agricoltura e globalizzazione: alle origini delle reti umane mondiali
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agricoltura e globalizzazione: alle origini delle reti umane mondiali
*04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 126 AGRICOLTURA E GLOBALIZZAZIONE: ALLE ORIGINI DELLE RETI UMANE MONDIALI di Gianluca Bocchi* L’itinerario attraverso il quale la specie umana è diventata globale, incidendo profondamente sulle dinamiche ambientali di gran parte delle terre emerse e degli oceani, è da sempre segnato da accelerazioni, discontinuità, inversioni di rotta. Quanto alle origini, i primi rappresentanti di Homo sapiens veramente «moderni» sotto il profilo anatomico sono presenti in Etiopia all’incirca 110.000 anni or sono. È probabile che fossero moderni anche dal punto di vista cognitivo, dal momento che, secondo l’ipotesi oggi maggiormente accreditata, il centro di origine del linguaggio sarebbe l’Africa, dove una singola lingua ancestrale avrebbe dato origine alle 6.000 lingue attualmente parlate sul pianeta. D’altra parte, persino gli storici dell’arte rupestre diffusa in tutto il mondo documentano un lungo elenco di elementi a sostegno di questa ipotesi. A partire dai luoghi della loro origine, gli umani si dedicano ad abitare l’intero pianeta raggiungendo regioni, continenti e isole anche assai lontani dalla loro culla africana, non solo geograficamente (come la Tasmania e la Terra del Fuoco), ma anche ecologicamente (deserti, tundre, foreste equatoriali). La specie umana quindi si frammenta in tante piccole popolazioni, ognuna delle quali entra in relazione con l’ambiente in cui si insedia e ne prende l’impronta, proprio per sfruttare al meglio le risorse locali. È l’età dei cacciato* Epistemologo, Università degli Studi di Bergamo 126 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 127 Agricoltura e globalizzazione ri-raccoglitori, in cui gli «adattamenti creativi» ai luoghi sono quanto mai essenziali per sopravvivere e progredire: tutti adattamenti locali che sono alla base di ciò che oggi chiamiamo «culture». Questo modo di abitare il mondo dura 100.000 anni, ossia più dei nove decimi della storia dell’umanità; dopodiché, a partire dagli ultimi 10.000 anni, gli orizzonti cominciano a invertirsi. Gran parte del pianeta è ormai popolata, anche se in misura assai scarsa e ancora con tanti «vuoti» intermedi. Lo sguardo dei gruppi umani inizia a dirigersi, accanto ai molti «vuoti», anche ad alcuni «pieni», ovvero a luoghi già abitati da altri gruppi e culture. Gli esseri umani sono più numerosi e le popolazioni aumentano demograficamente, con il risultato che qualche volta sono costrette a sperimentare condizioni più o meno transitorie di affollamento e scarsità di risorse. Sempre più spesso si generano condizioni che obbligano a cooperare o a competere: la cooperazione favorisce i commerci, la competizione favorisce le guerre. Negli ultimi 10.000 anni, il grande agente trasformatore delle culture e degli ambienti umani è stato l’agricoltura. Come impatto originario, questo modo di sfruttare il territorio e di produrre cibo innesca la prima grande esplosione demografica nel globo. Si può agevolmente ricostruire la principale catena di eventi di tale processo, che per molti aspetti si è autoalimentato. L’agricoltura e l’allevamento animale, dove e quando vengono adottati in maniera sistematica, consentono per la prima volta di accumulare notevoli surplus di alimenti da conservare per sfamare l’intera popolazione nei momenti di crisi. L’esigenza di controllare questi surplus determina i primi cambiamenti sociali, da cui emerge una classe di proto-amministratori. La popolazione tende allora a concentrarsi nei luoghi dell’amministrazione, il che dà origine a veri e propri centri urbani. Nello stesso tempo, la sedentarietà agricola consente modi di vita più favorevoli alla maternità: nella nuova situazione stanziale è possibile fare più figli in meno tempo, e forse anche la mortalità infantile è inferiore. Le conseguenze immediate sono una popolazione più grande da sfamare e più terra da coltivare, ed è per questo che le città devono estendere il territorio da proteggere e controllare. La politica diventa ben presto un’arte difficile e complicata, e il più delle volte tende a trasformare la società in un senso fortemente gerarchico. 127 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 128 Gianluca Bocchi Sappiamo ancora troppo poco sui perché delle origini dell’agricoltura: al proposito sono state naturalmente avanzate molte ipotesi, e non è detto che quella valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi sia una sola. Molto di più sappiamo sui come dell’agricoltura, che prende a svilupparsi dai tempi in cui in alcune piccole aree del globo vengono poste le basi per la coltivazione di particolari specie vegetali e per la domesticazione di particolari specie animali. Dall’8000 a.C. fino agli albori della Rivoluzione industriale, è lecito parlare di un grande processo di trasformazione, che, partendo dal Medio Oriente, investe prima l’Eurasia e poi il mondo intero. Com’è noto, tempi, modi e luoghi di questo processo sono quanto mai diseguali. I primi focolai agricoli sono lontani l’uno dall’altro, sono asincroni e si basano su colture e pratiche di allevamento differenti. La prima svolta importante si ha tuttavia quando il focolaio originario, oltre a espandersi verso occidente per tutta l’Europa, nella sua espansione verso oriente incontra a sua volta l’espansione verso occidente dei focolai cinesi (pare lecito usare il termine «focolai» perché in Cina, in realtà, le aree di origine delle coltivazioni agricole sono state due: una settentrionale e una meridionale). Alla conclusione di questo processo si arriva alla nascita e allo sviluppo di un grandissimo sistema agricolo eurasiatico, che va dalle Isole Britanniche al Giappone. È un sistema capace di incrementare la sua diversità interna grazie allo scambio di piante e animali fra aree geografiche differenti e allo stimolo esercitato verso le popolazioni di particolari regioni nell’introdurre nuove specie da coltivare e allevare. In un certo senso, dunque, il sistema produce autonomamente le condizioni per la sua ulteriore espansione. Le espansioni concomitanti di altri focolai agricoli sono meno imponenti, ma per nulla trascurabili: il focolaio africano, per esempio, situato in origine nella fascia steppica del Sahel (al sud del Sahara), col tempo induce migrazioni di culture e di colture che popolano tutta l’Africa orientale e arrivano fino all’Africa meridionale. Grazie ai molti processi di questo tipo, alla vigilia del 1492 già metà del mondo è profondamente trasformata dalla Rivoluzione agricola. La vita delle popolazioni coinvolte viene letteralmente reinventata ed esse devono misurarsi con le realtà ambivalenti di ciò che oggi chiamiamo civiltà: centri urbani, società complesse, divisione del lavoro, commerci su vasta scala, apparati governativi, 128 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 129 Agricoltura e globalizzazione burocrazie, religioni istituzionalizzate, sistemi di scrittura e di contabilità, ecc. Ma perché le civiltà agricole possano diventare la forma di vita assolutamente dominante nell’intero pianeta occorre un passo ulteriore: la caduta di tutte le barriere spaziali fra i sistemi agricoli del mondo e la loro conseguente fusione in un unico sistema agricolo di portata planetaria. È questo il significato profondo, in termini di storia globale e sul lungo termine, della fatidica data del 1492: il momento in cui ha inizio lo «scambio colombiano». Nel giro di pochi decenni, infatti, cadono le barriere spaziali fra l’enorme sistema euroasiatico e i tre sistemi americani sostanzialmente indipendenti: ciò consente, per esempio, che le patate raggiungano in breve tempo non solo l’Europa ma anche la Cina, l’Indonesia e la Melanesia. Nello stesso tempo, anche l’Africa e la Nuova Guinea vengono coinvolte in una rete di scambi multilaterali destinati a modificare per sempre i modi di alimentarsi e di vestirsi di tutti i popoli del pianeta. Un tratto importante della storia umana globale è che la Rivoluzione agricola si compie, a livello planetario, quasi nello stesso momento in cui in una piccola isola ai margini dell’Europa emerge il primo focolaio della seconda grande Rivoluzione globale, quella industriale. In questo modo l’agricoltura diventa parte integrante di un nuovo sistema tecnologico che ben presto la rende «meccanizzata». Il fatto che l’agricoltura industriale consenta, almeno all’inizio, di produrre di più e in minor tempo diventa una delle componenti (insieme a molti altri fattori: in primis il mutamento delle condizioni igieniche e le nuove opportunità di vita rese possibili dal nuovo mondo delle macchine e dei trasporti) di una seconda rivoluzione demografica globale, ma a ritmi molto più rapidi di quelli osservabili nel periodo della diffusione planetaria dell’agricoltura. I dati demografici ci aiutano a focalizzarci sui tassi dello sviluppo umano, che negli ultimi 250 anni testimoniano «l’accelerazione di un’accelerazione». Se nel mondo dei cacciatori-raccoglitori l’umanità cresce in maniera molto lenta – basti pensare che all’alba della Rivoluzione agricola il mondo non conta più di 20 milioni di abitanti –, nell’evo antico (al tempo dei greci e dei romani) la popolazione planetaria decuplica (circa 200-300 milioni di abitanti), per poi moltiplicarsi per due nei successivi 1.500 anni (al tempo della «scoperta dell’America», il mondo conta 400-500 milioni di abitanti), e infine 129 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 130 Gianluca Bocchi raddoppiare nuovamente in soli 320 anni (nel 1820 la popolazione raggiunge la soglia del miliardo). A questo punto le dinamiche connesse con l’età industriale prendono il sopravvento e la popolazione umana aumenta di sei volte in soli 120 anni, fino a raggiungere 6 miliardi all’incirca nel 2000, con tassi di crescita annui mai raggiunti in precedenza. Un altro dato che visualizza il ritmo che il carico umano sul pianeta ha assunto negli ultimi secoli, e in particolare negli ultimi 100 anni, mette in gioco addirittura i circa 4 milioni di anni lungo i quali si snoda l’avventura della linea di discendenza degli ominidi, dai nostri remoti progenitori fino a oggi. Se sommassimo tutti gli anni di vita trascorsi da tutti gli individui (ominidi) sul pianeta, da 4 milioni di anni fa ai giorni nostri, scopriremmo che un quinto di questo valore si concentra nell’ultimo secolo, segnato non solo dalla sovrappopolazione del globo, ma anche dal notevole allungamento della vita media dei membri della nostra specie: un quinto in un secolo dentro una storia che dura da 4 milioni di anni! Gli ultimi due secoli sono caratterizzati da un’accelerazione ancora più pronunciata rispetto a quella associata alla semplice espansione demografica. In questo caso si tratta di un’accelerazione dovuta all’enorme incremento del carico energetico imposto al pianeta, quasi tutto sotto forma di consumo di combustibili fossili non rinnovabili. Ancora una volta il divario con le fasi precedenti della storia umana è evidentissimo. La Rivoluzione agricola, infatti, ha avuto luogo grazie all’apporto del lavoro umano e animale in un contesto energetico rimasto quasi invariato fino all’avvento della macchina a vapore. Se volessimo tradurre in termini di lavoro umano e animale l’odierno consumo energetico pro capite della popolazione planetaria, diremmo che esso equivale a 20 «uomini macchina» per ogni essere umano, dove per «uomo macchina» si intende uno «schiavo» in servizio 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno! Ma poiché oggi la gran parte della popolazione umana non ha né esseri umani né animali al suo diretto servizio, questo significa che il consumo energetico avviene impiegando quasi esclusivamente fonti fossili, insieme a una piccola quota di energie rinnovabili, che si auspica possano dare un contributo assai più consistente in tempi rapidi. Al principio del XXI secolo stiamo scoprendo che questo sviluppo fatto di accelerazioni demografiche ed energetiche non è più 130 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 131 Agricoltura e globalizzazione sostenibile, e che il mondo deve trovare una nuova chiave di sviluppo mirando alla stabilità e a nuovi equilibri. La necessaria inversione di tendenza non è facile, anche e soprattutto per ragioni culturali, perché quello dell’«espansione», a vari livelli, è stato un valore che ha alimentato l’azione umana per tutta la lunga era della Rivoluzione agricola. Anche per questa ragione, quindi, conoscere da dove veniamo è fondamentale per poterci seriamente interrogare su dove vogliamo andare. Per comparare le varie modalità di abitazione del pianeta da parte dell’uomo, è utile avere una visione allargata delle dinamiche della globalizzazione, e non circoscriverle ai processi che hanno segnato la fine del XX secolo, benché questo abbia indubbiamente segnato una tappa decisiva (come confermano tutti gli indicatori demografici ed energetici). Sulla base del quadro da noi delineato, infatti, è opportuno parlare di almeno «quattro globalizzazioni» successive. La prima è opera delle diaspore delle società dei cacciatoriraccoglitori ed è caratterizzata da relazioni deboli (ma non nulle) fra culture radicate in ambienti locali. Nella seconda, innescata dai primi sviluppi dell’agricoltura, le società e le culture prendono a interconnettersi, scambiandosi prodotti agricoli, tecnologie e idee, e spesso anche a espandersi le une a spese delle altre. La terza coincide con l’età delle esplorazioni geografiche da parte dei popoli europei: anche qui l’agricoltura è protagonista, giacché il suo risultato più duraturo è la costruzione di un sistema agricolo mondiale che fa da supporto a una rete di comunicazioni e di commerci che attraversa l’intero pianeta. La quarta è quella contemporanea, in cui le comunicazioni fra individui e collettività delle varie regioni del mondo non solo sono più fitte e frequenti, ma soprattutto provocano una contrazione spazio-temporale grazie agli sviluppi dei trasporti e delle tecnologie informatiche. Oggi il quadro delle comunicazioni a distanza in tempo reale, del tutto inconcepibile per le globalizzazioni del passato, fa parte della routine di un’ampia porzione degli abitanti del pianeta. Come proposta esplorativa, sembra possibile definire i differenti livelli della globalizzazione sulla base della natura delle reti umane che di volta in volta sono state e sono tuttora costruite. E per «natura delle reti umane» intendiamo la qualità, la quantità e i tempi delle interconnessioni fra individui e fra collettività. Probabilmente, in 131 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 132 Gianluca Bocchi questi aspetti, la nascente «teoria delle reti» troverà importanti problemi su cui soffermarsi, per quanto già oggi abbia toccato il tema della globalizzazione con alcune ricerche pionieristiche di grande importanza, come quella dello psicologo sociale Stanley Milgram che, fin dagli anni Sessanta, si era chiesto quale fosse la struttura delle reti sociali che connettono gli abitanti del pianeta. In quegli anni egli si concentrò sul tipo di interconnessioni che negli Stati Uniti esistevano fra i cittadini del Kansas e del Nebraska da un lato, e quelli di Boston dall’altro, posto che i due insiemi non erano vicini geograficamente né condividevano alcuna affinità culturale particolare. In pratica, egli scelse come destinatario di una sua lettera un amico personale di Boston, e nel frattempo disseminò di lettere gli Stati del Kansas e del Nebraska per cercarne i mittenti. Gli abitanti del Kansas e del Nebraska a cui Milgram consegnò le lettere vennero informati su alcune regole del gioco molto semplici. Nel caso in cui essi conoscessero personalmente il destinatario della lettera (l’amico di Milgram a Boston), avrebbero dovuto spedirgliela direttamente. In caso contrario, avrebbero dovuto spedirla all’amico o al conoscente che essi ritenevano essere il candidato con maggiori probabilità per fare da «ponte» con la persona in questione. Evidentemente, un buon espediente logico poteva essere quello di circoscrivere il perimetro spaziale e quindi, come primo passo, inviare la lettera a persone di Boston o di località il più possibile vicine a quella città. Il risultato fu illuminante: nell’arco di sei passi, tra il mittente e il destinatario, la lettera raggiungeva quasi sempre la meta. Da allora l’esperimento è stato ripetuto altre volte, anche su scala differente, dando grossomodo gli stessi risultati. È stato così dimostrato che, persino su scala planetaria, in (più o meno) sei passi tutti gli abitanti del mondo sono interconnessi l’uno con l’altro. In buona sostanza, per quanto le conclusioni di questo tipo di indagini possano variare in virtù del grado di connessione tra un individuo e un altro (amicizia, conoscenza, incontro sporadico), pare proprio di poter dire che oggi viviamo in un «piccolo mondo». La ragione di questo fatto è che nel pianeta globalizzato sono molti gli «individui ponte», cioè le persone la cui rete di relazioni si estende ben oltre le immediate vicinanze spaziali fino a luoghi anche lontanissimi dal luogo abituale di residenza. Grazie alle reti che si formano per le attività professionali, per il 132 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 133 Agricoltura e globalizzazione turismo, o per semplici scambi amicali, siamo diventati tutti individui «ponte». Naturalmente esistono individui più ponte di altri, per il loro ruolo pubblico o per la loro attività professionale (politici, attori, finanzieri, scrittori, ecc.), o semplicemente per la loro storia di vita, e questi consentono di «collegare» molte persone di molte luoghi differenti della Terra. Che il nostro sia diventato un piccolo mondo, fatto di reti fitte e assai connesse, è forse il tratto della globalizzazione contemporanea più significativo, se comparato ai processi di globalizzazione del passato. Nell’età dei cacciatori-raccoglitori, praticamente tutti i legami erano o interni alle popolazioni o fra popolazioni confinanti, e gli individui ponte, anche quando presenti, erano rarissimi: le relazioni globali erano escluse dalla scala della vita umana, di conseguenza le idee e le tecnologie si propagavano molto lentamente. I primi insiemi di individui ponte sono sorti nell’età degli imperi che ha accompagnato il diffondersi dell’agricoltura nel continente eurasiatico. Se pensiamo agli amministratori, ai soldati, ai mercanti romani, ai persiani o ai cinesi, è plausibile che molti di questi individui siano entrati in contatto vicendevolmente, venendo a formare un tramite per molti abitanti di questi imperi. Ma il pianeta inizia a diventare un autentico piccolo mondo, ossia una rete globale di uomini interconnessi fra loro, solo dopo il 1492: uno spartiacque dopo il quale sono comunque trascorsi secoli perché il processo potesse dirsi veramente compiuto. Per rendere l’idea, si consideri che negli anni Trenta del secolo scorso un aviatore olandese si imbatté in una valle interna della Nuova Guinea abitata da una civiltà agricola di 40.000 persone, la cui esistenza era ancora totalmente ignota. Oggi siamo tutti interconnessi da soli «sei gradi di separazione», eppure il processo evolve senza sosta. Oltre alle interconnessioni relazionali, che hanno impiegato 110.000 anni a svilupparsi, si stanno rapidamente imponendo le interconnessioni informatiche, che rendono il mondo ancora più piccolo perché caratterizzate da tempi molto più rapidi. È quindi lecito chiedersi: l’umanità diventerà più creativa o meno creativa? E per essere più precisi, a quali condizioni potrebbe diventare più creativa? Sono quesiti molto difficili da affrontare, e forse soltanto le prospettive di lungo termine presentate in questa rifles133 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 134 Gianluca Bocchi sione possono essere di qualche aiuto. Non dobbiamo cadere nella trappola di identificare in termini assoluti la separazione con il passato e l’interconnessione con il presente (e il futuro). La creatività della specie umana sembra dipendere da un sottile equilibrio fra diversità e interconnessione; un equilibrio che forse dovrà essere raggiunto su basi nuove, dato che sotto il profilo pratico non esistono più le barriere geografiche e culturali che alimentano la produzione della diversità. La diversità mantenuta dai confini geografici e culturali era un tratto caratteristico delle civiltà di cacciatori-raccoglitori e, in buona misura, anche delle civiltà più recenti, dal momento che gli individui che intrattenevano rapporti di lungo raggio erano una frazione minoritaria della popolazione. Oggi la situazione è del tutto nuova. In altre parole, l’età dei cacciatori-raccoglitori ha certamente prodotto una diversità di base delle culture umane, perché ognuna recava l’impronta del suo ambiente, e gli ambienti del mondo erano variegati e diversificati. Ora che questo sistema di vita è scomparso definitivamente, riscopriamo, non senza una certa nostalgia, che le culture e le conoscenze ambientali di quei tempi lontani sarebbero utili alle donne e agli uomini dei nostri giorni: lo comprendiamo, per esempio, quando prendiamo coscienza del loro patrimonio di nozioni sulle proprietà medicamentose delle piante. Di questa umanità originaria, tuttavia, molto è restato alle radici del nostro mondo. Passo dopo passo, le innovazioni antiche sono circolate ponendo le basi per le civiltà successive; e fra le più importanti di queste antiche innovazioni va particolarmente menzionata l’agricoltura. La principale funzione dell’agricoltura nella storia umana è dunque quella di invertire la direzione diasporica che aveva caratterizzato tutta la storia antecedente della nostra specie, per promuovere progressive interconnessioni fra le società e le culture umane, fino a raggiungere un unico sistema globale. Prima della Rivoluzione agricola, le varie società del mondo erano fondamentalmente paritarie, ma a partire da quella transizione si innescano rapide ristrutturazioni dello spazio globale a seguito delle quali le relazioni umane vengono a trovarsi in uno scenario definito da centri e periferie. La diversità culturale si riduce, perché le culture agricole vengono spinte da un imperativo territoriale che le porta ad assorbire e a omologare tante culture antecedenti. Ciò nonostante, il meccanismo di 134 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 135 Agricoltura e globalizzazione produzione delle novità culturali e tecnologiche diventa più maturo, perché non è più immerso in un contesto di forte separazione geografica (che rende il meccanismo di diffusione delle novità molto lento e fuori dalla portata delle generazioni presenti) ma, al contrario, in un contesto di comunicazione fra culture «altre» che scambiano reciprocamente sia tecnologie sia idee (malgrado tanti conflitti e tante guerre). L’età agricola non può essere rappresentata solo con i tanti episodi cruenti e distruttivi che certamente la caratterizzano, ma anche con i tanti episodi di traduzione culturale e tecnologica che in qualche modo hanno gettato le basi positive della modernità: è proprio grazie alla relazione fra diversità e interconnessione che viene a costruirsi l’attuale «mondo mondializzato». La Rivoluzione agricola definisce il primo «centro del mondo» che è, per l’appunto, il primo focolaio di coltivazione sistematica delle piante e di allevamento degli animali. Indicato unitariamente come Medio Oriente, questo centro è in realtà composto da tre zone distinte, ecologicamente e climaticamente, che comunicano facilmente l’una con l’altra: il corridoio che va dall’Anatolia alla Palestina con l’antistante litorale siro-libanese; le pianure della Mesopotamia (allora molto più fertili); i monti Zagros a cavallo degli attuali Iran e Iraq. La sua peculiarità è proprio quella di essere uno e molteplice allo stesso tempo, in considerazione del fatto che da una parte costituisce per molto tempo il focolaio principe dell’agricoltura, e dall’altra rappresenta il centro delle reti umane su scala globale. I prodotti di quest’area consentono un’alimentazione varia e flessibile e, diversamente dagli altri centri, la domesticazione degli animali non è marginale rispetto a quella delle piante. Vengono allevati caprini, ovini, suini e bovini, anche se a partire da sedi originarie un po’ discoste (i monti Zagros per le capre, l’attuale Siria per le pecore e i maiali, l’Anatolia centrale per i bovini). Analoga varietà e versatilità si trova per le prime piante coltivate: grano, farro, orzo, lenticchie, piselli, ceci, ecc. I legumi, com’è noto, esercitano positivi effetti ambientali, perché consentono di fissare l’azoto nel terreno e prevengono un suo prematuro decadimento. Questa diffusione a rete delle prime innovazioni agricole non solo individua nelle comunicazioni fra le città e i villaggi del Medio Oriente neolitico la prima vera «rete umana», ma consente anche di comprendere che il sorgere nei millenni successivi (in Mesopotamia e in Egitto) della cosiddetta 135 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 136 Gianluca Bocchi «civiltà della scrittura» ha qui le sue radici profonde: radici che negli ultimi decenni hanno portato a retrodatare di almeno 4.000 anni (dal 4000 all’8000 a.C.) il passaggio alla storia vera, dinamica e drammatica, che continua ancora ai nostri giorni. Ben presto, da questo focolaio già ampio e diversificato, si dipartono tre fronti d’espansione: l’Egitto, i Balcani e l’Altopiano iranico. Oltre l’Egitto, il flusso di piante e animali si arresta dinanzi alla grande barriera geografica del deserto, da cui si evince che gli sviluppi agricoli del Sahel hanno avuto luogo in modo quasi del tutto autonomo. Nei Balcani e nell’Altopiano iranico si hanno invece resti di villaggi e di centri urbani neolitici molto antichi, il che dimostra la rapidità della prima diffusione dell’agricoltura, come pure la capacità di trovare fuori della sua area di origine nuovi centri di diffusione secondari che presto la esportano in tutta l’Europa e nell’Asia meridionale (in particolare in India). Il grande biologo e geografo americano Jared Diamond ha evidenziato come fra le componenti essenziali del successo globale della Rivoluzione neolitica mediorientale vi siano la geografia e la climatologia. L’Eurasia è infatti un continente molto esteso in orizzontale, e quindi, partendo dalla latitudine del Medio Oriente, piante e animali possono diffondersi a occidente e a oriente mantenendo la medesima fascia climatica, ossia senza troppe escursioni di temperatura e altre variabili. All’interno di questa fascia climatica, tra l’altro, si trova anche gran parte dell’Europa. L’incontro fra Medio Oriente, Egitto, Europa, Cina e India non è soltanto una tappa fondamentale nella storia dell’agricoltura, ma molto di più: è la costruzione di una prima rete economica, tecnologica e culturale trans-continentale. Cinquemila anni fa, poco dopo il 3000 a.C., le civiltà di tutte queste aree entrano in collegamento reciproco attraverso quegli itinerari commerciali dell’Asia centrale che poi entreranno nella leggenda con il nome di «via della seta». Nel corso del tempo, la rete eurasiatica si allargherà ad altre regioni del Mondo antico: sostanzialmente l’Indonesia, le coste dell’Africa orientale e l’Oceano Indiano nel suo complesso, che a loro volta si integreranno dando vita a una «via delle spezie» altrettanto importante. Gli storici hanno giustamente sottolineato il fatto che le basi dell’attuale sistema economico mondiale sono state poste nei primi decenni successivi al 1492, quando sia la Spagna sia il Portogallo 136 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 137 Agricoltura e globalizzazione tracciarono rotte e reti commerciali con l’Oriente ad un tempo concorrenti e competitive: la Spagna attaverso l’Oceano Atlantico, il Messico, l’Oceano Pacifico, le Filippine; il Portogallo attraverso le coste dell’Africa, l’Oceano Indiano, le coste dell’India, Malacca, le Molucche. Oggi, però, ci si chiede se questo sistema mondiale non abbia le sue radici in un altro sistema ben più antico che lega le civiltà del Vecchio mondo da 5.000 anni, e che, nelle sue estensioni esterne come nell’arricchimento delle sue relazioni interne, avrebbe preparato le basi per la discontinuità del 1492. Un primo risultato interessante di questa visione della storia eurasiatica ha condotto all’individuazione, sia pure problematica, di correlazioni forti negli sviluppi economici, politici e culturali delle civiltà afferenti alla rete. La storia del Vecchio mondo, dal 3000 a.C. in poi, sarebbe caratterizzata da un andamento ciclico, in cui le fasi di espansione si alternano alle fasi di contrazione e di crisi. Per le civiltà più importanti queste fasi sarebbero inoltre correlate positivamente: in altri termini, le «età d’oro» e le «età oscure» di Egitto e Mesopotamia o, poniamo, dell’Impero romano e dell’Impero cinese, presenterebbero delle corrispondenze. È probabile che le prossime ricerche di storia globale possano aiutare a esplorare più a fondo questa ipotesi. Per ora si può dire che l’innesco di questo processo ciclico di lungo periodo sembra dovuto proprio ai successi delle civiltà agricole e alle loro esigenze strutturali di espansione territoriale, a causa dei bisogni della popolazione e del parassitismo delle burocrazie, delle capitali e dei grandi centri urbani che traggono sempre le loro risorse dalle periferie. Per far fronte a bisogni crescenti, le civiltà di maggior successo costruiscono reti di commerci a vasto raggio, e in questo modo si alimentano a vicenda. Così le civiltà non direttamente confinanti, come appunto Egitto e Mesopotamia nel Medio Oriente antico, o Roma e Cina nell’età classica, innescano un processo di cooperazione a tutto vantaggio dei loro «centri», ma a spese delle «periferie». Prima o poi, tuttavia, ogni attore vincente in questo sistema incontra i limiti della sua espansione complessiva: gli imperi diventano troppo grandi per essere controllati dai centri, anche perché le periferie si ribellano e nel frattempo può accadere che qualche condottiero o qualche etnia «periferica» si propongano come nuovi centri di civiltà. Le perturbazioni causate dal declino di un vecchio centro di civiltà si propa137 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 138 Gianluca Bocchi gano per tutto il sistema complessivo, alimentando le crisi anche in altre regioni. Forse il fatto più interessante degli sviluppi di questa rete è che, sin dal suo sorgere, essa tende a creare una sorta di «doppio» rispetto alle civiltà sedentarie e urbane insediate nei luoghi più fertili, cioè una serie di popolazioni di allevatori nomadi, situati nelle steppe eurasiatiche a nord delle civiltà propriamente agricole, capaci di muoversi rapidamente per lunghe distanze e far valere la loro forza negli scontri bellici, grazie soprattutto all’uso intensivo del cavallo. Pensiamo a tanti nomi noti, come per esempio i «barbari», così definiti dalle civiltà sedentarie: sciti, sarmati, magiari, bulgari, unni, turchi, mongoli, manciù. Quando il sistema delle «civiltà centrali» entra in crisi, questi nuovi pretendenti premono ai confini e spesso riescono a penetrare profondamente negli spazi degli antichi dominatori, fino a costituire nuove dinastie dominanti, come nel caso dei mongoli e dei manciù rispetto al mondo cinese, o dei turchi nei confronti dell’impero bizantino. Questo meccanismo di ricambio storico ha arricchito la rete umana del vecchio mondo di molte idee, tecnologie e popolazioni, e alla fine ha esteso permanentemente i contorni complessivi del sistema stesso. Oltretutto, è proprio da questo tipo di processi che è nata l’Europa come noi oggi la conosciamo, sorta da una fusione dei centri storici della civiltà classica con le popolazioni agricole e seminomadi che erano stanziate ai suoi confini (germani, slavi, magiari). A un processo parallelo presero parte, con grande successo, anche le steppe e i deserti della penisola araba, situati a meridione dei «luoghi centrali» del Medio Oriente. L’irrompere dei nomadi arabi nella storia ha contribuito a sua volta ad ampliare ulteriormente la rete, introducendo nei suoi interscambi anche buona parte del mondo africano. L’età successiva al 1492, con la rapida caduta delle barriere fra i continenti, porta al suo apice la centralità di questa antica rete eurasiatica: le altre culture del mondo – agricole, nomadi e di cacciatoriraccoglitori – si connettono fra loro grazie esclusivamente agli sviluppi di questa rete, e in genere ne vengono subordinate politicamente ed economicamente, quando non direttamente assorbite. È l’età degli imperi trans- e intercontinentali: quelli coloniali dell’Europa occidentale, quello russo, quello ottomano, quello cinese. Su138 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 139 Agricoltura e globalizzazione bito prima di lasciare il suo ruolo alla produzione industriale basata sui combustibili fossili, l’agricoltura esaspera il suo ruolo di agente trasformatore degli ambienti umani su larga scala. Una delle conseguenze principali del 1492 sta nel fatto che per le piante e gli animali europei si aprono enormi territori, definibili collettivamente come «nuove Europe», dove il clima è comparabile con quello europeo: tutta l’America settentrionale, la parte più a sud dell’America meridionale (pampas argentine, ecc.), il Sudafrica, la Siberia meridionale, l’Australia, la Nuova Zelanda. In tutte queste regioni, gli ultimi arrivati hanno facilmente ragione dei piccoli popoli già insediati, e attuano una deforestazione così imponente che amplifica significativamente l’effetto serra naturale, anche se in modo non confrontabile con quello che stiamo sperimentando nel presente. Non tutte le società agricole, comunque, sono riuscite ad aggregarsi in tempo alle reti più ampie, e non tutte le società agricole hanno avuto successo. Negli ultimi anni è stato studiato in dettaglio il caso di alcune società isolate che sono regredite o addirittura scomparse per aver sottovalutato il carico umano che imponevano ai propri ambienti, e per non avere adottato tempestivamente misure, oggi diremmo, di «sviluppo sostenibile». Un caso molto interessante, persino estremo, è quello dell’Isola di Pasqua, vittima di una catastrofe ambientale provocata da una totale deforestazione del territorio. La carestia irreversibile non fu altro che il risultato di un uso indiscriminato di tutto lo spazio disponibile per fare largo all’agricoltura, e della concomitante assenza di scambi su vasta scala per via della distanza geografica dalle altre isole polinesiane. Un altro caso molto interessante è quello del sud-ovest nordamericano (corrispondente agli attuali Stati dell’Arizona e del New Mexico, con i centri principali a Chaco Canyon, Mesa Verde e Canyon de Chelly), dove a partire del 600 a.C. si insediano e si sviluppano diverse civiltà dedite all’agricoltura, che dopo alcuni secoli si sgretolano l’una dopo l’altra obbligando i superstiti umani ad abbandonare quelle terre (le tribù dei nativi di tempi più recenti le chiamarono collettivamente «Anasazi», vale a dire «antichi»). Probabilmente la causa prossima del loro fallimento è imputabile ai mutamenti climatici e alle carestie conseguenti. Ma è indubbio che anche per loro, come per gli abitanti dell’Isola di Pasqua, la rapida crescita della popolazione abbia prodotto una grave crisi culturale. In poche parole, le conoscenze 139 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 140 Gianluca Bocchi originarie che permettevano di assicurare uno sviluppo agricolo in equilibrio con l’ambiente passano in secondo piano dinanzi all’imperativo di produrre di più, e vengono sostituite con strategie che deprimono la varietà delle coltivazioni e incentivano lo sfruttamento di territori sempre più vasti: scelte che possono apparire vincenti nel breve periodo, ma che nei tempi lunghi rendono gli agroecosistemi, l’ambiente e la società vulnerabili alla prima crisi esterna. Paradossalmente, il problema della riduzione della varietà delle colture agricole (e quindi della stessa biodiversità complessiva del pianeta) tocca non solo chi non ha avuto successo, ma anche e soprattutto chi ha avuto successo. Nel momento della costituzione della grande rete agricola mondiale, la strategia dei grandi imperi coloniali è stata quella di inserire massicciamente la «monocoltura» nei territori dei loro domini, sulla base di considerazioni unicamente logistiche ed economiche, oltre che nella convizione quasi sempre distorta di avere ottimizzato le rese produttive. Oggi il problema si presenta in modo ancor più evidente, a causa dell’ulteriore erosione della diversità biologica delle piante coltivate promossa dalle multinazionali dell’industria sementiera e dell’agribusiness. Il bilancio della storia dell’agricoltura, all’alba del XXI secolo, è ambivalente. Gli sviluppi globali della Rivoluzione agricola hanno certo prodotto una grande diversità culturale, perché hanno catalizzato incontri, incroci, ibridazioni, traduzioni fra culture: tutti fattori senza i quali gli attuali successi nell’ambito delle tecnologie e delle idee sarebbero inconcepibili. Nello stesso tempo, quegli sviluppi hanno anche contribuito a innescare ondate ricorrenti di riduzione della diversità culturale, incoraggiando l’espansione di poche culture forti con conseguenti processi di omologazione forzata, che continuano a tutt’oggi con l’inurbamento dei contadini nelle periferie delle metropoli. Naturalmente va considerato anche l’impulso positivo dato all’amplificazione della biodiversità agricola, grazie agli innumerevoli esperimenti con cui gli agricoltori di tutto il mondo hanno selezionato e incrociato varietà vegetali e si sono prodigati nella coltivazione di nuove specie. Essi hanno operato però anche nel senso opposto, quando hanno esteso a dismisura i terreni coltivati, spesso a scapito di habitat naturali ricchissimi, e quando, per ragioni economiche e politiche, hanno trascurato piante e varietà che avrebbero potuto avere un futuro promettente. 140 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 141 Agricoltura e globalizzazione Gli studiosi delle civiltà del mondo antico sostengono che nei momenti in cui viene meno la capacità di sostenere l’espansione si ha un rapido collasso della popolazione, oppure si verifica una diaspora che la frammenta. Oggi, con una popolazione di 6,5 miliardi di persone che prevedibilmente aumenteranno per qualche altro decennio, pare inevitabile la cessazione dell’espansione insostenibile, perché di fatto non esistono altri territori in cui migrare. Per evitare il collasso della civiltà e la riduzione forzata dell’umanità, l’unico territorio alternativo in cui muoversi è quello delle idee. Prendere posizione a favore della diversità culturale e della diversità biologica, entrambi elementi irrinunciabili per i processi creativi dell’umanità, sarà forse il passo cruciale per vincere la sfida inedita della sostenibilità. 141 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 142 LO SVILUPPO TECNOLOGICO DELL’AGRICOLTURA IN RELAZIONE AI LIMITI BIOFISICI E SOCIO-ECONOMICI: ATTENZIONE ALLA SINDROME DEL CONCORDE di Mario Giampietro* Il presente: la crisi del paradigma dell’agricoltura industriale Una chiara immagine dell’attuale crisi del paradigma dell’agricoltura industriale, la cui definizione verrà precisata più avanti, ci è fornita dalla situazione che le autorità olandesi stanno affrontando nel Flevoland. Il Flevoland è l’ultima superficie di terra che è stata strappata al mare al termine della leggendaria e secolare lotta degli olandesi, fatta di dighe, canali e stazioni di pompaggio. Grazie alle moderne tecnologie, alle conoscenze specifiche accumulate e all’incredibile lavoro fatto nel passato (a cominciare dalle gigantesche opere dello Zuiderzee), gli olandesi hanno «estratto» dal mare due grandi territori e hanno la possibilità di ottenerne altri. Tali territori, secondo i piani originali, dovevano essere convertiti in terreno coltivabile aumentando la potenzialità agricola di uno dei paesi più densamente popolati del mondo. Inaspettatamente, però, in totale contrasto con la storia di questo paese, il progetto originario di «liberare» altra terra dal mare è stato bloccato, dato che: nessuno vuole andare a fare il contadino nel Flevoland, perché l’agricoltura non è più percepita, a livello individuale e familiare, come un’attività * Esperto di sostenibilità, Arizona State University, Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN) 142 USA, e Istituto Nazionale di *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 143 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura economica attraente; la società olandese accetta di buon grado che nessuno voglia andare a fare il contadino nel Flevoland, perché l’agricoltura non è più percepita, a livello sociale, come un’attività economica positiva. Aumentare la produzione agricola comporterebbe un peso per l’economia (per i sussidi economici da dare, soprattutto a coloro che iniziano tale attività su terra marginale) e per l’ambiente (per l’inquinamento delle falde con fosforo e azoto). Infatti è ormai accertato che: in Europa, l’agricoltura è il settore economico con la più alta richiesta di capitale per posto di lavoro, il più basso ritorno sull’investimento, il più alto impatto ambientale per addetto; fornire servizi sociali alla popolazione rurale è molto più costoso che fornirli alla popolazione urbana. Nonostante la loro identità culturale, costruita nei secoli, intorno alla lotta per strappare più terra agricola al mare, gli olandesi si sono dovuti rendere conto che oggi, in Europa, un aumento di terreno agricolo in produzione (soprattutto se si tratta di terra marginale) non rappresenta un vantaggio né per chi lo deve coltivare, né per il paese. La metafora del Flevoland rappresenta bene un malessere diffuso del settore agricolo in Europa, malessere che ha già portato a un ripensamento della PAC (Politica agraria comunitaria). Ci sono almeno tre ragioni che giustificano la decisione di ripensare completamente il vecchio sistema di incentivi: non si può seguitare a dare sussidi ai contadini per produrre eccedenze di derrate alimentari (perché troppo costose per i paesi poveri e perché non hanno una domanda nei paesi ricchi); non si può seguitare a dare sussidi ai contadini per sostenere tecniche che inquinano l’ambiente, consumano sempre più risorse naturali, disturbano il funzionamento degli ecosistemi naturali, dal momento che in Europa non c’è mancanza di cibo; una notevole frazione delle risorse economiche investite nei sussidi all’agricoltura finisce in altri settori economici (quelli che producono input e servizi) e non nelle tasche dei contadini. L’ultimo punto segnala un altro problema importante associato con l’attuale paradigma dell’agricoltura industriale, un problema che sta diventando sempre più evidente sia nei paesi ricchi sia in quelli poveri. Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura industriale comporta uno stress crescente per i contadini, e più in generale per le comunità rurali. In Australia, ormai, i contadini vivono così spar143 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 144 Mario Giampietro si nelle campagne che devono ricorrere a programmi televisivi specializzati per trovare moglie (si veda il sito web http://www.sbs. com.au/sheila/). In alcune aree del Canada, i bambini sono costretti a utilizzare Internet per «frequentare» la scuola (Canada’s school net), senza parlare della situazione dei paesini di montagna di tutta Europa sempre più popolati da persone anziane. Nei paesi in via di sviluppo, se possibile, le cose vanno anche peggio: in India il fenomeno dei suicidi dei contadini subissati dai debiti – le stime variano tra 15.000 e 50.000 negli ultimi 5 anni – è così diffuso che l’enciclopedia on line Wikipedia contempla addirittura una voce specifica per tale argomento (http://en.wikipedia.org/wiki/Farmer_Suicides_ in_India). Quanto all’impatto sull’ambiente, le notizie non sono certo migliori. Il Millennium ecosystem assessment, un progetto scientifico sponsorizzato dalle Nazioni Unite, che ha visto la collaborazione di 1.360 esperti di 95 paesi, per lo studio dettagliato dell’impatto della produzione di cibo sulla situazione ambientale del pianeta, conclude che il quadro è molto preoccupante: i cicli di acqua e nutrienti sono sempre più fuori controllo, la perdita di biodiversità è allarmante, il crescente inquinamento e il cambiamento climatico generano ecosistemi sempre più malati. Avendo preso parte a tale progetto come chapter review editor, posso affermare che non si tratta di propaganda ambientalista mirata a «terrorizzare» il pubblico, ma di analisi scientifiche in cui ogni parola viene rigorosamente soppesata e controllata (il rapporto è disponibile su http://www.millenniumassessment.org/en/index.aspx). Ma è necessario fare anche un riferimento alla situazione energetica, dal momento che l’agricoltura industriale si contraddistingue per l’altissimo input tecnologico basato su un uso massiccio di energia fossile. Senza entrare nel dibattito relativo alla data esatta del cosiddetto peak-oil (siamo infatti entrati nella fase calante delle riserve di combustibili fossili), possiamo prendere per buoni tre punti sui quali c’è un accordo totale tra gli analisti energetici del mondo (per es. http://www.chim.unisi.it/portovenere/): l’era del petrolio a basso prezzo è finita per sempre; al momento non esistono alternative praticabili e immediate all’energia fossile su larga scala; (quindi) il consumo di energia fossile rimarrà cruciale per mantenere gli attuali livelli di sviluppo per almeno altri 20 anni. 144 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 145 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura Ciò significa che il problema del cambiamento climatico è molto serio, così come lo è quello dell’attuale dipendenza totale dal petrolio. Il passato: il successo del paradigma dell’agricoltura industriale Il paradigma dell’agricoltura industriale ha certamente rappresentato un chiarissimo esempio di successo tecnologico per il mondo industrializzato, e da qui si può comprendere la pericolosa ubriacatura ideologica che ha determinato. Infatti, se si guarda ai trend di sviluppo economico e di sviluppo demografico degli ultimi due secoli, si vede chiaramente che la popolazione mondiale è letteralmente esplosa, generando un aumento della pressione demografica senza precedenti nella storia dell’uomo. La popolazione mondiale è triplicata, passando da 2 miliardi all’inizio del 1900 a oltre 6 miliardi all’inizio del 2000, nonostante le due guerre mondiali. Impressionante è anche il netto aumento della velocità di crescita della popolazione negli ultimi decenni. Dai primi anni Settanta al 2005, infatti, la popolazione è passata da 3,5 miliardi a oltre 6,5 miliardi: in pratica, l’aumento di popolazione degli ultimi 35 anni, pari a circa 3 miliardi, ha eguagliato l’aumento della popolazione umana nei mille anni precedenti! Come si vede, l’aumento della produzione alimentare è stato in grado di mantenere il passo dell’esplosione della domanda. Come viene affermato nel Millennium ecosystem assessment, «dal 1960 la popolazione è raddoppiata, mentre l’attività economica è aumentata 6 volte, la produzione di cibo è aumentata di 2,5 volte, i prezzi degli alimenti sono calati, il consumo di acqua è raddoppiato». Il rovescio della medaglia è stato un aumento dell’impatto ambientale, un maggiore squilibrio sociale tra ricchi e poveri, un aumento in termini assoluti del numero di poveri e una crescente dipendenza della produzione alimentare da fonti energetiche non rinnovabili (petrolio). Ma lo straordinario successo dell’agricoltura industriale non riguarda solo la capacità di produrre molto più cibo usando meno terra, bensì, soprattutto, la capacità di produrre molto più cibo usando meno lavoro umano. Alla fine del Novecento non esisteva più nessun paese ricco, ossia con un PIL superiore a 10.000 dollari pro capi145 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 146 Mario Giampietro te, che avesse più del 5% della forza lavoro in agricoltura. Nei paesi più avanzati, infatti, la percentuale della forza lavoro in agricoltura è sotto il 2%. In buona sostanza, si può dire che lo sviluppo dell’agricoltura industriale nei paesi ricchi è stato guidato da due grandi obiettivi da raggiungere contemporaneamente: produrre la maggiore quantità possibile di cibo per ettaro, per rispondere a un continuo aumento della pressione demografica; produrre la maggiore quantità possibile di cibo per ora di lavoro, per lasciare il massimo numero di ore lavorative ad altri settori produttivi, che sono cruciali per lo sviluppo di una moderna economia. Tali obiettivi sono stati centrati, infatti: il crescente uso di input tecnologici basati sull’energia fossile ha reso possibile usare meno terreno agricolo per produrre molto più cibo pro capite. Nei paesi industrializzati il consumo pro capite di cereali è ormai di circa 1.000 kg per anno (includendo i consumi indiretti, come la doppia conversione di mangimi in prodotti animali, la produzione di bevande alcoliche, la produzione di generi alimentari industriali). Questo valore è quattro volte il consumo pro capite annuo di cereali (250 kg) che era tipico delle società preindustriali; il crescente uso di input tecnologici basati sull’energia fossile ha reso possibile usare meno ore di lavoro per produrre molto più cibo pro capite. L’intera quantità di cibo consumata mediamente in un anno da un cittadino degli Stati Uniti (uno dei paesi con i più alti consumi alimentari pro capite del mondo) viene prodotta con sole 17 ore di lavoro agricolo. Analisi 1: i vincoli biofisici e socioeconomici sulla fattibilità della produzione agricola Il paradigma dell’agricoltura industriale può essere definito come l’idea secondo cui lo sviluppo tecnologico basato su un crescente consumo di energia fossile deve raggiungere due obiettivi: primo, aumentare la produttività per ettaro di terreno in produzione (obiettivo determinato dall’aumento della pressione demografica); secondo, aumentare la produttività per ora di lavoro nel settore agricolo, allo scopo di eliminare i contadini dalla forza lavoro (obiettivo determinato dall’aumento della pressione economica). 146 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 147 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura Analisi comparata degli input nelle agricolture di diversi paesi I dati presentati in questa sezione sono tratti da diversi studi (1,2,3,4) e si riferiscono ad analisi comparate dell’uso degli input tecnologici in agricoltura. Tali dati consentono di trarre le seguenti conclusioni: 1. L’ipotesi delle due pressioni (demografica ed economica) che guidano lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura è confermata dalle diverse caratteristiche delle agricolture dei diversi paesi del mondo. In particolare si deve considerare che: – più è alta la pressione demografica (popolazione per unità di area) e più è alta la produttività per ettaro (la quantità di nutrienti prodotti per area in produzione) dell’agricoltura del paese; – più è alta la pressione economica (che implica una larga parte della forza lavoro impiegata nei settori dei servizi e dell’industria) e più è alta la produttività per ora di lavoro in agricoltura (la quantità di nutrienti prodotti per ora di lavoro nel settore agricolo). 2. Esistono due tipologie di input tecnologici: quelli relativi alla pressione demografica (irrigazione e fertilizzanti di sintesi); quelli relativi alla pressione economica (macchine). In particolare si deve considerare che: – guardando alle statistiche internazionali sull’uso dell’irrigazione, è estremamente chiaro che l’irrigazione come input tecnologico si riferisce alla «pressione demografica». In altri termini, l’irrigazione è usata molto nei paesi densamente popolati, a prescindere dal fatto che siano ricchi o poveri, e poco nei paesi non densamente popolati, a prescindere dal fatto che siano ricchi o poveri; – guardando alle statistiche internazionali sull’uso dei fertilizzanti, è estremamente chiaro che anche questo input tecnologico si riferisce alla «pressione demografica». I grafici che visualizzano l’uso di fertilizzanti nei diversi paesi del mondo sono praticamente identici a quelli relativi all’uso dell’irrigazione. I fertilizzanti sono usati molto nei paesi densamente popolati, a prescindere dal fatto che siano ricchi o poveri, e poco in quelli meno densamente popolati, a prescindere dal loro grado di sviluppo economico; – guardando alle statistiche internazionali sull’uso dei macchinari, è estremamente chiaro che questo input tecnologico si riferisce 147 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 148 Mario Giampietro esclusivamente alla «pressione economica»: in pratica, i macchinari sono usati solo nei paesi ricchi! 3. Riassumendo le implicazioni di questa analisi comparata, possiamo definire le diverse situazioni presenti oggi nel mondo usando quattro categorie: paesi ricchi densamente popolati (per es. i paesi dell’Unione Europea e il Giappone) – in questo caso la tecnologia deve essere usata sia per fronteggiare un’alta pressione demografica sia un’alta pressione economica; paesi ricchi non densamente popolati (per es. Stati Uniti, Canada e Australia) – in questo caso la tecnologia deve essere usata per fronteggiare un’alta pressione economica. I fertilizzanti e l’irrigazione vengono usati, ma solo nella parte della curva con ritorni marginali crescenti (per incrementare il ritorno economico); paesi in via di sviluppo densamente popolati (per es. Cina, Egitto, India) – in questo caso la tecnologia deve essere usata per fronteggiare un’alta pressione demografica, fatto che comporta l’uso di fertilizzanti e irrigazione anche nella parte della curva con ritorni marginali decrescenti (per aumentare la produzione interna di cibo a ogni costo); paesi in via di sviluppo non densamente popolati (per es. Africa e Sudamerica) – in questo caso non c’è bisogno di utilizzare un eccessivo input tecnologico, fatto che determina rese energetiche dell’agricoltura molto alte (output di cibo su input di energia fossile). Il rovescio della medaglia, in questo caso, è una bassissima produttività per ettaro e molti contadini poveri. L’effetto dell’aumento della pressione demografica C’è un meccanismo che genera vincoli biofisici sulla possibilità di aumentare ad libitum la densità di produzione di cibo per ettaro. Questo meccanismo può essere spiegato considerando che il metabolismo di materia ed energia delle società umane (il flusso di materiali, che include il cibo, l’acqua, i vettori energetici, usati per la produzione e il consumo di beni e servizi) interferisce con il metabolismo degli ecosistemi naturali (il flusso di materiali che includono nutrienti, acqua e i vettori energetici utilizzati dagli ecosistemi per mantenere la loro struttura e funzionalità). In particolare, quando si parla di produzione agricola, si può fare una distinzione tra sistemi agricoli che funzionano con un basso uso di input tecnologici ester148 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 149 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura ni (Low external input agricolture, LEIA) e sistemi agricoli che funzionano con un alto uso di input tecnologici esterni (High external input agricolture, HEIA) (3). La differenza tra questi sistemi implica che la produzione primaria di biomassa per ettaro venga divisa in maniera radicalmente diversa tra metabolismo delle società umane e metabolismo degli ecosistemi terrestri. Nel primo caso (LEIA), i cicli di nutrienti sono garantiti dalle funzioni naturali degli ecosistemi. In questo caso gli uomini non devono investire molta energia fossile per la produzione primaria di biomassa, dato che viene mantenuto un discreto livello di biodiversità. Il prezzo da pagare è che la densità dei flussi di biomassa che possono essere estratti e usati dall’uomo, sia per ettaro sia per ora di lavoro, è limitata dalle caratteristiche dei processi naturali. Non appena la pressione demografica sale (e la terra disponibile pro capite scende), o la pressione economica sale (e anche la necessità di guadagnare molti dollari per ora di lavoro), tali sistemi diventano non più praticabili. Il secondo sistema (HEIA) comporta una radicale semplificazione della struttura e delle funzioni degli ecosistemi. La biodiversità naturale è rimpiazzata da sementi acquistate dalle multinazionali, i flussi di nutrienti sono lineari e non compatibili con i processi naturali (fertilizzanti di sintesi, acqua pompata dalle falde o portata con canali, residui di fertilizzanti e pesticidi si accumulano nell’ambiente), la biomassa prodotta viene quasi totalmente raccolta e rimossa. In questo modo, si riesce a raggiungere, nella produzione di alimenti, una densità per ettaro e per ora che è compatibile con i vincoli socio-economici, ma si perde totalmente la compatibilità con i processi naturali (a partire dalla perdita di fertilità del suolo fino ad arrivare alla perdita di biodiversità sia delle varietà coltivate sia delle specie selvatiche, a causa della crescente distruzione degli habitat). L’effetto dell’aumento della pressione economica L’espressione «pressione economica» si riferisce ai profondi cambiamenti nell’uso del tempo umano che il processo di sviluppo socio-economico comporta. Infatti, in una società sviluppata si deve bilanciare la quantità di tempo umano che viene richiesta per la produzione di beni e servizi con quella che viene investita nel loro con149 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 150 Mario Giampietro sumo. In altre parole, per poter produrre di più si deve saper consumare di più. Il termine pressione economica indica che con lo sviluppo economico è necessario investire una crescente quantità di attività umana nell’attività di consumo, oltre che una crescente frazione della ridotta disponibilità di ore lavorative nel settore dei servizi. L’effetto combinato di questi due trend costringe il settore che produce beni primari a un tremendo aumento di produttività per ora di lavoro. Tanto per fare un esempio, se consideriamo l’Italia come una scatola nera, possiamo dire che nel 1999 i 57,7 milioni di italiani hanno rappresentato un totale di 503,7 Giga ore (1 Giga = 109) di attività umana (nel corso di quell’anno). Quando si apre la scatola nera e si passa a un’analisi dei vari settori dell’economia, scopriamo che l’attività umana che una società ha a disposizione deve essere investita in tante finalità diverse. Per esempio, dal momento che più del 60% della popolazione italiana non è economicamente attiva (pensionati, anziani, bambini, studenti), la sua attività relativa non viene usata nel processo di produzione di beni e servizi, ma in consumo. La popolazione attiva italiana lavora soltanto per il 20% del tempo (1.780 ore l’anno). Questo significa che delle 503,7 Giga ore di attività umana disponibili per la società italiana, nel 1999, solo 36,3 Giga ore (l’8% del totale) sono state impiegate in attività lavorativa. In altri termini, nel 1999, per ogni ora spesa a produrre, quasi 14 ore sono state usate per consumare! Per quanto riguarda il vincolo di disponibilità di ore lavorative da investire in agricoltura per la produzione di cibo, le cose vanno ancora peggio. Oltre il 60% delle ore lavorate sono state investite nel settore dei servizi e del governo. L’industria ha assorbito un altro 35%, lasciando al settore agricolo meno del 5% del già magro 8% del totale. Questo significa che, nel 1999, solo lo 0,004 (neanche l’uno per mille!) dell’attività umana dell’Italia è stato utilizzato per produrre il cibo consumato dal paese nello stesso anno. Questo necessario processo di riduzione del numero dei contadini durante le trasformazioni di una società che si sviluppa può essere anche analizzato in termini economici. Tale analisi è stata proposta da Willard Cochrane (5), studiando come nel settore agricolo degli USA il mercato fosse utilizzato per eliminare i contadini. Il meccanismo individuato da Cochrane è stato chiamato agricultural tech150 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 151 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura nology treadmill (in italiano «macina dell’innovazione tecnologica»). Il meccanismo si articola in alcune fasi che si ripetono nel tempo: Fase 1. Molti piccoli contadini producono tutti lo stesso prodotto nella stessa maniera; dato che nessuno di loro può influenzare il prezzo, la strategia comune è di produrre il più possibile sulla base dell’attuale struttura dei prezzi e ricavi. Fase 2. Un’innovazione tecnologica rende possibile, a coloro che la adottano subito, fare notevoli guadagni. Fase 3. Dopo qualche tempo, una massa crescente di contadini adotta tale innovazione spinta dai risultati dei concorrenti. Questa fase viene definita di «diffusione dell’innovazione». Fase 4. Il conseguente aumento di produzione e di efficienza genera un crollo del prezzo di ciò che viene prodotto mediante tale innovazione. Fase 5. A questo punto coloro che ancora non hanno adottato l’innovazione sono costretti a farlo, per evitare di uscire dal mercato. Ciò genera un ulteriore abbassamento del prezzo. Questa fase viene definita di «spremitura del prezzo». Fase 6. Coloro che sono troppo anziani, socialmente emarginati, poveri o oltremodo indebitati per poter adottare l’innovazione, ormai divenuta una necessità, lasciano la loro terra a coloro che hanno guadagnato prima e di più. Questa fase viene definita di «aumento di scala» (che genera economie e maggiore efficienza nella produzione). Tuttavia, potrebbe essere anche chiamata di «eliminazione dei contadini». Il futuro: è possibile continuare con il paradigma dell’agricoltura industriale? Il punto sulla situazione della produzione di cibo nel mondo all’inizio del terzo millennio Dal’analisi comparata della produzione e del consumo di alimenti nel mondo, includendo in modo esplicito l’effetto della doppia conversione di prodotti vegetali in prodotti animali (2), si possono delineare le seguenti conclusioni: 151 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 152 Mario Giampietro Lo sviluppo economico implica un aumento del consumo pro capite di cibo In termini di energia consumata pro capite al giorno, nel 1997, i valori tra i paesi sviluppati (PS) e i paesi in via di sviluppo (PVS) sono molto simili: PS = 13,6 MJ/giorno; PVS = 11,1 MJ/giorno. Invece, quando si considerano le differenze in qualità (per es. l’energia da prodotti animali nella dieta), le differenze diventano molto più evidenti: PS = 3,6 MJ/giorno; PVS = 1,3 MJ/giorno. In altre parole, i primi consumano circa tre volte ciò che consumano i secondi. Questo significa che per garantire la dieta tipica dei PS c’è bisogno di produrre, calcolando i consumi primari a livello dell’intero settore agroalimentare, più del doppio (28 MJ/giorno) della quantità di prodotti vegetali attualmente consumati nei PVS (13 MJ/giorno). Questo significa anche che nei PVS ciò che viene consumato a livello individuale (11,1 MJ/giorno) è molto vicino a ciò che viene consumato a livello del sistema agroalimentare (13 MJ/giorno). Al contrario, nei PS la doppia conversione di vegetali in animali comporta la necessità di produrre il doppio dell’energia alimentare consumata nella dieta. Al riguardo, va notato che, non appena il reddito aumenta, anche i consumatori dei PVS si spostano verso modelli di consumo alimentare tipici dei PS. Le differenze nell’uso di input tra paesi ricchi e poveri sono enormi Considerando la quantità di energia fossile utilizzata per ora di lavoro come un indicatore del livello di capitalizzazione del settore (più energia controllata per ora di lavoro indica la disponibilità di più tecnologia e capitale), possiamo vedere che le differenze tra PS e PVS sono enormi. L’energia fossile per ora di lavoro è stata, nel 1997, di 152 MJ/ora nei PS, contro i 4 MJ/ora nei PVS. Una differenza di 38 volte che si spiega con: il non uso di macchinari nell’agricoltura dei PVS (differenza di pressione economica); la limitata disponibilità di terreno per addetto, che rende meno importante l’effetto degli input «irrigazione» e «fertilizzanti» (differenza di pressione demografica). Va infatti notato che anche la differenza in ettari di terra coltivata per addetto, rilevata in questo studio, era di 12 volte (12 ettari per addetto nei PS contro 1 ettaro per addetto nei PVS). Nonostante questo scarto in energia e capitale investito per addetto, la produzione di cibo per ettaro nei PS è stata più del doppio (24,2 GJ/ettaro) 152 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 153 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura rispetto a quella dei PS (10,1 GJ/ettaro). Questa differenza è dovuta a vari fattori: prima di tutto al mix di colture in produzione (concentrata prevalentemente sui cereali nei PVS); in secondo luogo all’incidenza di produzioni multiple per anno (specialmente dove si fa il riso); infine alle rese per ettaro delle varie colture. Le differenze di densità per ettaro dei flussi di valore aggiunto sono enormi Quando si compara la prestazione di sistemi agricoli nei PVS e nei PS, utilizzando come indice la densità dei flussi di valore aggiunto per ettaro, si ottengono differenze talmente consistenti che per le relative visualizzazioni grafiche è necessario ricorrere alla scala logaritmica. Infatti, se si costruisce un grafico che sui due assi mostra il flusso di valore aggiunto generato per ora di lavoro, e l’investimento fisso economico per addetto, è possibile osservare che le tre principali tipologie di sistemi di produzione agricola presenti oggi nel mondo sono separate da valori (di queste variabili) distanti ordini di grandezza. Nel settore agricolo dei PS si parla di un flusso di valore aggiunto di dieci-cento dollari per ora di lavoro e di investimenti fissi dell’ordine di diecimila-centomila dollari per addetto. Nel settore agricolo dei PVS, per ciò che concerne i sistemi che operano già pienamente nel mercato, i flussi monetari di valore aggiunto per ora di lavoro sono dell’ordine di uno-dieci dollari per ora di lavoro, mentre gli investimenti fissi per addetto sono dell’ordine dei centomille dollari. In ultimo, sempre nei PVS, quando si tratta di sistemi agricoli di sussistenza, si trovano situazioni nelle quali il valore aggiunto per ora di lavoro è dell’ordine dei centesimi di dollaro, mentre gli investimenti fissi (che non sono di tipo monetario) non superano i dieci-cento dollari. C’è un futuro per il paradigma dell’agricoltura industriale nei PVS? Varie considerazioni fanno dubitare che sia possibile che i PVS seguano il paradigma di sviluppo tecnologico del settore agricolo che è stato adottato dai PS. In particolare si deve considerare che: – a causa dell’alta pressione demografica, i PVS stanno già usando, per ettaro, più energia fossile dei paesi sviluppati per i fertilizzanti e l’irrigazione. Quando si considera la quantità di energia fos153 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 154 Mario Giampietro sile utilizzata per questi due input relativamente ai dati del 1997, si vede che i PVS usavano 7,4 GJ/ettaro contro i 4,9 GJ/ettaro utilizzati dai PS (2). Ciò significa che i PVS si trovano già nella parte della curva che comporta un «ritorno marginale decrescente» di tali input. Un’ulteriore intensificazione di investimento di capitale, sia fisso che circolante, per introdurre un massiccio uso di macchinari non pagherebbe in termini di ritorni economici; – in relazione alla pressione economica, se i PVS volessero seguire lo stesso modello di sviluppo adottato dai PS, eliminando i contadini e rimpiazzandoli con capitale (tecnologia e petrolio), non solo dovrebbe essere aumentato di 38 volte il livello attuale di investimento economico per addetto, ma occorrerebbero anche ristrutturazioni enormi delle infrastrutture rurali (organizzate ora in piccolissime unità di produzione) e un’ulteriore accelerazione del processo di urbanizzazione (aspetto che già è fuori controllo). In altre parole, oggi, avendo 50.000 dollari da investire in un’area rurale della Cina, e considerando le disponibilità di terreno pro capite e per azienda agricola e il profilo delle possibili attività economiche da intraprendere, sarebbe sciocco usarli per comprare un trattore! – guardando ai vincoli biofisici sui flussi economici, le cose potranno andare solo peggio, dal momento che la quasi totalità dei prossimi 2 miliardi di esseri umani che nasceranno si concentrerà dove i problemi di pressione demografica sono già molto seri. Con una serie di relazioni, che possono essere utilizzate per studiare i vari parametri che condizionano la densità dei flussi economici nella produzione agricola, abbiamo che denaro prodotto/ora = ricavo/kg x resa/ettaro x ettari per addetto x carico di lavoro per anno. Vediamo chiaramente che: i ricavi per unità di prodotto in agricoltura tendono a scendere; le rese per ettaro dei PVS – considerando le medie dei paesi densamente popolati come Cina, India e SudEst asiatico – sono già più alte delle medie dei PS; nei PS il numero di ettari per addetto è molto più basso e rimarrà tale a causa dell’aumento della popolazione; il carico di ore di lavoro per anno non può essere aumentato, dato che per mancanza di terra per addetto, già ora, esiste una grande eccedenza di lavoro nelle aree rurali. Un problema aggiuntivo è rappresentato dal fatto che nei PVS 154 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 155 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura sono in atto profondi cambiamenti demografici che generano enormi variazioni nella disponibilità di forza lavoro nel tempo, variazioni che non sono facili da gestire. Per esempio, la politica di controllo demografico in Cina ha portato a una singolare struttura delle classi di età della popolazione. Diversamente dall’Italia, la Cina dispone di un 60% di popolazione economicamente attiva. Se oltre a ciò si considera la differenza di ore lavorate per anno, il cui valore in Cina è estremamente alto, circa 2.820 ore per lavoratore/anno (6), si ottiene che per ogni 1.000 abitanti la Cina dispone di una quantità di lavoro pari a 1.650.000 ore/anno. Tanto per fare un paragone, utilizzando i dati in precedenza discussi per l’Italia, per ogni 1.000 abitanti l’Italia dispone di 712.000 ore/anno, meno della metà di quelle dei cinesi. Solo per questa ragione, anche se esistesse parità di salario tra i due paesi, il costo del lavoro cinese sarebbe la metà di quello italiano. Ciò spiega come sia possibile per l’economia cinese fronteggiare una grande pressione demografica (usando fertilizzanti e irrigazione) senza utilizzare macchinari, e produrre alimenti e articoli industriali a basso costo (labor intensive). A questo punto, però, ci si può chiedere: che cosa accadrà quando questa onda di adulti si trasformerà in un’onda di vecchi? Diverso problema è quello dei paesi che hanno visto una recente esplosione demografica, nei quali, quindi, esistono vere e proprie masse di giovani che attendono di entrare nella forza lavoro. Per questi paesi è impossibile creare abbastanza posti di lavoro a un ritmo tale da riuscire a mantenere livelli di occupazione che evitino le tensioni sociali. Basti pensare alle realtà di molti paesi islamici. Per concludere: – è molto improbabile che il paradigma dell’agricoltura industriale, che prevede alti livelli di investimento di capitale e largo uso di input tecnologici nel settore agricolo, possa funzionare per risolvere i problemi dei PVS (se non in nicchie speciali); – anche se si aumentasse del 100% l’attuale produttività del lavoro in agricoltura, questo non risolverebbe il problema di fornire alle aree rurali un adeguato sviluppo economico. È dunque necessario intraprendere vie completamente differenti; – non esiste alcun motivo per il quale i PVS dovrebbero investire una larga quota delle loro scarse risorse economiche per aumentare la quantità di capitale investito in agricoltura, che è il settore con il peggiore ritorno economico e il minor numero di posti di lavoro 155 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 156 Mario Giampietro creati per unità di capitale investito. Decisamente più sensato sarebbe puntare alla multifunzionalità rurale. C’è un futuro per l’agricoltura industriale nei PS? Le trasformazioni economiche di una società sviluppata comportano un radicale cambiamento nelle definizioni dei costi per l’alimentazione, in termini sia di energia sia di denaro, nel complesso del sistema agroalimentare (SAA). Per esempio, in una società sviluppata, ciò che si paga di un prodotto alimentare è soprattutto la sua convenienza (intesa come tempo ridotto di preparazione e facile accessibilità). Il SAA di una società sviluppata non fornisce più materie prime da utilizzare in cucina, ma sempre più prodotti semi-lavorati o pronti all’uso, fino ad arrivare ai pasti caldi da consumare fuori casa. Questo mutamento del significato del SAA, che svolge oggi molte delle funzioni che una volta erano svolte dalle famiglie e in particolare dalle casalinghe, si traduce nei seguenti fatti: – nonostante gli alti costi energetici e di denaro che la produzione agricola comporta nei PS, il loro valore rappresenta solo il 20% delle spese del SAA. In termini pratici, negli Stati Uniti vengono pagati ai produttori agricoli 680 dollari per persona per anno (7), una cifra ben maggiore di quella che si spende nei PSV. Questa cifra, in ogni caso, è solo il 20% di quanto va in spese alimentari per persona per anno (3.400 dollari). Lo stesso accade con le spese energetiche. Sempre negli USA, per produrre gli alimenti consumati nel settore agricolo si spendono 9,2 GJ per persona per anno (7), mentre quando si considerano le spese energetiche di tutto il sistema agroalimentare, che include anche le fasi del dopo-raccolto e la preparazione dei pasti, la spesa arriva a 42,4 GJ per persona per anno: quasi 5 volte di più; – nonostante gli alti costi energetici e di denaro per l’alimentazione (sempre considerando l’intero SAA), nei paesi ricchi essi rappresentano meno del 12% del totale delle spese energetiche ed economiche della società. Continuando a usare l’esempio degli USA (7), i 3.400 dollari per persona per anno spesi in alimenti rappresentano soltanto l’11% della spesa totale media di un americano, pari a 31.400 dollari. Mentre i 42,4 GJ per persona per anno di energia spesa nel SAA rappresentano il 12% dei 355 GJ di energia spesi per persona per anno negli USA. 156 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 157 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura – questo significa che la fase di produzione agricola oggi è del tutto irrilevante (intorno al 2% = 11% x 20%) se vista in rapporto alle spese energetiche ed economiche totali. Ciò dimostra che introdurre innovazioni tecnologiche nella fase di produzione per fare abbassare i costi economici, magari del 20% o del 30% (su un 2% del totale) non dovrebbe rappresentare la scelta prioritaria di una società. Per concludere, nei PS il settore agricolo è chiaramente vittima del proprio successo: allo stato attuale «produrre più cibo» non è più una priorità né per i consumatori né per la società. La disponibilità di cibo è ormai considerata come acquisita. Altri criteri di prestazione del SAA sono considerati più rilevanti e questo cambiamento di percezione cambia anche la definizione di quali siano le priorità da seguire nello sviluppo tecnologico dell’agricoltura. Ma tutto ciò sembra non sia stato percepito da chi lavora nell’innovazione tecnologica, contribuendo così alla sindrome del Concorde. Analisi 2: la sindrome del Concorde La cosiddetta «sindrome del Concorde» fa riferimento a un fenomeno definito lock-in, che si manifesta spesso nel campo dell’innovazione tecnologica. Essa si genera quando l’impostazione scientifica data a un determinato problema (nel caso del Concorde: costruire un aeroplano in grado di andare sempre più veloce) è obsoleta e non riflette più la percezione che la società possiede del problema da risolvere. Nel caso della produzione di velivoli, ciò che ha reso vincente la scelta di costruire grandi aeromobili che viaggiano sotto la velocità del suono, più che la velocità, sono altri criteri e prestazioni, come il confort durante il volo, il basso costo del biglietto e la frequenza delle corse. Com’è successo per i «costi», ignorati dai proponenti del progetto Concorde ma rilevanti per le scelte dei viaggiatori, oggi esistono molti «costi» relativi alle prestazioni del SAA che il paradigma dell’agricoltura industriale non contabilizza ma che la società giudica importanti. In particolare, si tratta di costi che incidono: – sulla salute, tra cui l’obesità, il diabete, i tumori, le malattie cardiovascolari, le patologie associate all’alto tasso di ormoni e pesticidi negli alimenti; 157 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 158 Mario Giampietro – sull’ambiente, tra cui l’erosione del suolo, la perdita di biodiversità, l’inquinamento e il prelievo eccessivo dalle falde acquifere, la cattiva gestione del territorio che determina dissesti idrici e geologici; – sulla società, tra cui la perdita del tessuto sociale nelle aree rurali, la perdita delle tradizioni e della dimensione simbolica/culturale del cibo, la perdita dei paesaggi rurali tradizionali; – sull’economia, tra cui la crescente domanda di risorse economiche per i sussidi che diventano sempre più importanti per far fronte al continuo aumento del prezzo del petrolio, il possibile impatto negativo sul turismo indotto dal peggioramento dell’immagine dei prodotti tradizionali e dalla scomparsa dei paesaggi tradizionali. Dunque, la sindrome del Concorde è stata provocata da una serie di assunzioni/semplificazioni obsolete e sbagliate, sulle quali si basa il paradigma dell’agricoltura industriale, tra cui: – il fatto che l’agricoltura sia un’attività puramente economica, che ha il solo scopo di produrre derrate e profitti; – il fatto che gli alimenti, visti unicamente come derrate alimentari, siano tutti uguali (secondo il principio substantive equivalence) a prescindere dalle qualità nutrizionali, dalle caratteristiche organolettiche, dai valori culturali che rappresentano e, soprattutto, dalle modalità della loro produzione (associate a diversi livelli di impatto ambientale); – il fatto che i costi ambientali, sociali ed economici associati allo sviluppo dell’agricoltura industriale siano trascurabili (secondo il principio per cui «produrre di più» è indiscutibile). Molte innovazioni tecnologiche in agricoltura si possono caratterizzare per la loro affinità con la sindrome del Concorde. Un esempio su tutti è dato dall’introduzione in zootecnia degli ormoni per produrre più latte (USA, primi anni Novanta). I nessi sono evidenti. Nel primo caso, gli scienziati si danno un obiettivo: costruire un aereo di linea sempre più veloce. Essi lavorano su un «come» molto efficace, ma su un «perché» sbagliato. Sembrava una buona idea, ma si è rivelata una bufala: troppa velocità a che cosa serve? Anche nel secondo caso, gli scienziati si danno un obiettivo: produrre un ormone che sia in grado di aumentare la produzione di latte. Essi lavorano su un «come» molto efficace, ma su un «perché» 158 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 159 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura sbagliato. Sembrava una buona idea ma si è rivelata una bufala: troppo latte a che cosa serve? In questo secondo caso, tra l’altro, per lo Stato di New York si è trattato di un classico esempio di «macina dell’innovazione tecnologica» che ha funzionato alla perfezione. L’introduzione dell’ormone per incrementare la produzione di latte ha di fatto eliminato la quasi totalità dei piccoli produttori dello Stato. La maledizione del sunk cost Quando si lavora su un’innovazione tecnologica, la cosa peggiore che può accadere è che ci si accorga di aver fatto una cattiva scelta iniziale e quindi di dover gestire un sunk cost (costo di affondamento) molto alto. Oggi, la strategia del «non possiamo smettere adesso, altrimenti tutto quello che abbiamo investito andrà perso» sembra applicarsi anche agli organismi geneticamente modificati. Naturalmente essa afferma una verità, ma pur sempre una verità irrilevante, per la semplice ragione che non si può e non si deve continuare a investire in una bufala. Ciò senza dire del rischio associato al fatto che, per evitare il sunk cost, si cerchi e si riesca a convincere la società che la cattiva scelta sia invece una scelta buona. Come uscire dall’impasse L’alternativa agli investimenti folli in bufale esiste: prima di partire alla ricerca di soluzioni tecnologiche «magiche», i famigerati silver bullets, si deve usare il buon senso comune, tentando di comprendere meglio i problemi che abbiamo davanti. Per esempio, nessuno vorrebbe essere il paziente di un dentista che chiede tariffe a cottimo per ogni kg di denti che estrae dalla bocca. Un dentista, infatti, deve garantire la salute del cavo orale, non estrarre chilogrammi di denti. Non è quindi chiaro perché accettiamo un sistema di regolazione e controllo che definisce e tratta i produttori agricoli come attori economici che devono estrarre biomassa dagli agroecosistemi un tanto al kg. L’agricoltura, infatti, svolge funzioni essenziali e di valore inestimabile per la società: garantendo il cibo e contribuendo alla salute degli individui; mantenendo il territorio e contribuendo alla salute 159 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 160 Mario Giampietro degli ecosistemi; preservando aspetti importanti della cultura e contribuendo alla salute della società. L’agricoltura deve essere ripagata per questi servizi, e non solo perché produce «derrate alimentari» un tanto al kg, o peggio ancora, per fare pseudopetrolio. Lo stesso si può dire per gli investimenti nella ricerca di innovazioni tecnologiche. In questo momento: – nei paesi ricchi non occorre produrre di più, occorre produrre meglio. Non serve eliminare altri contadini e semplificare ulteriormente gli ecosistemi, anzi è necessario riconnettere la città alla campagna e rafforzare la capacità degli ecosistemi naturali di fornire servizi ambientali. Per questo serve un nuovo contratto sociale per l’agricoltura, per il quale è indispensabile negoziare per «produrre meglio»; – nei paesi poveri non occorre eliminare i contadini dalle aree rurali in tempi rapidi, aumentando a dismisura il loro stress (già piuttosto alto) e asservendoli alla «macina dell’innovazione tecnologica». Al contrario, la folle rincorsa all’urbanizzazione selvaggia e all’emigrazione disperata verso i paesi sviluppati va contrastata con lo sviluppo rurale, e non con l’eliminazione per agricultural technology treadmill. Esiste inoltre una carta jolly. Nell’ultimo giro di consultazioni dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO), si è raggiunto un accordo di principio sulla necessità di eliminare i sussidi alla produzione di derrate alimentari (commodity support programs), come per esempio: assicurazioni sulle coltivazioni, sussidi alle esportazioni, pagamenti per prestiti non restituiti e altri aiuti di tipo economico/finanziario. Si parla di una quantità di tagli dell’ordine di 20 miliardi di dollari per gli USA, e di 80 miliardi di dollari per la UE. Queste risorse potrebbero e dovrebbero essere ancora spese in agricoltura per facilitare nei paesi sviluppati il cambio di paradigma del sistema agroalimentare, invece che per mantenere in vita il malato paradigma industriale. Posto che la scienza e la tecnologia devono giocare un ruolo determinante nella ricerca di soluzioni sagge e desiderabili ai problemi attuali, per uscire dalla sindrome del Concorde e intraprendere un cammino di sviluppo agricolo alternativo non servono soluzioni basate unicamente su nuove tecnologie che ottimizzano sol160 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 161 Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura tanto i coefficienti tecnici e la generazione di profitto. Fare le scelte giuste richiede saggezza, buona fede, visione del futuro, valori condivisi, capacità di ascoltare i diversi punti di vista e volontà di negoziare. Questo non ha niente a che vedere con la massimizzazione della produttività o con il «più alto ritorno» sull’investimento. BIBLIOGRAFIA (1) Giampietro M., «Socioeconomic pressure, demographic pressure, environmental loading and technological changes in agriculture», Agriculture, Ecosystems and Environment, 65, 1997, pp. 201-229. (2) Giampietro M., Energy use in agriculture, in Encyclopedia of Life Sciences, Nature Publishing Group, 2002, accessibile su internet: http:// www.els.net/. (3) Giampietro M., Multi-Scale Integrated Analysis of Agro-ecosystems, CRC Press, Boca Raton, 2003, 472 pp. (4) Giampietro M., Bukkens S.G.F., Pimentel D., «General trends of technological changes in agriculture», Critical Reviews in Plant Sciences, 18 (3), 1999, pp. 261-282. (5) Cochrane W., Farm Prices: Myth and Reality. Minneapolis, MN: University of Minnesota Press, 1958. (6) Ramos-Martin J., Giampietro M., Mayumi K., «On China’s exosomatic energy metabolism: an application of multi-scale integrated analysis of societal metabolism (MSIASM)», Ecological Economics, in press, accessibile su: doi:10.1016/j.ecolecon.2006.10.020. (7) Heller M., Keoleian G., Life-Cycle Based Sustainability Indicators for Assessment of the U.S. Food System, Report 2000-4 December 2000 Ann Arbor, MI: Center for Sustainable Systems, University of Michigan, 2000, accessibile su internet: http://www.public.iastate. edu/~brummer/papers/FoodSystemSustainability.pdf. 161 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 162 LA RIVOLUZIONE ZOOTECNICA E L’ALIMENTAZIONE NELLA TERRA GLOBALIZZATA di Michael Fox* Il settore agroindustriale statunitense asserisce di poter nutrire le popolazioni affamate del pianeta e produrre cibo sicuro e nutriente a costi inferiori e quantità superiori rispetto ai paesi che non hanno ancora adottato metodi intensivi nel settore zootecnico e avviato la coltivazione industriale di monocolture, come il mais e la soia. Gli oligopoli dell’industria alimentare occidentale, ormai sovracapitalizzati e sempre più legati all’industria petrolchimica, hanno contribuito a diffondere questo e molti altri miti relativi all’efficienza produttiva. In questa sede, tutti questi miti verranno esaminati alla luce dei benefici e dei costi per i consumatori, per i mercati internazionali, per gli agricoltori e per le comunità rurali. Verranno inoltre trattati anche i temi della salvaguardia ambientale e della salute degli animali. I principi bioetici a favore di un’agricoltura più umana, sostenibile ed equa saranno individuati per proporre soluzioni ai gravi errori e danni causati dall’agricoltura industriale. Verranno anche menzionati esempi di iniziative benefiche volte a contrastare quell’inevitabile nemesi che io definisco «agricidio», caratterizzata da ramificazioni globali oggi ulteriormente alimentate dallo sviluppo dell’ingegneria genetica in ambito agricolo e dall’uso sempre più diffuso di mangimi concentrati. * Medico Veterinario, libero consulente, ex Vice Presidente del Farm Animal Welfare and Bioethics della Humane Society, USA 162 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 163 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione Nei sistemi agricoli misti, il bestiame domestico svolge ruoli diversi e al tempo stesso di grande valore sul piano sia ecologico sia economico. Nei sistemi produttivi intensivi, invece, la libertà comportamentale degli animali, la loro diversità genetica e la loro capacità di adattarsi all’ambiente in cui vivono vengono completamente soppresse. I sistemi intensivi fanno affidamento su costosi mangimi «energetici», vaccini, antibiotici e una serie di altre sostanze. Inoltre, piuttosto che di lavoro manuale, fanno un uso intensivo di risorse energetiche da fonti fossili, elemento che insieme ai problemi gestionali non offre alcuna garanzia di affidabilità nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. La domanda e gli incentivi del mercato che incoraggiano l’adozione di questi sistemi intensivi di produzione animale vanno compensati con una valida analisi del rapporto costi/ benefici, per evitare che i principi guida siano solo i fattori esterni e i costi nascosti. Occorre insomma un bilancio che consideri anche alcuni principi etici, come la giustizia sociale, l’equità, la sostenibilità, la salute e il benessere degli animali, la biodiversità, senza dimenticare un aspetto fondamentale di qualsiasi ragionamento in questa materia: le esigenze alimentari delle popolazioni povere (a cui la terra viene spesso sottratta per allevare bestiame per i ricchi). Gli aiuti e i programmi di sviluppo per i paesi poveri dovranno promuovere standard di allevamento ottimali e più civili per gli animali (anche per quanto riguarda il trasporto e la macellazione, l’igiene durante le operazioni di macellazione, lo smaltimento degli scarti e il controllo dell’inquinamento dall’inizio alla fine del processo). Tutto ciò comporta istruzione, legislazione, formazione complementare e vigilanza appropriate, nonché buone norme di igiene e profilassi accompagnate dai relativi standard di sicurezza e qualità alimentare. Tutte queste cose determinano un alto impiego di capitale e rischiano di impoverire il segmento rurale della popolazione (che già dispone di quantitativi sempre minori di terra), favorendo solo la parte più ricca, soprattutto nelle città del Terzo mondo circondate dalle bidonville dei poveri senza terra, luoghi privilegiati di incubazione delle epidemie. L’agricoltura industriale controlla miliardi di ettari coltivati a ortaggi, frutta, vigna e altre colture che vengono ripetutamente trattate con pesticidi derivati dal petrolio. Gran parte dei terreni non è 163 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 164 Michael Fox usata per sfamare le persone, ma per coltivare mais e soia allo scopo di alimentare il bestiame sui cui derivati si basa la dieta occidentale. Questo sistema viene propagandato dai sostenitori dell’agroindustria convenzionale come un miracolo delle biotecnologie scientifiche, che grazie alla loro efficienza e produttività sono in grado di fornire alla popolazione alimenti a un prezzo accessibile, e rappresenterebbero inoltre l’unico modo per risolvere il problema della fame nel mondo. Ma oggi i continui rincari dei combustibili fossili, i problemi relativi allo smaltimento dei rifiuti animali e alla conservazione di acqua e terreno, nonché le preoccupazioni relative alla sicurezza e alla qualità del cibo e dell’ambiente e alla futura scarsità di elementi fondamentali per le coltivazioni industriali pongono l’agricoltura statunitense, come pure quella di altri paesi industrializzati, davanti a un bivio. L’agricoltura industriale è insostenibile e, attraverso il monopolio del mercato, sta distruggendo le agricolture tradizionali che sono molto più sostenibili. Le attuali pratiche agricole non hanno la possibilità di protrarsi sul lungo periodo perché non sono economicamente ed ecologicamente efficienti, e costituiscono una delle principali minacce per la salute pubblica, gli habitat naturali, la biodiversità e la sopravvivenza delle comunità rurali. Si può anche aggiungere che persino la pace mondiale è a rischio, poiché conflitti di natura militare, tribale ed economica stanno esplodendo per il controllo di mercati, terre, acqua e forniture alimentari, senza parlare della questione del petrolio in Medio Oriente. Nell’ultimo caso, la motivazione è da ricercare in parte nella dipendenza del settore agroindustriale dall’oro nero. Il problema della sovrappopolazione, causato in certa misura dalla mancanza di infrastrutture e risorse educative, oltre che dal degrado ambientale che affligge milioni di persone povere e affamate nei paesi del Terzo mondo (molti dei quali esportano prodotti agricoli, tra cui anche alimenti di origine animale, mentre la maggior parte della loro popolazione soffre la fame), crea per le multinazionali del settore agroindustriale un mercato secondario ma redditizio verso cui esportare gli aiuti alimentari. Questa dipendenza alimentare del Terzo mondo si è trasformata in un’arma politica mascherata da aiuto umanitario e torna utile agli interessi costituiti, ai quali conviene mantenere questi paesi in uno stato di dipendenza piuttosto che aiutarli a raggiungere l’autosufficienza. 164 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 165 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione I consumatori responsabili, e i governi cui essi fanno capo, hanno l’obbligo di esercitare pressioni sulle agenzie di sviluppo e di aiuto, su tutte le organizzazioni filantropiche che mirano a risolvere i problemi della povertà e della denutrizione, e sulle multinazionali occidentali dell’industria alimentare (importatrici di prodotti di origine animale e non), al fine di garantire quanto segue: l’armonizzazione internazionale degli standard di sicurezza e delle ispezioni riguardanti sia le condizioni lavorative sia la qualità alimentare; l’armonizzazione degli standard veterinari e di salvaguardia ambientale; l’armonizzazione dei metodi di trasporto del bestiame, di igiene e di macellazione. Tutte questioni serie, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, come lo sono moltissime altre relative al benessere degli animali e ai concomitanti aspetti umanitari, di salvaguardia degli habitat naturali e di protezione della flora e della fauna. I mangimi ottenuti da colture ingegnerizzate con le quali vengono alimentati questi animali, l’uso di ormoni della crescita per incrementare la produzione di latte e l’impiego smodato (specialmente nei paesi in via di sviluppo) di antibiotici e altri farmaci, potrebbero spingere il consumatore a boicottare questi prodotti – laddove essi vengono importati – per motivi di salute pubblica e preoccupazioni per il benessere animale. Nei paesi industrializzati, la domanda di alimenti biologici certificati e di prodotti di origine animale derivanti da processi in cui gli animali vengono trattati più umanamente esiste già ed è in crescita. Il fenomeno sta producendo una vera e propria rivoluzione nell’agricoltura, spingendo in direzione di un sistema agroalimentare ecologico, localizzato e socialmente equo. Le cooperative colombiane del caffè e i produttori di tè verde e nero di India e Sri Lanka, come pure analoghe associazioni che operano in altri paesi in via di sviluppo, vengono sostenuti dai consumatori occidentali che decidono di acquistare prodotti agricoli biologici ed ecologici, realizzati in condizioni di lavoro socialmente eque. Tali prodotti, in ultima analisi, aiutano le comunità indigene a tutelare la flora e la fauna locali e a conservare e ripristinare gli habitat naturali. Già David Brower, fondatore del Sierra Club, aveva postulato tutto ciò come un «sistema di diritti politici e civili a livello planetario», di cui tutti potessero beneficiare. Vale la pena ricordare che 165 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 166 Michael Fox questa organizzazione americana, ben finanziata e assai stimata, si è recentemente spaccata in occasione di una votazione del consiglio di amministrazione che doveva deliberare sulla necessità di unire la campagna a favore dell’equità sociale e della conservazione di flora e fauna a un forte appello per la pianificazione familiare e il controllo demografico. Purtroppo, i membri dell’organizzazione, come pure il Vaticano, hanno deciso di non pronunciarsi in merito a tali questioni. Bisogna tuttavia ascrivere a loro, alla Conferenza dei vescovi cattolici statunitensi e ad altre organizzazioni religiose, il merito di aver espresso il proprio dissenso nei confronti della pratica, sostenuta dal Governo, di diffondere in tutti gli Stati Uniti impianti zootecnici che praticano l’allevamento intensivo, nei quali gli animali vengono nutriti con mangimi concentrati. Grazie agli sforzi di alcuni attivisti, tra cui la mia collega Lara Hopwood, il Sierra Club, insieme ad altre organizzazioni nazionali ed internazionali come Greenpeace, ha organizzato un fronte di opposizione per contrastare il vuoto legislativo lasciato dal Governo americano in questa materia, e la sua approvazione dell’agricoltura biotecnologica e degli animali transgenici, clonati e brevettati. Questi sviluppi, sostenuti in varie occasioni dall’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti e dalla Royal Society del Regno Unito, sono stati accettati dai mezzi di comunicazione di massa, i quali erroneamente credono che tutti i pareri scientifici siano imparziali e oggettivi e che le politiche basate sulla scienza non richiedano una valutazione bioetica. Analizzerò i principi bioetici di base e globali, essenziali per la creazione di un sistema economico e agricolo sostenibile. Le lobby dell’industria biotecnologica, in armonia perfetta con le agenzie governative americane e dei settori farmaceutico, petrolchimico e zootecnico (produttori caseari, di carne bovina, suina e avicola, di uova e di generi ittici), hanno sostanzialmente convinto politici, legislatori e organizzazioni filantropiche a ignorare le questioni di salvaguardia ambientale relative ad aria, acqua, qualità e sicurezza dei cibi che consumiamo, di cui mi sono ampiamente occupato (1,2). 166 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 167 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione I costi globali della Rivoluzione zootecnica La cosiddetta «Rivoluzione zootecnica», promossa dalla Banca mondiale, così com’è stata concepita nel 2001, si è rivelata un’esperienza di déjà vu che ha riportato alla mente gli insuccessi della precedente e più propagandata «Rivoluzione verde», che si prefiggeva di fornire ai paesi in via di sviluppo varietà ibride di mais ad alto rendimento (brevettate) insieme ad altri stock di sementi per la produzione di alimenti e fibre (si veda oltre). In realtà, sarebbe stato legittimo anche dubitare della pianificazione delle procedure di alimentazione degli animali in quegli stessi paesi, visti i problemi già documentati negli Stati Uniti, e del ruolo strumentale svolto dalla Banca mondiale e dall’Unione europea in uno dei progetti zootecnici che, ecologicamente parlando, sono tra i più devastanti che si siano mai visti. Come documenta il film End of Eden (Turner Broadcasting Systems, 1986) dello scomparso Ricky Lomba, in Africa la Banca mondiale ha fatto costruire migliaia di chilometri di recinzioni a scopo sanitario per separare la fauna selvatica dal bestiame domestico, apparentemente con l’obiettivo di tenere sotto controllo la diffusione dell’afta epizootica che aveva colpito il bestiame. Altre recinzioni sono state costruite nonostante le proteste locali e internazionali, dopo la morte per fame e sete di centinaia di migliaia di gnu e altri animali selvatici a cui le barriere di separazione avevano impedito le normali migrazioni stagionali per la ricerca di acqua e pascoli. I beneficiari di questo progetto sono stati i ricchi allevatori le cui esportazioni di carne bovina verso l’Europa, ampiamente sostenute da sussidi, andavano semplicemente ad accrescere la montagna di carne bovina surgelata e non consumata dai paesi europei. Attualmente, in diversi paesi dell’Africa orientale, la tubercolosi si diffonde dal bestiame alla fauna selvatica, uccidendo leoni, kudu, babbuini e altre specie selvatiche, e nel frattempo si accelera il processo di deterioramento dei pascoli da parte del bestiame allevato che fa aumentare le aree desertiche e la povertà. Nel periodo 1962-1987, la Banca mondiale ha finanziato quello che nel 1983 era l’equivalente di 7,7 miliardi di dollari per favorire la produzione di bestiame nell’Africa subsahariana. Oggi, nonostante gli interventi del Ministro del Tesoro americano James Baker, che 167 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 168 Michael Fox nell’agosto del 1986 chiese l’interruzione dei finanziamenti della Banca mondiale per la costruzione di queste massicce barriere in acciaio (interventi sollecitati anche dall’ondata di proteste pubbliche per l’impatto sulla povertà, sui territori e sulla fauna selvatica), restano migliaia di chilometri di recinzioni. La tragica eredità di un precedente progetto di sviluppo zootecnico in Africa orientale è stata una strage di massa della fauna selvatica a seguito dell’introduzione in Etiopia di bestiame affetto da peste bovina proveniente dall’India, nel 1887 (durante l’occupazione italiana). La tragica decimazione della fauna si sovrappose alla difficile situazione delle popolazioni indigene di gran parte dell’Africa subsahariana, già afflitte dalla fame e dalla povertà, dal momento che circa l’80-90% del bestiame allevato era deceduto a causa della malattia infettiva. Ora vengono ampiamente usati vaccini e pesticidi per tenere sotto controllo le malattie del bestiame (alle quali la fauna selvatica può sviluppare una resistenza naturale), come la tripanosomiasi (detta anche «malattia del sonno»). I biologi della conservazione hanno rivolto la loro attenzione verso le mosche tse-tse, portatrici della malattia, come ultima frontiera per proteggere la natura dall’avanzata degli allevamenti verso le regioni infestate, poiché un vaccino efficace contro la malattia non farebbe che contribuire al verificarsi di ulteriori devastazioni ecologiche. Differenze e conflitti culturali Benché i turisti occidentali (grandi consumatori di carne), che compiono eco-safari e vanno a caccia di trofei, possano essere utili per finanziare talune forme di recupero e protezione dell’habitat e della fauna selvatica, dando così un aiuto alle popolazioni locali impoverite dall’ultima ondata di distruzione e sfruttamento coloniale, le entrate provenienti da queste fonti potrebbero presto cessare. Ciò dipende dall’aumento del costo del petrolio e dal timore del terrorismo nei viaggi internazionali. Si sta andando verso quella che taluni chiamano la «conflagrazione finale» (gli indiani Hopi la chiamano «la purificazione» e i cristiani «l’apocalisse») del terrorismo, dovuta alle profonde divisioni dell’umanità in fazioni. Da una parte si prendono di mira le culture di intere nazioni e continenti che con168 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 169 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione sumano carne suina e bovina rendendosi «impure», perché questi animali sono considerati sacri o tabù; dall’altra (in Occidente) si fanno appelli accorati al Giappone, all’Islanda e alla Norvegia perché si smetta con la caccia alle balene, ma al tempo stesso non si fa nulla per ridurre il consumo di alimenti importati che comportano un pesante costo ambientale e sociale in altre zone del mondo. I britannici continuano a guardare in modo sprezzante alle culture esotiche che ammettono il consumo di carne di cane per l’alimentazione, e criticano persino i loro vicini francesi che consumano carne equina, ma poi non disdegnano le lumache francesi, oppure le rane che possono arrivare anche dall’India e altre zone umide tropicali dove stanno rapidamente scomparendo. In questa conflagrazione rientra anche l’uccisione della fauna selvatica per scopi alimentari: in Africa è sotto gli occhi di tutti il commercio di carne di scimpanzé e di altre specie a rischio di estinzione. Consumare carne di animali selvatici è considerato un segno di virilità e, così, accanto alla domanda di ossa di tigre e di bile d’orso usati dalla medicina tradizionale cinese, i mercati legati a questi trends di consumo comportano un aumento della sofferenza e dello sterminio di animali. Un altro aspetto della conflagrazione che ha condotto ad atti di disobbedienza civile (che possono comportare l’accusa di terrorismo sulla base del nuovo Homeland Security Act statunitense), riguarda coloro che, preoccupati per l’ambiente e per i diritti degli animali, protestano contro le colture geneticamente modificate e fanno incursioni e video-registrazioni negli allevamenti industriali e nei macelli per testimoniare le orrende sofferenze a cui vengono sottoposti gli animali. Ed è triste e paradossale osservare come la popolazione mondiale sottonutrita sia stata numericamente superata da quella in forte sovrappeso. Secondo Phillip James, presidente dell’International Obesity Task Force, le spese mondiali per la cura dei sempre più numerosi problemi sanitari dovuti all’obesità saranno enormi. Costi sanitari e ambientali della zootecnia industriale Quali sono i confini etici e i vincoli economici reali nel mercato globale e altamente competitivo in cui si sta inserendo il mondo in via di sviluppo? Quanti allevamenti intensivi possono essere soste169 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 170 Michael Fox nuti dall’«economia della natura»? Quale tributo dovrà pagare la diversità culturale e biologica all’industrializzazione e al consumismo? Quante comunità sostenibili – realtà indigene preziose e uniche che raccolgono cacciatori, allevatori di bestiame e agricoltori – andranno perdute per sempre? Queste e molte altre questioni collegate non compaiono nell’agenda del business agroalimentare, per cui i profitti degli allevamenti si basano su costosi input e misure correttive (dall’allevamento confinato ai mangimi medicati, fino ai sistemi di controllo dell’inquinamento simili a quelli occidentali). Nel loro insieme, tali interessi, supportati da agenzie come la Banca mondiale e dalle rappresentanze dei paesi occidentali, oltre che dalle ambasciate dei paesi in via di sviluppo, costituiscono una barriera formidabile alla razionalità e al cambiamento. Promuovere nei paesi in via di sviluppo lo stesso modello di industria zootecnica che ha causato tanti e costosi problemi ambientali e sanitari nei paesi industriali significa creare un problema di proporzioni planetarie che si rivelerà deleterio per gli ecosistemi. Per esempio, l’erbicida atrazina, noto distruttore endocrino (negli Stati Uniti è usato ogni anno su oltre il 90% delle colture di mais), è stato trovato nell’acqua piovana, nel latte materno e nel liquido amniotico. La maggioranza delle colture di mais e soia destinate all’alimentazione del bestiame sono state modificate geneticamente per resistere al Roundup, l’erbicida della Monsanto, un altro sospetto distruttore endocrino oltre che fattore di rischio nel linfoma nonHodgkin (buona parte del mais, tra l’altro, produce autonomamente il proprio pesticida: la tossina Bt). Nel 2004, Charles Benbrook ha pubblicato un rapporto che dimostra come gli agricoltori statunitensi stiano applicando più pesticidi sulle tre principali colture geneticamente modificate (mais, soia e cotone) che sulle varietà convenzionali: esattamente il contrario di quanto promesso da Monsanto e dalle altre multinazionali biotecnologiche. Enormi quantità di petrolio vengono impiegate non solo per il trasporto dei mangimi, ma anche per la produzione di fertilizzanti, erbicidi, insetticidi e fungicidi di origine petrolchimica che una volta applicati alle colture vi penetrano facilmente. Tutto ciò ha determinato un duro colpo alla biologia del suolo, l’avvelenamento delle sue microflora e microfauna, il deterioramento delle colture e 170 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 171 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione dei pascoli, l’impoverimento in elementi nutritivi di mangimi e foraggi (lo stesso vale per gli alimenti destinati all’uomo, frutto di un’agricoltura convenzionale che fa uso di prodotti petrolchimici). I governi e l’industria hanno ignorato gli enormi problemi cui è andata incontro la fauna selvatica in seguito all’adozione e alla diffusione di un’agricoltura basata su sementi geneticamente modificate e su numerosi prodotti petrolchimici: tassi di morbilità e di mortalità estremamente elevati in molte specie, incremento dell’incidenza della sterilità e dei difetti congeniti. Ma le specie selvatiche sono ottimi indicatori: il loro benessere «indica» il nostro, dal momento che siamo parte della stessa catena alimentare. Un’economia globale illuminata, che rispetta l’economia della natura, è l’antitesi della visione «economicistica» concentrata sul potere e sul monopolio. Ed è agli antipodi dell’economia industriale, che progetta campi di concentramento per il bestiame e sovverte i valori morali dell’altruismo e del progresso. Allevamento e benessere animale Fino all’avvento dell’agricoltura industriale convenzionale, il bestiame ha rivestito una varietà di ruoli nell’economia delle comunità rurali e non veniva allevato per la sola carne. Anche oggi il bestiame continua a essere apprezzato per le stesse ragioni in zone come il sub-continente indiano, l’America centrale e meridionale, parte dell’Africa, ecc. Esso fornisce energia (muscolare), lavoro, fertilizzanti (letame, concime organico), compagnia, materiali per indumenti (prodotti con la lana), pellame e cuoio. Gli animali allevati rappresentano un capitale in grado di raddoppiare il proprio valore nel giro di un anno e, in più, costituiscono una fonte sostenibile di grasso e proteine provenienti da latte, carne, sangue e vari organi interni. Questo modo di concepire gli animali di allevamento è sostenibile, perché gli animali sono alimentati con sottoprodotti derivati dall’agricoltura, eccedenze e foraggi. Il bestiame costituisce anche uno «strumento» sano ed efficace per tenere sotto controllo le piante infestanti e gli insetti nocivi, oltre che per migliorare la qualità del terreno e del foraggio, soprattutto mediante l’adozione del pascolo misto e a rotazione. Vengono così sfruttati appieno gli attri171 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 172 Michael Fox buti biologici ed ecologici di vari animali, come oche, maiali, pecore, capre, bovini, equini e cammelli. Nel 1995, durante una relazione tenuta in occasione del ventesimo anniversario dell’Oregon Tilth, il filosofo-agricoltore Wendell Berry disse: «Se gli animali sono parte integrante del sistema ecologico in cui vivete, allora avete la responsabilità di mangiare carne… anche se questa vi uccide». Retorica a parte, le parole di Berry richiedono qualche riflessione. Attualmente, il vegetarianismo è giustificato da molti come scelta di salute, oppure come decisione etica contro i metodi dell’allevamento industriale, intensivi e disumani, che rompono i legami ecologici tra animali, territorio e colture. Anche noi esseri umani dovremmo essere parte dell’ecologia e del sistema alimentare bioregionale che ci mantiene, per esempio facendo il compostaggio delle nostre scorie biologiche per produrre concimi naturali, invece di sprecarle (insieme a molta acqua) attraverso gli scarichi civili. Ma questo non riduce l’importanza degli altri ruoli del bestiame riportati sopra, tutti vitali per l’ecologia. Anziché sfruttare le qualità biologiche ed ecologiche di numerose specie animali e vegetali, come nei sistemi dell’agricoltura sostenibile tradizionale, l’agricoltura industriale si specializza in poche varietà di piante e animali. Questi sono considerati sulla base della loro potenziale produttività (in termini di biomassa), cioè unicamente come «merci». Questa mercificazione-specializzazione dell’agricoltura convenzionale ha condotto alla concentrazione, ai monopoli delle merci e all’integrazione verticale mentre gli agricoltori sono stati trasformati in braccianti a contratto attraverso una sorta di feudalesimo corporativo. L’egemonia delle corporations dell’agribusiness si concretizza attraverso la loro produzione globale di alimenti e fibre, e attraverso la vendita di costosi dispositivi per la pratica agricola e per il processamento degli alimenti, di derivati del petrolio e di nuovi ritrovati della biotecnologia: dai farmaci geneticamente modificati agli additivi alimentari, fino ai supermaiali e al mais miracoloso, tutti rigorosamente brevettati. Questa non è agricoltura, è agroindustrialismo, che è tanto lontano dalla cultura agricola quanto lo è dal realismo biologico delle coltivazioni e dell’allevamento ecologicamente sostenibili. Coltivazione e allevamento sono termini che appartengono alla tradizione, e si riferiscono a pratiche che prevedono una 172 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 173 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione relazione più reverenziale con la Terra e un atteggiamento di rispetto verso la natura, la vita e il cibo. In assenza di limiti etici e morali, per proteggere i consumatori e l’ambiente diventa necessario stabilire leggi e costose procedure che garantiscano l’adesione e la conformità alle norme. Nell’industria agroalimentare, il settore zootecnico ha continuato a sviare gli sforzi pubblici tesi a stabilire criteri etici per l’allevamento, il trasporto e la macellazione degli animali, oltre che per il trattamento di animali feriti o malati. La predilezione di questo settore per l’«autoregolamentazione», apparentemente per alleviare il carico di impegni governativi e per risparmiare il denaro pubblico, si rivela essere solo un espediente cui non fanno seguito i fatti: non si può mettere una volpe a guardia del pollaio. Mentre in questo vuoto etico si ragiona sui criteri scientifici più idonei per garantire la «sicurezza» degli animali, un’opinione pubblica sempre più preoccupata chiede che l’allevamento industriale si assuma la responsabilità del trattamento umano degli animali, dell’impatto ambientale e delle conseguenze sulla salute pubblica provocate dalla produzione di carne, latte e uova. Negli USA l’avvento dell’ingegneria genetica e delle sue applicazioni nell’allevamento del bestiame, nella produzione delle colture e nel trattamento degli alimenti ha sollevato un numero ancora maggiore di problemi e preoccupazioni, specialmente da quando il Governo ha praticamente sottoposto a deregulation il settore al fine di garantire un margine più competitivo alle multinazionali che operano sul mercato mondiale. Con la nascita della World Trade Organization (WTO) e del Codex alimentarius, c’è il rischio che le pratiche e i valori prevalenti dell’agricoltura industriale vengano codificati in norme universali del tutto prive di una base etica e ambientale. Com’è comprensibile, le corporations dell’agroindustria statunitense che si trovano ad affrontare la concorrenza internazionale resisteranno alla legislazione per la protezione dell’ambiente e degli animali di allevamento finché i regolamenti della WTO sanciranno che, per gli Stati Uniti, è illegale proteggere i propri agricoltori dalle merci importate dai paesi che hanno legislazioni inadeguate (o inesistenti) di protezione degli animali e dell’ambiente. Tuttavia, in assenza di un’armonizzazione internazionale delle leggi e dei regolamenti, gli accordi internazionali e gli standard di 173 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 174 Michael Fox qualità e sicurezza alimentari sono eticamente inaccettabili. Senza l’inserimento in etichetta del paese di origine e dei metodi di produzione degli alimenti, i consumatori non avranno alcuna concreta possibilità di scelta sul mercato, né avranno la possibilità di dare il loro sostegno ai produttori locali o di optare per metodi di coltivazione e allevamento particolari, mentre, per ragioni etiche e per altre ragioni, dovrebbe essere loro garantito il diritto costituzionale di scegliere consapevolmente. Nel luglio 2006, il Farm animal welfare council del Governo britannico ha pubblicato un rapporto fondamentale a favore del miglioramento dell’etichettatura per tutti gli alimenti di origine animale. L’etichettatura non dovrebbe limitarsi a indicare il metodo di produzione (o il sistema di allevamento), ma dovrebbe contenere considerazioni sull’intero ciclo vitale dell’animale, oltre che sul grado di attenzione al loro benessere nelle fattorie, durante il trasporto e nei luoghi di macellazione. Il rapporto dichiara: «Il benessere degli animali è una preoccupazione legittima della scienza, e deve essere preso in considerazione dai regolamenti della WTO». L’idea dell’agroindustria statunitense secondo cui i consumatori si rifiuterebbero di pagare di più per un alimento che, a parità di contenuto nutrizionale, sia stato prodotto senza torturare gli animali e danneggiare l’ambiente, è priva di fondamento. Quando il pubblico sarà pienamente cosciente dei danni causati dall’agricoltura convenzionale, compresi quelli alla salute umana, alla terra, alle comunità rurali e alla loro cultura, e vedrà quanto è inutile infliggere sofferenze agli animali per obiettivi unicamente economici, sarà sicuramente propenso a pagare di più, come già si verifica tra i tantissimi consumatori informati e responsabili del mondo. In realtà, tra l’altro, è molto probabile il contrario, ossia che gli alimenti provenienti da sistemi di agricoltura biologica e da allevamenti più umani possano costare di meno. Un’analisi completa dei costi e dei benefici dell’agricoltura convenzionale dimostrerebbe che i costi superano di gran lunga i benefici, dato che ogni anno negli Stati Uniti, accanto ai 50-60 miliardi di dollari spesi in sussidi per l’allevamento, andrebbero inseriti anche altri 60 miliardi di dollari di spese in salute pubblica a causa di alimenti poveri di nutrienti, prodotti agrochimici dannosi e consumo eccessivo di grassi e proteine animali. Ad alcune voci di spesa, inoltre, non è possibile attri174 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 175 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione buire un valore economico: tra queste la biodiversità, gli habitat naturali, le comunità rurali con il loro artigianato e le loro culture. Né è possibile quantificare la sofferenza fisica ed emotiva degli animali di allevamento a causa di stress e malattie, indicata in un bilancio annuale come una perdita di profitto di circa 20-25 miliardi di dollari. Certamente, l’agricoltura alternativa richiede una maggiore attenzione alla ricerca e allo sviluppo, e la sua adozione da parte degli agricoltori non dovrebbe essere scoraggiata o penalizzata dalle politiche dei governi o dai programmi di sostegno dei prezzi per favorire l’adozione e la perpetuazione di pratiche agricole non sostenibili. Le accademie e le università potrebbero offrire un ulteriore sostegno, istituendo corsi di bioetica che sollecitino gli studenti a esaminare in maniera obiettiva i valori, i costi e i benefici dell’agricoltura convenzionale. L’odierno complesso costituito da università, industria e politica potrebbe così divenire un ricordo del passato. L’uso di prodotti agrochimici per incrementare la produzione alimentare e il profitto, a loro volta presentati come una necessità per andare incontro alle richieste di una popolazione umana in continua espansione, ha reso l’agricoltura dipendente dalla chimica. Molti dei prodotti chimici usati hanno avuto effetti negativi non solo sugli organismi viventi e sugli elementi del terreno, ma anche sui processi trofici di trasformazione e di flusso di energia a livello molecolare. Riducendo la vitalità dei terreni, facciamo la stessa cosa con noi stessi, con il cibo che mangiamo, con l’acqua che beviamo e con l’aria che respiriamo. Nella gestione dei suoli, anche in un’ottica di produttività animale e vegetale, i minerali presenti in tracce suscitano particolare preoccupazione. L’agricoltura industriale interferisce pesantemente con la loro presenza, ma gli squilibri e le carenze di vitamine e minerali in tracce sono alla base di molte malattie delle piante, del bestiame e dell’uomo, poiché questi elementi rivestono un ruolo fondamentale per il metabolismo cellulare: si pensi alla maggior parte dei processi enzimatici e alle funzioni dell’organismo, soprattutto per quanto concerne i sistemi immunitario, circolatorio, nervoso e riproduttivo. Diversi studi hanno ormai dimostrato che gli alimenti prodotti con criteri biologici contengono più nutrienti in tracce, a causa del miglioramento della qualità del suolo, e che il bestiame è, in genere, più sano quando è alimentato con mangimi e foraggio biologici. 175 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 176 Michael Fox È necessario fare in modo che l’agroindustria ridirezioni i propri profitti, alleandosi con gli agricoltori nel risanamento dell’agricoltura, piuttosto che commercializzando prodotti e processi che fanno aumentare la produttività ma abbassano i profitti degli agricoltori, lasciando la grande quota dei benefici al complesso delle industrie del settore petrolchimico, alimentare e zootecnico. Tra le loro priorità, le grandi imprese private dovrebbero avere la scienza, l’economia e l’etica delle loro azioni. Esse dovrebbero guardare obiettivamente ai danni che il sistema vigente provoca all’agricoltura: ne trarrebbero certamente un guadagno in termini di terreni coltivabili e colture, animali e alimenti più sani. Questo dovrebbe essere anche l’obiettivo della «scienza dell’alimentazione» e della medicina veterinaria. Anche la medicina ha bisogno di stabilire un legame più stretto, attraverso l’alimentazione, con le innovazioni tese a risanare la salute dell’agricoltura e le abitudini alimentari del consumatore. È assurdo che l’industria medico-farmaceutica continui a trarre profitto dalla vendita di una miriade di prodotti e trattamenti chimici di cui non vi sarebbe necessità se solo fossero mantenuti gli equilibri dei suoli e il nostro cibo fosse più sicuro e nutriente. La débacle dell’agricidio I recenti sviluppi dell’agroindustria e dell’allevamento intensivo, insieme con la manipolazione genetica delle colture e degli animali di allevamento, con le temibili conseguenze viste negli Stati Uniti e in altre nazioni, mettono in luce il conflitto tra l’agricoltura industriale americana, la coscienza etica e la realtà biologica. Di seguito vengono evidenziati alcuni punti a supporto di questa tesi: – il Ministero dell’Agricoltura statunitense è in grave difficoltà nella scelta tra la fedeltà all’allevamento industriale e l’interesse pubblico: consiglia di seguire una dieta meno ricca di grassi e più generosa di frutta, verdura e cereali, dunque ricca di fibre, ma non dice di ridurre il consumo di prodotti di origine animale, fatto che, come affermano oggi molti studi, ridurrebbe l’incidenza di cancro, aterosclerosi, obesità e numerose altre malattie collegate alla dieta; – i prodotti lattiero-caseari contribuiscono all’insorgenza di 176 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 177 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione danni ai reni, di artrite e, soprattutto, di osteoporosi in età avanzata associata all’aumento dell’escrezione del calcio; – le proteine del latte vaccino sollecitano risposte anticorpali e sono associate all’insorgenza precoce del diabete di tipo 1 nei bambini, a un anticipo del menarca nelle donne e all’infarto del miocardio negli adulti; – la leucemia bovina è ampiamente diffusa e può avere un ruolo nello sviluppo della leucemia umana; – il consumo di prodotti caseari è stato associato a una maggiore incidenza delle allergie e si presume possa essere coinvolto in alcuni problemi neuropsicologici come la sindrome da deficit dell’attenzione, l’autismo e la schizofrenia, poiché l’ormone beta-casomorfina-7 è presente in concentrazioni elevate nel sangue e nelle urine dei pazienti che presentano tali disturbi; – l’acido sialico (o N-glicolilneuraminico) rilevato nei tumori umani non è presente in nessun’altra parte dell’organismo umano, ma si trova nella carne rossa e nei prodotti caseari. Tale composto stimola una reazione immunitaria, e in generale gli N-nitrocomposti possono danneggiare il DNA umano, specialmente nelle cellule del colon, stimolando lo sviluppo di tumori; – il morbo di Alzheimer può essere collegato a un’insufficienza di grassi polinsaturi nella dieta, in particolare gli omega 3, e a un’assunzione elevata di grassi saturi, transinsaturi (idrogenati) e omega 6 che possono danneggiare gli occhi e il cervello ed essere alla base di ritardo cognitivo nei bambini. Parte del problema in realtà riguarda il tipo di alimentazione animale impiegato negli allevamenti. I residui di pesticidi negli alimenti – che, come è stato dimostrato, promuovono la proliferazione di batteri responsabili di intossicazioni alimentari – sono stati collegati a varie forme di cancro e a numerosi altri problemi di salute, in particolare al morbo di Parkinson e all’aumento dell’aggressività nei bambini. Molti pesticidi, come i PCB e le diossine, si concentrano nel tessuto adiposo degli animali (oltre che nella carne, nei prodotti caseari e nei salmoni allevati), sono imitatori e destabilizzatori del sistema endocrino e producono un’azione degenerativa sulla tiroide, sul sistema immunitario, sul sistema riproduttivo, sullo sviluppo cerebrale, sul comportamento e sulla memoria. 177 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 178 Michael Fox L’aspartame, il dolcificante artificiale prodotto da Monsanto, è un composto neurotossico con effetti eccitanti sospettato di cancerogenicità. Esso è contenuto in molte bevande e alimenti trattati, ampiamente usati da persone afflitte da vari problemi di salute legati all’alimentazione occidentale, dal diabete all’obesità, e può provocare un aumento dell’appetito in coloro che hanno invece necessità di perdere peso. Molte bevande e alimenti trattati contengono anche un additivo «esaltatore del sapore naturale», il glutammato monosodico, che può avere un ruolo nell’insorgenza dell’autismo infantile, nella sindrome da iperattività e nei deficit dell’attenzione: tutte condizioni associate anche all’esposizione ai composti del mercurio nei vaccini. Siamo di fronte a una situazione insostenibile creata dall’industria chimica e dal suo primo alleato, ossia il sistema agroalimentare: il paradosso del Governo statunitense è che da una parte approva l’uso di questi pericolosi prodotti chimici e, dall’altra, cerca di regolarne l’uso per proteggere i cittadini. L’utilizzo diffuso di antibiotici e steroidi anabolizzanti per aumentare la biomassa del bestiame è un altro esempio dell’alleanza del Governo USA con l’industria farmaceutica, e al tempo stesso è un sintomo della sua incapacità di tutelare la salute pubblica, oggi in serio pericolo anche per la presenza di molti ceppi batterici resistenti agli antibiotici, a quanto pare non totalmente riferibile all’eccesso di prescrizioni dei medici. L’esempio più assurdo di questa collusione, e dell’insuccesso governativo nel perseguire l’interesse pubblico, è il trattamento deliberato dell’acqua potabile con il fluoruro – sottoprodotto dei fertilizzanti –, ufficialmente per prevenire la carie dentale; in realtà si tratta di una nota sostanza cancerogena e di un altro distruttore endocrino, dannoso soprattutto per la tiroide, che può contribuire all’osteoporosi e alle malattie renali. L’approvazione da parte del Governo statunitense della commercializzazione di prodotti caseari derivati da bovini trattati con ormone della crescita geneticamente modificato (rBgh) è di nuovo il risultato di un’alleanza tra il Governo e l’industria (Monsanto). L’ormone in questione, vietato in Europa e Canada, aumenta i livelli di un ormone insulino-simile nel latte, elevate quantità del quale sono state associate al cancro della mammella, della prostata, del polmone, del pancreas e della cute (melanoma). La molecola inoltre può 178 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 179 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione far aumentare l’incidenza di gravidanze gemellari nelle donne. Nelle vacche trattate provoca debilitazione, mastiti, problemi metabolici e riproduttivi. Andrebbe anche rilevato che nel latte di mucca si concentrano non solo pesticidi, diossine e altre sostanze contaminanti derivate dal foraggio e da altri alimenti degli animali, ma anche micotossine, come l’aflatossina, prodotta da un fungo che parassita comunemente il mais, regolarmente irrorato con fungicidi per tenere sotto controllo il problema. La contaminazione da aflatossina, che è ricorrente nell’industria americana del mais, è spesso la causa di malattie epatiche mortali ed è cancerogena. Dieta occidentale e salute Si dibatte sul fatto che senza i combustibili fossili, i pesticidi e i fertilizzanti dell’industria petrolchimica e i prodotti derivati dalle colture geneticamente modificate non sarebbe possibile ottenere grandi quantità di raccolti (cotone, mais, soia) sufficienti ad alimentare (e a vestire) la popolazione del mondo, che chiede sempre più carne bovina e formaggio, anziché grano integrale e segale biologica, e sempre più maiale e pollo anziché tofu e seitan (glutine di grano). L’economia occidentale, e in particolare la classe media che è cresciuta seguendo questa dieta anziché quella più salutare a base di cereali, frutta e ortaggi, è schiacciata dalla crescente spesa per farmaci e sanità, conseguenza soprattutto di una dieta a base di prodotti animali. Mentre gli occidentali informati adottano alcune delle diete più salutari impiegate dalle popolazioni indigene, i loro governi e le agenzie «filantropiche» donatrici, come la Banca mondiale, stanno lavorando per impiantare nei paesi in via di sviluppo la loro agricoltura industriale e l’opulenta dieta occidentale, con l’obiettivo di soddisfare l’aumento della domanda da parte dei ricchi e dell’industria del turismo, che chiedono carne bovina, pollame, formaggio, gelato e, in paesi non musulmani, carne suina al posto di tofu e fagioli. Per ironia della sorte, però, ora la dieta occidentale è associata non solo a problemi epidemici come obesità, ictus, infarto miocardico, diabete e malattie croniche degenerative come l’artrite, diverse forme di cancro e difetti congeniti, ma anche a disturbi del com179 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 180 Michael Fox portamento. I più evidenti sono l’incidenza epidemica dell’ansia e dei disordini ossessivo-compulsivi, l’uso di droghe, i disturbi a carattere depressivo e varie psicosi, violenza e nevrosi. Questi disturbi sono associati a problemi neuropsicologici e a una chimica alterata del complesso neuroendocrino, con implicazioni a livello dei sistemi della serotonina e della noradrenalina. Per quanto lo stress sociale ed emotivo fornisca certamente il suo contributo a questi problematici e diffusi disturbi di salute mentale, è stato dimostrato che molti disordini neurocomportamentali, psicologici e psicosomatici possono ottenere sollievo da un cambiamento radicale dell’alimentazione, abbandonando la dieta occidentale per abbracciare la saggezza dell’alimentazione del passato e delle tradizioni indigene (3). C’è bisogno di altre prove? O della prova assoluta (dimostrazione peraltro scientificamente impossibile, vista la natura multifattoriale della maggior parte delle malattie e dei disordini neurocomportamentali)? Come ho potuto verificare nella mia lunga esperienza di ricercatore in biomedicina e di educatore, un numero sempre maggiore di persone trova che il miglioramento o la guarigione da numerosi problemi di salute siano facilitati da un cambiamento nella dieta basato sull’esclusione degli alimenti trattati e preparati, il che vale sia per gli esseri umani sia per gli animali domestici come il cane e il gatto. La farina di grano molto raffinata, denaturata e sbiancata è stata venduta per decenni negli Stati Uniti come «Wonderbread», mentre gli ingredienti più nutrienti erano o inseriti nei mangimi o usati da altri settori dell’industria alimentare, per essere spesso venduti a prezzi elevati come supplementi dietetici essenziali: per esempio la crusca, il glutine e le vitamine. Wonderbread equivale al riso bianco raffinato dell’Asia e del Medio Oriente, ed è alla base dell’alimentazione di miliardi di persone, ma è essenzialmente denaturato e povero in termini nutrizionali. Questa breve panoramica dei rischi e dei costi della salute pubblica causati dalla sola agricoltura industriale e dalla dieta occidentale a base di prodotti di origine animale, che l’industria alimentare promuove e da cui trae profitto, chiede ai consumatori informati di «votare», ossia di fare delle scelte con il loro denaro, le loro forchette, le loro bacchette, i loro cucchiai e le loro dita. E alle agenzie che intendono offrire aiuto ai poveri e agli affamati dei paesi in via di sviluppo, come la Banca mondiale, chiede che siano meno colluse con 180 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 181 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione gli interessi dell’industria petrolchimica, farmaceutica e agrobiotecnologica, che sono parte del problema e non la sua soluzione. Rischi sanitari e ambientali dell’allevamento industriale Le grandi concentrazioni di animali in allevamenti sovraffollati e sottoposti a stress creano le condizioni ideali per la proliferazione di malattie, molte delle quali sono zoonotiche (trasmissibili agli esseri umani), con effetti sociali ed economici devastanti, come nel caso dell’influenza aviaria e suina e della contaminazione degli alimenti con Escherichia coli, Salmonella, Listeria e Campylobacter. Oltre 11.000 tonnellate di hamburger bovini sono state ritirate dal mercato nell’agosto del 1997. Si è trattato della più grande iniziativa del Governo americano per il ritiro di un alimento nel paese, a causa della contaminazione con il microrganismo E. coli 0157:H7. Secondo il General Accounting Office, negli USA muoiono ogni anno circa 9.000 persone a causa di malattie trasmesse dagli alimenti. Per quanto riguarda il pollame, il Campylobacter viene segnalato come una fonte di intossicazione alimentare più grave della Salmonella (che è riscontrata in un uccello ogni 3-5 macellati) a cui il Governo statunitense ha risposto approvando l’esposizione a radiazioni della carne e di altri prodotti di origine animale. I funzionari sanitari federali hanno approvato nell’agosto del 2006 una miscela di 6 virus batteriofagi, in grado di uccidere i batteri, come additivo alimentare. Un prodotto contenente questi organismi sarebbe applicato alle carni e ai prodotti derivati dal pollame per uccidere batteri potenzialmente pericolosi. Resta da vedere l’effetto di questi cocktail di batteriofagi sulla flora dell’apparato digerente dell’uomo e sull’ambiente. I sistemi produttivi intensivi e i feedlot sono una fonte significativa di gas serra; inoltre l’inquinamento dell’aria e il cattivo odore fanno diminuire il valore delle proprietà della comunità circostante. I liquami di smaltimento dei residui organici degli allevamenti sono associati a vari rischi sanitari per l’uomo. Nell’agosto del 1997, l’Environmental Protection Agency (EPA), l’ente per la protezione dell’ambiente, ha imposto alla Smithfield Foods, in Virginia, una multa di 12,6 milioni di dollari per aver con181 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 182 Michael Fox taminato suoli e corpi idrici. Secondo il Toxic Release Inventory dell’EPA, le strutture per l’alimentazione animale concentrata continuano a violare il Clean Air Act e il Clean Water Act (le leggi per la tutela dell’aria e dell’acqua), generando seri rischi di salute pubblica, spesso a grande distanza dal luogo in cui si trovano queste strutture. La città di Waco, in Texas, dovrà spendere oltre 80 milioni di dollari per rimuovere le alghe che inquinano l’acqua potabile a causa del fosforo proveniente dalle fattorie industriali del settore lattierocaseario. Nel giugno del 2005, lo stato dell’Oklahoma ha fatto causa ai produttori di pollame per avere inquinato il bacino idrografico dell’Illinois con composti di azoto, fosforo, arsenico, zinco e rame. Dal 1995 a oggi, in 10 Stati si sono registrati oltre 1.000 casi di pratiche inquinanti nei feedlot per l’allevamento dei bovini, oltre a 200 incidenti collegati allo smaltimento dei liquami che hanno provocato la morte di 13 milioni di pesci. Nel 2003, gli stabilimenti Buckeye Egg di Croton, in Ohio, dove vivono stipati 15 milioni di galline ovaiole in gabbie talmente piccole da non consentire loro nemmeno di muovere le ali, hanno rilasciato più di 720 tonnellate di ammoniaca, corrispondenti a circa 44 volte la soglia di guardia fissata dall’EPA. La Premium Standard Farms di Mercer, in Missouri, che continua ad allevare scrofe confinate in recinzioni minuscole in cui non possono né muoversi né girarsi, per produrre 2,5 milioni di maiali l’anno, nel 2004 ha rilasciato 1.360 tonnellate di ammoniaca, cinque volte quella emessa da tutte le altre industrie dello Stato nello stesso anno; nel 2005, le 53.000 mucche da latte della Threemile Canyon Farms di Boardman, in Oregon, hanno prodotto circa 2.600 tonnellate di ammoniaca, più del triplo rispetto a tutte le altre industrie dello Stato nello stesso anno. Nessuno di questi animali vede mai un prato verde o un pascolo all’aria aperta. Negli Stati Uniti, il settore zootecnico produce il 73% di tutte le emissioni di ammoniaca, e tale sostanza tossica, unita alle particelle sottili prodotte dagli allevamenti intensivi, è uno dei principali fattori coinvolti nell’insorgenza dell’asma, della bronchite, della riduzione della funzione polmonare, e nelle morti premature. A causa di questi e di altri motivi di natura sia sanitaria sia economica, l’American Public Health Association e la Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti, insieme ad altre organizzazioni come la Michigan State Medical Society, ora chiedono una morato182 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 183 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione ria affinché non vengano più costruite strutture di questo tipo. Nello Stato in cui vivo, il Minnesota, i laghi, le zone umide e i pozzi privati sono gravemente inquinati dai pesticidi provenienti dai milioni di acri coltivati a mais e soia per alimentare il bestiame allevato, le cui evacuazioni cariche di azoto, fosforo, arsenico, rame e altri metalli pesanti, batteri dannosi e antibiotici, inquinano le risorse idriche. I fiumi contaminati scorrono verso sud, dove si aggiunge altro inquinamento agricolo e urbano: il risultato è che un’area ampia e in continua espansione, che un tempo era una zona di pesca produttiva nel Golfo del Texas, si sta trasformando in un territorio privo di vita. Mercato globale e monopolio Attraverso l’Agricultural Export Enhancement Act, la legge per l’intensificazione delle esportazioni agricole, il Governo statunitense spende milioni di dollari provenienti dai contribuenti per dare supporto alle multinazionali dell’agroindustria nel raggiungere posizioni competitive sui mercati mondiali. Sfruttando l’autorità del GATT e il potere impositivo della WTO, gli Stati Uniti denunciano l’illegittimità delle barriere commerciali volute dai paesi che non accettano di importare carne e latte provenienti da animali trattati con l’ormone della crescita, soia geneticamente modificata (GM) e altri prodotti transgenici. Esplodono guerre commerciali in un periodo in cui la cooperazione globale è un’esigenza etica irrinunciabile. I paesi che rifiutano di accettare carne bovina proveniente da animali trattati con ormoni e semi GM dalle multinazionali statunitensi subiscono la minaccia di sanzioni sulla base degli accordi commerciali della WTO, oltre alle restrizioni commerciali e ai dazi doganali sulle loro esportazioni. Il dumping, ossia la vendita sottocosto delle eccedenze di prodotti, come il latte in polvere e le zampe di pollo in paesi poveri come la Giamaica, e altri prodotti agricoli in Messico e altri paesi dell’America centrale, colpisce gli agricoltori locali e li spinge alla bancarotta, contribuendo alla miseria locale che è tra le cause principali dell’immigrazione illegale da questi paesi agli Stati Uniti. Secondo il rapporto The World food situation: recent developments, emerging issues and long-term prospects, pubblicato nel 1997 183 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 184 Michael Fox dal Consultative Group on International Agricultural Research (Washington), si prevede un aumento delle importazioni di carne e cereali in paesi un tempo autosufficienti (specialmente Cina e India) a beneficio di paesi esportatori come USA, Argentina e Australia, che però faranno aumentare i costi per sfamare le famiglie povere dei paesi in via di sviluppo. Come il suo predecessore, che promuoveva l’ormone rBgh in Europa prima ancora che ne fosse approvato l’uso nei bovini da latte degli Stati Uniti, il Ministro dell’Agricoltura Dan Glickman ha usato il suo ufficio per propagandare le colture geneticamente modificate come «la nostra più grande speranza per sfamare in modo sostenibile la popolazione mondiale in crescita». Il diritto dei consumatori statunitensi a fare scelte informate è negato dal rifiuto del Governo di etichettare gli alimenti transgenici e gli ingredienti derivati. Il Governo ha tentato di prevalere sul National Organic Standards Board effettuando pressioni per ottenere la creazione di impianti per lo smaltimento dei liquami, sistemi di allevamento intensivi, irraggiamento degli alimenti, sementi GM e altri prodotti tra quelli da sottoporre a valutazione in base agli standard federali dell’agricoltura biologica, ma è stato costretto a fare marcia indietro dopo aver ricevuto oltre 280.000 lettere di protesta provenienti da tutto il mondo. Nonostante l’alleanza Governo-agroindustria, i consumatori statunitensi, le aziende agricole a gestione familiare, le organizzazioni per l’agricoltura sostenibile e per la difesa degli interessi pubblici stanno lavorando insieme per diventare un gruppo di pressione nazionale e internazionale. L’agricoltura socialmente equa ed ecocompatibile sta diventando una realtà grazie all’impegno delle comunità locali e alla nascita di cooperative di mercato. Ma alcuni giganti dell’allevamento industriale come la Murphy Farms, della Carolina del Nord, stanno attraversando il confine col Messico, dove la manodopera costa poco e le norme ambientali sono inesistenti, per insediare decine di allevamenti intensivi di suini. L’agricoltura statunitense è a un bivio. Una strada conduce all’esportazione dei sistemi di allevamento intensivo e delle problematiche collegate (come gli antibiotici e i mangimi ricchi di proteine e di energia), il che comporta la continuità del paradigma industriale non sostenibile; l’altra strada, invece, porta al consumo domestico e im184 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 185 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione plica metodi di produzione locali più umani, sostenibili e biologici. L’agroindustria potrebbe contribuire significativamente ad alleviare problemi come la fame, la povertà e la malnutrizione, e potrebbe assolvere un ruolo importante nella protezione della biodiversità e delle altre risorse. Ma per questo dovrebbe dedicarsi agli investimenti per la ricerca e per lo sviluppo di soluzioni sostenibili per l’agricoltura e la zootecnia. In principio non sarà facile seguire la strada giusta: ci saranno difficoltà sociali ed economiche. Ma quando osserviamo la strada intrapresa dall’agricoltura convenzionale e pensiamo a dove ci porterà, realizziamo immediatamente che è arrivato il momento di cambiare direzione. I costi nascosti dell’agricidio Ogni economista e tutte le scuole tradizionali di scienze agrarie perseguono lo stesso obiettivo: aumentare la produzione e l’efficienza. Fino allo scorso decennio, infatti, questo era il mantra dell’agroindustria statunitense e dell’establishment accademico dell’agricoltura americana. Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, era stato provato «scientificamente» che la produttività agricola poteva essere aumentata enormemente con un maggiore intervento del settore chimico, unito a quello delle macchine agricole. La semplice formula usata per misurare l’efficienza (quante persone può sfamare un produttore moderno?) ha comportato un enorme risparmio di lavoro agricolo. Le grandi fattorie sono diventate sempre più grandi e le piccole sono state inghiottite dalle prime. Gli agricoltori cosiddetti «inefficienti» hanno chiuso i battenti, alcuni sono rimasti in attesa, ma molti, sedotti dalla possibilità di prestiti bancari e più inclini ad attingere ai sussidi governativi, sono diventati sempre più grandi. Non erano più agricoltori, ma produttori di merci, sfruttatori del suolo, grandi sostenitori della «monocultura mentale» e dell’agricoltura industriale, con due obiettivi fissi: la produttività e l’efficienza. La sovrapproduzione statunitense diventò un problema costoso. Quando serviva manodopera, si ricorreva all’impiego part-time di lavoratori immigrati e delle loro famiglie, spesso originari del Messico e di altri paesi dell’America Latina. Mentre da una parte gli Stati 185 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 186 Michael Fox federali chiudevano gli occhi sulla piaga di questi lavoratori, poverissimi e trattati come schiavi dal sistema agroindustriale, dall’altra il flusso verso gli USA di immigrati (molto spesso clandestini) in cerca di qualunque lavoro creava un serio problema sociale, economico e di sicurezza nazionale. Negli anni ’80 si è verificato un vero e proprio esodo di massa dalle campagne, mentre in gran parte degli Stati Uniti si andava sgretolando lo stretto legame tra le fattorie a gestione familiare e le comunità rurali. L’Amministrazione Reagan ha liquidato questo genocidio culturale come il prezzo del progresso, attribuendo la responsabilità «alle inefficienze e alla cattiva gestione». Secondo il punto di vista più accreditato, ispirato a una sorta di neodarwinismo pseudoscientifico, questi drammatici cambiamenti riflettevano un processo evolutivo orientato a un’efficienza agricola sempre maggiore, in accordo con la competitività richiesta dalle leggi del libero mercato e, di conseguenza, con la sopravvivenza del più forte. Di conseguenza, i piccoli produttori di carne bovina, pollame e uova, insieme con i piccoli allevatori di suini, si sono visti costretti a cessare la loro attività o a «integrarsi verticalmente» diventando produttori in appalto, ossia gestori di strutture per l’alimentazione forzata di animali (CAFO, Concentrated Animal Feeding Operations) al servizio di un pugno di grandi società dell’agroindustria: un nuovo feudalesimo rurale. Tuttavia alcuni economisti del settore agricolo, sociologi e altri studiosi non sono stati così compiacenti. La perdita della diversità culturale e della saggezza dell’agricoltura regionale, tramandate di generazione in generazione, insieme al declino economico e spirituale delle comunità rurali, non erano state inserite nella contabilità industriale. Allo stesso modo, fino a poco tempo fa non venivano inseriti in questa contabilità nemmeno l’erosione dei terreni migliori, la perdita di qualità delle riserve acquifere, la contaminazione chimica della catena alimentare e i rischi per i consumatori, la distruzione della biodiversità selvatica, e una lunga serie di altre «perdite», come il benessere, la salute e la qualità della vita dei miliardi di animali incarcerati nelle fattorie industriali e nei feedlot. Per i grandi produttori era meno costoso lasciare che una certa percentuale di animali morisse a causa dello stress e delle malattie legate alla «produzione» (che l’assunzione di antibiotici non poteva prevenire), 186 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 187 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione piuttosto che investire in tecniche di allevamento più umane, oltre che in trasporti e macelli più sicuri (la macellazione è il momento in cui gli animali diffondono i batteri più pericolosi, mettendo a rischio la salute dei consumatori). Oggi i costi per la salute pubblica e le conseguenze ambientali delle fattorie industriali sono più ampiamente conosciuti, così come le implicazioni sanitarie del grande consumo di grassi e proteine animali. Quando ero vicepresidente del Farm Animal Welfare and Bioethics della Humane Society degli Stati Uniti (Washington), faceva parte del mio staff Don Deichman, proveniente da una famiglia di agricoltori dell’Iowa. Il suo obiettivo principale nella vita era il raggiungimento della «parità» fra tutti gli agricoltori. Parità significa garantire che tutti i produttori di colture agricole possano beneficiare di prezzi di mercato equi, ossia in grado di coprire sia i costi di produzione sia il giusto compenso orario per il lavoro effettuato: aspetti che gli oligopoli delle multinazionali hanno eroso sempre più, ottenendo dal Governo sussidi e sostegni ai prezzi. Ironicamente, la Humane Society, per assicurarsi i finanziamenti di una potente società dell’agroindustria che produceva alimenti per animali domestici, «invitò» il sottoscritto ad assecondare le lamentele della suddetta società che non aveva gradito la mia adesione ai contenuti di un libro che descriveva il lato oscuro di quel settore commerciale (4). Devo precisare che la mia iniziativa era stata perfettamente in linea con quelle che erano la missione e la politica della Humane Society riguardo al benessere degli animali, ma era in contrasto con l’obiettivo dell’allora presidente: raccogliere fondi senza preoccuparsi della fonte. I miei compensi vennero congelati per il resto della mia permanenza presso l’organizzazione, fino al ritiro obbligatorio. L’aspetto paradossale è che l’organizzazione, in verità piuttosto ricca, aveva in corso un programma (che ho coordinato in prima persona) mirato a educare l’opinione pubblica a consumare alimenti sostenibili, e a non acquistare prodotti derivati da animali allevati in modo disumano, la gran parte dei quali entrava nella catena dei mangimi per cani e gatti. La mia deontologia professionale, come appresi, venne considerata una «priorità secondaria» rispetto al denaro, ma mi consolò la buona compagnia in cui improvvisamente mi trovai. Venni infatti a sapere di numerosi ricercatori dell’EPA e 187 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 188 Michael Fox della Food and Drug Administration (FDA) che avevano avuto esperienze analoghe alla mia, dopo aver espresso valutazioni scientifiche e preoccupazioni etiche relative all’uso dei pesticidi in agricoltura, all’impiego di farmaci negli allevamenti e al riscontro delle diossine negli alimenti: anche in questi casi, le opinioni espresse non si accordavano con le politiche delle istituzioni di appartenenza. I sostenitori dell’allevamento intensivo asseriscono che un sistema zootecnico più umano farebbe aumentare i costi, con grave danno soprattutto per i poveri. I critici, nel frattempo, vengono additati perché colpevoli di mostrare più attenzione verso gli animali che verso gli esseri umani e, naturalmente, per «essere contro il progresso»: tutte convinzioni da sfatare. I costi dell’allevamento industriale sono ben documentati da una ricchissima letteratura scientifica. Questi costi effettivi, tra l’altro, hanno certamente aggravato la povertà e la malnutrizione anziché alleviarla, e nonostante ciò normalmente non vengono inseriti nella contabilità dell’agroindustria, la cui produttività non è né efficiente, né socialmente e moralmente accettabile. I pericoli della sovrapproduzione In paesi come il Brasile, l’allevamento del bestiame è diventato uno dei rimedi contro l’inflazione, ma i cicli di sovrapproduzione deprimono i prezzi sul mercato mondiale e contribuiscono alla deforestazione e ad altre forme di degrado ambientale. Il sostegno dei prezzi e i sussidi per i produttori, specialmente nei paesi sviluppati, incoraggiano la sovrapproduzione e causano ulteriori distorsioni e iniquità relativamente ai prezzi del mercato globale. Una conseguenza grave è il dumping nei paesi stranieri (carne, prodotti lattierocaseari e altri prodotti dell’agricoltura): le merci vengono vendute agli intermediari e ai grossisti a prezzi di gran lunga inferiori a quelli che potrebbero praticare gli agricoltori locali per prodotti simili. Nei paesi più industrializzati, i dazi doganali, istituiti per proteggere gli agricoltori locali dall’ingresso di prodotti sottocosto e da situazioni che li escluderebbero dal mercato, non fanno che complicare il problema della sovrapproduzione agricola e dei sussidi per l’esportazione. Visto che l’aumento dei dazi doganali e le altre forme di «prote188 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 189 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione zionismo» costituiscono una «barriera tecnica» illegale in base alla convenzione del GATT, gli agricoltori locali che producono alimenti e foraggi per il mercato interno dovrebbero godere di un mercato protetto e della garanzia di prezzi equi a condizione che i loro metodi di agricoltura siano umani, sostenibili dal punto di vista socioeconomico ed ecocompatibili. La produttività su scala industriale e i sistemi di allevamento intensivi per polli e bovini sono spesso propagandati come il segno distintivo e il miracolo del progresso. I paesi in via di sviluppo sono incoraggiati ad adottare questi metodi per far aumentare la produzione agricola e l’«efficienza», eppure l’industrializzazione zootecnica è ormai visibilmente controproducente, in parte a causa del suo stesso successo. I paesi industrializzati stanno trasferendo al Terzo mondo le eccedenze della sovrapproduzione, mentre, al contempo, gli attori dell’agroindustria e le banche per lo sviluppo stanno cercando di vendere a questi paesi gli strumenti per la realizzazione dell’allevamento intensivo. Nel lungo periodo, tutto questo non ha senso, se non per chi produce e vende questi «strumenti». Il dumping è l’ immissione sul mercato di prodotti il cui prezzo di vendita è al di sotto del costo di produzione. Ma questa definizione di scambio iniquo e illegale necessita di essere ampliata per includere tutte le attività di marketing che mettono in pericolo l’autosufficienza regionale, la sovranità nazionale e la produttività sostenibile locale di un prodotto o di un servizio simile. Il prezzo equo di mercato dei beni e dei servizi agricoli dovrebbe rifletterne tutti i costi, compresi quelli sociali e ambientali. Partendo da questo principio, si potrebbero pianificare strategie commerciali più giuste e si potrebbe anche dare vita a mercati protetti, secondo le necessità. Con una solida base etica, che prenda in considerazione i fattori sociali, ambientali ed economici, si potrebbero prevedere incentivi per promuovere metodi agricoli più ecologici e colture migliori per l’uso domestico e per l’esportazione. Si allontanerebbe così la prospettiva di un paese o di una regione che danneggia i propri cittadini o il proprio territorio investendo nella produzione su vasta scala di cereali, bestiame, cotone o altri prodotti, per poi venderli sotto costo sui mercati internazionali. La tragedia dei paesi in via di sviluppo che diventano dipendenti dai prodotti alimentari importati e perdono l’indipendenza agri189 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 190 Michael Fox cola è rappresentata dallo spettro della malnutrizione e della fame, specie nei periodi di rapida inflazione e in quelli in cui la domanda e i prezzi di articoli come il pollame e il latte in polvere subiscono rialzi improvvisi. Quando l’agricoltura di un paese crolla, è inevitabile l’insorgere di conflitti sociali, il determinarsi di instabilità politica ed economica, e l’aumento di crimini e violenze che possono sfociare in guerre civili. La possibilità di un recupero dell’agricoltura diventerà ancora più remota se i poveri e gli affamati cercheranno di produrre il proprio cibo, perché la mancanza di strumenti, conoscenze e risorse adatte alle pratiche di agricoltura conservativa potrebbe provocare danni ancora maggiori. Queste preoccupazioni non possono essere ignorate né dal GATT né dalla WTO. I sistemi di allevamento intensivo dei paesi industrializzati, finalizzati alla grande produzione per l’esportazione, devono essere oggetto di una valutazione sia etica sia economica. Lo stesso si deve dire per i prodotti geneticamente modificati, come i sostituti del cacao e gli estratti di vaniglia e altre piante, la cui produzione danneggerà i paesi che dipendono dalla loro coltivazione naturale per l’esportazione (nb: le entrate che provengono da queste esportazioni servono in parte a coprire gli interessi maturati dai prestiti per lo sviluppo). Sarebbe interesse del GATT e della WTO incoraggiare l’autosufficienza dell’agricoltura locale nei paesi poveri, perché è chiaro che il mercato mondiale diventerà sempre più disfunzionale e giungerà al collasso se la povertà, le iniquità e i conflitti socio-economici continueranno a diffondersi sotto la crescente pressione della popolazione e del degrado ambientale. I principi bioetici faranno molto per il mondo del commercio, soprattutto nel settore dell’agricoltura, aiutando ogni nazione del globo a massimizzare la produttività e a ridurre le conseguenze negative, e incoraggiando i sistemi di coltivazione mista più appropriati in relazione alla regione biogeografica. I rischi dei mangimi animali I sostenitori dell’industria della carne criticano la convinzione che l’importazione dal Terzo mondo di mangimi per l’allevamento di 190 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 191 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione polli e bovini contribuisca alla fame e alla miseria, e affermano che la maggior parte di questi alimenti è un sottoprodotto derivato da coltivazioni destinate all’esportazione, come la canna da zucchero, la melassa, l’olio di semi di cotone, il riso, la crusca di grano e altro. Nei fatti questo mercato, oltre ad alimentare pratiche agricole dannose nei paesi poveri, indebolisce i metodi dell’agricoltura sostenibile tradizionale e sfrutta i suoli fertili che dovrebbero essere usati per sfamare innanzitutto le persone. Questo aspetto dell’agricoltura, permettendo agli allevatori di alimentare un numero di animali maggiore di quanto si potrebbe fare con le sole risorse locali, offre uno dei principali sostegni all’allevamento intensivo di bovini e polli. Ma questo è inaccettabile dal punto di vista etico, economico ed ecologico, anche perché le scorie organiche dell’allevamento dovrebbero essere restituite al territorio come fertilizzanti, mentre invece sono diventate un danno molto costoso a causa del loro impatto sull’ambiente. Tra l’altro, questo genere di inquinamento contribuisce in maniera significativa al riscaldamento globale e quindi al cambiamento del clima. Un problema collegato è la gestione dell’enorme mole di un altro tipo di rifiuti animali, quelli che l’industria della carne definisce «scarti». I circa 23 milioni annui di tonnellate di materiali essiccati e trattati provenienti dagli impianti di trasformazione degli Stati Uniti contengono i resti di animali morti di vecchiaia o debilitati da malattie, oltre che parti anatomiche inutilizzabili e persino carcasse di cani e gatti provenienti da incidenti stradali o dai rifugi per animali. Nemmeno la trasformazione lenta a basso calore serve a rimuovere da questi scarti animali la componente di organismi potenzialmente dannosi, metalli pesanti e altri residui pericolosi. Gli animali di allevamento, gli animali da compagnia e tutti i consumatori sono in pericolo, perché questi materiali vengono aggiunti ai mangimi sia per gli animali domestici sia per gli animali di allevamento (compreso il pollame), oppure vengono venduti come fertilizzanti per l’agricoltura, i giardini e gli orti domestici. Alcuni studi hanno evidenziato un nesso tra le tossinfezioni alimentari umane e le pratiche di questo settore produttivo, che immettono nella filiera della mangimistica zootecnica scarti animali e spesso sterco proveniente da allevamenti aviari. Il drammatico caso della «mucca pazza», che oltre alla Gran Bretagna ha coinvolto paesi come il Giappone, il Canada e gli 191 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 192 Michael Fox USA, è fondamentalmente l’effetto di un’industria alimentare sempre più disfunzionale, che inserisce gli scarti animali nell’alimentazione degli stessi animali di allevamento: una pratica lucrativa presentata sotto le mentite spoglie del «riciclaggio efficiente». Ovviamente, se i consumatori rispondessero saggiamente con la riduzione del loro consumo di carne e altri prodotti di origine animale, l’ampiezza di questi problemi si ridurrebbe in maniera significativa e con notevole risparmio. Ci si chiede quanti stabilimenti zootecnici dovrebbero essere assegnati a ciascun paese in via di sviluppo, e quanta terra coltivabile dovrebbe essere seminata a soia e mais per evitare la spirale della concorrenza da sovrapproduzione che invade il mercato. Ma ci si chiede anche se i paesi in via di sviluppo debbano sacrificare la propria diversità biologica e culturale sull’altare del «progresso», per avere la possibilità di effettuare scambi con l’estero e arricchire i pochi soggetti coinvolti nel commercio mondiale di mangimi animali, antibiotici, ormoni, vaccini, prodotti caseari, uova, carne, pellame, lana, sangue, ossa, siero e germoplasma. Il successo della cosiddetta «Rivoluzione zootecnica», quindi, dipende dalla quantità di persone che domani decideranno di consumare prodotti di origine animale e dai metodi che verranno usati per produrli (e a spese di chi). Il processo di industrializzazione dei paesi in via di sviluppo sta facendo crescere la domanda di prodotti di origine animale e diffonde quella che gli esperti chiamano «dieta occidentale». L’aumento degli scambi a livello mondiale di prodotti agricoli destinati all’allevamento, di bestiame e di derivati animali provocherà l’aumento della diffusione delle zoonosi e delle malattie che colpiscono gli animali indigeni (selvatici e domestici), oltre che di infestanti non locali che storicamente arrivano con le grandi importazioni di sementi dall’estero. Sarà molto difficile tenere sotto controllo questi problemi, a meno che il traffico non venga regolato in modo più rigoroso da agenzie appositamente istituite. L’irradiamento degli alimenti e l’applicazione più mirata di erbicidi non sono la soluzione. Né una politica basata sull’allevamento intensivo può essere la risposta alla fame nel mondo, come confermato da una contabilità dei costi che sia realistica e complessiva. Anche laddove questi sistemi di allevamento operino secondo principi di integrazione ecologica e criteri gestionali di efficienza, come 192 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 193 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione nel caso delle cooperative, la «monocoltura animale e vegetale» non sarà mai in grado di sfamare i poveri. La Rivoluzione verde e l’allevamento La Rivoluzione verde ha promosso l’ampia diffusione di prodotti chimici e varietà vegetali ibride ad alto rendimento nei paesi in via di sviluppo, e ha contribuito, per vari motivi, alla sofferenza degli animali allevati, specialmente nelle imprese agricole e nelle comunità rurali più povere. Non intendo affermare che al trasferimento tecnologico della Rivoluzione verde vada addossata tutta la responsabilità. Spesso, infatti, esistono fattori culturali e socio-economici endemici che contribuiscono comunque alla malattia e alla sofferenza degli animali di allevamento. Tuttavia, nonostante l’impatto dei fattori endemici, la Rivoluzione verde ha contribuito alla sofferenza e al declino della salute degli animali di allevamento nei modi seguenti: – i pascoli e le terre coltivate a foraggio sono stati adibiti alle coltivazioni intensive; da questo sono derivati il loro deterioramento e l’allevamento illegale nelle riserve naturali, che hanno messo a rischio la flora selvatica a causa della competizione per il cibo e delle malattie trasmesse dal bestiame infetto; – i fautori della Rivoluzione verde, mentre vantano l’aumento di resa delle varietà ibride di frumento, riso e altre colture, dimenticano di parlare dei residui del raccolto di queste colture, che, per il bestiame, hanno un valore nutritivo di gran lunga inferiore rispetto a quello delle varietà indigene (che conservano più elementi nutritivi nelle foglie e nel fusto). Secondo un rapporto del 2001 della Banca mondiale (5), nell’ultimo decennio la qualità e la quantità della paglia di frumento e di riso si sono deteriorate a causa del passaggio alle varietà introdotte dalla Rivoluzione verde, che producono una paglia meno abbondante e qualitativamente inferiore. L’utilizzo diffuso di Roundup e altri erbicidi sulle colture convenzionali e su tè, caffè e altre piantagioni si traduce in meno foraggio per gli animali; – gli alti concentrati energetici, come quelli a base di soia e arachidi, anch’essi prodotti della Rivoluzione verde, sono troppo costosi per i contadini poveri: a farne le spese è il loro stesso sostentamento, insieme alla salute e alla produttività del loro bestiame. L’In193 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 194 Michael Fox dia, per esempio, esporta ogni anno bestiame per un valore di quasi 300-400 milioni di dollari verso i paesi industrializzati, mentre, in molti Stati interni, le spese per la produzione di alimenti e foraggio per il bestiame sono vicine a zero; – in molte regioni, la deviazione di acqua per irrigare le coltivazioni ha creato carenze idriche in intere comunità e il problema peggiora ulteriormente quando i pesticidi, da tali coltivazioni, passano nei corpi idrici superficiali e negli acquiferi sotterranei; – la produzione intensiva di bestiame nei paesi in via di sviluppo, sotto l’impeto della Rivoluzione verde, ha provocato molte sofferenze e malattie negli animali, specialmente nei polli da carne, nelle galline ovaiole e nei suini stipati negli allevamenti intensivi. Il problema risiede nella natura intrinseca di questi sistemi di allevamento, a cui si sono aggiunti altri fattori come la gestione inadeguata, la mancanza di infrastrutture e la poca adattabilità delle razze allevate in condizioni intensive; – le risorse utilizzate per l’allevamento intensivo e l’acquacoltura hanno contribuito alla carenza di mangimi animali adeguati a prezzi equi (soprattutto per le piccole fattorie), soppiantando i sistemi locali di produzione zootecnica; – il bestiame dei piccoli allevamenti tradizionali ha sofferto anche per lo scarso contributo fornito dai servizi veterinari pubblici; tali allevamenti hanno potuto disporre (ove possibile) solo di poche prestazioni adeguate, vaccinazioni efficaci o programmi di controllo delle malattie. Una situazione che fa aumentare l’incidenza di malattie infettive, per la fauna sia domestica sia selvatica, aggravando la povertà rurale e pregiudicando gli sforzi per la tutela della biodiversità; – i fertilizzanti chimici della Rivoluzione verde, che hanno fatto aumentare le rese delle colture, sono responsabili del grave declino qualitativo dei suoli e dei valori nutritivi dei raccolti. Il risultato finale è un’alimentazione carente per uomini e animali; – le partite di sementi ad alta resa che vengono importate sono talvolta contaminate con semi di altre piante che, in molte aree, si sono rivelate altamente infestanti, e in alcuni frangenti velenose o dal sapore sgradevole. In certi casi queste piante hanno avuto il sopravvento sulla flora selvatica e sui pascoli, soppiantando le piante da foraggio tradizionali; 194 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 195 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione – allo stesso modo, le razze di allevamento non indigene, importate per migliorare l’economia del settore, hanno spesso esercitato un impatto negativo. In molte regioni esse hanno soppiantato, inquinato geneticamente (attraverso gli incroci) e perfino fatto estinguere razze indigene più robuste che erano allevate per scopi molteplici. Occasionalmente si è rilevato che le razze importate hanno introdotto nuove malattie e, a causa della loro inadeguatezza all’ambiente locale, a loro volta non hanno retto alle malattie locali contro le quali il bestiame indigeno aveva invece sviluppato resistenze naturali. Il passaggio attraverso le razze importate può comportare un aumento della virulenza e la mutabilità delle malattie contagiose, mettendo a rischio le razze locali e la fauna selvatica; – come le colture della Rivoluzione verde necessitano di quantità sempre maggiori di fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi, così le razze di allevamento, rispetto alle varietà indigene importate, necessitano spesso di quantità superiori di acqua, alimenti energetici costosi, vaccinazioni, antibiotici, insetticidi e trattamenti antiparassitari. Questi costi collaterali (o costi degli input di produzione indiretti) fanno indebitare in misura crescente gli agricoltori indigeni, determinano la rincorsa ai sussidi e ai prestiti governativi, mentre lo status quo rimane e il declino della qualità ambientale, della biodiversità, della salute animale e del benessere umano procede senza sosta. I principali beneficiari della Rivoluzione verde, e oggi della Rivoluzione biotecnologica con le sue varietà transgeniche brevettate, sono le imprese private, le istituzioni accademiche e finanziarie e le agenzie governative che promuovono un’agricoltura intensiva fortemente dipendente dagli input. Ma è arrivato il momento di affrontare la questione, di chiedere un’assunzione di responsabilità e di lavorare insieme per risolvere i problemi a livello mondiale adottando soluzioni alternative di tipo biologico ed eco-sostenibile: in una parola, alternative più «umane». In caso contrario, la speranza della sicurezza alimentare e le promesse di qualità e sicurezza degli alimenti non arriveranno mai a una realizzazione per la stragrande maggioranza dell’umanità. Questa serie di problemi documentati e interrelati non intende individuare colpe e responsabilità, ma solo dimostrare come le conseguenze dannose della Rivoluzione verde siano state inevitabili, 195 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 196 Michael Fox perché, anche se con le migliori intenzioni, essa si basa su un paradigma viziato che fa affidamento su una scienza riduzionista (semplificata) e su un’economia della produzione orientata all’industrializzazione agraria, ignorando i fattori collaterali, i costi nascosti indiretti e le conseguenze deleterie che riguardano l’ecologia, la salute degli animali, il benessere, la società, la cultura e l’economia. Questi costi e queste conseguenze riflettono la stessa disattenzione e la stessa assenza di principi etici che oggi vengono espresse dai difensori della Rivoluzione biotecnologica. La loro propaganda, che parla di progresso economico e umanitario attraverso la biotecnologia e le altre tecnologie agricole, deve essere contestata sulla base della scienza, dell’economia e della bioetica. La Rivoluzione biotecnologica e l’allevamento I sostenitori degli OGM, come Gordon Conway (Presidente del Rockefeller Institute di New York), rilevano giustamente che per «l’industria delle scienze della vita» sarebbe antieconomico occuparsi di colture commerciali con l’unico scopo di accrescerne ulteriormente la biomassa, perché questo non contribuirebbe ad alleviare la fame nel mondo. Occorre invece una ricerca umanitaria – anziché orientata al profitto di breve termine – per lo sviluppo di colture più nutrienti, più resistenti, modificate geneticamente, in grado di sfamare il numero sempre più alto di poveri e affamati, specialmente nei paesi in via di sviluppo (nb: questi poveri vivono in alcuni dei luoghi del pianeta in cui la biodiversità è ancora altissima). Ha tutto il mio plauso il sostegno di Conway all’etichettatura degli alimenti geneticamente modificati, la sua opposizione alla tecnologia «terminator» nei paesi in via di sviluppo e, ovviamente, anche la sua richiesta di eliminare i markers genetici di resistenza agli antibiotici come mezzo di selezione delle piante transgeniche. Tuttavia dubito della sua sensibilità ecologica e del suo intuito, perché una valutazione storica dei costi reali della Rivoluzione verde avrebbe impedito di fare di lui un sostenitore del transgenico qual è oggi. È infatti insensato, dal punto di vista ecologico, difendere la coltivazione di piante transgeniche nelle oasi mondiali della biodiversità. È pura amnesia storica non aiutare le popolazioni indigene a 196 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 197 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione recuperare la ricca varietà di semi e colture che venivano usati per la sussistenza molto prima della colonizzazione occidentale e della Rivoluzione verde, che ha avuto tante conseguenze negative. Purtroppo, nella sua difesa della Rivoluzione biotech, Conway abbraccia alcuni aspetti discutibili della biotecnologia applicata alle piante, che ritiene aiuterà a garantire nutrimento, salute e sicurezza per gli oltre 800 milioni di malnutriti del mondo. Pare che Conway e altri reputino insignificanti i rischi di instabilità genetica e di inquinamento genetico dovuti a queste colture, i cui pollini potrebbero contaminare le piante selvatiche e le colture convenzionali di alcune isole felici della biodiversità del mondo. Ritengo che l’idea della Rivoluzione biotecnologica di Conway non sia altro che un’ennesima ondata di colonialismo che, come testimonia la storia, porterà più danni che benefici. Si ha l’impressione che egli abbia subito il fascino di questa nuova tecnologia e che si tratti dell’ennesimo scienziato che, per convenienza personale, ha deciso di ignorare i gravi danni causati dalla Rivoluzione verde (che tuttavia ha avuto il «merito» di arricchire oltre misura numerose corporation). L’ingegneria genetica è stata applicata non solo a diverse varietà di colture brevettate al fine di renderle più «produttive», resistenti alle malattie e alla siccità, ma è stata usata perfino per creare prodotti farmaceutici e addirittura per allevare animali, sulla scia dell’interesse economico. Gli organismi geneticamente modificati, come i maiali e le pecore transgeniche, o taluni salmoni di allevamento, sono stati creati inserendo l’ormone umano della crescita nella speranza che possano svilupparsi più rapidamente e di più. Ma questi assalti alla loro integrità genetica hanno prodotto numerosi problemi di salute e anomalie dello sviluppo. I tentativi di clonare animali di allevamento hanno evidenziato un aumento della frequenza di aborto, difetti congeniti, microsomia fetale e danni al sistema immunitario. Le mucche transgeniche sono state concepite per essere più resistenti a malattie come la mastite, un’infezione comune della mammella che nel latte delle mucche allevate industrialmente comporta una notevole presenza di pus (oltre che un incremento nell’uso di antibiotici per trattare queste stesse infezioni croniche) e di batteri resistenti agli antibiotici. Inoltre questi animali hanno subito manipolazioni genetiche e sono stati clonati per produrre 197 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 198 Michael Fox latte contenente farmaci, ed è per tale ragione che vengono chiamati «bioreattori». Per gli investitori e le compagnie farmaceutiche essi rappresentano il futuro dello sfruttamento a scopo economico degli animali di allevamento. I maiali sono stati modificati geneticamente perché diventassero donatori di organi, e le galline perché producessero uova contenenti farmaci. I cosiddetti «enviropig» sono stati creati per produrre escrementi con una minor quantità di azoto, allo scopo di ridurre leggermente l’impatto ambientale dei grandi allevamenti di suini. Questi sviluppi, che riecheggiano un determinismo genetico fondato su una biotecnocrazia sempre più potente, ecologicamente analfabeta e moralmente cieca, rappresentano l’ultima tappa di un’industria alimentare e farmaceutica multinazionale, disfunzionale e guidata dal profitto, che il Governo statunitense protegge e promuove (6). La nuova frontiera dell’ingegneria genetica, il «nuovo mondo coraggioso» che Monsanto chiama «l’industria delle scienza della vita», in realtà ci identifica sempre più come parassiti della natura, anziché come nuove divinità del determinismo genetico. Questo «nuovo mondo coraggioso» mortifica la sacralità della vita e l’integrità della Terra nel nome del progresso e della necessità, con la benedizione della «scienza» e del commercio. Si tratta di una forza inesorabile che la sola ragione non è in grado di fermare, anche se forse potrebbe farlo un nuovo interesse illuminato. Ma quali alternative esistono per alimentare meglio l’umanità, aiutare i poveri e non sacrificare ulteriormente la biodiversità e la natura, come fanno invece l’agricoltura industriale e la dieta occidentale? Come disse Henry David Thoreau, «la preservazione del pianeta è nella natura». Dovremmo riflettere su questa affermazione mentre la grande foresta amazzonica, riserva vitale di carbonio e indispensabile per il controllo del riscaldamento globale, viene depredata, prima per il legname e poi per produrre bestiame in aree seminate e svuotate, oggi usate per produrre soia. Circa 4.600 miglia quadrate di foresta pluviale sono state ripulite tra il 2003 e il 2004 per coltivare soia. La Cargill Inc., con sede negli Stati Uniti, è una delle principali multinazionali che esportano questo prodotto come mangime per il bestiame allo scopo di soddisfare la fame di suini, polli e bovini degli allevamenti europei. Tra le altre multinazionali coinvolte in questo 198 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 199 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione ecocidio criminale ci sono la Archer Daniels Midland e la Bunge Corporation. Danni e costi della Rivoluzione verde In un documento dell’International Movement for Ecological Agriculture tenutosi a Penang, in Malesia, per definire la Rivoluzione verde vengono usate le seguenti parole: «La moderna agricoltura intensiva si è rivelata palesemente incapace di aumentare la produzione di alimenti e di soddisfare le esigenze alimentari e nutritive del pianeta. L’affermazione secondo cui la Rivoluzione verde avrebbe prodotto una maggiore resa delle colture è fortemente esagerata e non è frutto di una comparazione complessa e obiettiva con sistemi ecologicamente più validi». Queste rivendicazioni si basano di solito sulla misurazione delle rese per unità di superfice coltivata (acri o ettari). Tuttavia, prendendo in considerazione i costi nascosti dei sussidi per gli input e le fonti non rinnovabili, il costo del danno ecologico (che dopo un certo periodo porta a rese inferiori) e la misura della resa confrontata con gli alti costi di fertilizzanti e acqua, le tecniche della Rivoluzione verde risultano altamente inefficaci. Al contrario, la validità economica è una caratteristica lampante delle varietà tradizionali ed ecologicamente migliori. Aspetto ancor più importante, la valutazione dei risultati della Rivoluzione verde è imperfetta perché considera una sola coltura (per esempio il riso) e, anche in quel caso, solo un singolo componente di quella coltura (per esempio il chicco), trascurando l’uso di paglia come foraggio e fertilizzante. Così facendo, non tiene conto del fatto che, nella stessa area, esistevano numerose altre risorse biologiche tradizionali che sono state ridotte o eliminate con la Rivoluzione verde. Se le rese fossero misurate in termini di biomassa totale, allora emergerebbe un quadro più realistico delle prestazioni legate alla Rivoluzione verde. Sebbene le rese totali delle colture alimentari siano aumentate, è diminuita la quantità di cibo disponibile per le popolazioni locali. Questo dipende da diversi fattori, come indicato di seguito: – si è verificato un aumento di pochi cereali (una gran parte dei 199 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 200 Michael Fox quali viene usata per alimentare il bestiame) a spese dei legumi e di altre colture; – l’aumento della dipendenza degli agricoltori e dei paesi del Terzo mondo dagli strumenti dell’agricoltura intensiva ha portato all’indebitamento e alla perdita dell’autosufficienza; – gran parte dell’aumentata produzione di alimenti è destinata all’esportazione, sottraendo così cibo alla popolazione locale; – molte aree coltivate con varietà ad alta resa (nb: ad alta resa a condizione di usare alti input, compresi fertilizzanti chimici e pesticidi) registrano ora una diminuzione del ritorno; – il deterioramento ecologico sta conducendo a una riduzione delle rese e all’abbandono di molte aree agricole; – in molte zone sono aumentate notevolmente le perdite durante lo stoccaggio; – i bassi prezzi pagati per i prodotti agricoli e gli alti prezzi degli alimenti nei negozi, insieme all’aumento dei livelli di indebitamento, fanno in modo che molti agricoltori non siano in grado di acquistare cibo sufficiente per le loro famiglie. Il fallimento della Rivoluzione verde è stato sottolineato da un rapporto del Global Environmental Change Programme britannico, sovvenzionato dall’Economic and Research Council del Regno Unito e pubblicato nell’aprile del 2000. Le colture della Rivoluzione verde, introdotte tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, fecero aumentare la resa e i proventi derivati dall’agricoltura e, inoltre, fornirono ai poveri le calorie di cui avevano bisogno. Ma queste colture non assorbivano dal terreno minerali come ferro e zinco. Nel rapporto si legge: «Le colture ad alta resa della Rivoluzione verde furono introdotte nei paesi poveri per sconfiggere il problema della fame. Ma ora sono accusate di causare deficit intellettivi, come conseguenza del fatto che non assorbono micronutrienti essenziali». L’anemia da carenza di ferro contribuisce all’aumento della mortalità infantile, ad alterazioni dello sviluppo cerebrale e della capacità di apprendimento; l’autore del rapporto, Christopher Williams, stima che la malattia colpisca circa un miliardo e mezzo di persone, un quarto della popolazione mondiale. Bisognerebbe anche aggiungere che le carenze di micronutrienti, un problema nutrizionale presente anche in Occidente a causa dei terreni impoveriti e delle colture carenti di tali elementi, possono 200 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 201 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione danneggiare il sistema immunitario, e che le carenze nutrizionali connesse e gli squilibri presenti in vari prodotti di origine animale (specialmente il basso contenuto in acidi grassi polinsaturi omega 3 e omega 6), possono interferire con lo sviluppo del sistema nervoso e delle funzioni cognitive. Studi recenti condotti in Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno dimostrato che frutta e ortaggi sono meno nutrienti rispetto a 30-50 anni fa e mostrano carenze, spesso marcate, di ferro, rame, zinco, calcio, sodio, fosforo, proteine, vitamina C e riboflavina (vitamina B2), attribuibili in parte alle varietà a crescita rapida e ad alta resa che si coltivano oggi per l’alimentazione umana, ma anche all’uso di fertilizzanti chimici (i fertilizzanti a base di potassio, per esempio, interferiscono con l’assorbimento di magnesio e di fosfato da parte delle piante). I fertilizzanti a base di azoto, ampiamente usati, possono determinare livelli elevati di nitrati (dannosi) nelle colture convenzionali e possono ridurre il contenuto in vitamina C dei vegetali; pur facendo aumentare il contenuto totale di proteine, la loro qualità risulta inferiore a quella delle piante coltivate biologicamente, perché prive di amminoacidi essenziali come la lisina: la qualità degli alimenti e dei mangimi risulta, pertanto, inferiore. Studi comparativi sul contenuto di elementi nutritivi nelle colture biologiche e in quelle convenzionali evidenziano livelli significativamente inferiori di alluminio, mercurio e piombo (potenzialmente tossici) nelle colture biologiche, che presentano anche livelli più alti di numerosi minerali in tracce e altri nutrienti, in particolare boro, calcio, cromo, rame, iodio, ferro, litio, magnesio, manganese, molibdeno, fosforo, potassio, selenio, silicio, sodio, zolfo, vanadio e zinco. Dunque: più vitamina C e meno nitrati. Studi sugli animali hanno dimostrato che gli alimenti prodotti in maniera convenzionale possono avere un’influenza negativa, rispetto a quelli biologici, su determinate funzioni dell’organismo, come quella riproduttiva e la resistenza alle infezioni. Diete più umane e salutari Coloro che ritengono che gli animali di allevamento non svolgano un ruolo chiave, dal punto di vista ecologico ed economico, nella 201 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 202 Michael Fox produzione e nella gestione di colture sostenibili hanno torto, esattamente come coloro che reputano bioeticamente accettabile la produzione intensiva di bestiame e pollame, in virtù del fatto che non causerebbe danni. È arrivato tuttavia il momento di essere obiettivi, di riunire tutte le parti e i settori coinvolti nella produzione, nella commercializzazione e nel consumo degli alimenti, per sostenere lo sviluppo, l’adozione e l’applicabilità sul mercato di pratiche agricole giuste, sane e umane, che permettano ad agricoltori e allevatori di operare creando il minor numero possibile di danni. Gli esseri umani appartengono a una specie di primati estremamente adattabile; una delle caratteristiche del nostro successo adattivo è la capacità fisiologica di essere onnivori. Questa flessibilità nella capacità di utilizzare un’ampia gamma di risorse alimentari, dalla frutta alle noci, dalla carne al mais, è universale e presenta sfumature culturali che possono avere una base genetica. Per la maggior parte degli esseri umani, un’alimentazione essenzialmente vegetale, con prodotti di origine animale come supplemento o condimento, si è dimostrata alla base della salute umana, dell’economia e dell’ambiente. A parte rare eccezioni, la maggior parte delle popolazioni può mangiare e digerire pressoché qualunque cosa (ad eccezione della cellulosa) venga assimilata dagli altri mammiferi, e ha sviluppato dispositivi eccezionali per preservare e accrescere il valore nutrizionale e il gusto di numerosi alimenti naturali. Le differenze etnico-culturali nella preparazione dei cibi riflettono differenze di tipo biologico, geografico e stagionale per quanto riguarda il tipo di alimenti e la loro disponibilità. Questa diversità etnica fornisce un’ampia ricchezza di delizie culinarie ed è fonte di nuove potenzialità colturali e prodotti alimentari per un mercato che diventa sempre più cosmopolita. Da questa ricchezza possiamo selezionare alcune delle diete più valide che siano state «umanamente testate» per innumerevoli generazioni ed ecologicamente efficaci e sostenibili. Un esempio classico è rappresentato da quella che viene in genere indicata come la «dieta mediterranea», che integra vari alimenti di questa regione biogeografica garantendo un’alimentazione sana, relativamente poco costosa e a basso impatto ecologico. Un’agricoltura basata sugli animali e una dieta basata su prodotti di origine animale non sono «buone» né per il pianeta, né per la salute umana. Queste osservazioni, che ora sono maggiormente ac202 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 203 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione cettate e promosse dagli esperti sanitari statunitensi, confermano i legami tra un’alimentazione corretta e un’agricoltura umana e sostenibile. Si stanno perciò rivalutando i numerosi benefici di un’agricoltura meno dannosa e di un’alimentazione più attenta. Questo riconoscimento incoraggerà le pratiche dell’agricoltura tradizionale biologica come altamente innovative, con l’uso di alimenti etnici, e aiuterà a impedire la perdita della diversità bioculturale tanto nell’agricoltura mondiale come in cucina: una diversità messa in pericolo dalla dieta a base di carne e di prodotti di origine animale. Il costo relativamente contenuto del cibo negli Stati Uniti (rispetto ad altri paesi), unito a stili di vita sempre più sedentari, è responsabile, secondo il National Center for Health Statistics, di una scoperta allarmante. Un adulto americano su tre è in grave sovrappeso e il peso medio corporeo è ancora in aumento. Questo significa che 58 milioni di persone sono maggiormente esposte al rischio di malattie cardiache, diabete, cancro e altre patologie croniche. Inoltre, la sovralimentazione ha dato vita a un’industria del dimagramento che raccoglie milioni di dollari l’anno solo negli Stati Uniti, più di quanto molti paesi spendano per l’alimentazione. Non vanno poi dimenticati i 50 miliardi di dollari l’anno che l’industria alimentare statunitense spende in pubblicità. Il trend che porta i consumatori della società industriale verso l’analfabetismo nutrizionale, l’amnesia agricola e la catatonia culinaria – alimentate dall’industria dei surgelati e dalla «cultura del microonde», con i loro alimenti precotti e ingredienti insignificanti, accompagnati da etichette che indicano le razioni giornaliere raccomandate – è sintomatico della disintegrazione che colpisce agricoltura e cultura. Le malattie di una società che consuma eccessivamente e male, e che per giunta è infelice, sono la giustificazione perfetta per le poco accessibili «fughe della salute» (terme, beauty farm, ecc.), i costosi bypass coronarici, e gli invasivi trattamenti di liposuzione per rimuovere le calorie introdotte in eccesso; mentre allo stesso tempo il resto della popolazione umana, che aspirerebbe a uscire dalla morsa della fame, soffre a causa della mancanza di cibo e della penuria di acqua, dovute agli appetiti insaziabili del mondo industrializzato. Il primo e il più importante passo da compiere è scegliere un’alimentazione umana e nutrirsi con coscienza. Questo imperativo bio203 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 204 Michael Fox etico dovrebbe essere in cima all’agenda di ogni nazione, poiché la possibilità di scegliere una dieta umana è un fattore di vitale importanza non solo nella prevenzione della sofferenza animale, ma anche e soprattutto nella riduzione dei costi della sanità pubblica, nel ripristino delle comunità rurali e nella conservazione e nel recupero delle risorse naturali. Ma incoraggiare le persone a compiere una scelta altruista e illuminata è una questione politicamente controversa e viene ancora interpretata come una minaccia economica da parte di coloro che hanno interesse a fermare il vero progresso dell’agricoltura. Un’agricoltura umana sostenibile Per coltivare e allevare «con compassione», dovremmo tutti consumare e vivere in modo tale da causare il minor danno possibile a noi stessi e al resto del mondo naturale. Questo comporta una riduzione nella produzione e nel consumo di prodotti di origine animale nei paesi in cui essi costituiscono un elemento essenziale dell’alimentazione. Ma significa anche un miglioramento del modo in cui gli animali sono allevati, trasportati e macellati, oltre alla sostituzione delle proteine e dei grassi di origine animale con grassi, oli e proteine di origine vegetale, che sono anche meno costosi. La popolazione umana, 6,5 miliardi di persone che presto diventeranno il doppio (di cui 2 miliardi sono oggi malnutriti), può far aumentare il numero di animali di allevamento (oggi sono circa 4,5 miliardi) per mantenere lo status quo e la domanda di carne, solo a condizione che sia pronta ad accettare la perdita della biodiversità e delle risorse non rinnovabili e sia disposta a sostenere i rischi e i costi economici e ambientali che l’attendono. Oggi abbiamo maggiori possibilità per prevederli e impedirli, a patto che vengano applicati principi bioetici nei processi decisionali che riguardano le politiche pubbliche e nella visione collettiva del mondo futuro. Il primo precetto bioetico da utilizzare in agricoltura è il medesimo principio che qualsiasi buon medico, conformemente al giuramento di Ippocrate, dovrebbe applicare nell’esercizio della sua professione: non fare male. Molti gruppi dell’agroindustria che oggi si oppongono al movimento per l’agricoltura umana e sostenibile, ne diverranno i sosteni204 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 205 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione tori domani, quando saranno più chiari i vantaggi di un’agricoltura e un allevamento etici e non violenti. La comprensione di ciò porterà a una visione condivisa di un futuro più luminoso, al di là degli obiettivi a breve termine e degli imperativi del mercato mondiale. Molti sono, tra gli altri, gli accademici e i politici che ancora credono che le fattorie industriali e i feedlot aiutino gli Stati Uniti a conservare il primato mondiale della produzione di carne al costo più contenuto, e che la loro abolizione danneggerebbe i poveri che non potrebbero pagare il prezzo di carni provenienti da bovini e pollame con certificazione biologica, allevati in maniera più umana ed ecologica. Una prospettiva bioetica più ampia permetterebbe loro di comprendere come fattorie industriali e feedlot non siano metodi né efficaci né sostenibili per la produzione di alimenti, e come contribuiscano invece alla fame nel mondo. Il ricorso alla bioetica per valutare gli sviluppi e le pratiche adottate oggi in agricoltura faciliterà l’adozione di metodi umani. Tutti i nuovi prodotti, processi e politiche per l’agricoltura dovrebbero essere soggetti a una rigorosa valutazione etica prima di essere approvati e adottati, allo scopo di promuovere l’adagio farm-withoutharm («coltivare senza fare danni») e soprattutto l’obiettivo della sostenibilità. Per evitare i costi e le conseguenze di un’agricoltura basata sull’allevamento del bestiame, bisognerebbe avere grande attenzione per gli equilibri del suolo e adottare procedure agro-zootecniche nei limiti della disponibilità di risorse naturali locali e rinnovabili. In pratica occorrerebbe dare un contributo all’aumento della biodiversità naturale o, quantomeno, un contributo che non ne provochi una riduzione. Il mantenimento della biodiversità e della qualità ambientale è un criterio fondamentale per promuovere a livello sociale l’accettazione di qualsiasi sistema agricolo che punti a essere redditizio e sostenibile. Ciò nondimeno, fino al momento in cui non verranno sanciti accordi di carattere bioetico sia a livello nazionale sia a livello internazionale, e non si raggiungerà un’armonizzazione mondiale degli standard e delle pratiche per un’agricoltura biologica e umana, occorreranno grandi sforzi per proteggere le comunità e i sistemi rurali sostenibili dalla concorrenza sleale dell’agricoltura industriale. Il principio centrale della bioetica è l’ahimsa, vale a dire l’azione non dannosa, non nociva, non violenta. L’agricoltura sostenibile non 205 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 206 Michael Fox può lasciarsi guidare semplicemente dal desiderio, bensì dalla morale compassionevole dell’ahimsa: deve astenersi cioè dal nuocere agli altri esseri viventi, umani e non umani, come normalmente avviene invece quando si provocano danni evitabili all’ambiente. Se si parte da questo principio, si deve tenere in considerazione anche la sofferenza degli animali sfruttati. Se in una particolare regione biogeografica l’uso di animali nel processo agricolo provoca minori danni ecologici rispetto a una situazione che li esclude, e ciò rende il sistema più vantaggioso e sostenibile, allora un impiego umano degli animali diventa eticamente accettabile. Ma non esistono ragioni di alcun tipo, se non l’avidità economica, che giustifichino il ricorso a tecniche di agricoltura disumane. Troppo spesso si opera secondo falsi principi di «efficienza» e «risparmio». Un’agricoltura che accetta il crudele trattamento riservato agli animali allevati industrialmente è al tempo stesso immorale e disfunzionale. Il livello di umanità e la qualità della vita degli agricoltori, dei contadini e degli animali allevati dovrebbero essere gli indicatori principali della redditività sostenibile e dell’accettabilità sociale dei sistemi agricoli che inseriscono gli animali nel processo perché vedono in essi una componente ecologica essenziale. Coltivare con il minor impatto possibile e scegliere una dieta umana sono due facce della stessa medaglia, in grado di suscitare un’alleanza forte tra cittadini sensibili e produttori responsabili. Forse occorrerebbe riflettere su ciò che nel 1933 scrisse il profeta libanese Gibran Kahlil Gibran: «Pietà per la nazione che è ricca di credenze ma è priva di religione. Pietà per la nazione che indossa abiti che non ha filato, mangia pane che non ha mietuto e beve vino che non ha spremuto… Pietà per la nazione divisa in frammenti dove ogni frammento si crede una nazione». Agricoltura, conservazione ed eco-etica La scienza e la pratica dell’agricoltura ecologicamente sostenibile ed economicamente credibile vengono adottate in tutto il mondo per prevenire ulteriori perdite di risorse naturali. L’agricoltura conservativa è l’antitesi dell’agricoltura industriale che promuove la biotecnologia come risposta alla fame e alla malnutrizione umana. 206 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 207 La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione Nelle poche regioni in cui l’ambiente ha mantenuto una buona componente di biodiversità naturale, la scienza e la pratica dell’agricoltura conservativa e sostenibile si pongono l’obiettivo dell’assoluta indipendenza dai prodotti chimici tossici, dai farmaci animali per aumentare la produttività, dai vaccini e dalle altre molecole che possono sortire conseguenze ecologiche avverse. L’agricoltura conservativa inoltre contempla la messa al bando delle colture geneticamente modificate. Tutti i programmi per lo sviluppo dell’agricoltura dovrebbero avere come obiettivo anche la conservazione della fauna e della flora selvatica, e il recupero degli habitat, oltre a quello fondamentale di aiutare i piccoli agricoltori e le popolazioni indigene. Questo è ormai un imperativo etico a causa dei numerosi danni causati a questi settori in regioni uniche sotto il profilo sia biologico sia culturale; danni che affondano le loro radici nel colonialismo, ma che oggi si intensificano sotto la pressione di un mercato mondiale altamente competitivo e dei condizionamenti esercitati dalle multinazionali e dalle agenzie governative loro alleate, tutte in rotta di collisione con la sovrappopolazione del pianeta, la povertà, l’aumento delle instabilità sociali dovute per lo più a disparità economiche, e il cambiamento del clima a livello globale. Da molto tempo i progetti di aiuto e sviluppo nei settori dell’agricoltura, della silvicoltura e dell’acquacoltura denotano la necessità di una maggiore attenzione alla conservazione dei cosiddetti «hot spot» della biodiversità, per impedirne l’ulteriore erosione ecologica e genetica. La direzione intrapresa è quella della salvaguardia di territori e bacini idrici di importanza vitale, di risorse che fanno parte delle economie sostenibili locali, e di specie e varietà animali e vegetali indigene. Per istituzioni come la Banca mondiale, sarebbe un’eccellente iniziativa quella di includere il capitolo «conservazione» nell’ambito di programmi mirati ad aiutare le popolazioni indigene che vivono nelle oltre 400 riserve mondiali della biosfera designate dall’UNESCO (Global Biosphere Reserves) nel contesto del programma «Man and the Biosphere». È ormai una necessità inderogabile inserire in questo quadro un numero maggiore di aiuti e prestiti per lo sviluppo finalizzati a progetti di agricoltura, acquacoltura e selvicoltura sostenibili. Molte di queste riserve, infatti, sono minacciate da pratiche agricole (in senso lato) non sostenibili che soddi207 *04.Biotecnocrazia 5-07-2007 8:48 Pagina 208 Michael Fox sfano interessi commerciali estranei alle comunità residenti, oltre che da un’incontrollata esplosione demografica sia della popolazione umana sia del bestiame domestico. Esistono numerose alternative, che vanno dalle soluzioni tradizionali alle innovazioni recenti dell’agricoltura e dell’allevamento biologici e biodinamici, fino alla gestione del territorio secondo principi di conservazione sistemica (holistic range management). È ironico constatare che, mentre molti paesi avanzati stanno abbracciando queste pratiche alternative, i loro sistemi di monocoltura e allevamento industriali vengono esportati nei paesi in via di sviluppo. Questo dovrebbe preoccupare, per la semplice ragione che le conseguenze avverse dell’agricoltura industriale globale si ripercuoteranno su ogni nazione, ricca o povera che sia. 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