendo le strade della colonizzazione, della globalizzazione e delle mode,
li ha portati a migliaia di chilometri dai luoghi di provenienza originari.
Essenze vegetali come la palma da cocco, domesticate nell’oceano Pacifico, si sono
propagate in quello Indiano e hanno attraversato anche l’Atlantico con la colonizzazione. Nello specifico, il cocco ha raggiunto l’Africa orientale seguendo spagnoli e portoghesi, e la sua area di diffusione si è ulteriormente allargata nel XVI secolo, fino a
lambire le coste atlantiche e i Caraibi. La banana, addomesticata in Papuasia intorno
al 4500 a.C, è poi arrivata in India meridionale e in Africa Orientale, da lì ha toccato, in-
1. Diffusa in gran parte dell’oceano Indiano, la Cypraea Moneta era prodotta alle Maldive, dove poteva essere
raccolta assai facilmente grazie ai bassi fondali. Essiccata al sole e pulita, la conchiglia veniva imbarcata in
grandi quantità e ceduta in cambio di riso e di altre merci.
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torno al X secolo, la penisola Iberica e, solo in seguito alle ‘grandi scoperte’, è approdata
in America Centrale, divenuta poi la sua area di produzione più intensiva (tanto che,
ancora oggi, i massimi esportatori di banane sono proprio i paesi dell’America Centrale
e l’industria della frutta ha assunto localmente una tale importanza da trasformare quei
paesi in vere e proprie Banana Republic2). Ovviamente, la trasportabilità ha favorito la
diffusione di alcuni di questi prodotti che si sono imposti, grazie alla loro conservabilità,
seguendo i traffici dei loro consumatori. Ad esempio, la kurumba, ossia il cocco fresco,
grazie al liquido che contiene al suo interno, può rappresentare una forma di ‘acqua
portatile’ e per questo ha costituito per anni una importantissima integrazione all’alimentazione di chi viaggiava per mare (HIGMAN 2012). Anche il riso, domesticato nel bacino dello Yangtze in epoca neolitica, è stato portato in giro per l’oceano Indiano come
‘cibo da viaggio’, proprio grazie alla conservabilità, giungendo nel bacino del Mediterraneo pochi secoli prima della nascita di Cristo.
Nelle regioni caratterizzate da forte intensità di scambi, l’incrocio di culture ha poi favorito lo scambio di prodotti e di colture alimentari di diversa origine. Nel Mediterraneo,
in seguito alla conquista araba, si sono diffusi agrumi, melanzane e pasta secca. Con la
colonizzazione europea del ‘nuovo continente’, gli scambi si sono intensificati anche attraverso l’Atlantico; in Europa, la possibilità di approvvigionarsi di prodotti dalle origini
lontane, che potevano essere coltivati anche in climi temperati (come patate, granoturco
o pomodori), o che potevano essere facilmente trasportati, senza che si deteriorassero
(come the o caffè), ha imposto alimenti che si sono ‘naturalizzati’ nei paesaggi europei,
sino a divenire tanto popolari da assurgere a espressioni tipiche della cultura ‘locale’
(come, ad esempio, il pomodoro sulla pizza e sugli spaghetti nella cucina italiana3, la
classica tazzulella e cafè napoletana o la patata in Irlanda). Sulle coste atlantiche, oltre alle
banane, sono arrivati mango e patata dolce, ‘creolizzando’ la vegetazione locale, esattamente come la cultura dei colonizzatori stava ‘creolizzandone’ la società (HIGMAN 2012).
La storia dell’alimentazione umana, dunque, è sempre stata caratterizzata dallo scambio
di prodotti di origini anche lontanissime e dalla loro combinazione in ricette e preparazioni originali. Ciononostante, nella società contemporanea, permane una costante
attenzione alla dimensione ‘locale’ del cibo. Anzi, pochi aspetti della vita quotidiana
vengono oggi connotati in termini ‘geografici’ quanto ciò che mangiamo. Si parla di cucina ‘regionale’, si fa riferimento a ricette locali e a prodotti tipici, oltre che alla cucina
a km 0; i ristoranti sono definiti in termini ‘territoriali’ (trattoria ‘toscana’, ristorante
‘giapponese’); si giunge a utilizzare ciò che si mangia come ‘confine etnico’ (BARTH 1969),
per delimitare un senso di appartenenza regionale o addirittura nazionale.
2. L’espressione Banana Republic, coniata all’inizio del Novecento in riferimento all’Honduras, indica un
Paese politicamente instabile, la cui economia è spesso legata all’esportazione di un unico prodotto (come
ad esempio le banane, ACKER 1988).
3. Il pomodoro, di cui oggi l’Italia è il massimo produttore mondiale, apparve nella penisola per la prima volta
nel 1548, ma per lungo tempo stentò a diffondersi in quanto veniva considerato addirittura pericoloso per la
salute (GENTILCORE 2010).
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Per questo motivo il cibo si presenta nel rapporto luogo-cultura, come una metafora perfetta. Ciò che si mangia è il frutto dell’interazione costante e ininterrotta di flussi di mille
provenienze e, nello stesso tempo, appare e si configura come qualcosa di fortemente
radicato in termini territoriali, anche se oggi minacciato dalla generale tendenza all’appiattimento culturale imposta dalla globalizzazione. Analogamente, il ‘luogo’, usualmente
pensato come una porzione di spazio tradizionalmente dotata di una propria specificità
culturale, ma oggi sottoposta alle minacce della globalizzazione, è in realtà espressione
del costante incontro fra flussi culturali differenti (MASSEY – JESS 1995). Se la ‘tipicamente
inglese’ tazza di the addolcita con lo zucchero non sarebbe mai potuta esistere senza la
conquista coloniale, la pizza, in origine cibo dei napoletani poveri, condita con ciò che
era a disposizione (olio, sale, a volte acciughe) si è arricchita nel corso del tempo di ingredienti provenienti da ogni angolo del pianeta (dal pomodoro della ‘vera pizza napoletana’ all’ananas della Hawaian pizza) nonché di infinite varianti, industriali e artigianali,
per raggiungere una diffusione mondiale e capillare. Oggi è, da un lato, considerata un
cibo squisitamente americano (tanto da essere celebrata come l’alimento tipico della
serata del Super Bowl), dall’altro, oggetto di un processo di reinvenzione della tradizione
che cristallizza alcuni specifici momenti della sua storia secolare, imponendoli come
l’unica e autentica ‘forma’ della ‘pizza napoletana’ (pizza ‘marinara’ e pizza ‘margherita’)4.
Se la pizza rappresenta, da questo punto di vista, quasi un ‘paradosso’, anche gli spaghetti pomodoro e basilico, spesso visualizzati come icona di italianità a causa della presenza dei tre colori che riportano a quelli della bandiera italiana, sono la conseguenza
dell’incrocio di tradizioni lontanissime (la pasta secca, forse araba, forse cinese; il pomodoro, americano; il basilico, nativo dell’Asia tropicale).
FRA GEOGRAFIA POLITICA E POPULAR GEOPOLITICS
Il cibo è un esempio perfetto di ‘incrocio di rotte’ (HALL 1995), nonché il prodotto di un
processo di costruzione dell’heritage, ossia di tratto culturale che della tradizione ricorda
solo ciò che oggi si vuole ricordare (perché, così come la ‘vera pizza napoletana’ non ha
più né il lardo né lo strutto, così nelle trattorie ‘tipiche’ delle regioni alpine oggi non viene
servito ciò che si mangiava un tempo da quelle parti, come ad esempio il gatto o la marmotta con la polenta, ma solo ciò che oggi apprezziamo di quel tipo di cucina, in modo
selettivo, magari alleggerendolo degli ingredienti più poveri o indigesti). Ciononostante,
quello che si mangia mantiene spesso un profondo significato identitario, un valore tanto
sentito da farlo diventare vessillo del ‘nazionalismo banale’ (BILLIG 1995), e da attribuirgli
un significato simbolico ancora più sentito nella costruzione della diaspora dei migranti,
anche se il cibo della diaspora è spesso molto diverso da quello che veniva consumato
nel luogo di origine dei migranti, perché si è nel frattempo arricchito dei prodotti del
4. Entrambe le ricette hanno infatti ricevuto nel 2010 la certificazione di ‘Specialità Tradizionali Garantite’,
anche se non sono certo le uniche pizze tipiche della tradizione partenopea.
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luogo di destinazione, come testimoniato dalla vicenda degli spaghetti with meatballs e, in
genere, dal processo di trasformazione della cucina dei migranti di origini italiane negli
Stati Uniti (ORTOLEVA 1992). Il ‘nazionalismo banale’ in cucina si manifesta in mille modi.
Da un lato, vi sono prodotti alimentari che diventano l’emblema di una specifica nazione;
l’hummus, pur essendo diffuso in buona parte del Mediterraneo orientale, è diventato una
sorta di simbolo di Israele ed è commercializzato con il brand ‘Sabra’, termine che in
slang significa ‘nato in Israele’ e, dunque, strizza l’occhio all’iconografia nazionale (anche
il Libano, invero, rivendica la paternità dell’hummus come piatto tradizionale). Nel Regno
Unito, è popolarissima una crema spalmabile dal sapore particolarmente pungente, la
Marmite, costantemente indicata come un simbolo di Britishness; ancor più legata all’identità locale è la sua versione australiana, chiamata Vegemite5, indicata come un elemento di riconoscimento della ‘australianità’ persino dalla cultura popolare. Il sapore
particolare, tuttavia, non basta a garantire la ‘nazionalità’ del prodotto. Così, quando la
proprietà della Vegemite è stata ceduta a una multinazionale, il mercato australiano ha
registrato la distribuzione di prodotti assai simili, ma rigorosamente Australian owned, come
la AussieMite e la OzeMite. Se il cibo aiuta a dare un’immagine del sé, e può costituire
un elemento di condivisione all’interno di un gruppo cui si sente di appartenere, esso
aiuta anche a forgiarsi l’immagine ‘dell’altro’ o, talora, il suo stereotipo. Può costituire
un punto di incontro, «la soglia più accessibile, più assaggiabile, pur se nella sua falsificazione a uso di estranei, di un’altra cultura» (LA CECLA 1998). Ma il cibo può anche dividere. I modelli alimentari degli altri sono talora giudicati impuri, in altri casi
semplicemente inadeguati. Nella costruzione di ‘confini etnici’, ciò che si mangia può diventare una sorta di etichetta da utilizzare in senso spesso denigratorio; se i napoletani
sono passati dall’essere ‘mangiafoglie’ a ‘mangiamaccheroni’6, i settentrionali sono diventati, per i meridionali, dei ‘polentoni’ e gli italiani, in generale, ‘spaghetti’.
Il cibo e le abitudini alimentari vengono spesso rappresentati come attributi culturali
identitari (e di conseguenza politici) anche nella letteratura, nel cinema, nella televisione e finanche le canzoni. Il maccherone di Alberto Sordi, in Un americano a Roma, 1954,
costituisce forse una scelta identitaria troppo nota per essere citata. Più interessante,
per rimanere all’interno dell’operazione post-bellica fra aderenza ai valori dell’italianità
e mito americano, è il chewing gum, masticato in modo vistoso dal corrotto Walter e
dalla corruttibile Silvana – che ballano anche l’americano Boogie Woogie – in Riso amaro,
1949. In epoca assai più recente è avvincente la rassegna di stereotipi (anche alimentari)
sull’italianità offerta dalla ironica Numero Uno, 2009, del comico tedesco Matze Knop7.
5. «Vegemite may be the best predictor of national identity of any food in the world. That is, if you eat Vegemite,
you are almost certainly Australian».
6. SERENI 1958. Il soprannome ‘alimentare’ non era una specialità esclusivamente napoletana; infatti i lombardi
erano chiamati ‘mangiarape’ e i cremonesi ‘mangiafagioli’ (GENTILCORE 2010).
7. La canzone inizia con «Fritti, Scampi, e Chianti, calamari» e prosegue citando cannelloni, peperoni, mozzarella, mortadella, Nutella, zabaione, minestrone e altri dieci cibi e bevande considerati tipici della cultura
nazionale italiana. La canzone è il rifacimento di una canzone, molto simile, intitolata Zuppa Romana, del
gruppo musicale Schrott nach 8, del 1984.
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Nella rappresentazione delle culture ‘altre’, l’amico kazako di Borat che ha una testa di
orso in frigorifero e i cattivi di Indiana Jones e il tempio maledetto, che mangiano scarafaggi e
cervelli di scimmia, costituiscono esempi tanto esagerati di ‘orientalismo’ da condurre
a un effetto comico. Tuttavia, anche le numerose serie di pseudo-documentari televisivi
in cui i protagonisti si avvicinano a culture diverse da quella occidentale, affrontandone
(con evidente effetto di orrore e disgusto per gli spettatori) le abitudini alimentari, offrono della diversità culturale una visione che potremmo definire ‘orientalista’ (ad esempio, Orrori da gustare, Stati Uniti, 2006). Tramite il rapporto con il cibo il cinema riesce a
offrire una rappresentazione indiretta, ma significativa, non solo degli stereotipi etnonazionali dei protagonisti, ma anche delle relazioni di potere che si instaurano fra i personaggi, della loro situazione sociale, della connotazione culturale, dei rapporti di
genere (BOWER 2004). Non solo la raffigurazione del cibo e della dieta, propria e degli
altri, merita di essere analizzata con un approccio di tipo geopolitico-critico. Anche la
rappresentazione del modo di mangiare degli altri, sia attraverso la cultura popolare,
sia attraverso i libri di cucina, offre elementi utili alla costruzione di un ‘discorso geopolitico’, recanti anch’essi interessanti spunti di osservazione (DELL’AGNESE 1998).
CIBI, TABU E PRASSI DI RESISTENZA
Il significato del cibo come ethnic marker (BARTH 1969) e come elemento di ‘nazionalismo
banale’ viene accentuato dalla presenza di molteplici tabù alimentari. All’interno delle
diverse culture alimentari, la lista dei prodotti proibiti è lunghissima e include animali
e piante, oltre all’alcol, e in alcuni casi persino il the, il caffè e le bevande a base di caffeina (come la Coca Cola). Spesso molto radicate, le proibizioni alimentari possono valere solo per alcuni individui o per l’intero gruppo, possono essere perenni o periodiche
(per esempio, la carne il venerdì per i cattolici), in genere sono connesse alla religione
(maiale, mucca), o semplicemente alla tradizione culturale (e al contesto ambientale).
I fattori che comportano proibizioni e tabù, hanno spesso motivazioni ambientali, legate,
per esempio, al desiderio di non uccidere animali preziosi per l’agricoltura, come i bovini
o i cavalli. Oppure possono scaturire dal timore che alcuni alimenti siano impuri, comportando rituali di approntamento specifici, come la preparazione Kosher della carne. I
tabù alimentari possono condurre a posizioni di aperta ostilità (sembra che le prime
scaramucce fra soldati indonesiani e indigeni della Nuova Guinea occidentale, subito
dopo l’annessione, siano scaturite dal diverso approccio con il maiale: bestia impura
per i primi; membro della famiglia, da allattare al seno in caso di prematura perdita
della scrofa, per i secondi). Più frequentemente, i tabù alimentari sono utilizzati per costruire una rappresentazione stereotipata ‘dell’altro’, in modo da implicarne la mancanza
di civiltà, o l’essenziale e atavica crudeltà. Giudicare gli altri sulla base di ciò che man-
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giano è una prassi comune; non si giudica male solo chi mangia troppo, andando contro
l’etica dell’autocontrollo e della morigeratezza, ma anche chi mangia male, chi si nutre
di alimenti che per noi sono tabù, chi non sa stare a tavola oppure, semplicemente, lo
fa seguendo regole diverse dalle nostre (STEIN – NEMEROFF 1995). I cinesi vengono spesso
accusati di crudeltà perché in alcune aree della Cina si mangiano i cani. Il mondo occidentale invece è ‘la società del cane sacro (HARRIS 2006) perché il cane, ‘l’amico dell’uomo’ per eccellenza, deve essere rispettato e trattato come un membro della famiglia.
I mammiferi allevati per essere mangiati – talora altrettanto intelligenti e non necessariamente meno ‘amici dell’uomo’ – sono semplicemente ‘animali da reddito’, che è consentito allevare in condizioni spaventose, trasportare in autocarri-lager e macellare ogni
anno in centinaia di migliaia di esemplari.
Anche i consumi alimentari a volte entrano a far parte di un discorso simile, diventano
una messa in atto di pratiche di resistenza. A parte il vegetarianismo (RECLUS 1901) e il
veganismo etico, che ha come obiettivo l’antispecismo e la lotta allo sfruttamento industriale degli animali, pratiche di resistenza attraverso i consumi alimentari possono
essere messe in atto con il boicottaggio di determinate aziende multinazionali e dei
loro prodotti, oppure tramite la scelta di consumare prodotti non solo ‘Made in …’, ma
anche locally owned, o di autoprodurre ciò che si mangia, di coltivare tutti lo spazio possibile, trasformando in orti i prati urbani
BIBLIOGRAFIA MINIMA
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