11. LICENZIAmENTO PER RAGGIUNGImENTO

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11. LICENZIAmENTO PER RAGGIUNGImENTO
DEFINIZIONE
11. Licenziamento per raggiungimento dei requisiti pensionistici
11. LICENZIAMENTO PER RAGGIUNGIMENTO
DEI REQUISITI PENSIONISTICI
DEFINIZIONE ► Quando il lavoratore matura i requisiti anagrafici e contributivi per
accedere al trattamento pensionistico di vecchiaia, il datore di lavoro
può risolvere il contratto, anche in assenza di motivazione, seppure
nel rispetto del periodo di preavviso.
CASISTICA ► Massime giurisprudenziali sulla legittimità o meno dei licenziamenti
basati sulla raggiungimento dei requisiti pensionistici, sulla tutela
reale e obbligatoria.
RIFERIMENTI ► - art. 2118 cod. civ.
- Legge 15 luglio 1966, n. 604
- Legge 9 dicembre 1977, n. 903
- D.L. 22 dicembre 1981, n. 791
- Legge 11 maggio 1990, n. 108
- D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Legge 22 dicembre 2011, n. 214)
DEFINIZIONE
► DEFINIZIONE
Il principio del recesso ad nutum nei confronti del lavoratore in possesso dei
requisiti pensionistici di vecchiaia era originariamente contenuto nell’art. 11,
comma 1, legge n. 604/1966, il quale sanciva l’inapplicabilità delle tutele contro i licenziamenti illegittimi “nei riguardi dei prestatori di lavoro che siano in
possesso dei requisiti di legge per avere diritto alla pensione di vecchiaia o che
abbiano comunque superato il 65° anno di età”.
Questa norma generava una disparità tra uomini e donne sul piano della tutela
contro i licenziamenti, derivante dalla diversa età richiesta per il pensionamento della donna (al tempo 55 anni) rispetto a quella degli uomini (60 anni).
Le donne, quindi, se rimanevano in servizio oltre il raggiungimento dell’età di
pensionamento di vecchiaia, potevano essere liberamente licenziate dal datore di lavoro, mentre gli uomini entravano nel regime di libera recedibilità cinque
anni dopo, a 60 anni di età. Il Legislatore ritenne di dover sanare questa disparità di trattamento con una specifica norma, l’art. 4, legge n. 903/1977 (Parità
di trattamento tra uomini e donne), in base al quale le donne, al conseguimento dell’età pensionabile, potevano rimanere in servizio fino al raggiungimento
dell’età lavorativa massima degli uomini (60 anni) a condizione che comunicassero tale intenzione al datore di lavoro tre mesi prima del raggiungimento
dell’età pensionabile.
Sia l’art. 11, comma 1, legge n. 604/1966 sia l’art. 4, legge n. 903/1977, sono
stati dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale in quanto la lavoratrice non
poteva essere discriminata rispetto all’uomo con riferimento all’età lavorativa.
Nel 1990, quindi, la legge n. 108/1990, oltre ad introdurre rilevanti modifiche
nel campo di applicazione della disciplina sui licenziamenti individuali (art. 18,
legge n. 300/1970 e art. 2, legge n. 604/1966), ha abrogato il citato comma
1 dell’art. 11, già dichiarato incostituzionale, e con l’art. 4 ha disposto che la
tutela contro i licenziamenti individuali privi di giustificazione non si applica
nei confronti “dei prestatori di lavoro utrasessantenni, in possesso dei requisiti
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pensionistici, sempre che non abbiano optato per la prosecuzione del rapporto
di lavoro ai sensi dell’art. 6 D.L. 22 dicembre 1981, n. 791”.
L’art. 6, D.L. n. 791/1981, aveva introdotto la possibilità per i lavoratori di posticipare il pensionamento optando per la continuazione della propria attività di
lavoro fino a raggiungere l’anzianità contributiva massima o per incrementare
la medesima, e comunque non oltre il compimento dei 65 anni di età. Detta
opzione doveva essere effettuata con una comunicazione da consegnare al
datore di lavoro 6 mesi prima della data di conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia. Tale situazione, tuttavia, durò per breve tempo in quanto,
con la graduale elevazione dell’età pensionabile introdotte dalle riforme pensionistiche che si sono susseguite, veniva sostanzialmente ripristinata quella
disparità di trattamento che la legge n. 108/1990 aveva (temporaneamente)
eliminato.
Sulla legittimità delle normative che prevedevano la suddetta elevazione, fu
nuovamente chiamata a pronunciarsi la Corte Costituzionale, che, con sentenza interpretativa di rigetto n. 256/2002, riaffermava la necessità di distinguere
tra età lavorativa ed età pensionabile, confermando i principi già in precedenza
espressi.
Fino al 31 dicembre 2011, quindi, la donna, ancorché in possesso dei requisiti
previsti per il pensionamento di vecchiaia (anzianità contributiva minima di 20
anni e 60 anni di età) non poteva essere licenziata se non al raggiungimento
del sessantacinquesimo anno di età, ossia alla medesima età pensionabile
prevista per gli uomini, senza alcun onere di comunicazione preventiva al datore di lavoro circa la volontà di proseguire il rapporto di lavoro.
Licenziamento del pensionato
La descritta normativa deve oggi coordinarsi con la complessiva revisione del
sistema pensionistico contenuta nell’art. 24 del D.L. n. 201 del 6 dicembre
2011, il cd. Decreto “Salva Italia” (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e
il consolidamento dei conti pubblici).
La recente riforma pensionistica introduce infatti una disposizione, al comma 4
del richiamato art. 24, che consente al lavoratore, sia donna che uomo, di
proseguire a lavorare anche oltre i nuovi requisiti di età anagrafica previsti per la pensione di vecchiaia, e fino ai 70 anni di età.
Per rendere effettiva tale facoltà ed allo scopo di incentivare detta prosecuzione, il Legislatore ha previsto che le disposizioni di cui all’art. 18, legge n.
300/1970 (cd. regime di stabilità reale del posto di lavoro), si applichino sino
al raggiungimento del predetto limite massimo di flessibilità di 70 anni, termine anch’esso soggetto ad innalzamenti periodici in base all’incremento della
speranza di vita.
Scriminante per l’applicazione delle diverse tutele
Con l’art. 24 del D.L. n. 201/2011 il Legislatore ha dunque introdotto, per la
prima volta, due distinte discipline per il recesso ad nutum del lavoratore
in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, le quali risultano
differenziate, a seconda che alla fattispecie concreta trovi o meno applicazione
l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori.
In particolare, le due discipline sono le seguenti:
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–– se i dipendenti sono in forza presso datori di lavoro che occupano più di 15
dipendenti, essi possono proseguire fino a 70 anni, e sino a tale età sono
tutelati contro i licenziamenti senza giustificazione;
diversamente,
–– se i dipendenti sono in forza presso datori di lavoro che occupano fino
a 15 dipendenti, possono essere licenziati al raggiungimento dei requisiti
pensionistici, ossia all’età pensionabile dell’uomo, senza poter optare per
la prosecuzione sino ai 70 anni di età.
A riguardo va, peraltro, rilevato che ai sensi del comma 14 dell’art. 24, del
D.L. n. 201/2011 continua ad applicarsi la precedente normativa “in materia
di requisiti di accesso e di regime delle decorrenze”. Dal tenore letterale della
norma pare desumersi che tutte le altre disposizioni introdotte dalla riforma,
compresa quindi quella in esame limitativa del recesso ad nutum, siano applicabili anche ai soggetti che, pur maturando i requisiti pensionistici con le
regole vigenti al 31 dicembre 2011, decidano di non accedere alla pensione e
di proseguire il lavoro sino ai 70 anni.
In conclusione, dal 1° gennaio 2012, il regime di libera recedibilità del lavoratore pensionando opera in maniera distinta:
–– per le aziende in regime di stabilità reale, di cui all’art. 18, legge n.
300/1970: il dipendente (uomo o donna) che prosegua il lavoro oltre l’età
anagrafica prevista per il pensionamento di vecchiaia non può essere licenziato sino ai 70 anni. Una volta raggiunta tale età anagrafica, ferma restando l’anzianità contributiva minima pari a 20 anni, il datore può liberamente
recedere dal rapporto di lavoro dando solo il preavviso contrattuale;
–– per tutte le altre aziende, in regime di stabilità obbligatoria di cui all’art.
8, legge n. 604/1966: una volta raggiunta l’età lavorativa massima, che si
attesta, anche per la donna, all’età pensionabile dell’uomo, pari nel 2012 a
66 anni, fermo restando il raggiungimento dell’anzianità contributiva minima di 20 anni, il datore di lavoro può liberamente recedere dal rapporto di
lavoro dando il preavviso contrattuale.
Giurisprudenza di merito
La nuova normativa ha già avuto anche qualche applicazione nella giurisprudenza di merito.
Secondo il Tribunale di Roma, infatti, “è valido il recesso ad nutum dal rapporto di lavoro intimato dopo il conseguimento dell’età per il pensionamento di
vecchiaia. La possibilità per il lavoratore di rimanere in servizio fino al settantesimo anno di età, secondo il Tribunale, è subordinata al consenso anche del
datore di lavoro”.
Lo stesso Tribunale, con sentenza depositata il 30 aprile 2014, ha stabilito che
l’art. 24 contiene unicamente la previsione di un incentivo alla permanenza in
servizio fino al settantesimo anno di età, in coerenza con l’impianto della riforma del sistema pensionistico che tende all’innalzamento dell’età pensionabile,
e un invito alle parti a consentire la prosecuzione del rapporto.
Secondo la sentenza, il tenore letterale della norma, nella parte in cui recita “il
proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato … fino all’età di settant’anni
…”, non consente, quindi, di affermare un vero e proprio diritto potestativo del
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lavoratore di scegliere se rimanere in servizio fino all’età di settant’anni, né un
correlativo obbligo dal datore di lavoro di consentire la prosecuzione del rapporto fino a tale limite massimo di età.
La circostanza che la norma non preveda, ai fini dell’esercizio del presunto
diritto, che il lavoratore debba presentare una domanda e che detta domanda
debba essere presentata entro un determinato arco temporale, induce ulteriormente ad escludere, ad avviso del giudicante, che la stessa possa configurare
un diritto potestativo in favore del lavoratore. Tale interpretazione, tuttavia, si
scontra inevitabilmente con il tenore letterale dell’art. 24 citato, il quale, oltre a
non menzionare in nessun punto la necessità di un consenso datoriale, estende tout court (ed espressamente) la cd. tutela reale contro il licenziamento (art.
18 dello Statuto dei Lavoratori) sino al compimento del 70° anno di età.
D’altronde, tale estensione temporale dell’efficacia dell’art. 18 dello Statuto
dei Lavoratori risulta confermata anche dalle sentenze della Corte d’Appello di
Torino del 24 ottobre 2013 e del Tribunale di Genova del 12 novembre 2013,
le quali, nondimeno, hanno escluso che tale effetto si produca nei confronti
dei lavoratori che, alla data del 31 dicembre 2011, già erano in possesso dei
requisiti per il pensionamento sulla base della previgente normativa.
Secondo le due sentenze sopra menzionate, infatti, la portata letterale della disposizione contenuta nel Decreto Salva Italia è tale da rendere evidente
“che la stessa (nella sua integralità e, dunque, anche nella parte che prevede
incentivi alla prosecuzione dell’attività lavorativa e stabilità reale del posto di
lavoro fino al settantesimo anno di età) si riferisce unicamente ai lavoratori
che raggiungono l’età pensionabile dopo il 31 dicembre 2011 secondo i nuovi
requisiti” (cfr. Corte d’Appello di Torino, 24 ottobre 2013).
Detto orientamento presenta tuttavia notevoli incertezze interpretative, in
quanto, nonostante la sicura affermazione dei giudici di cui trattasi, non è affatto chiaro che l’art. 24 citato si riferisca unicamente ai lavoratori pensionabili
a partire dal 1° gennaio 2012. Tale distinzione, infatti non è introdotta dalla
disposizione, né è desumibile dalla ratio della norma, che è quella di ritardare
il pensionamento dei lavoratori, al fine di realizzare un risparmio previdenziale.
CASISTICA
► CASISTICA
Al riguardo si riportano, in massima, due sentenze della Suprema Corte, che
chiariscono il senso di quanto affermato:
“L’art. 4, comma 2, della legge 11 maggio 1990, n. 108, che esclude la tutela
reale per i licenziamenti illegittimi nei confronti dei prestatori di lavoro ultrasessantenni in possesso dei requisiti pensionistici, fa riferimento ai presupposti
per l’accesso alla pensione di vecchiaia, solo al verificarsi dei quali il prestatore di lavoro ha l’onere di impedire la cessazione del regime di stabilità, entro
un certo termine di decadenza, esercitando l’opzione per la prosecuzione del
rapporto di lavoro. Ne consegue la nullità dell’art. 33 del C.c.n.l. per il settore
giornalistico, nella parte in cui consente all’azienda di recedere liberamente
dal rapporto, nei confronti di lavoratore che abbia raggiunto i 60 anni di età e
sia titolare di un’anzianità contributiva previdenziale di 33 anni, non potendosi
limitare il diritto del giornalista di avvalersi della pensione di vecchiaia e del
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consequenziale diritto, di fonte legale, alla continuazione del rapporto lavorativo sino al compimento del 65° anno di età” (Cass., 20 marzo 2014, n. 6537).
“Una lettura in combinato disposto dei commi 14 e 4, ultima parte, dell’art. 24
del D.L. n. 201/2011 (cd. “Decreto Salva Italia”, convertito con modifiche dalla
legge n. 214/2011), consente di affermare, in relazione all’estensione della
tutela reale a favore del dipendente che opti per la prosecuzione dell’attività
lavorativa sino ai settant’anni, che tale tutela non sia da intendersi come riferita
esclusivamente a coloro che abbiano maturato i requisiti pensionistici in data
successiva al 31 dicembre 2011, trovando essa, viceversa, diversamente dalle
disposizioni in tema di requisiti di accesso al trattamento pensionistico e di regime delle decorrenze, un’applicazione generalizzata. Con riguardo, poi, alla
correlata questione riguardante un eventuale obbligo di comunicazione, da
parte del lavoratore, circa la propria volontà di proseguire nel rapporto di lavoro
oltre la data di maturazione dei requisiti pensionistici, non può ritenersi priva di
ragionevolezza la mancata previsione, da parte della legge n. 214/2011, di un
onere in tal senso a carico di quest’ultimo, poiché il Legislatore ha inteso disciplinare la fattispecie diversamente dal passato, di guisa che il datore non si
possa “aspettare nulla fino a che il lavoratore non compia i settant’anni” (Corte
d’Appello, 9 gennaio 2014, n. 8).
“La facoltà che il comma 11 dell’art. 72 D.L. n. 112 del 2008 assegna alla p.a.
di risolvere il rapporto lavorativo con i dipendenti con anzianità contributiva di
40 anni non determina una discriminazione per età e deve essere esercitata
nel rispetto degli art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 165 del 2001 e 97 Cost., oltre che
dei criteri di correttezza e buona fede; alle risoluzioni così intimate, se non
motivate da eccedenza di personale, non è applicabile l’art. 33 D.Lgs. n. 165
del 2001” (Tribunale di Milano, 5 ottobre 2010).
“Il rapporto di lavoro in cui venga esercitata la facoltà di opzione per la prosecuzione oltre l’età pensionabile prima del compimento del sessantacinquesimo anno di età, rimane assoggettato, quanto alle garanzie di stabilità, alla
medesima disciplina ad esso applicabile, e al datore di lavoro non è consentito
collocare a riposo il dipendente per raggiunti limiti di età, potendo irrogare il
licenziamento in conseguenza di illeciti disciplinari, per inidoneità alle mansioni
e per giustificato motivo oggettivo in genere, nonché per riduzione di personale
ai sensi della legge n. 223 del 1991. In tale ultimo caso, trova applicazione il
disposto di cui all’art. 59, comma 3 , della legge n. 449 del 1997, nella parte
in cui prevede che gli accordi sindacali, ai fini della scelta del personale da
licenziare, possano adottare, in via prioritaria, il criterio della maggiore età ovvero della maggiore prossimità alla maturazione del diritto a pensione a carico
dell’assicurazione generale obbligatoria” (Cass., 12 maggio 2008, n. 1668).
“Non può trovare accoglimento la domanda di reintegrazione del lavoratore
che, prima di attivarsi in via giudiziale per ottenere la reintegrazione a un non
trascurabile lasso di tempo dal licenziamento, non solo ha raggiunto l’età pensionabile, ma ha anche chiesto la pensione di vecchiaia, tenendo una condotta
idonea a far presumere che non avrebbe comunque continuato a prestare
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