Diete ipoglucidiche: funzionano?

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Diete ipoglucidiche: funzionano?
Foglio di
informazione
professionale
N.132
28 luglio 2004
Diete ipoglucidiche: funzionano?
Le diete, per lo stretto rapporto esistente tra alimentazione, cura del corpo, immagine di sé, gratificazione e
stereotipi sociali di bellezza, hanno da sempre destato interesse, sino a diventare un evento mediatico, una
moda generatrice di illusioni planetarie tra i naviganti di Internet, una “filosofia di vita” con schiere di
proseliti. Le ultime proposte in fatto di dieta teorizzano che aumentando le proteine e riducendo i carboidrati,
si possa controllare meglio l’apporto calorico e dimagrire più facilmente, con benefici per la salute
(prevenzione del diabete, riduzione del rischio di cardiopatie). A dimostrazione della grande popolarità
raggiunta da queste diete sta l’avvertimento rivolto la scorsa estate dai quotidiani inglesi ai seguaci della
dieta di Atkins perché la sospendessero, almeno durante i giorni più caldi. Questa esortazione era dettata dal
maggiore impegno metabolico a cui questa dieta iperproteica espone l’organismo ed anche alla perdita di
liquidi che caratterizza la fase iniziale •. In Inghilterra, le vendite del libro “The diet revolution” di Atkins
sono seconde in classifica solo a Harry Potter. Considerando che la prima edizione è uscita negli anni ’70, la
sua diffusione non ha certo contribuito a frenare la crescita del sovrappeso. In realtà, la moda delle diete
ipoglucidiche, iperproteiche e iperlipidiche ha subito alti e bassi, ma ciclicamente si ripropone. La dieta a
zona (The Zone di Barry Sears, 1995) si inserisce in questo filone commerciale con suggerimenti piuttosto
originali; la limitazione di alcuni carboidrati viene, infatti, motivata con la possibilità di modulare l’asse
insulina/glucagone e di influenzare la produzione degli eicosanoidi, “superormoni” sintetizzati a partire dagli
acidi grassi essenziali (omega-6 e omega-3). L’insulina attiverebbe la produzione di quelli “cattivi”
(favoriscono l’aggregazione piastrinica con formazione di trombi, la vasocostrizione, le infiammazioni e le
allergie, deprimono la risposta immunitaria), mentre il glucagone attiverebbe gli eicosanoidi “buoni”
(antagonisti di quelli cattivi). A prescindere dal fatto che il concetto di buono o cattivo (anche gli
eicosanioidi “cattivi” svolgono funzioni positive per l’organismo) è sempre relativo ad una condizione di
equilibrio come quello tra insulina e glucagone, in realtà le cose sono molto più complesse di quanto si
voglia far intendere e non esiste nessuna prova scientificamente valida delle affermazioni di Sears. Nella
dieta a zona si parte con la definizione del fabbisogno proteico, sulla base della massa magra del soggetto
(1,1g di proteine/kg) e del suo grado di attività fisica. Poiché il livello proteico così calcolato (che per ragioni
oscure non può essere, comunque, inferiore a 77 grammi) deve essere per definizione il 30% dell’energia, da
qui si ricava anche il totale delle calorie tenendo conto che il rapporto proteine/carboidrati deve essere
compreso tra 0,6 e 0,8. In generale si tratta di un programma di restrizione calorica (<1.000kcal/die) i cui
supposti effetti benefici sono basati su fatti aneddotici. Restrizione calorica ed esercizio fisico non sono altro
che la base di ogni programma di controllo del peso. Perché allora tanto successo della dieta a zona e di altre
diete bizzarre? La risposta sta nel fatto che queste diete offrono brillanti risultati iniziali. L’elemento che le
accomuna è l’esclusione o comunque la limitazione di alimenti a base di carboidrati (pane, pasta, riso,
biscotti, cereali e dolci in genere) che comporta una automatica e drastica riduzione delle calorie introdotte
con notevole calo di peso, prontamente recuperato appena si reintroducono gli alimenti incriminati. Inoltre è
•
La dieta di Atkins prevede una limitazione stretta di carboidrati (20g/die) durante le prime due settimane, con un
aumento graduale di 5 grammi a intervalli settimanali per perdere circa 0,9kg di peso a settimana sino a raggiungere un
dimagrimento di 2,3-4,5 kg. L’assunzione di carboidrati viene poi aumentata di circa 10 grammi la settimana sino a
stabilizzazione del peso. Questa dieta iperlipidica, con adeguato apporto proteico e bassissimo contenuto di glucidi si
configura come un regime chetogenico, in grado di simulare gli effetti metabolici del digiuno: in assenza di una quantità
sufficiente di carboidrati, il metabolismo lipidico è incompleto (corpi chetonici residui).
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fondamentale l’aspetto di novità offerto da questi programmi che riesce facilmente a catturare la curiosità,
almeno nel primo periodo.
In campo medico, la crescente attenzione nei confronti delle diete è dovuta all’incremento della prevalenza
di obesità e diabete di tipo 2. Nel 2003 è stata effettuata una revisione sistematica di tutti gli studi condotti
sui regimi ipoglucidici (<35 g/die). Gli studi sono stati, per lo più, di piccole dimensioni e di breve durata,
con limiti metodologici importanti; nessuno degli studi è stato randomizzato o ha previsto un gruppo di
controllo. La revisione, oltre a sottolineare la mancanza di dati sul lungo termine, ha chiaramente indicato
come negli obesi, il dimagrimento sia legato alla restrizione calorica e alla durata della dieta, e non al ridotto
contenuto di carboidrati. Due studi, molto recenti, hanno ampliato le conoscenze sulle diete ipoglucidiche.
Nel primo, 63 soggetti obesi con indice di massa corporea 34 (IMC= peso in kg diviso per l’altezza in metri
al quadrato), non diabetici, sono stati randomizzati alla dieta di Atkins o a una dieta ipocalorica
convenzionale con un livello di grassi pari al 25% delle calorie totali. Al termine dei 12 mesi previsti,
l’aderenza al trattamento dietetico è stata molto bassa: 61% (dieta ipoglucidica) e 57% (dieta ipolipidica). Il
calo medio di peso è stato maggiore con la dieta di Atkins a 3 mesi (8 kg contro 3,7 kg), a 6 mesi (9,6 kg
contro 5,2 kg) e a 12 mesi (7,2 kg contro 4,4 kg), anche se in quest’ultimo caso la differenza non ha
raggiunto la significatività statistica. La dieta ipoglucidica si è associata con una riduzione del 20% dei
trigliceridi e con un aumento del 20% del colesterolo HDL. Non si sono osservate differenze tra i due gruppi
nei livelli di colesterolo totale o LDL. Nel secondo studio, anch’esso randomizzato, 132 persone affette da
obesità grave, con IMC 43, hanno seguito una dieta ipoglucidica fissa (≤30g al giorno) o una dieta
ipolipidica, leggermente ipocalorica (inferiore di 500 kcal/die a quella usuale) nella quale i grassi fornivano
meno del 30% dell’energia. Molti dei partecipanti erano affetti da diabete o da sindrome metabolica
(combinazione di obesità viscerale, dislipidemia, ipertensione e ridotta tolleranza al glucosio). Al termine dei
6 mesi, a mantenere il trattamento assegnato risultavano più pazienti a dieta ipoglucidica (67% contro 53%)
con una perdita media di peso maggiore rispetto al gruppo a dieta ipolipidica (6 kg contro 2 kg). Con la dieta
ipoglucidica si è osservata una riduzione del 20% dei trigliceridi contro il 4% della dieta ipolipidica, senza
variazioni nel colesterolo totale e LDL. I due studi hanno dimostrato che un dieta ipoglucidica può
comportare un dimagrimento superiore rispetto ad una dieta ipolipidica durante i primi 6 mesi (6-7 kg contro
2-3 kg). La differenza di peso è, però, modesta e tende a ridursi dopo un anno di trattamento; inoltre, il grado
di adesione alla dieta è basso. La diminuzione dei trigliceridi osservata nei pazienti assegnati alla dieta
ipolipidica potrebbe essere avvenuta più precocemente in virtù del maggiore calo ponderale, anche se è vero
che una ridotta assunzione di carboidrati si accompagna generalmente ad una diminuzione dei trigliceridi.
Emerge, inoltre, che è molto più facile ottenere un dimagrimento rapido che riuscire a mantenere la perdita di
peso nel tempo, come testimonia l’alta incidenza di abbandoni. Quand’anche fosse possibile essere fedeli nel
tempo, rimarrebbero le preoccupazioni sulla sicurezza a lungo termine di queste diete potenzialmente
aterogene per il loro elevato contenuto di grassi, soprattutto saturi. Come indicato dalle osservazioni di tipo
epidemiologico, l’assunzione di grandi quantitativi di grassi saturi ha conseguenze negative sulla salute. Le
diete ipoglucidiche, inoltre, possono essere carenti di vitamine importanti e fibre. Per di più, mancano dati
sul lungo periodo, quando invece alcuni studi a lungo termine hanno dimostrato che l’associazione tra una
dieta ipolipidica e una attività fisica regolare protratta per 3 anni, oltre che ritardare l’insorgenza di diabete,
consente di ottenere un dimagrimento equivalente a quello osservato con le diete ipoglucidiche nei due studi.
Inoltre, altri studi hanno chiaramente evidenziato una diminuzione dei decessi per malattie cardiovascolari
tra coloro che seguono una dieta ricca di frutta, verdura, pane integrale e pesce. Esistono, pertanto, i
presupposti scientifici per promuovere una dieta bilanciata, che si fondi su un’ampia varietà di alimenti trai
quali frutta, verdura, legumi, pane e pasta, meglio se integrale, olio di oliva, pesce, carni magre come
pollame e conigli, con un contenuto di grassi inferiore al 30% delle calorie totali. La ricetta per dimagrire,
apparentemente semplice, ma difficile da rispettare, si basa sulla combinazione di tre elementi fondamentali:
motivazione personale, attività fisica e restrizione calorica; il calo di peso potrà essere mantenuto solo
attraverso l’equilibrio tra calorie ingerite e attività fisica, da rispettare vita natural durante .
A cura del prof. Mauro Miselli
Bibliografia
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- Bonow R and Eckel RH. Diet, obesity, and cardiovascular risk. N Engl J Med 2003; 348:2057-8.
- Il bollettino SINU (Società Italiana di Nutrizione) 6-11-2003, pag. 2-3
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