agricoltura e globalizzazione: alle origini delle reti umane mondiali

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agricoltura e globalizzazione: alle origini delle reti umane mondiali
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AGRICOLTURA
E GLOBALIZZAZIONE: ALLE ORIGINI
DELLE RETI UMANE MONDIALI
di
Gianluca Bocchi*
L’itinerario attraverso il quale la specie umana è diventata globale, incidendo profondamente sulle dinamiche ambientali di gran
parte delle terre emerse e degli oceani, è da sempre segnato da accelerazioni, discontinuità, inversioni di rotta. Quanto alle origini, i
primi rappresentanti di Homo sapiens veramente «moderni» sotto il
profilo anatomico sono presenti in Etiopia all’incirca 110.000 anni
or sono. È probabile che fossero moderni anche dal punto di vista
cognitivo, dal momento che, secondo l’ipotesi oggi maggiormente
accreditata, il centro di origine del linguaggio sarebbe l’Africa, dove
una singola lingua ancestrale avrebbe dato origine alle 6.000 lingue
attualmente parlate sul pianeta. D’altra parte, persino gli storici dell’arte rupestre diffusa in tutto il mondo documentano un lungo elenco di elementi a sostegno di questa ipotesi.
A partire dai luoghi della loro origine, gli umani si dedicano ad
abitare l’intero pianeta raggiungendo regioni, continenti e isole
anche assai lontani dalla loro culla africana, non solo geograficamente (come la Tasmania e la Terra del Fuoco), ma anche ecologicamente (deserti, tundre, foreste equatoriali). La specie umana quindi
si frammenta in tante piccole popolazioni, ognuna delle quali entra
in relazione con l’ambiente in cui si insedia e ne prende l’impronta,
proprio per sfruttare al meglio le risorse locali. È l’età dei cacciato*
Epistemologo, Università degli Studi di Bergamo
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ri-raccoglitori, in cui gli «adattamenti creativi» ai luoghi sono quanto mai essenziali per sopravvivere e progredire: tutti adattamenti locali che sono alla base di ciò che oggi chiamiamo «culture».
Questo modo di abitare il mondo dura 100.000 anni, ossia più
dei nove decimi della storia dell’umanità; dopodiché, a partire dagli
ultimi 10.000 anni, gli orizzonti cominciano a invertirsi. Gran parte
del pianeta è ormai popolata, anche se in misura assai scarsa e ancora con tanti «vuoti» intermedi. Lo sguardo dei gruppi umani inizia a
dirigersi, accanto ai molti «vuoti», anche ad alcuni «pieni», ovvero a
luoghi già abitati da altri gruppi e culture. Gli esseri umani sono più
numerosi e le popolazioni aumentano demograficamente, con il
risultato che qualche volta sono costrette a sperimentare condizioni
più o meno transitorie di affollamento e scarsità di risorse. Sempre
più spesso si generano condizioni che obbligano a cooperare o a
competere: la cooperazione favorisce i commerci, la competizione
favorisce le guerre.
Negli ultimi 10.000 anni, il grande agente trasformatore delle culture e degli ambienti umani è stato l’agricoltura. Come impatto originario, questo modo di sfruttare il territorio e di produrre cibo
innesca la prima grande esplosione demografica nel globo. Si può
agevolmente ricostruire la principale catena di eventi di tale processo, che per molti aspetti si è autoalimentato.
L’agricoltura e l’allevamento animale, dove e quando vengono
adottati in maniera sistematica, consentono per la prima volta di
accumulare notevoli surplus di alimenti da conservare per sfamare
l’intera popolazione nei momenti di crisi. L’esigenza di controllare
questi surplus determina i primi cambiamenti sociali, da cui emerge
una classe di proto-amministratori. La popolazione tende allora a
concentrarsi nei luoghi dell’amministrazione, il che dà origine a veri
e propri centri urbani. Nello stesso tempo, la sedentarietà agricola
consente modi di vita più favorevoli alla maternità: nella nuova
situazione stanziale è possibile fare più figli in meno tempo, e forse
anche la mortalità infantile è inferiore. Le conseguenze immediate
sono una popolazione più grande da sfamare e più terra da coltivare, ed è per questo che le città devono estendere il territorio da proteggere e controllare. La politica diventa ben presto un’arte difficile
e complicata, e il più delle volte tende a trasformare la società in un
senso fortemente gerarchico.
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Sappiamo ancora troppo poco sui perché delle origini dell’agricoltura: al proposito sono state naturalmente avanzate molte ipotesi, e non è detto che quella valida per tutti i luoghi e per tutti i tempi
sia una sola. Molto di più sappiamo sui come dell’agricoltura, che
prende a svilupparsi dai tempi in cui in alcune piccole aree del globo
vengono poste le basi per la coltivazione di particolari specie vegetali e per la domesticazione di particolari specie animali.
Dall’8000 a.C. fino agli albori della Rivoluzione industriale, è
lecito parlare di un grande processo di trasformazione, che, partendo dal Medio Oriente, investe prima l’Eurasia e poi il mondo intero. Com’è noto, tempi, modi e luoghi di questo processo sono quanto mai diseguali. I primi focolai agricoli sono lontani l’uno dall’altro,
sono asincroni e si basano su colture e pratiche di allevamento differenti. La prima svolta importante si ha tuttavia quando il focolaio
originario, oltre a espandersi verso occidente per tutta l’Europa,
nella sua espansione verso oriente incontra a sua volta l’espansione
verso occidente dei focolai cinesi (pare lecito usare il termine «focolai» perché in Cina, in realtà, le aree di origine delle coltivazioni agricole sono state due: una settentrionale e una meridionale). Alla conclusione di questo processo si arriva alla nascita e allo sviluppo di un
grandissimo sistema agricolo eurasiatico, che va dalle Isole Britanniche al Giappone. È un sistema capace di incrementare la sua diversità interna grazie allo scambio di piante e animali fra aree geografiche differenti e allo stimolo esercitato verso le popolazioni di particolari regioni nell’introdurre nuove specie da coltivare e allevare. In
un certo senso, dunque, il sistema produce autonomamente le condizioni per la sua ulteriore espansione.
Le espansioni concomitanti di altri focolai agricoli sono meno
imponenti, ma per nulla trascurabili: il focolaio africano, per esempio, situato in origine nella fascia steppica del Sahel (al sud del
Sahara), col tempo induce migrazioni di culture e di colture che
popolano tutta l’Africa orientale e arrivano fino all’Africa meridionale. Grazie ai molti processi di questo tipo, alla vigilia del 1492 già
metà del mondo è profondamente trasformata dalla Rivoluzione
agricola. La vita delle popolazioni coinvolte viene letteralmente
reinventata ed esse devono misurarsi con le realtà ambivalenti di ciò
che oggi chiamiamo civiltà: centri urbani, società complesse, divisione del lavoro, commerci su vasta scala, apparati governativi,
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burocrazie, religioni istituzionalizzate, sistemi di scrittura e di contabilità, ecc.
Ma perché le civiltà agricole possano diventare la forma di vita
assolutamente dominante nell’intero pianeta occorre un passo ulteriore: la caduta di tutte le barriere spaziali fra i sistemi agricoli del
mondo e la loro conseguente fusione in un unico sistema agricolo di
portata planetaria. È questo il significato profondo, in termini di storia globale e sul lungo termine, della fatidica data del 1492: il momento in cui ha inizio lo «scambio colombiano». Nel giro di pochi
decenni, infatti, cadono le barriere spaziali fra l’enorme sistema
euroasiatico e i tre sistemi americani sostanzialmente indipendenti:
ciò consente, per esempio, che le patate raggiungano in breve tempo
non solo l’Europa ma anche la Cina, l’Indonesia e la Melanesia.
Nello stesso tempo, anche l’Africa e la Nuova Guinea vengono coinvolte in una rete di scambi multilaterali destinati a modificare per
sempre i modi di alimentarsi e di vestirsi di tutti i popoli del pianeta.
Un tratto importante della storia umana globale è che la Rivoluzione agricola si compie, a livello planetario, quasi nello stesso
momento in cui in una piccola isola ai margini dell’Europa emerge
il primo focolaio della seconda grande Rivoluzione globale, quella
industriale. In questo modo l’agricoltura diventa parte integrante di
un nuovo sistema tecnologico che ben presto la rende «meccanizzata». Il fatto che l’agricoltura industriale consenta, almeno all’inizio,
di produrre di più e in minor tempo diventa una delle componenti
(insieme a molti altri fattori: in primis il mutamento delle condizioni
igieniche e le nuove opportunità di vita rese possibili dal nuovo
mondo delle macchine e dei trasporti) di una seconda rivoluzione
demografica globale, ma a ritmi molto più rapidi di quelli osservabili nel periodo della diffusione planetaria dell’agricoltura.
I dati demografici ci aiutano a focalizzarci sui tassi dello sviluppo
umano, che negli ultimi 250 anni testimoniano «l’accelerazione di
un’accelerazione». Se nel mondo dei cacciatori-raccoglitori l’umanità cresce in maniera molto lenta – basti pensare che all’alba della
Rivoluzione agricola il mondo non conta più di 20 milioni di abitanti
–, nell’evo antico (al tempo dei greci e dei romani) la popolazione
planetaria decuplica (circa 200-300 milioni di abitanti), per poi moltiplicarsi per due nei successivi 1.500 anni (al tempo della «scoperta
dell’America», il mondo conta 400-500 milioni di abitanti), e infine
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raddoppiare nuovamente in soli 320 anni (nel 1820 la popolazione
raggiunge la soglia del miliardo).
A questo punto le dinamiche connesse con l’età industriale prendono il sopravvento e la popolazione umana aumenta di sei volte in
soli 120 anni, fino a raggiungere 6 miliardi all’incirca nel 2000, con
tassi di crescita annui mai raggiunti in precedenza. Un altro dato che
visualizza il ritmo che il carico umano sul pianeta ha assunto negli
ultimi secoli, e in particolare negli ultimi 100 anni, mette in gioco
addirittura i circa 4 milioni di anni lungo i quali si snoda l’avventura della linea di discendenza degli ominidi, dai nostri remoti progenitori fino a oggi. Se sommassimo tutti gli anni di vita trascorsi da
tutti gli individui (ominidi) sul pianeta, da 4 milioni di anni fa ai
giorni nostri, scopriremmo che un quinto di questo valore si concentra nell’ultimo secolo, segnato non solo dalla sovrappopolazione
del globo, ma anche dal notevole allungamento della vita media dei
membri della nostra specie: un quinto in un secolo dentro una storia che dura da 4 milioni di anni!
Gli ultimi due secoli sono caratterizzati da un’accelerazione ancora più pronunciata rispetto a quella associata alla semplice espansione demografica. In questo caso si tratta di un’accelerazione dovuta all’enorme incremento del carico energetico imposto al pianeta,
quasi tutto sotto forma di consumo di combustibili fossili non rinnovabili. Ancora una volta il divario con le fasi precedenti della storia umana è evidentissimo. La Rivoluzione agricola, infatti, ha avuto
luogo grazie all’apporto del lavoro umano e animale in un contesto
energetico rimasto quasi invariato fino all’avvento della macchina a
vapore. Se volessimo tradurre in termini di lavoro umano e animale
l’odierno consumo energetico pro capite della popolazione planetaria, diremmo che esso equivale a 20 «uomini macchina» per ogni
essere umano, dove per «uomo macchina» si intende uno «schiavo»
in servizio 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno! Ma poiché oggi la
gran parte della popolazione umana non ha né esseri umani né animali al suo diretto servizio, questo significa che il consumo energetico avviene impiegando quasi esclusivamente fonti fossili, insieme a
una piccola quota di energie rinnovabili, che si auspica possano dare
un contributo assai più consistente in tempi rapidi.
Al principio del XXI secolo stiamo scoprendo che questo sviluppo fatto di accelerazioni demografiche ed energetiche non è più
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sostenibile, e che il mondo deve trovare una nuova chiave di sviluppo mirando alla stabilità e a nuovi equilibri. La necessaria inversione di tendenza non è facile, anche e soprattutto per ragioni culturali, perché quello dell’«espansione», a vari livelli, è stato un valore che
ha alimentato l’azione umana per tutta la lunga era della Rivoluzione
agricola. Anche per questa ragione, quindi, conoscere da dove veniamo è fondamentale per poterci seriamente interrogare su dove
vogliamo andare.
Per comparare le varie modalità di abitazione del pianeta da
parte dell’uomo, è utile avere una visione allargata delle dinamiche
della globalizzazione, e non circoscriverle ai processi che hanno
segnato la fine del XX secolo, benché questo abbia indubbiamente
segnato una tappa decisiva (come confermano tutti gli indicatori
demografici ed energetici). Sulla base del quadro da noi delineato,
infatti, è opportuno parlare di almeno «quattro globalizzazioni» successive. La prima è opera delle diaspore delle società dei cacciatoriraccoglitori ed è caratterizzata da relazioni deboli (ma non nulle) fra
culture radicate in ambienti locali. Nella seconda, innescata dai
primi sviluppi dell’agricoltura, le società e le culture prendono a
interconnettersi, scambiandosi prodotti agricoli, tecnologie e idee, e
spesso anche a espandersi le une a spese delle altre. La terza coincide con l’età delle esplorazioni geografiche da parte dei popoli europei: anche qui l’agricoltura è protagonista, giacché il suo risultato
più duraturo è la costruzione di un sistema agricolo mondiale che fa
da supporto a una rete di comunicazioni e di commerci che attraversa l’intero pianeta. La quarta è quella contemporanea, in cui le
comunicazioni fra individui e collettività delle varie regioni del mondo non solo sono più fitte e frequenti, ma soprattutto provocano una
contrazione spazio-temporale grazie agli sviluppi dei trasporti e
delle tecnologie informatiche. Oggi il quadro delle comunicazioni a
distanza in tempo reale, del tutto inconcepibile per le globalizzazioni del passato, fa parte della routine di un’ampia porzione degli abitanti del pianeta.
Come proposta esplorativa, sembra possibile definire i differenti
livelli della globalizzazione sulla base della natura delle reti umane
che di volta in volta sono state e sono tuttora costruite. E per «natura delle reti umane» intendiamo la qualità, la quantità e i tempi delle
interconnessioni fra individui e fra collettività. Probabilmente, in
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questi aspetti, la nascente «teoria delle reti» troverà importanti problemi su cui soffermarsi, per quanto già oggi abbia toccato il tema
della globalizzazione con alcune ricerche pionieristiche di grande
importanza, come quella dello psicologo sociale Stanley Milgram
che, fin dagli anni Sessanta, si era chiesto quale fosse la struttura
delle reti sociali che connettono gli abitanti del pianeta. In quegli
anni egli si concentrò sul tipo di interconnessioni che negli Stati
Uniti esistevano fra i cittadini del Kansas e del Nebraska da un lato,
e quelli di Boston dall’altro, posto che i due insiemi non erano vicini geograficamente né condividevano alcuna affinità culturale particolare. In pratica, egli scelse come destinatario di una sua lettera un
amico personale di Boston, e nel frattempo disseminò di lettere gli
Stati del Kansas e del Nebraska per cercarne i mittenti. Gli abitanti
del Kansas e del Nebraska a cui Milgram consegnò le lettere vennero informati su alcune regole del gioco molto semplici. Nel caso in
cui essi conoscessero personalmente il destinatario della lettera (l’amico di Milgram a Boston), avrebbero dovuto spedirgliela direttamente. In caso contrario, avrebbero dovuto spedirla all’amico o al
conoscente che essi ritenevano essere il candidato con maggiori probabilità per fare da «ponte» con la persona in questione. Evidentemente, un buon espediente logico poteva essere quello di circoscrivere il perimetro spaziale e quindi, come primo passo, inviare la
lettera a persone di Boston o di località il più possibile vicine a quella città. Il risultato fu illuminante: nell’arco di sei passi, tra il mittente e il destinatario, la lettera raggiungeva quasi sempre la meta. Da
allora l’esperimento è stato ripetuto altre volte, anche su scala differente, dando grossomodo gli stessi risultati. È stato così dimostrato
che, persino su scala planetaria, in (più o meno) sei passi tutti gli abitanti del mondo sono interconnessi l’uno con l’altro. In buona
sostanza, per quanto le conclusioni di questo tipo di indagini possano variare in virtù del grado di connessione tra un individuo e un
altro (amicizia, conoscenza, incontro sporadico), pare proprio di
poter dire che oggi viviamo in un «piccolo mondo». La ragione di
questo fatto è che nel pianeta globalizzato sono molti gli «individui
ponte», cioè le persone la cui rete di relazioni si estende ben oltre le
immediate vicinanze spaziali fino a luoghi anche lontanissimi dal
luogo abituale di residenza.
Grazie alle reti che si formano per le attività professionali, per il
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turismo, o per semplici scambi amicali, siamo diventati tutti individui «ponte». Naturalmente esistono individui più ponte di altri, per
il loro ruolo pubblico o per la loro attività professionale (politici,
attori, finanzieri, scrittori, ecc.), o semplicemente per la loro storia
di vita, e questi consentono di «collegare» molte persone di molte
luoghi differenti della Terra.
Che il nostro sia diventato un piccolo mondo, fatto di reti fitte e
assai connesse, è forse il tratto della globalizzazione contemporanea
più significativo, se comparato ai processi di globalizzazione del passato. Nell’età dei cacciatori-raccoglitori, praticamente tutti i legami
erano o interni alle popolazioni o fra popolazioni confinanti, e gli
individui ponte, anche quando presenti, erano rarissimi: le relazioni
globali erano escluse dalla scala della vita umana, di conseguenza le
idee e le tecnologie si propagavano molto lentamente. I primi insiemi di individui ponte sono sorti nell’età degli imperi che ha accompagnato il diffondersi dell’agricoltura nel continente eurasiatico. Se
pensiamo agli amministratori, ai soldati, ai mercanti romani, ai persiani o ai cinesi, è plausibile che molti di questi individui siano entrati in contatto vicendevolmente, venendo a formare un tramite per
molti abitanti di questi imperi.
Ma il pianeta inizia a diventare un autentico piccolo mondo, ossia
una rete globale di uomini interconnessi fra loro, solo dopo il 1492:
uno spartiacque dopo il quale sono comunque trascorsi secoli perché il processo potesse dirsi veramente compiuto. Per rendere l’idea,
si consideri che negli anni Trenta del secolo scorso un aviatore olandese si imbatté in una valle interna della Nuova Guinea abitata da
una civiltà agricola di 40.000 persone, la cui esistenza era ancora
totalmente ignota.
Oggi siamo tutti interconnessi da soli «sei gradi di separazione»,
eppure il processo evolve senza sosta. Oltre alle interconnessioni
relazionali, che hanno impiegato 110.000 anni a svilupparsi, si stanno rapidamente imponendo le interconnessioni informatiche, che
rendono il mondo ancora più piccolo perché caratterizzate da tempi
molto più rapidi.
È quindi lecito chiedersi: l’umanità diventerà più creativa o meno
creativa? E per essere più precisi, a quali condizioni potrebbe diventare più creativa? Sono quesiti molto difficili da affrontare, e forse
soltanto le prospettive di lungo termine presentate in questa rifles133
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sione possono essere di qualche aiuto. Non dobbiamo cadere nella
trappola di identificare in termini assoluti la separazione con il passato e l’interconnessione con il presente (e il futuro). La creatività
della specie umana sembra dipendere da un sottile equilibrio fra
diversità e interconnessione; un equilibrio che forse dovrà essere
raggiunto su basi nuove, dato che sotto il profilo pratico non esistono più le barriere geografiche e culturali che alimentano la produzione della diversità. La diversità mantenuta dai confini geografici e
culturali era un tratto caratteristico delle civiltà di cacciatori-raccoglitori e, in buona misura, anche delle civiltà più recenti, dal momento che gli individui che intrattenevano rapporti di lungo raggio
erano una frazione minoritaria della popolazione.
Oggi la situazione è del tutto nuova. In altre parole, l’età dei cacciatori-raccoglitori ha certamente prodotto una diversità di base
delle culture umane, perché ognuna recava l’impronta del suo
ambiente, e gli ambienti del mondo erano variegati e diversificati.
Ora che questo sistema di vita è scomparso definitivamente, riscopriamo, non senza una certa nostalgia, che le culture e le conoscenze ambientali di quei tempi lontani sarebbero utili alle donne e agli
uomini dei nostri giorni: lo comprendiamo, per esempio, quando
prendiamo coscienza del loro patrimonio di nozioni sulle proprietà
medicamentose delle piante. Di questa umanità originaria, tuttavia,
molto è restato alle radici del nostro mondo. Passo dopo passo, le
innovazioni antiche sono circolate ponendo le basi per le civiltà successive; e fra le più importanti di queste antiche innovazioni va particolarmente menzionata l’agricoltura.
La principale funzione dell’agricoltura nella storia umana è dunque quella di invertire la direzione diasporica che aveva caratterizzato tutta la storia antecedente della nostra specie, per promuovere
progressive interconnessioni fra le società e le culture umane, fino a
raggiungere un unico sistema globale. Prima della Rivoluzione agricola, le varie società del mondo erano fondamentalmente paritarie,
ma a partire da quella transizione si innescano rapide ristrutturazioni dello spazio globale a seguito delle quali le relazioni umane vengono a trovarsi in uno scenario definito da centri e periferie. La
diversità culturale si riduce, perché le culture agricole vengono spinte da un imperativo territoriale che le porta ad assorbire e a omologare tante culture antecedenti. Ciò nonostante, il meccanismo di
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produzione delle novità culturali e tecnologiche diventa più maturo,
perché non è più immerso in un contesto di forte separazione geografica (che rende il meccanismo di diffusione delle novità molto
lento e fuori dalla portata delle generazioni presenti) ma, al contrario, in un contesto di comunicazione fra culture «altre» che scambiano reciprocamente sia tecnologie sia idee (malgrado tanti conflitti e tante guerre). L’età agricola non può essere rappresentata solo
con i tanti episodi cruenti e distruttivi che certamente la caratterizzano, ma anche con i tanti episodi di traduzione culturale e tecnologica che in qualche modo hanno gettato le basi positive della modernità: è proprio grazie alla relazione fra diversità e interconnessione
che viene a costruirsi l’attuale «mondo mondializzato».
La Rivoluzione agricola definisce il primo «centro del mondo»
che è, per l’appunto, il primo focolaio di coltivazione sistematica
delle piante e di allevamento degli animali. Indicato unitariamente
come Medio Oriente, questo centro è in realtà composto da tre zone
distinte, ecologicamente e climaticamente, che comunicano facilmente l’una con l’altra: il corridoio che va dall’Anatolia alla Palestina
con l’antistante litorale siro-libanese; le pianure della Mesopotamia
(allora molto più fertili); i monti Zagros a cavallo degli attuali Iran e
Iraq. La sua peculiarità è proprio quella di essere uno e molteplice
allo stesso tempo, in considerazione del fatto che da una parte costituisce per molto tempo il focolaio principe dell’agricoltura, e dall’altra rappresenta il centro delle reti umane su scala globale. I prodotti di quest’area consentono un’alimentazione varia e flessibile e,
diversamente dagli altri centri, la domesticazione degli animali non
è marginale rispetto a quella delle piante. Vengono allevati caprini,
ovini, suini e bovini, anche se a partire da sedi originarie un po’
discoste (i monti Zagros per le capre, l’attuale Siria per le pecore e i
maiali, l’Anatolia centrale per i bovini). Analoga varietà e versatilità
si trova per le prime piante coltivate: grano, farro, orzo, lenticchie,
piselli, ceci, ecc. I legumi, com’è noto, esercitano positivi effetti
ambientali, perché consentono di fissare l’azoto nel terreno e prevengono un suo prematuro decadimento. Questa diffusione a rete
delle prime innovazioni agricole non solo individua nelle comunicazioni fra le città e i villaggi del Medio Oriente neolitico la prima vera
«rete umana», ma consente anche di comprendere che il sorgere nei
millenni successivi (in Mesopotamia e in Egitto) della cosiddetta
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«civiltà della scrittura» ha qui le sue radici profonde: radici che negli
ultimi decenni hanno portato a retrodatare di almeno 4.000 anni (dal
4000 all’8000 a.C.) il passaggio alla storia vera, dinamica e drammatica, che continua ancora ai nostri giorni.
Ben presto, da questo focolaio già ampio e diversificato, si dipartono tre fronti d’espansione: l’Egitto, i Balcani e l’Altopiano iranico.
Oltre l’Egitto, il flusso di piante e animali si arresta dinanzi alla grande barriera geografica del deserto, da cui si evince che gli sviluppi
agricoli del Sahel hanno avuto luogo in modo quasi del tutto autonomo. Nei Balcani e nell’Altopiano iranico si hanno invece resti di
villaggi e di centri urbani neolitici molto antichi, il che dimostra la
rapidità della prima diffusione dell’agricoltura, come pure la capacità di trovare fuori della sua area di origine nuovi centri di diffusione secondari che presto la esportano in tutta l’Europa e nell’Asia
meridionale (in particolare in India).
Il grande biologo e geografo americano Jared Diamond ha evidenziato come fra le componenti essenziali del successo globale
della Rivoluzione neolitica mediorientale vi siano la geografia e la climatologia. L’Eurasia è infatti un continente molto esteso in orizzontale, e quindi, partendo dalla latitudine del Medio Oriente, piante e
animali possono diffondersi a occidente e a oriente mantenendo la
medesima fascia climatica, ossia senza troppe escursioni di temperatura e altre variabili. All’interno di questa fascia climatica, tra l’altro,
si trova anche gran parte dell’Europa.
L’incontro fra Medio Oriente, Egitto, Europa, Cina e India non
è soltanto una tappa fondamentale nella storia dell’agricoltura, ma
molto di più: è la costruzione di una prima rete economica, tecnologica e culturale trans-continentale. Cinquemila anni fa, poco dopo il
3000 a.C., le civiltà di tutte queste aree entrano in collegamento reciproco attraverso quegli itinerari commerciali dell’Asia centrale che
poi entreranno nella leggenda con il nome di «via della seta». Nel
corso del tempo, la rete eurasiatica si allargherà ad altre regioni del
Mondo antico: sostanzialmente l’Indonesia, le coste dell’Africa orientale e l’Oceano Indiano nel suo complesso, che a loro volta si integreranno dando vita a una «via delle spezie» altrettanto importante.
Gli storici hanno giustamente sottolineato il fatto che le basi dell’attuale sistema economico mondiale sono state poste nei primi
decenni successivi al 1492, quando sia la Spagna sia il Portogallo
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tracciarono rotte e reti commerciali con l’Oriente ad un tempo concorrenti e competitive: la Spagna attaverso l’Oceano Atlantico, il
Messico, l’Oceano Pacifico, le Filippine; il Portogallo attraverso le
coste dell’Africa, l’Oceano Indiano, le coste dell’India, Malacca, le
Molucche. Oggi, però, ci si chiede se questo sistema mondiale non
abbia le sue radici in un altro sistema ben più antico che lega le
civiltà del Vecchio mondo da 5.000 anni, e che, nelle sue estensioni
esterne come nell’arricchimento delle sue relazioni interne, avrebbe
preparato le basi per la discontinuità del 1492. Un primo risultato
interessante di questa visione della storia eurasiatica ha condotto
all’individuazione, sia pure problematica, di correlazioni forti negli
sviluppi economici, politici e culturali delle civiltà afferenti alla rete.
La storia del Vecchio mondo, dal 3000 a.C. in poi, sarebbe caratterizzata da un andamento ciclico, in cui le fasi di espansione si alternano alle fasi di contrazione e di crisi. Per le civiltà più importanti
queste fasi sarebbero inoltre correlate positivamente: in altri termini, le «età d’oro» e le «età oscure» di Egitto e Mesopotamia o, poniamo, dell’Impero romano e dell’Impero cinese, presenterebbero delle
corrispondenze.
È probabile che le prossime ricerche di storia globale possano
aiutare a esplorare più a fondo questa ipotesi. Per ora si può dire che
l’innesco di questo processo ciclico di lungo periodo sembra dovuto proprio ai successi delle civiltà agricole e alle loro esigenze strutturali di espansione territoriale, a causa dei bisogni della popolazione e del parassitismo delle burocrazie, delle capitali e dei grandi centri urbani che traggono sempre le loro risorse dalle periferie. Per far
fronte a bisogni crescenti, le civiltà di maggior successo costruiscono reti di commerci a vasto raggio, e in questo modo si alimentano
a vicenda. Così le civiltà non direttamente confinanti, come appunto Egitto e Mesopotamia nel Medio Oriente antico, o Roma e Cina
nell’età classica, innescano un processo di cooperazione a tutto vantaggio dei loro «centri», ma a spese delle «periferie». Prima o poi,
tuttavia, ogni attore vincente in questo sistema incontra i limiti della
sua espansione complessiva: gli imperi diventano troppo grandi per
essere controllati dai centri, anche perché le periferie si ribellano e
nel frattempo può accadere che qualche condottiero o qualche etnia
«periferica» si propongano come nuovi centri di civiltà. Le perturbazioni causate dal declino di un vecchio centro di civiltà si propa137
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gano per tutto il sistema complessivo, alimentando le crisi anche in
altre regioni.
Forse il fatto più interessante degli sviluppi di questa rete è che,
sin dal suo sorgere, essa tende a creare una sorta di «doppio» rispetto alle civiltà sedentarie e urbane insediate nei luoghi più fertili, cioè
una serie di popolazioni di allevatori nomadi, situati nelle steppe
eurasiatiche a nord delle civiltà propriamente agricole, capaci di
muoversi rapidamente per lunghe distanze e far valere la loro forza
negli scontri bellici, grazie soprattutto all’uso intensivo del cavallo.
Pensiamo a tanti nomi noti, come per esempio i «barbari», così definiti dalle civiltà sedentarie: sciti, sarmati, magiari, bulgari, unni, turchi, mongoli, manciù. Quando il sistema delle «civiltà centrali» entra
in crisi, questi nuovi pretendenti premono ai confini e spesso riescono a penetrare profondamente negli spazi degli antichi dominatori, fino a costituire nuove dinastie dominanti, come nel caso dei
mongoli e dei manciù rispetto al mondo cinese, o dei turchi nei confronti dell’impero bizantino.
Questo meccanismo di ricambio storico ha arricchito la rete
umana del vecchio mondo di molte idee, tecnologie e popolazioni, e
alla fine ha esteso permanentemente i contorni complessivi del sistema stesso. Oltretutto, è proprio da questo tipo di processi che è nata
l’Europa come noi oggi la conosciamo, sorta da una fusione dei centri storici della civiltà classica con le popolazioni agricole e seminomadi che erano stanziate ai suoi confini (germani, slavi, magiari). A
un processo parallelo presero parte, con grande successo, anche le
steppe e i deserti della penisola araba, situati a meridione dei «luoghi centrali» del Medio Oriente. L’irrompere dei nomadi arabi nella
storia ha contribuito a sua volta ad ampliare ulteriormente la rete,
introducendo nei suoi interscambi anche buona parte del mondo
africano.
L’età successiva al 1492, con la rapida caduta delle barriere fra i
continenti, porta al suo apice la centralità di questa antica rete eurasiatica: le altre culture del mondo – agricole, nomadi e di cacciatoriraccoglitori – si connettono fra loro grazie esclusivamente agli sviluppi di questa rete, e in genere ne vengono subordinate politicamente ed economicamente, quando non direttamente assorbite. È
l’età degli imperi trans- e intercontinentali: quelli coloniali dell’Europa occidentale, quello russo, quello ottomano, quello cinese. Su138
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Agricoltura e globalizzazione
bito prima di lasciare il suo ruolo alla produzione industriale basata
sui combustibili fossili, l’agricoltura esaspera il suo ruolo di agente
trasformatore degli ambienti umani su larga scala. Una delle conseguenze principali del 1492 sta nel fatto che per le piante e gli animali
europei si aprono enormi territori, definibili collettivamente come
«nuove Europe», dove il clima è comparabile con quello europeo:
tutta l’America settentrionale, la parte più a sud dell’America meridionale (pampas argentine, ecc.), il Sudafrica, la Siberia meridionale, l’Australia, la Nuova Zelanda. In tutte queste regioni, gli ultimi
arrivati hanno facilmente ragione dei piccoli popoli già insediati, e
attuano una deforestazione così imponente che amplifica significativamente l’effetto serra naturale, anche se in modo non confrontabile con quello che stiamo sperimentando nel presente.
Non tutte le società agricole, comunque, sono riuscite ad aggregarsi in tempo alle reti più ampie, e non tutte le società agricole
hanno avuto successo. Negli ultimi anni è stato studiato in dettaglio
il caso di alcune società isolate che sono regredite o addirittura
scomparse per aver sottovalutato il carico umano che imponevano ai
propri ambienti, e per non avere adottato tempestivamente misure,
oggi diremmo, di «sviluppo sostenibile». Un caso molto interessante, persino estremo, è quello dell’Isola di Pasqua, vittima di una catastrofe ambientale provocata da una totale deforestazione del territorio. La carestia irreversibile non fu altro che il risultato di un uso
indiscriminato di tutto lo spazio disponibile per fare largo all’agricoltura, e della concomitante assenza di scambi su vasta scala per via
della distanza geografica dalle altre isole polinesiane. Un altro caso
molto interessante è quello del sud-ovest nordamericano (corrispondente agli attuali Stati dell’Arizona e del New Mexico, con i
centri principali a Chaco Canyon, Mesa Verde e Canyon de Chelly),
dove a partire del 600 a.C. si insediano e si sviluppano diverse civiltà
dedite all’agricoltura, che dopo alcuni secoli si sgretolano l’una dopo
l’altra obbligando i superstiti umani ad abbandonare quelle terre (le
tribù dei nativi di tempi più recenti le chiamarono collettivamente
«Anasazi», vale a dire «antichi»). Probabilmente la causa prossima
del loro fallimento è imputabile ai mutamenti climatici e alle carestie
conseguenti. Ma è indubbio che anche per loro, come per gli abitanti dell’Isola di Pasqua, la rapida crescita della popolazione abbia
prodotto una grave crisi culturale. In poche parole, le conoscenze
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Gianluca Bocchi
originarie che permettevano di assicurare uno sviluppo agricolo in
equilibrio con l’ambiente passano in secondo piano dinanzi all’imperativo di produrre di più, e vengono sostituite con strategie che
deprimono la varietà delle coltivazioni e incentivano lo sfruttamento di territori sempre più vasti: scelte che possono apparire vincenti
nel breve periodo, ma che nei tempi lunghi rendono gli agroecosistemi, l’ambiente e la società vulnerabili alla prima crisi esterna.
Paradossalmente, il problema della riduzione della varietà delle
colture agricole (e quindi della stessa biodiversità complessiva del
pianeta) tocca non solo chi non ha avuto successo, ma anche e
soprattutto chi ha avuto successo. Nel momento della costituzione
della grande rete agricola mondiale, la strategia dei grandi imperi
coloniali è stata quella di inserire massicciamente la «monocoltura»
nei territori dei loro domini, sulla base di considerazioni unicamente logistiche ed economiche, oltre che nella convizione quasi sempre
distorta di avere ottimizzato le rese produttive. Oggi il problema si
presenta in modo ancor più evidente, a causa dell’ulteriore erosione
della diversità biologica delle piante coltivate promossa dalle multinazionali dell’industria sementiera e dell’agribusiness.
Il bilancio della storia dell’agricoltura, all’alba del XXI secolo, è
ambivalente. Gli sviluppi globali della Rivoluzione agricola hanno
certo prodotto una grande diversità culturale, perché hanno catalizzato incontri, incroci, ibridazioni, traduzioni fra culture: tutti fattori
senza i quali gli attuali successi nell’ambito delle tecnologie e delle
idee sarebbero inconcepibili. Nello stesso tempo, quegli sviluppi
hanno anche contribuito a innescare ondate ricorrenti di riduzione
della diversità culturale, incoraggiando l’espansione di poche culture forti con conseguenti processi di omologazione forzata, che continuano a tutt’oggi con l’inurbamento dei contadini nelle periferie
delle metropoli. Naturalmente va considerato anche l’impulso positivo dato all’amplificazione della biodiversità agricola, grazie agli
innumerevoli esperimenti con cui gli agricoltori di tutto il mondo
hanno selezionato e incrociato varietà vegetali e si sono prodigati
nella coltivazione di nuove specie. Essi hanno operato però anche
nel senso opposto, quando hanno esteso a dismisura i terreni coltivati, spesso a scapito di habitat naturali ricchissimi, e quando, per
ragioni economiche e politiche, hanno trascurato piante e varietà
che avrebbero potuto avere un futuro promettente.
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Agricoltura e globalizzazione
Gli studiosi delle civiltà del mondo antico sostengono che nei
momenti in cui viene meno la capacità di sostenere l’espansione si ha
un rapido collasso della popolazione, oppure si verifica una diaspora che la frammenta. Oggi, con una popolazione di 6,5 miliardi di
persone che prevedibilmente aumenteranno per qualche altro
decennio, pare inevitabile la cessazione dell’espansione insostenibile, perché di fatto non esistono altri territori in cui migrare. Per evitare il collasso della civiltà e la riduzione forzata dell’umanità, l’unico territorio alternativo in cui muoversi è quello delle idee. Prendere
posizione a favore della diversità culturale e della diversità biologica, entrambi elementi irrinunciabili per i processi creativi dell’umanità, sarà forse il passo cruciale per vincere la sfida inedita della
sostenibilità.
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LO SVILUPPO TECNOLOGICO
DELL’AGRICOLTURA IN RELAZIONE
AI LIMITI BIOFISICI E SOCIO-ECONOMICI:
ATTENZIONE ALLA SINDROME
DEL CONCORDE
di
Mario Giampietro*
Il presente: la crisi del paradigma
dell’agricoltura industriale
Una chiara immagine dell’attuale crisi del paradigma dell’agricoltura industriale, la cui definizione verrà precisata più avanti, ci è fornita dalla situazione che le autorità olandesi stanno affrontando nel
Flevoland. Il Flevoland è l’ultima superficie di terra che è stata strappata al mare al termine della leggendaria e secolare lotta degli olandesi, fatta di dighe, canali e stazioni di pompaggio. Grazie alle
moderne tecnologie, alle conoscenze specifiche accumulate e all’incredibile lavoro fatto nel passato (a cominciare dalle gigantesche
opere dello Zuiderzee), gli olandesi hanno «estratto» dal mare due
grandi territori e hanno la possibilità di ottenerne altri. Tali territori, secondo i piani originali, dovevano essere convertiti in terreno
coltivabile aumentando la potenzialità agricola di uno dei paesi più
densamente popolati del mondo. Inaspettatamente, però, in totale
contrasto con la storia di questo paese, il progetto originario di
«liberare» altra terra dal mare è stato bloccato, dato che: nessuno
vuole andare a fare il contadino nel Flevoland, perché l’agricoltura
non è più percepita, a livello individuale e familiare, come un’attività
*
Esperto di sostenibilità, Arizona State University,
Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN)
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USA,
e Istituto Nazionale di
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Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura
economica attraente; la società olandese accetta di buon grado che
nessuno voglia andare a fare il contadino nel Flevoland, perché l’agricoltura non è più percepita, a livello sociale, come un’attività economica positiva.
Aumentare la produzione agricola comporterebbe un peso per
l’economia (per i sussidi economici da dare, soprattutto a coloro che
iniziano tale attività su terra marginale) e per l’ambiente (per l’inquinamento delle falde con fosforo e azoto). Infatti è ormai accertato che: in Europa, l’agricoltura è il settore economico con la più alta
richiesta di capitale per posto di lavoro, il più basso ritorno sull’investimento, il più alto impatto ambientale per addetto; fornire servizi sociali alla popolazione rurale è molto più costoso che fornirli alla
popolazione urbana.
Nonostante la loro identità culturale, costruita nei secoli, intorno
alla lotta per strappare più terra agricola al mare, gli olandesi si sono
dovuti rendere conto che oggi, in Europa, un aumento di terreno agricolo in produzione (soprattutto se si tratta di terra marginale) non
rappresenta un vantaggio né per chi lo deve coltivare, né per il paese.
La metafora del Flevoland rappresenta bene un malessere diffuso del settore agricolo in Europa, malessere che ha già portato a un
ripensamento della PAC (Politica agraria comunitaria). Ci sono almeno tre ragioni che giustificano la decisione di ripensare completamente il vecchio sistema di incentivi: non si può seguitare a dare sussidi ai contadini per produrre eccedenze di derrate alimentari (perché troppo costose per i paesi poveri e perché non hanno una
domanda nei paesi ricchi); non si può seguitare a dare sussidi ai contadini per sostenere tecniche che inquinano l’ambiente, consumano
sempre più risorse naturali, disturbano il funzionamento degli ecosistemi naturali, dal momento che in Europa non c’è mancanza di
cibo; una notevole frazione delle risorse economiche investite nei
sussidi all’agricoltura finisce in altri settori economici (quelli che
producono input e servizi) e non nelle tasche dei contadini.
L’ultimo punto segnala un altro problema importante associato
con l’attuale paradigma dell’agricoltura industriale, un problema
che sta diventando sempre più evidente sia nei paesi ricchi sia in
quelli poveri. Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura industriale
comporta uno stress crescente per i contadini, e più in generale per
le comunità rurali. In Australia, ormai, i contadini vivono così spar143
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Mario Giampietro
si nelle campagne che devono ricorrere a programmi televisivi specializzati per trovare moglie (si veda il sito web http://www.sbs.
com.au/sheila/). In alcune aree del Canada, i bambini sono costretti a utilizzare Internet per «frequentare» la scuola (Canada’s school
net), senza parlare della situazione dei paesini di montagna di tutta
Europa sempre più popolati da persone anziane. Nei paesi in via di
sviluppo, se possibile, le cose vanno anche peggio: in India il fenomeno dei suicidi dei contadini subissati dai debiti – le stime variano
tra 15.000 e 50.000 negli ultimi 5 anni – è così diffuso che l’enciclopedia on line Wikipedia contempla addirittura una voce specifica
per tale argomento (http://en.wikipedia.org/wiki/Farmer_Suicides_
in_India).
Quanto all’impatto sull’ambiente, le notizie non sono certo
migliori. Il Millennium ecosystem assessment, un progetto scientifico
sponsorizzato dalle Nazioni Unite, che ha visto la collaborazione di
1.360 esperti di 95 paesi, per lo studio dettagliato dell’impatto della
produzione di cibo sulla situazione ambientale del pianeta, conclude che il quadro è molto preoccupante: i cicli di acqua e nutrienti
sono sempre più fuori controllo, la perdita di biodiversità è allarmante, il crescente inquinamento e il cambiamento climatico generano ecosistemi sempre più malati. Avendo preso parte a tale progetto come chapter review editor, posso affermare che non si tratta
di propaganda ambientalista mirata a «terrorizzare» il pubblico, ma
di analisi scientifiche in cui ogni parola viene rigorosamente soppesata e controllata (il rapporto è disponibile su http://www.millenniumassessment.org/en/index.aspx).
Ma è necessario fare anche un riferimento alla situazione energetica, dal momento che l’agricoltura industriale si contraddistingue
per l’altissimo input tecnologico basato su un uso massiccio di energia fossile. Senza entrare nel dibattito relativo alla data esatta del
cosiddetto peak-oil (siamo infatti entrati nella fase calante delle riserve di combustibili fossili), possiamo prendere per buoni tre punti sui
quali c’è un accordo totale tra gli analisti energetici del mondo (per
es. http://www.chim.unisi.it/portovenere/): l’era del petrolio a basso
prezzo è finita per sempre; al momento non esistono alternative praticabili e immediate all’energia fossile su larga scala; (quindi) il consumo di energia fossile rimarrà cruciale per mantenere gli attuali
livelli di sviluppo per almeno altri 20 anni.
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Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura
Ciò significa che il problema del cambiamento climatico è molto
serio, così come lo è quello dell’attuale dipendenza totale dal petrolio.
Il passato: il successo del paradigma
dell’agricoltura industriale
Il paradigma dell’agricoltura industriale ha certamente rappresentato un chiarissimo esempio di successo tecnologico per il mondo
industrializzato, e da qui si può comprendere la pericolosa ubriacatura ideologica che ha determinato. Infatti, se si guarda ai trend di
sviluppo economico e di sviluppo demografico degli ultimi due
secoli, si vede chiaramente che la popolazione mondiale è letteralmente esplosa, generando un aumento della pressione demografica
senza precedenti nella storia dell’uomo. La popolazione mondiale è
triplicata, passando da 2 miliardi all’inizio del 1900 a oltre 6 miliardi all’inizio del 2000, nonostante le due guerre mondiali. Impressionante è anche il netto aumento della velocità di crescita della popolazione negli ultimi decenni. Dai primi anni Settanta al 2005, infatti,
la popolazione è passata da 3,5 miliardi a oltre 6,5 miliardi: in pratica, l’aumento di popolazione degli ultimi 35 anni, pari a circa 3
miliardi, ha eguagliato l’aumento della popolazione umana nei mille
anni precedenti!
Come si vede, l’aumento della produzione alimentare è stato in
grado di mantenere il passo dell’esplosione della domanda. Come
viene affermato nel Millennium ecosystem assessment, «dal 1960 la
popolazione è raddoppiata, mentre l’attività economica è aumentata
6 volte, la produzione di cibo è aumentata di 2,5 volte, i prezzi degli
alimenti sono calati, il consumo di acqua è raddoppiato». Il rovescio
della medaglia è stato un aumento dell’impatto ambientale, un maggiore squilibrio sociale tra ricchi e poveri, un aumento in termini
assoluti del numero di poveri e una crescente dipendenza della produzione alimentare da fonti energetiche non rinnovabili (petrolio).
Ma lo straordinario successo dell’agricoltura industriale non riguarda solo la capacità di produrre molto più cibo usando meno terra, bensì, soprattutto, la capacità di produrre molto più cibo usando
meno lavoro umano. Alla fine del Novecento non esisteva più nessun paese ricco, ossia con un PIL superiore a 10.000 dollari pro capi145
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Mario Giampietro
te, che avesse più del 5% della forza lavoro in agricoltura. Nei paesi
più avanzati, infatti, la percentuale della forza lavoro in agricoltura è
sotto il 2%.
In buona sostanza, si può dire che lo sviluppo dell’agricoltura
industriale nei paesi ricchi è stato guidato da due grandi obiettivi da
raggiungere contemporaneamente: produrre la maggiore quantità
possibile di cibo per ettaro, per rispondere a un continuo aumento
della pressione demografica; produrre la maggiore quantità possibile di cibo per ora di lavoro, per lasciare il massimo numero di ore
lavorative ad altri settori produttivi, che sono cruciali per lo sviluppo di una moderna economia.
Tali obiettivi sono stati centrati, infatti: il crescente uso di input
tecnologici basati sull’energia fossile ha reso possibile usare meno
terreno agricolo per produrre molto più cibo pro capite. Nei paesi
industrializzati il consumo pro capite di cereali è ormai di circa
1.000 kg per anno (includendo i consumi indiretti, come la doppia
conversione di mangimi in prodotti animali, la produzione di bevande alcoliche, la produzione di generi alimentari industriali). Questo
valore è quattro volte il consumo pro capite annuo di cereali (250 kg)
che era tipico delle società preindustriali; il crescente uso di input
tecnologici basati sull’energia fossile ha reso possibile usare meno
ore di lavoro per produrre molto più cibo pro capite. L’intera quantità di cibo consumata mediamente in un anno da un cittadino degli
Stati Uniti (uno dei paesi con i più alti consumi alimentari pro capite del mondo) viene prodotta con sole 17 ore di lavoro agricolo.
Analisi 1: i vincoli biofisici e socioeconomici sulla fattibilità
della produzione agricola
Il paradigma dell’agricoltura industriale può essere definito come
l’idea secondo cui lo sviluppo tecnologico basato su un crescente
consumo di energia fossile deve raggiungere due obiettivi: primo,
aumentare la produttività per ettaro di terreno in produzione (obiettivo determinato dall’aumento della pressione demografica); secondo, aumentare la produttività per ora di lavoro nel settore agricolo,
allo scopo di eliminare i contadini dalla forza lavoro (obiettivo determinato dall’aumento della pressione economica).
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Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura
Analisi comparata degli input nelle agricolture
di diversi paesi
I dati presentati in questa sezione sono tratti da diversi studi
(1,2,3,4) e si riferiscono ad analisi comparate dell’uso degli input
tecnologici in agricoltura. Tali dati consentono di trarre le seguenti
conclusioni:
1. L’ipotesi delle due pressioni (demografica ed economica) che
guidano lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura è confermata dalle
diverse caratteristiche delle agricolture dei diversi paesi del mondo.
In particolare si deve considerare che:
– più è alta la pressione demografica (popolazione per unità di
area) e più è alta la produttività per ettaro (la quantità di nutrienti
prodotti per area in produzione) dell’agricoltura del paese;
– più è alta la pressione economica (che implica una larga parte
della forza lavoro impiegata nei settori dei servizi e dell’industria) e
più è alta la produttività per ora di lavoro in agricoltura (la quantità
di nutrienti prodotti per ora di lavoro nel settore agricolo).
2. Esistono due tipologie di input tecnologici: quelli relativi alla
pressione demografica (irrigazione e fertilizzanti di sintesi); quelli
relativi alla pressione economica (macchine).
In particolare si deve considerare che:
– guardando alle statistiche internazionali sull’uso dell’irrigazione, è estremamente chiaro che l’irrigazione come input tecnologico
si riferisce alla «pressione demografica». In altri termini, l’irrigazione è usata molto nei paesi densamente popolati, a prescindere dal
fatto che siano ricchi o poveri, e poco nei paesi non densamente
popolati, a prescindere dal fatto che siano ricchi o poveri;
– guardando alle statistiche internazionali sull’uso dei fertilizzanti, è estremamente chiaro che anche questo input tecnologico si riferisce alla «pressione demografica». I grafici che visualizzano l’uso di
fertilizzanti nei diversi paesi del mondo sono praticamente identici a
quelli relativi all’uso dell’irrigazione. I fertilizzanti sono usati molto
nei paesi densamente popolati, a prescindere dal fatto che siano ricchi o poveri, e poco in quelli meno densamente popolati, a prescindere dal loro grado di sviluppo economico;
– guardando alle statistiche internazionali sull’uso dei macchinari, è estremamente chiaro che questo input tecnologico si riferisce
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Mario Giampietro
esclusivamente alla «pressione economica»: in pratica, i macchinari
sono usati solo nei paesi ricchi!
3. Riassumendo le implicazioni di questa analisi comparata, possiamo definire le diverse situazioni presenti oggi nel mondo usando
quattro categorie: paesi ricchi densamente popolati (per es. i paesi
dell’Unione Europea e il Giappone) – in questo caso la tecnologia
deve essere usata sia per fronteggiare un’alta pressione demografica
sia un’alta pressione economica; paesi ricchi non densamente popolati (per es. Stati Uniti, Canada e Australia) – in questo caso la tecnologia deve essere usata per fronteggiare un’alta pressione economica. I fertilizzanti e l’irrigazione vengono usati, ma solo nella parte
della curva con ritorni marginali crescenti (per incrementare il ritorno economico); paesi in via di sviluppo densamente popolati (per es.
Cina, Egitto, India) – in questo caso la tecnologia deve essere usata
per fronteggiare un’alta pressione demografica, fatto che comporta
l’uso di fertilizzanti e irrigazione anche nella parte della curva con
ritorni marginali decrescenti (per aumentare la produzione interna
di cibo a ogni costo); paesi in via di sviluppo non densamente popolati (per es. Africa e Sudamerica) – in questo caso non c’è bisogno di
utilizzare un eccessivo input tecnologico, fatto che determina rese
energetiche dell’agricoltura molto alte (output di cibo su input di
energia fossile). Il rovescio della medaglia, in questo caso, è una bassissima produttività per ettaro e molti contadini poveri.
L’effetto dell’aumento della pressione
demografica
C’è un meccanismo che genera vincoli biofisici sulla possibilità di
aumentare ad libitum la densità di produzione di cibo per ettaro.
Questo meccanismo può essere spiegato considerando che il metabolismo di materia ed energia delle società umane (il flusso di materiali, che include il cibo, l’acqua, i vettori energetici, usati per la produzione e il consumo di beni e servizi) interferisce con il metabolismo degli ecosistemi naturali (il flusso di materiali che includono
nutrienti, acqua e i vettori energetici utilizzati dagli ecosistemi per
mantenere la loro struttura e funzionalità). In particolare, quando si
parla di produzione agricola, si può fare una distinzione tra sistemi
agricoli che funzionano con un basso uso di input tecnologici ester148
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Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura
ni (Low external input agricolture, LEIA) e sistemi agricoli che funzionano con un alto uso di input tecnologici esterni (High external
input agricolture, HEIA) (3). La differenza tra questi sistemi implica
che la produzione primaria di biomassa per ettaro venga divisa in
maniera radicalmente diversa tra metabolismo delle società umane e
metabolismo degli ecosistemi terrestri.
Nel primo caso (LEIA), i cicli di nutrienti sono garantiti dalle funzioni naturali degli ecosistemi. In questo caso gli uomini non devono investire molta energia fossile per la produzione primaria di biomassa, dato che viene mantenuto un discreto livello di biodiversità.
Il prezzo da pagare è che la densità dei flussi di biomassa che possono essere estratti e usati dall’uomo, sia per ettaro sia per ora di
lavoro, è limitata dalle caratteristiche dei processi naturali. Non
appena la pressione demografica sale (e la terra disponibile pro capite scende), o la pressione economica sale (e anche la necessità di guadagnare molti dollari per ora di lavoro), tali sistemi diventano non
più praticabili.
Il secondo sistema (HEIA) comporta una radicale semplificazione
della struttura e delle funzioni degli ecosistemi. La biodiversità naturale è rimpiazzata da sementi acquistate dalle multinazionali, i flussi
di nutrienti sono lineari e non compatibili con i processi naturali
(fertilizzanti di sintesi, acqua pompata dalle falde o portata con
canali, residui di fertilizzanti e pesticidi si accumulano nell’ambiente), la biomassa prodotta viene quasi totalmente raccolta e rimossa.
In questo modo, si riesce a raggiungere, nella produzione di alimenti, una densità per ettaro e per ora che è compatibile con i vincoli
socio-economici, ma si perde totalmente la compatibilità con i processi naturali (a partire dalla perdita di fertilità del suolo fino ad arrivare alla perdita di biodiversità sia delle varietà coltivate sia delle
specie selvatiche, a causa della crescente distruzione degli habitat).
L’effetto dell’aumento della pressione economica
L’espressione «pressione economica» si riferisce ai profondi cambiamenti nell’uso del tempo umano che il processo di sviluppo
socio-economico comporta. Infatti, in una società sviluppata si deve
bilanciare la quantità di tempo umano che viene richiesta per la produzione di beni e servizi con quella che viene investita nel loro con149
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Mario Giampietro
sumo. In altre parole, per poter produrre di più si deve saper consumare di più. Il termine pressione economica indica che con lo sviluppo economico è necessario investire una crescente quantità di
attività umana nell’attività di consumo, oltre che una crescente frazione della ridotta disponibilità di ore lavorative nel settore dei servizi. L’effetto combinato di questi due trend costringe il settore che
produce beni primari a un tremendo aumento di produttività per
ora di lavoro. Tanto per fare un esempio, se consideriamo l’Italia
come una scatola nera, possiamo dire che nel 1999 i 57,7 milioni di
italiani hanno rappresentato un totale di 503,7 Giga ore (1 Giga =
109) di attività umana (nel corso di quell’anno).
Quando si apre la scatola nera e si passa a un’analisi dei vari settori dell’economia, scopriamo che l’attività umana che una società
ha a disposizione deve essere investita in tante finalità diverse. Per
esempio, dal momento che più del 60% della popolazione italiana
non è economicamente attiva (pensionati, anziani, bambini, studenti), la sua attività relativa non viene usata nel processo di produzione di beni e servizi, ma in consumo. La popolazione attiva italiana
lavora soltanto per il 20% del tempo (1.780 ore l’anno). Questo significa che delle 503,7 Giga ore di attività umana disponibili per la
società italiana, nel 1999, solo 36,3 Giga ore (l’8% del totale) sono
state impiegate in attività lavorativa. In altri termini, nel 1999, per
ogni ora spesa a produrre, quasi 14 ore sono state usate per consumare!
Per quanto riguarda il vincolo di disponibilità di ore lavorative da
investire in agricoltura per la produzione di cibo, le cose vanno
ancora peggio. Oltre il 60% delle ore lavorate sono state investite
nel settore dei servizi e del governo. L’industria ha assorbito un altro
35%, lasciando al settore agricolo meno del 5% del già magro 8%
del totale. Questo significa che, nel 1999, solo lo 0,004 (neanche
l’uno per mille!) dell’attività umana dell’Italia è stato utilizzato per
produrre il cibo consumato dal paese nello stesso anno.
Questo necessario processo di riduzione del numero dei contadini durante le trasformazioni di una società che si sviluppa può essere anche analizzato in termini economici. Tale analisi è stata proposta da Willard Cochrane (5), studiando come nel settore agricolo
degli USA il mercato fosse utilizzato per eliminare i contadini. Il meccanismo individuato da Cochrane è stato chiamato agricultural tech150
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Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura
nology treadmill (in italiano «macina dell’innovazione tecnologica»).
Il meccanismo si articola in alcune fasi che si ripetono nel tempo:
Fase 1. Molti piccoli contadini producono tutti lo stesso prodotto nella stessa maniera; dato che nessuno di loro può influenzare il
prezzo, la strategia comune è di produrre il più possibile sulla base
dell’attuale struttura dei prezzi e ricavi.
Fase 2. Un’innovazione tecnologica rende possibile, a coloro che
la adottano subito, fare notevoli guadagni.
Fase 3. Dopo qualche tempo, una massa crescente di contadini
adotta tale innovazione spinta dai risultati dei concorrenti. Questa
fase viene definita di «diffusione dell’innovazione».
Fase 4. Il conseguente aumento di produzione e di efficienza
genera un crollo del prezzo di ciò che viene prodotto mediante tale
innovazione.
Fase 5. A questo punto coloro che ancora non hanno adottato
l’innovazione sono costretti a farlo, per evitare di uscire dal mercato. Ciò genera un ulteriore abbassamento del prezzo. Questa fase
viene definita di «spremitura del prezzo».
Fase 6. Coloro che sono troppo anziani, socialmente emarginati,
poveri o oltremodo indebitati per poter adottare l’innovazione,
ormai divenuta una necessità, lasciano la loro terra a coloro che hanno guadagnato prima e di più. Questa fase viene definita di «aumento di scala» (che genera economie e maggiore efficienza nella produzione). Tuttavia, potrebbe essere anche chiamata di «eliminazione dei contadini».
Il futuro: è possibile continuare con il paradigma
dell’agricoltura industriale?
Il punto sulla situazione della produzione di cibo
nel mondo all’inizio del terzo millennio
Dal’analisi comparata della produzione e del consumo di alimenti nel mondo, includendo in modo esplicito l’effetto della doppia
conversione di prodotti vegetali in prodotti animali (2), si possono
delineare le seguenti conclusioni:
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Mario Giampietro
Lo sviluppo economico implica un aumento del consumo pro capite di cibo
In termini di energia consumata pro capite al giorno, nel 1997, i
valori tra i paesi sviluppati (PS) e i paesi in via di sviluppo (PVS) sono
molto simili: PS = 13,6 MJ/giorno; PVS = 11,1 MJ/giorno.
Invece, quando si considerano le differenze in qualità (per es. l’energia da prodotti animali nella dieta), le differenze diventano molto
più evidenti: PS = 3,6 MJ/giorno; PVS = 1,3 MJ/giorno. In altre parole, i primi consumano circa tre volte ciò che consumano i secondi.
Questo significa che per garantire la dieta tipica dei PS c’è bisogno di produrre, calcolando i consumi primari a livello dell’intero
settore agroalimentare, più del doppio (28 MJ/giorno) della quantità
di prodotti vegetali attualmente consumati nei PVS (13 MJ/giorno).
Questo significa anche che nei PVS ciò che viene consumato a livello
individuale (11,1 MJ/giorno) è molto vicino a ciò che viene consumato a livello del sistema agroalimentare (13 MJ/giorno). Al contrario, nei PS la doppia conversione di vegetali in animali comporta la
necessità di produrre il doppio dell’energia alimentare consumata
nella dieta. Al riguardo, va notato che, non appena il reddito aumenta, anche i consumatori dei PVS si spostano verso modelli di consumo alimentare tipici dei PS.
Le differenze nell’uso di input tra paesi ricchi e poveri sono enormi
Considerando la quantità di energia fossile utilizzata per ora di
lavoro come un indicatore del livello di capitalizzazione del settore
(più energia controllata per ora di lavoro indica la disponibilità di
più tecnologia e capitale), possiamo vedere che le differenze tra PS e
PVS sono enormi. L’energia fossile per ora di lavoro è stata, nel 1997,
di 152 MJ/ora nei PS, contro i 4 MJ/ora nei PVS. Una differenza di 38
volte che si spiega con: il non uso di macchinari nell’agricoltura dei
PVS (differenza di pressione economica); la limitata disponibilità di
terreno per addetto, che rende meno importante l’effetto degli input
«irrigazione» e «fertilizzanti» (differenza di pressione demografica).
Va infatti notato che anche la differenza in ettari di terra coltivata
per addetto, rilevata in questo studio, era di 12 volte (12 ettari per
addetto nei PS contro 1 ettaro per addetto nei PVS). Nonostante questo scarto in energia e capitale investito per addetto, la produzione
di cibo per ettaro nei PS è stata più del doppio (24,2 GJ/ettaro)
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rispetto a quella dei PS (10,1 GJ/ettaro). Questa differenza è dovuta
a vari fattori: prima di tutto al mix di colture in produzione (concentrata prevalentemente sui cereali nei PVS); in secondo luogo
all’incidenza di produzioni multiple per anno (specialmente dove si
fa il riso); infine alle rese per ettaro delle varie colture.
Le differenze di densità per ettaro dei flussi di valore aggiunto sono
enormi
Quando si compara la prestazione di sistemi agricoli nei PVS e nei
PS, utilizzando come indice la densità dei flussi di valore aggiunto
per ettaro, si ottengono differenze talmente consistenti che per le
relative visualizzazioni grafiche è necessario ricorrere alla scala logaritmica. Infatti, se si costruisce un grafico che sui due assi mostra il
flusso di valore aggiunto generato per ora di lavoro, e l’investimento fisso economico per addetto, è possibile osservare che le tre principali tipologie di sistemi di produzione agricola presenti oggi nel
mondo sono separate da valori (di queste variabili) distanti ordini di
grandezza. Nel settore agricolo dei PS si parla di un flusso di valore
aggiunto di dieci-cento dollari per ora di lavoro e di investimenti
fissi dell’ordine di diecimila-centomila dollari per addetto. Nel settore agricolo dei PVS, per ciò che concerne i sistemi che operano già
pienamente nel mercato, i flussi monetari di valore aggiunto per ora
di lavoro sono dell’ordine di uno-dieci dollari per ora di lavoro,
mentre gli investimenti fissi per addetto sono dell’ordine dei centomille dollari. In ultimo, sempre nei PVS, quando si tratta di sistemi
agricoli di sussistenza, si trovano situazioni nelle quali il valore
aggiunto per ora di lavoro è dell’ordine dei centesimi di dollaro,
mentre gli investimenti fissi (che non sono di tipo monetario) non
superano i dieci-cento dollari.
C’è un futuro per il paradigma dell’agricoltura industriale nei PVS?
Varie considerazioni fanno dubitare che sia possibile che i PVS
seguano il paradigma di sviluppo tecnologico del settore agricolo
che è stato adottato dai PS.
In particolare si deve considerare che:
– a causa dell’alta pressione demografica, i PVS stanno già usando, per ettaro, più energia fossile dei paesi sviluppati per i fertilizzanti e l’irrigazione. Quando si considera la quantità di energia fos153
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sile utilizzata per questi due input relativamente ai dati del 1997, si
vede che i PVS usavano 7,4 GJ/ettaro contro i 4,9 GJ/ettaro utilizzati
dai PS (2). Ciò significa che i PVS si trovano già nella parte della curva
che comporta un «ritorno marginale decrescente» di tali input.
Un’ulteriore intensificazione di investimento di capitale, sia fisso che
circolante, per introdurre un massiccio uso di macchinari non
pagherebbe in termini di ritorni economici;
– in relazione alla pressione economica, se i PVS volessero seguire lo stesso modello di sviluppo adottato dai PS, eliminando i contadini e rimpiazzandoli con capitale (tecnologia e petrolio), non solo
dovrebbe essere aumentato di 38 volte il livello attuale di investimento economico per addetto, ma occorrerebbero anche ristrutturazioni enormi delle infrastrutture rurali (organizzate ora in piccolissime unità di produzione) e un’ulteriore accelerazione del processo di urbanizzazione (aspetto che già è fuori controllo). In altre
parole, oggi, avendo 50.000 dollari da investire in un’area rurale
della Cina, e considerando le disponibilità di terreno pro capite e per
azienda agricola e il profilo delle possibili attività economiche da
intraprendere, sarebbe sciocco usarli per comprare un trattore!
– guardando ai vincoli biofisici sui flussi economici, le cose
potranno andare solo peggio, dal momento che la quasi totalità dei
prossimi 2 miliardi di esseri umani che nasceranno si concentrerà
dove i problemi di pressione demografica sono già molto seri. Con
una serie di relazioni, che possono essere utilizzate per studiare i vari
parametri che condizionano la densità dei flussi economici nella produzione agricola, abbiamo che
denaro prodotto/ora = ricavo/kg x resa/ettaro
x ettari per addetto x carico di lavoro per anno.
Vediamo chiaramente che: i ricavi per unità di prodotto in agricoltura tendono a scendere; le rese per ettaro dei PVS – considerando le medie dei paesi densamente popolati come Cina, India e SudEst asiatico – sono già più alte delle medie dei PS; nei PS il numero
di ettari per addetto è molto più basso e rimarrà tale a causa dell’aumento della popolazione; il carico di ore di lavoro per anno non
può essere aumentato, dato che per mancanza di terra per addetto,
già ora, esiste una grande eccedenza di lavoro nelle aree rurali.
Un problema aggiuntivo è rappresentato dal fatto che nei PVS
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sono in atto profondi cambiamenti demografici che generano enormi variazioni nella disponibilità di forza lavoro nel tempo, variazioni che non sono facili da gestire. Per esempio, la politica di controllo demografico in Cina ha portato a una singolare struttura delle
classi di età della popolazione. Diversamente dall’Italia, la Cina
dispone di un 60% di popolazione economicamente attiva. Se oltre
a ciò si considera la differenza di ore lavorate per anno, il cui valore
in Cina è estremamente alto, circa 2.820 ore per lavoratore/anno (6),
si ottiene che per ogni 1.000 abitanti la Cina dispone di una quantità
di lavoro pari a 1.650.000 ore/anno. Tanto per fare un paragone, utilizzando i dati in precedenza discussi per l’Italia, per ogni 1.000 abitanti l’Italia dispone di 712.000 ore/anno, meno della metà di quelle dei cinesi. Solo per questa ragione, anche se esistesse parità di
salario tra i due paesi, il costo del lavoro cinese sarebbe la metà di
quello italiano. Ciò spiega come sia possibile per l’economia cinese
fronteggiare una grande pressione demografica (usando fertilizzanti
e irrigazione) senza utilizzare macchinari, e produrre alimenti e articoli industriali a basso costo (labor intensive). A questo punto, però,
ci si può chiedere: che cosa accadrà quando questa onda di adulti si
trasformerà in un’onda di vecchi? Diverso problema è quello dei
paesi che hanno visto una recente esplosione demografica, nei quali,
quindi, esistono vere e proprie masse di giovani che attendono di
entrare nella forza lavoro. Per questi paesi è impossibile creare abbastanza posti di lavoro a un ritmo tale da riuscire a mantenere livelli
di occupazione che evitino le tensioni sociali. Basti pensare alle
realtà di molti paesi islamici. Per concludere:
– è molto improbabile che il paradigma dell’agricoltura industriale, che prevede alti livelli di investimento di capitale e largo uso
di input tecnologici nel settore agricolo, possa funzionare per risolvere i problemi dei PVS (se non in nicchie speciali);
– anche se si aumentasse del 100% l’attuale produttività del lavoro in agricoltura, questo non risolverebbe il problema di fornire alle
aree rurali un adeguato sviluppo economico. È dunque necessario
intraprendere vie completamente differenti;
– non esiste alcun motivo per il quale i PVS dovrebbero investire
una larga quota delle loro scarse risorse economiche per aumentare
la quantità di capitale investito in agricoltura, che è il settore con il
peggiore ritorno economico e il minor numero di posti di lavoro
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creati per unità di capitale investito. Decisamente più sensato sarebbe puntare alla multifunzionalità rurale.
C’è un futuro per l’agricoltura industriale nei PS?
Le trasformazioni economiche di una società sviluppata comportano un radicale cambiamento nelle definizioni dei costi per l’alimentazione, in termini sia di energia sia di denaro, nel complesso del
sistema agroalimentare (SAA). Per esempio, in una società sviluppata, ciò che si paga di un prodotto alimentare è soprattutto la sua convenienza (intesa come tempo ridotto di preparazione e facile accessibilità). Il SAA di una società sviluppata non fornisce più materie
prime da utilizzare in cucina, ma sempre più prodotti semi-lavorati
o pronti all’uso, fino ad arrivare ai pasti caldi da consumare fuori
casa. Questo mutamento del significato del SAA, che svolge oggi
molte delle funzioni che una volta erano svolte dalle famiglie e in
particolare dalle casalinghe, si traduce nei seguenti fatti:
– nonostante gli alti costi energetici e di denaro che la produzione agricola comporta nei PS, il loro valore rappresenta solo il 20%
delle spese del SAA. In termini pratici, negli Stati Uniti vengono
pagati ai produttori agricoli 680 dollari per persona per anno (7),
una cifra ben maggiore di quella che si spende nei PSV. Questa cifra,
in ogni caso, è solo il 20% di quanto va in spese alimentari per persona per anno (3.400 dollari). Lo stesso accade con le spese energetiche. Sempre negli USA, per produrre gli alimenti consumati nel settore agricolo si spendono 9,2 GJ per persona per anno (7), mentre
quando si considerano le spese energetiche di tutto il sistema agroalimentare, che include anche le fasi del dopo-raccolto e la preparazione dei pasti, la spesa arriva a 42,4 GJ per persona per anno: quasi
5 volte di più;
– nonostante gli alti costi energetici e di denaro per l’alimentazione (sempre considerando l’intero SAA), nei paesi ricchi essi rappresentano meno del 12% del totale delle spese energetiche ed economiche della società. Continuando a usare l’esempio degli USA (7),
i 3.400 dollari per persona per anno spesi in alimenti rappresentano
soltanto l’11% della spesa totale media di un americano, pari a
31.400 dollari. Mentre i 42,4 GJ per persona per anno di energia
spesa nel SAA rappresentano il 12% dei 355 GJ di energia spesi per
persona per anno negli USA.
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– questo significa che la fase di produzione agricola oggi è del tutto irrilevante (intorno al 2% = 11% x 20%) se vista in rapporto alle
spese energetiche ed economiche totali. Ciò dimostra che introdurre
innovazioni tecnologiche nella fase di produzione per fare abbassare
i costi economici, magari del 20% o del 30% (su un 2% del totale)
non dovrebbe rappresentare la scelta prioritaria di una società.
Per concludere, nei PS il settore agricolo è chiaramente vittima
del proprio successo: allo stato attuale «produrre più cibo» non è
più una priorità né per i consumatori né per la società. La disponibilità di cibo è ormai considerata come acquisita. Altri criteri di prestazione del SAA sono considerati più rilevanti e questo cambiamento di percezione cambia anche la definizione di quali siano le priorità da seguire nello sviluppo tecnologico dell’agricoltura. Ma tutto
ciò sembra non sia stato percepito da chi lavora nell’innovazione tecnologica, contribuendo così alla sindrome del Concorde.
Analisi 2: la sindrome del Concorde
La cosiddetta «sindrome del Concorde» fa riferimento a un fenomeno definito lock-in, che si manifesta spesso nel campo dell’innovazione tecnologica. Essa si genera quando l’impostazione scientifica data a un determinato problema (nel caso del Concorde: costruire un aeroplano in grado di andare sempre più veloce) è obsoleta e
non riflette più la percezione che la società possiede del problema da
risolvere. Nel caso della produzione di velivoli, ciò che ha reso vincente la scelta di costruire grandi aeromobili che viaggiano sotto la
velocità del suono, più che la velocità, sono altri criteri e prestazioni, come il confort durante il volo, il basso costo del biglietto e la frequenza delle corse.
Com’è successo per i «costi», ignorati dai proponenti del progetto Concorde ma rilevanti per le scelte dei viaggiatori, oggi esistono
molti «costi» relativi alle prestazioni del SAA che il paradigma dell’agricoltura industriale non contabilizza ma che la società giudica
importanti. In particolare, si tratta di costi che incidono:
– sulla salute, tra cui l’obesità, il diabete, i tumori, le malattie cardiovascolari, le patologie associate all’alto tasso di ormoni e pesticidi negli alimenti;
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– sull’ambiente, tra cui l’erosione del suolo, la perdita di biodiversità, l’inquinamento e il prelievo eccessivo dalle falde acquifere,
la cattiva gestione del territorio che determina dissesti idrici e geologici;
– sulla società, tra cui la perdita del tessuto sociale nelle aree rurali, la perdita delle tradizioni e della dimensione simbolica/culturale
del cibo, la perdita dei paesaggi rurali tradizionali;
– sull’economia, tra cui la crescente domanda di risorse economiche per i sussidi che diventano sempre più importanti per far fronte
al continuo aumento del prezzo del petrolio, il possibile impatto
negativo sul turismo indotto dal peggioramento dell’immagine dei
prodotti tradizionali e dalla scomparsa dei paesaggi tradizionali.
Dunque, la sindrome del Concorde è stata provocata da una serie
di assunzioni/semplificazioni obsolete e sbagliate, sulle quali si basa
il paradigma dell’agricoltura industriale, tra cui:
– il fatto che l’agricoltura sia un’attività puramente economica,
che ha il solo scopo di produrre derrate e profitti;
– il fatto che gli alimenti, visti unicamente come derrate alimentari, siano tutti uguali (secondo il principio substantive equivalence)
a prescindere dalle qualità nutrizionali, dalle caratteristiche organolettiche, dai valori culturali che rappresentano e, soprattutto, dalle
modalità della loro produzione (associate a diversi livelli di impatto
ambientale);
– il fatto che i costi ambientali, sociali ed economici associati allo
sviluppo dell’agricoltura industriale siano trascurabili (secondo il
principio per cui «produrre di più» è indiscutibile).
Molte innovazioni tecnologiche in agricoltura si possono caratterizzare per la loro affinità con la sindrome del Concorde. Un esempio su tutti è dato dall’introduzione in zootecnia degli ormoni per
produrre più latte (USA, primi anni Novanta). I nessi sono evidenti.
Nel primo caso, gli scienziati si danno un obiettivo: costruire un
aereo di linea sempre più veloce. Essi lavorano su un «come» molto
efficace, ma su un «perché» sbagliato. Sembrava una buona idea, ma
si è rivelata una bufala: troppa velocità a che cosa serve?
Anche nel secondo caso, gli scienziati si danno un obiettivo: produrre un ormone che sia in grado di aumentare la produzione di
latte. Essi lavorano su un «come» molto efficace, ma su un «perché»
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sbagliato. Sembrava una buona idea ma si è rivelata una bufala: troppo latte a che cosa serve? In questo secondo caso, tra l’altro, per lo
Stato di New York si è trattato di un classico esempio di «macina
dell’innovazione tecnologica» che ha funzionato alla perfezione.
L’introduzione dell’ormone per incrementare la produzione di latte
ha di fatto eliminato la quasi totalità dei piccoli produttori dello
Stato.
La maledizione del sunk cost
Quando si lavora su un’innovazione tecnologica, la cosa peggiore che può accadere è che ci si accorga di aver fatto una cattiva scelta iniziale e quindi di dover gestire un sunk cost (costo di affondamento) molto alto. Oggi, la strategia del «non possiamo smettere
adesso, altrimenti tutto quello che abbiamo investito andrà perso»
sembra applicarsi anche agli organismi geneticamente modificati.
Naturalmente essa afferma una verità, ma pur sempre una verità irrilevante, per la semplice ragione che non si può e non si deve continuare a investire in una bufala. Ciò senza dire del rischio associato
al fatto che, per evitare il sunk cost, si cerchi e si riesca a convincere
la società che la cattiva scelta sia invece una scelta buona.
Come uscire dall’impasse
L’alternativa agli investimenti folli in bufale esiste: prima di partire alla ricerca di soluzioni tecnologiche «magiche», i famigerati silver bullets, si deve usare il buon senso comune, tentando di comprendere meglio i problemi che abbiamo davanti. Per esempio, nessuno vorrebbe essere il paziente di un dentista che chiede tariffe a
cottimo per ogni kg di denti che estrae dalla bocca. Un dentista,
infatti, deve garantire la salute del cavo orale, non estrarre chilogrammi di denti. Non è quindi chiaro perché accettiamo un sistema
di regolazione e controllo che definisce e tratta i produttori agricoli
come attori economici che devono estrarre biomassa dagli agroecosistemi un tanto al kg.
L’agricoltura, infatti, svolge funzioni essenziali e di valore inestimabile per la società: garantendo il cibo e contribuendo alla salute
degli individui; mantenendo il territorio e contribuendo alla salute
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degli ecosistemi; preservando aspetti importanti della cultura e contribuendo alla salute della società.
L’agricoltura deve essere ripagata per questi servizi, e non solo
perché produce «derrate alimentari» un tanto al kg, o peggio ancora, per fare pseudopetrolio. Lo stesso si può dire per gli investimenti nella ricerca di innovazioni tecnologiche.
In questo momento:
– nei paesi ricchi non occorre produrre di più, occorre produrre
meglio. Non serve eliminare altri contadini e semplificare ulteriormente gli ecosistemi, anzi è necessario riconnettere la città alla campagna e rafforzare la capacità degli ecosistemi naturali di fornire servizi ambientali. Per questo serve un nuovo contratto sociale per l’agricoltura, per il quale è indispensabile negoziare per «produrre
meglio»;
– nei paesi poveri non occorre eliminare i contadini dalle aree
rurali in tempi rapidi, aumentando a dismisura il loro stress (già
piuttosto alto) e asservendoli alla «macina dell’innovazione tecnologica». Al contrario, la folle rincorsa all’urbanizzazione selvaggia e
all’emigrazione disperata verso i paesi sviluppati va contrastata con
lo sviluppo rurale, e non con l’eliminazione per agricultural technology treadmill.
Esiste inoltre una carta jolly. Nell’ultimo giro di consultazioni
dell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO), si è raggiunto un accordo di principio sulla necessità di eliminare i sussidi alla
produzione di derrate alimentari (commodity support programs),
come per esempio: assicurazioni sulle coltivazioni, sussidi alle esportazioni, pagamenti per prestiti non restituiti e altri aiuti di tipo economico/finanziario. Si parla di una quantità di tagli dell’ordine di 20
miliardi di dollari per gli USA, e di 80 miliardi di dollari per la UE.
Queste risorse potrebbero e dovrebbero essere ancora spese in agricoltura per facilitare nei paesi sviluppati il cambio di paradigma del
sistema agroalimentare, invece che per mantenere in vita il malato
paradigma industriale.
Posto che la scienza e la tecnologia devono giocare un ruolo
determinante nella ricerca di soluzioni sagge e desiderabili ai problemi attuali, per uscire dalla sindrome del Concorde e intraprendere un cammino di sviluppo agricolo alternativo non servono soluzioni basate unicamente su nuove tecnologie che ottimizzano sol160
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Lo sviluppo tecnologico dell’agricoltura
tanto i coefficienti tecnici e la generazione di profitto. Fare le scelte
giuste richiede saggezza, buona fede, visione del futuro, valori condivisi, capacità di ascoltare i diversi punti di vista e volontà di negoziare. Questo non ha niente a che vedere con la massimizzazione
della produttività o con il «più alto ritorno» sull’investimento.
BIBLIOGRAFIA
(1) Giampietro M., «Socioeconomic pressure, demographic pressure,
environmental loading and technological changes in agriculture»,
Agriculture, Ecosystems and Environment, 65, 1997, pp. 201-229.
(2) Giampietro M., Energy use in agriculture, in Encyclopedia of Life
Sciences, Nature Publishing Group, 2002, accessibile su internet:
http:// www.els.net/.
(3) Giampietro M., Multi-Scale Integrated Analysis of Agro-ecosystems,
CRC Press, Boca Raton, 2003, 472 pp.
(4) Giampietro M., Bukkens S.G.F., Pimentel D., «General trends of
technological changes in agriculture», Critical Reviews in Plant
Sciences, 18 (3), 1999, pp. 261-282.
(5) Cochrane W., Farm Prices: Myth and Reality. Minneapolis, MN:
University of Minnesota Press, 1958.
(6) Ramos-Martin J., Giampietro M., Mayumi K., «On China’s exosomatic
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societal metabolism (MSIASM)», Ecological Economics, in press, accessibile su: doi:10.1016/j.ecolecon.2006.10.020.
(7) Heller M., Keoleian G., Life-Cycle Based Sustainability Indicators for
Assessment of the U.S. Food System, Report 2000-4 December 2000
Ann Arbor, MI: Center for Sustainable Systems, University of Michigan,
2000, accessibile su internet: http://www.public.iastate. edu/~brummer/papers/FoodSystemSustainability.pdf.
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LA RIVOLUZIONE ZOOTECNICA
E L’ALIMENTAZIONE
NELLA TERRA GLOBALIZZATA
di
Michael Fox*
Il settore agroindustriale statunitense asserisce di poter nutrire le
popolazioni affamate del pianeta e produrre cibo sicuro e nutriente
a costi inferiori e quantità superiori rispetto ai paesi che non hanno
ancora adottato metodi intensivi nel settore zootecnico e avviato la
coltivazione industriale di monocolture, come il mais e la soia. Gli
oligopoli dell’industria alimentare occidentale, ormai sovracapitalizzati e sempre più legati all’industria petrolchimica, hanno contribuito a diffondere questo e molti altri miti relativi all’efficienza produttiva. In questa sede, tutti questi miti verranno esaminati alla luce dei
benefici e dei costi per i consumatori, per i mercati internazionali,
per gli agricoltori e per le comunità rurali. Verranno inoltre trattati
anche i temi della salvaguardia ambientale e della salute degli animali. I principi bioetici a favore di un’agricoltura più umana, sostenibile ed equa saranno individuati per proporre soluzioni ai gravi
errori e danni causati dall’agricoltura industriale. Verranno anche
menzionati esempi di iniziative benefiche volte a contrastare quell’inevitabile nemesi che io definisco «agricidio», caratterizzata da
ramificazioni globali oggi ulteriormente alimentate dallo sviluppo
dell’ingegneria genetica in ambito agricolo e dall’uso sempre più diffuso di mangimi concentrati.
*
Medico Veterinario, libero consulente, ex Vice Presidente del Farm Animal
Welfare and Bioethics della Humane Society, USA
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La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione
Nei sistemi agricoli misti, il bestiame domestico svolge ruoli diversi e al tempo stesso di grande valore sul piano sia ecologico sia
economico. Nei sistemi produttivi intensivi, invece, la libertà comportamentale degli animali, la loro diversità genetica e la loro capacità di adattarsi all’ambiente in cui vivono vengono completamente
soppresse. I sistemi intensivi fanno affidamento su costosi mangimi
«energetici», vaccini, antibiotici e una serie di altre sostanze. Inoltre,
piuttosto che di lavoro manuale, fanno un uso intensivo di risorse
energetiche da fonti fossili, elemento che insieme ai problemi gestionali non offre alcuna garanzia di affidabilità nella maggior parte dei
paesi in via di sviluppo. La domanda e gli incentivi del mercato che
incoraggiano l’adozione di questi sistemi intensivi di produzione
animale vanno compensati con una valida analisi del rapporto costi/
benefici, per evitare che i principi guida siano solo i fattori esterni e
i costi nascosti. Occorre insomma un bilancio che consideri anche
alcuni principi etici, come la giustizia sociale, l’equità, la sostenibilità, la salute e il benessere degli animali, la biodiversità, senza
dimenticare un aspetto fondamentale di qualsiasi ragionamento in
questa materia: le esigenze alimentari delle popolazioni povere (a cui
la terra viene spesso sottratta per allevare bestiame per i ricchi).
Gli aiuti e i programmi di sviluppo per i paesi poveri dovranno
promuovere standard di allevamento ottimali e più civili per gli animali (anche per quanto riguarda il trasporto e la macellazione, l’igiene durante le operazioni di macellazione, lo smaltimento degli
scarti e il controllo dell’inquinamento dall’inizio alla fine del processo). Tutto ciò comporta istruzione, legislazione, formazione complementare e vigilanza appropriate, nonché buone norme di igiene e
profilassi accompagnate dai relativi standard di sicurezza e qualità
alimentare.
Tutte queste cose determinano un alto impiego di capitale e
rischiano di impoverire il segmento rurale della popolazione (che già
dispone di quantitativi sempre minori di terra), favorendo solo la
parte più ricca, soprattutto nelle città del Terzo mondo circondate
dalle bidonville dei poveri senza terra, luoghi privilegiati di incubazione delle epidemie.
L’agricoltura industriale controlla miliardi di ettari coltivati a
ortaggi, frutta, vigna e altre colture che vengono ripetutamente trattate con pesticidi derivati dal petrolio. Gran parte dei terreni non è
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Michael Fox
usata per sfamare le persone, ma per coltivare mais e soia allo scopo
di alimentare il bestiame sui cui derivati si basa la dieta occidentale.
Questo sistema viene propagandato dai sostenitori dell’agroindustria convenzionale come un miracolo delle biotecnologie scientifiche, che grazie alla loro efficienza e produttività sono in grado di
fornire alla popolazione alimenti a un prezzo accessibile, e rappresenterebbero inoltre l’unico modo per risolvere il problema della
fame nel mondo. Ma oggi i continui rincari dei combustibili fossili,
i problemi relativi allo smaltimento dei rifiuti animali e alla conservazione di acqua e terreno, nonché le preoccupazioni relative alla
sicurezza e alla qualità del cibo e dell’ambiente e alla futura scarsità
di elementi fondamentali per le coltivazioni industriali pongono l’agricoltura statunitense, come pure quella di altri paesi industrializzati, davanti a un bivio.
L’agricoltura industriale è insostenibile e, attraverso il monopolio
del mercato, sta distruggendo le agricolture tradizionali che sono
molto più sostenibili. Le attuali pratiche agricole non hanno la possibilità di protrarsi sul lungo periodo perché non sono economicamente ed ecologicamente efficienti, e costituiscono una delle principali minacce per la salute pubblica, gli habitat naturali, la biodiversità e la sopravvivenza delle comunità rurali. Si può anche aggiungere che persino la pace mondiale è a rischio, poiché conflitti di natura militare, tribale ed economica stanno esplodendo per il controllo
di mercati, terre, acqua e forniture alimentari, senza parlare della
questione del petrolio in Medio Oriente. Nell’ultimo caso, la motivazione è da ricercare in parte nella dipendenza del settore agroindustriale dall’oro nero. Il problema della sovrappopolazione, causato in certa misura dalla mancanza di infrastrutture e risorse educative, oltre che dal degrado ambientale che affligge milioni di persone
povere e affamate nei paesi del Terzo mondo (molti dei quali esportano prodotti agricoli, tra cui anche alimenti di origine animale,
mentre la maggior parte della loro popolazione soffre la fame), crea
per le multinazionali del settore agroindustriale un mercato secondario ma redditizio verso cui esportare gli aiuti alimentari. Questa
dipendenza alimentare del Terzo mondo si è trasformata in un’arma
politica mascherata da aiuto umanitario e torna utile agli interessi
costituiti, ai quali conviene mantenere questi paesi in uno stato di
dipendenza piuttosto che aiutarli a raggiungere l’autosufficienza.
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La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione
I consumatori responsabili, e i governi cui essi fanno capo, hanno
l’obbligo di esercitare pressioni sulle agenzie di sviluppo e di aiuto,
su tutte le organizzazioni filantropiche che mirano a risolvere i problemi della povertà e della denutrizione, e sulle multinazionali occidentali dell’industria alimentare (importatrici di prodotti di origine
animale e non), al fine di garantire quanto segue: l’armonizzazione
internazionale degli standard di sicurezza e delle ispezioni riguardanti sia le condizioni lavorative sia la qualità alimentare; l’armonizzazione degli standard veterinari e di salvaguardia ambientale; l’armonizzazione dei metodi di trasporto del bestiame, di igiene e di
macellazione. Tutte questioni serie, nella maggior parte dei paesi in
via di sviluppo, come lo sono moltissime altre relative al benessere
degli animali e ai concomitanti aspetti umanitari, di salvaguardia
degli habitat naturali e di protezione della flora e della fauna. I mangimi ottenuti da colture ingegnerizzate con le quali vengono alimentati questi animali, l’uso di ormoni della crescita per incrementare la
produzione di latte e l’impiego smodato (specialmente nei paesi in
via di sviluppo) di antibiotici e altri farmaci, potrebbero spingere il
consumatore a boicottare questi prodotti – laddove essi vengono
importati – per motivi di salute pubblica e preoccupazioni per il
benessere animale.
Nei paesi industrializzati, la domanda di alimenti biologici certificati e di prodotti di origine animale derivanti da processi in cui gli
animali vengono trattati più umanamente esiste già ed è in crescita.
Il fenomeno sta producendo una vera e propria rivoluzione nell’agricoltura, spingendo in direzione di un sistema agroalimentare ecologico, localizzato e socialmente equo.
Le cooperative colombiane del caffè e i produttori di tè verde e
nero di India e Sri Lanka, come pure analoghe associazioni che operano in altri paesi in via di sviluppo, vengono sostenuti dai consumatori occidentali che decidono di acquistare prodotti agricoli biologici ed ecologici, realizzati in condizioni di lavoro socialmente
eque. Tali prodotti, in ultima analisi, aiutano le comunità indigene a
tutelare la flora e la fauna locali e a conservare e ripristinare gli habitat naturali.
Già David Brower, fondatore del Sierra Club, aveva postulato
tutto ciò come un «sistema di diritti politici e civili a livello planetario», di cui tutti potessero beneficiare. Vale la pena ricordare che
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questa organizzazione americana, ben finanziata e assai stimata, si è
recentemente spaccata in occasione di una votazione del consiglio di
amministrazione che doveva deliberare sulla necessità di unire la
campagna a favore dell’equità sociale e della conservazione di flora
e fauna a un forte appello per la pianificazione familiare e il controllo demografico.
Purtroppo, i membri dell’organizzazione, come pure il Vaticano,
hanno deciso di non pronunciarsi in merito a tali questioni. Bisogna
tuttavia ascrivere a loro, alla Conferenza dei vescovi cattolici statunitensi e ad altre organizzazioni religiose, il merito di aver espresso
il proprio dissenso nei confronti della pratica, sostenuta dal Governo, di diffondere in tutti gli Stati Uniti impianti zootecnici che
praticano l’allevamento intensivo, nei quali gli animali vengono
nutriti con mangimi concentrati.
Grazie agli sforzi di alcuni attivisti, tra cui la mia collega Lara
Hopwood, il Sierra Club, insieme ad altre organizzazioni nazionali
ed internazionali come Greenpeace, ha organizzato un fronte di
opposizione per contrastare il vuoto legislativo lasciato dal Governo
americano in questa materia, e la sua approvazione dell’agricoltura
biotecnologica e degli animali transgenici, clonati e brevettati.
Questi sviluppi, sostenuti in varie occasioni dall’Accademia nazionale delle scienze degli Stati Uniti e dalla Royal Society del Regno
Unito, sono stati accettati dai mezzi di comunicazione di massa, i
quali erroneamente credono che tutti i pareri scientifici siano imparziali e oggettivi e che le politiche basate sulla scienza non richiedano
una valutazione bioetica.
Analizzerò i principi bioetici di base e globali, essenziali per la
creazione di un sistema economico e agricolo sostenibile. Le lobby
dell’industria biotecnologica, in armonia perfetta con le agenzie
governative americane e dei settori farmaceutico, petrolchimico e
zootecnico (produttori caseari, di carne bovina, suina e avicola, di
uova e di generi ittici), hanno sostanzialmente convinto politici, legislatori e organizzazioni filantropiche a ignorare le questioni di salvaguardia ambientale relative ad aria, acqua, qualità e sicurezza dei
cibi che consumiamo, di cui mi sono ampiamente occupato (1,2).
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I costi globali della Rivoluzione zootecnica
La cosiddetta «Rivoluzione zootecnica», promossa dalla Banca
mondiale, così com’è stata concepita nel 2001, si è rivelata un’esperienza di déjà vu che ha riportato alla mente gli insuccessi della precedente e più propagandata «Rivoluzione verde», che si prefiggeva
di fornire ai paesi in via di sviluppo varietà ibride di mais ad alto rendimento (brevettate) insieme ad altri stock di sementi per la produzione di alimenti e fibre (si veda oltre). In realtà, sarebbe stato legittimo anche dubitare della pianificazione delle procedure di alimentazione degli animali in quegli stessi paesi, visti i problemi già documentati negli Stati Uniti, e del ruolo strumentale svolto dalla Banca
mondiale e dall’Unione europea in uno dei progetti zootecnici che,
ecologicamente parlando, sono tra i più devastanti che si siano mai
visti.
Come documenta il film End of Eden (Turner Broadcasting
Systems, 1986) dello scomparso Ricky Lomba, in Africa la Banca
mondiale ha fatto costruire migliaia di chilometri di recinzioni a
scopo sanitario per separare la fauna selvatica dal bestiame domestico, apparentemente con l’obiettivo di tenere sotto controllo la diffusione dell’afta epizootica che aveva colpito il bestiame. Altre recinzioni sono state costruite nonostante le proteste locali e internazionali, dopo la morte per fame e sete di centinaia di migliaia di gnu e
altri animali selvatici a cui le barriere di separazione avevano impedito le normali migrazioni stagionali per la ricerca di acqua e pascoli. I beneficiari di questo progetto sono stati i ricchi allevatori le cui
esportazioni di carne bovina verso l’Europa, ampiamente sostenute
da sussidi, andavano semplicemente ad accrescere la montagna di
carne bovina surgelata e non consumata dai paesi europei.
Attualmente, in diversi paesi dell’Africa orientale, la tubercolosi
si diffonde dal bestiame alla fauna selvatica, uccidendo leoni, kudu,
babbuini e altre specie selvatiche, e nel frattempo si accelera il processo di deterioramento dei pascoli da parte del bestiame allevato
che fa aumentare le aree desertiche e la povertà.
Nel periodo 1962-1987, la Banca mondiale ha finanziato quello
che nel 1983 era l’equivalente di 7,7 miliardi di dollari per favorire
la produzione di bestiame nell’Africa subsahariana. Oggi, nonostante gli interventi del Ministro del Tesoro americano James Baker, che
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nell’agosto del 1986 chiese l’interruzione dei finanziamenti della
Banca mondiale per la costruzione di queste massicce barriere in
acciaio (interventi sollecitati anche dall’ondata di proteste pubbliche
per l’impatto sulla povertà, sui territori e sulla fauna selvatica), restano migliaia di chilometri di recinzioni.
La tragica eredità di un precedente progetto di sviluppo zootecnico in Africa orientale è stata una strage di massa della fauna selvatica a seguito dell’introduzione in Etiopia di bestiame affetto da
peste bovina proveniente dall’India, nel 1887 (durante l’occupazione italiana). La tragica decimazione della fauna si sovrappose alla
difficile situazione delle popolazioni indigene di gran parte dell’Africa subsahariana, già afflitte dalla fame e dalla povertà, dal momento
che circa l’80-90% del bestiame allevato era deceduto a causa della
malattia infettiva. Ora vengono ampiamente usati vaccini e pesticidi
per tenere sotto controllo le malattie del bestiame (alle quali la fauna
selvatica può sviluppare una resistenza naturale), come la tripanosomiasi (detta anche «malattia del sonno»). I biologi della conservazione hanno rivolto la loro attenzione verso le mosche tse-tse, portatrici della malattia, come ultima frontiera per proteggere la natura
dall’avanzata degli allevamenti verso le regioni infestate, poiché un
vaccino efficace contro la malattia non farebbe che contribuire al
verificarsi di ulteriori devastazioni ecologiche.
Differenze e conflitti culturali
Benché i turisti occidentali (grandi consumatori di carne), che
compiono eco-safari e vanno a caccia di trofei, possano essere utili
per finanziare talune forme di recupero e protezione dell’habitat e
della fauna selvatica, dando così un aiuto alle popolazioni locali
impoverite dall’ultima ondata di distruzione e sfruttamento coloniale, le entrate provenienti da queste fonti potrebbero presto cessare.
Ciò dipende dall’aumento del costo del petrolio e dal timore del terrorismo nei viaggi internazionali. Si sta andando verso quella che
taluni chiamano la «conflagrazione finale» (gli indiani Hopi la chiamano «la purificazione» e i cristiani «l’apocalisse») del terrorismo,
dovuta alle profonde divisioni dell’umanità in fazioni. Da una parte
si prendono di mira le culture di intere nazioni e continenti che con168
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sumano carne suina e bovina rendendosi «impure», perché questi
animali sono considerati sacri o tabù; dall’altra (in Occidente) si
fanno appelli accorati al Giappone, all’Islanda e alla Norvegia perché si smetta con la caccia alle balene, ma al tempo stesso non si fa
nulla per ridurre il consumo di alimenti importati che comportano
un pesante costo ambientale e sociale in altre zone del mondo. I britannici continuano a guardare in modo sprezzante alle culture esotiche che ammettono il consumo di carne di cane per l’alimentazione,
e criticano persino i loro vicini francesi che consumano carne equina, ma poi non disdegnano le lumache francesi, oppure le rane che
possono arrivare anche dall’India e altre zone umide tropicali dove
stanno rapidamente scomparendo. In questa conflagrazione rientra
anche l’uccisione della fauna selvatica per scopi alimentari: in Africa
è sotto gli occhi di tutti il commercio di carne di scimpanzé e di altre
specie a rischio di estinzione. Consumare carne di animali selvatici è
considerato un segno di virilità e, così, accanto alla domanda di ossa
di tigre e di bile d’orso usati dalla medicina tradizionale cinese, i
mercati legati a questi trends di consumo comportano un aumento
della sofferenza e dello sterminio di animali.
Un altro aspetto della conflagrazione che ha condotto ad atti di
disobbedienza civile (che possono comportare l’accusa di terrorismo
sulla base del nuovo Homeland Security Act statunitense), riguarda
coloro che, preoccupati per l’ambiente e per i diritti degli animali,
protestano contro le colture geneticamente modificate e fanno incursioni e video-registrazioni negli allevamenti industriali e nei macelli
per testimoniare le orrende sofferenze a cui vengono sottoposti gli
animali. Ed è triste e paradossale osservare come la popolazione mondiale sottonutrita sia stata numericamente superata da quella in forte
sovrappeso. Secondo Phillip James, presidente dell’International
Obesity Task Force, le spese mondiali per la cura dei sempre più
numerosi problemi sanitari dovuti all’obesità saranno enormi.
Costi sanitari e ambientali della zootecnia industriale
Quali sono i confini etici e i vincoli economici reali nel mercato
globale e altamente competitivo in cui si sta inserendo il mondo in
via di sviluppo? Quanti allevamenti intensivi possono essere soste169
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nuti dall’«economia della natura»? Quale tributo dovrà pagare la
diversità culturale e biologica all’industrializzazione e al consumismo? Quante comunità sostenibili – realtà indigene preziose e uniche che raccolgono cacciatori, allevatori di bestiame e agricoltori –
andranno perdute per sempre?
Queste e molte altre questioni collegate non compaiono nell’agenda del business agroalimentare, per cui i profitti degli allevamenti si basano su costosi input e misure correttive (dall’allevamento confinato ai mangimi medicati, fino ai sistemi di controllo dell’inquinamento simili a quelli occidentali). Nel loro insieme, tali interessi, supportati da agenzie come la Banca mondiale e dalle rappresentanze dei paesi occidentali, oltre che dalle ambasciate dei paesi in
via di sviluppo, costituiscono una barriera formidabile alla razionalità e al cambiamento.
Promuovere nei paesi in via di sviluppo lo stesso modello di industria zootecnica che ha causato tanti e costosi problemi ambientali e sanitari nei paesi industriali significa creare un problema di proporzioni planetarie che si rivelerà deleterio per gli ecosistemi. Per
esempio, l’erbicida atrazina, noto distruttore endocrino (negli Stati
Uniti è usato ogni anno su oltre il 90% delle colture di mais), è stato
trovato nell’acqua piovana, nel latte materno e nel liquido amniotico. La maggioranza delle colture di mais e soia destinate all’alimentazione del bestiame sono state modificate geneticamente per resistere al Roundup, l’erbicida della Monsanto, un altro sospetto
distruttore endocrino oltre che fattore di rischio nel linfoma nonHodgkin (buona parte del mais, tra l’altro, produce autonomamente il proprio pesticida: la tossina Bt).
Nel 2004, Charles Benbrook ha pubblicato un rapporto che
dimostra come gli agricoltori statunitensi stiano applicando più
pesticidi sulle tre principali colture geneticamente modificate (mais,
soia e cotone) che sulle varietà convenzionali: esattamente il contrario di quanto promesso da Monsanto e dalle altre multinazionali biotecnologiche. Enormi quantità di petrolio vengono impiegate non
solo per il trasporto dei mangimi, ma anche per la produzione di fertilizzanti, erbicidi, insetticidi e fungicidi di origine petrolchimica che
una volta applicati alle colture vi penetrano facilmente. Tutto ciò ha
determinato un duro colpo alla biologia del suolo, l’avvelenamento
delle sue microflora e microfauna, il deterioramento delle colture e
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dei pascoli, l’impoverimento in elementi nutritivi di mangimi e foraggi (lo stesso vale per gli alimenti destinati all’uomo, frutto di un’agricoltura convenzionale che fa uso di prodotti petrolchimici). I
governi e l’industria hanno ignorato gli enormi problemi cui è andata incontro la fauna selvatica in seguito all’adozione e alla diffusione
di un’agricoltura basata su sementi geneticamente modificate e su
numerosi prodotti petrolchimici: tassi di morbilità e di mortalità
estremamente elevati in molte specie, incremento dell’incidenza
della sterilità e dei difetti congeniti. Ma le specie selvatiche sono ottimi indicatori: il loro benessere «indica» il nostro, dal momento che
siamo parte della stessa catena alimentare. Un’economia globale illuminata, che rispetta l’economia della natura, è l’antitesi della visione
«economicistica» concentrata sul potere e sul monopolio. Ed è agli
antipodi dell’economia industriale, che progetta campi di concentramento per il bestiame e sovverte i valori morali dell’altruismo e
del progresso.
Allevamento e benessere animale
Fino all’avvento dell’agricoltura industriale convenzionale, il bestiame ha rivestito una varietà di ruoli nell’economia delle comunità
rurali e non veniva allevato per la sola carne. Anche oggi il bestiame
continua a essere apprezzato per le stesse ragioni in zone come il
sub-continente indiano, l’America centrale e meridionale, parte
dell’Africa, ecc. Esso fornisce energia (muscolare), lavoro, fertilizzanti (letame, concime organico), compagnia, materiali per indumenti (prodotti con la lana), pellame e cuoio. Gli animali allevati
rappresentano un capitale in grado di raddoppiare il proprio valore
nel giro di un anno e, in più, costituiscono una fonte sostenibile di
grasso e proteine provenienti da latte, carne, sangue e vari organi
interni. Questo modo di concepire gli animali di allevamento è
sostenibile, perché gli animali sono alimentati con sottoprodotti
derivati dall’agricoltura, eccedenze e foraggi. Il bestiame costituisce
anche uno «strumento» sano ed efficace per tenere sotto controllo le
piante infestanti e gli insetti nocivi, oltre che per migliorare la qualità del terreno e del foraggio, soprattutto mediante l’adozione del
pascolo misto e a rotazione. Vengono così sfruttati appieno gli attri171
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buti biologici ed ecologici di vari animali, come oche, maiali, pecore, capre, bovini, equini e cammelli.
Nel 1995, durante una relazione tenuta in occasione del ventesimo anniversario dell’Oregon Tilth, il filosofo-agricoltore Wendell
Berry disse: «Se gli animali sono parte integrante del sistema ecologico in cui vivete, allora avete la responsabilità di mangiare carne…
anche se questa vi uccide». Retorica a parte, le parole di Berry richiedono qualche riflessione. Attualmente, il vegetarianismo è giustificato da molti come scelta di salute, oppure come decisione etica contro i metodi dell’allevamento industriale, intensivi e disumani, che
rompono i legami ecologici tra animali, territorio e colture. Anche
noi esseri umani dovremmo essere parte dell’ecologia e del sistema
alimentare bioregionale che ci mantiene, per esempio facendo il
compostaggio delle nostre scorie biologiche per produrre concimi
naturali, invece di sprecarle (insieme a molta acqua) attraverso gli
scarichi civili. Ma questo non riduce l’importanza degli altri ruoli del
bestiame riportati sopra, tutti vitali per l’ecologia.
Anziché sfruttare le qualità biologiche ed ecologiche di numerose specie animali e vegetali, come nei sistemi dell’agricoltura sostenibile tradizionale, l’agricoltura industriale si specializza in poche
varietà di piante e animali. Questi sono considerati sulla base della
loro potenziale produttività (in termini di biomassa), cioè unicamente come «merci».
Questa mercificazione-specializzazione dell’agricoltura convenzionale ha condotto alla concentrazione, ai monopoli delle merci e
all’integrazione verticale mentre gli agricoltori sono stati trasformati
in braccianti a contratto attraverso una sorta di feudalesimo corporativo. L’egemonia delle corporations dell’agribusiness si concretizza
attraverso la loro produzione globale di alimenti e fibre, e attraverso la vendita di costosi dispositivi per la pratica agricola e per il processamento degli alimenti, di derivati del petrolio e di nuovi ritrovati della biotecnologia: dai farmaci geneticamente modificati agli
additivi alimentari, fino ai supermaiali e al mais miracoloso, tutti
rigorosamente brevettati. Questa non è agricoltura, è agroindustrialismo, che è tanto lontano dalla cultura agricola quanto lo è dal realismo biologico delle coltivazioni e dell’allevamento ecologicamente
sostenibili. Coltivazione e allevamento sono termini che appartengono alla tradizione, e si riferiscono a pratiche che prevedono una
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relazione più reverenziale con la Terra e un atteggiamento di rispetto verso la natura, la vita e il cibo. In assenza di limiti etici e morali,
per proteggere i consumatori e l’ambiente diventa necessario stabilire leggi e costose procedure che garantiscano l’adesione e la conformità alle norme.
Nell’industria agroalimentare, il settore zootecnico ha continuato a sviare gli sforzi pubblici tesi a stabilire criteri etici per l’allevamento, il trasporto e la macellazione degli animali, oltre che per il
trattamento di animali feriti o malati. La predilezione di questo settore per l’«autoregolamentazione», apparentemente per alleviare il
carico di impegni governativi e per risparmiare il denaro pubblico,
si rivela essere solo un espediente cui non fanno seguito i fatti: non
si può mettere una volpe a guardia del pollaio. Mentre in questo
vuoto etico si ragiona sui criteri scientifici più idonei per garantire la
«sicurezza» degli animali, un’opinione pubblica sempre più preoccupata chiede che l’allevamento industriale si assuma la responsabilità del trattamento umano degli animali, dell’impatto ambientale e
delle conseguenze sulla salute pubblica provocate dalla produzione
di carne, latte e uova.
Negli USA l’avvento dell’ingegneria genetica e delle sue applicazioni nell’allevamento del bestiame, nella produzione delle colture e
nel trattamento degli alimenti ha sollevato un numero ancora maggiore di problemi e preoccupazioni, specialmente da quando il
Governo ha praticamente sottoposto a deregulation il settore al fine
di garantire un margine più competitivo alle multinazionali che operano sul mercato mondiale. Con la nascita della World Trade
Organization (WTO) e del Codex alimentarius, c’è il rischio che le
pratiche e i valori prevalenti dell’agricoltura industriale vengano
codificati in norme universali del tutto prive di una base etica e
ambientale. Com’è comprensibile, le corporations dell’agroindustria
statunitense che si trovano ad affrontare la concorrenza internazionale resisteranno alla legislazione per la protezione dell’ambiente e
degli animali di allevamento finché i regolamenti della WTO sanciranno che, per gli Stati Uniti, è illegale proteggere i propri agricoltori dalle merci importate dai paesi che hanno legislazioni inadeguate (o inesistenti) di protezione degli animali e dell’ambiente.
Tuttavia, in assenza di un’armonizzazione internazionale delle
leggi e dei regolamenti, gli accordi internazionali e gli standard di
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qualità e sicurezza alimentari sono eticamente inaccettabili. Senza
l’inserimento in etichetta del paese di origine e dei metodi di produzione degli alimenti, i consumatori non avranno alcuna concreta
possibilità di scelta sul mercato, né avranno la possibilità di dare il
loro sostegno ai produttori locali o di optare per metodi di coltivazione e allevamento particolari, mentre, per ragioni etiche e per altre
ragioni, dovrebbe essere loro garantito il diritto costituzionale di
scegliere consapevolmente. Nel luglio 2006, il Farm animal welfare
council del Governo britannico ha pubblicato un rapporto fondamentale a favore del miglioramento dell’etichettatura per tutti gli alimenti di origine animale. L’etichettatura non dovrebbe limitarsi a
indicare il metodo di produzione (o il sistema di allevamento), ma
dovrebbe contenere considerazioni sull’intero ciclo vitale dell’animale, oltre che sul grado di attenzione al loro benessere nelle fattorie, durante il trasporto e nei luoghi di macellazione. Il rapporto
dichiara: «Il benessere degli animali è una preoccupazione legittima
della scienza, e deve essere preso in considerazione dai regolamenti
della WTO».
L’idea dell’agroindustria statunitense secondo cui i consumatori
si rifiuterebbero di pagare di più per un alimento che, a parità di
contenuto nutrizionale, sia stato prodotto senza torturare gli animali e danneggiare l’ambiente, è priva di fondamento. Quando il pubblico sarà pienamente cosciente dei danni causati dall’agricoltura
convenzionale, compresi quelli alla salute umana, alla terra, alle
comunità rurali e alla loro cultura, e vedrà quanto è inutile infliggere sofferenze agli animali per obiettivi unicamente economici, sarà
sicuramente propenso a pagare di più, come già si verifica tra i tantissimi consumatori informati e responsabili del mondo.
In realtà, tra l’altro, è molto probabile il contrario, ossia che gli
alimenti provenienti da sistemi di agricoltura biologica e da allevamenti più umani possano costare di meno. Un’analisi completa dei
costi e dei benefici dell’agricoltura convenzionale dimostrerebbe
che i costi superano di gran lunga i benefici, dato che ogni anno
negli Stati Uniti, accanto ai 50-60 miliardi di dollari spesi in sussidi
per l’allevamento, andrebbero inseriti anche altri 60 miliardi di dollari di spese in salute pubblica a causa di alimenti poveri di nutrienti, prodotti agrochimici dannosi e consumo eccessivo di grassi e proteine animali. Ad alcune voci di spesa, inoltre, non è possibile attri174
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buire un valore economico: tra queste la biodiversità, gli habitat
naturali, le comunità rurali con il loro artigianato e le loro culture.
Né è possibile quantificare la sofferenza fisica ed emotiva degli animali di allevamento a causa di stress e malattie, indicata in un bilancio annuale come una perdita di profitto di circa 20-25 miliardi di
dollari. Certamente, l’agricoltura alternativa richiede una maggiore
attenzione alla ricerca e allo sviluppo, e la sua adozione da parte
degli agricoltori non dovrebbe essere scoraggiata o penalizzata dalle
politiche dei governi o dai programmi di sostegno dei prezzi per
favorire l’adozione e la perpetuazione di pratiche agricole non sostenibili. Le accademie e le università potrebbero offrire un ulteriore
sostegno, istituendo corsi di bioetica che sollecitino gli studenti a
esaminare in maniera obiettiva i valori, i costi e i benefici dell’agricoltura convenzionale. L’odierno complesso costituito da università,
industria e politica potrebbe così divenire un ricordo del passato.
L’uso di prodotti agrochimici per incrementare la produzione
alimentare e il profitto, a loro volta presentati come una necessità
per andare incontro alle richieste di una popolazione umana in continua espansione, ha reso l’agricoltura dipendente dalla chimica.
Molti dei prodotti chimici usati hanno avuto effetti negativi non solo
sugli organismi viventi e sugli elementi del terreno, ma anche sui
processi trofici di trasformazione e di flusso di energia a livello molecolare. Riducendo la vitalità dei terreni, facciamo la stessa cosa con
noi stessi, con il cibo che mangiamo, con l’acqua che beviamo e con
l’aria che respiriamo. Nella gestione dei suoli, anche in un’ottica di
produttività animale e vegetale, i minerali presenti in tracce suscitano particolare preoccupazione.
L’agricoltura industriale interferisce pesantemente con la loro
presenza, ma gli squilibri e le carenze di vitamine e minerali in tracce sono alla base di molte malattie delle piante, del bestiame e dell’uomo, poiché questi elementi rivestono un ruolo fondamentale per
il metabolismo cellulare: si pensi alla maggior parte dei processi
enzimatici e alle funzioni dell’organismo, soprattutto per quanto
concerne i sistemi immunitario, circolatorio, nervoso e riproduttivo.
Diversi studi hanno ormai dimostrato che gli alimenti prodotti con
criteri biologici contengono più nutrienti in tracce, a causa del
miglioramento della qualità del suolo, e che il bestiame è, in genere,
più sano quando è alimentato con mangimi e foraggio biologici.
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È necessario fare in modo che l’agroindustria ridirezioni i propri
profitti, alleandosi con gli agricoltori nel risanamento dell’agricoltura, piuttosto che commercializzando prodotti e processi che fanno
aumentare la produttività ma abbassano i profitti degli agricoltori,
lasciando la grande quota dei benefici al complesso delle industrie
del settore petrolchimico, alimentare e zootecnico. Tra le loro priorità, le grandi imprese private dovrebbero avere la scienza, l’economia
e l’etica delle loro azioni. Esse dovrebbero guardare obiettivamente ai
danni che il sistema vigente provoca all’agricoltura: ne trarrebbero
certamente un guadagno in termini di terreni coltivabili e colture,
animali e alimenti più sani. Questo dovrebbe essere anche l’obiettivo della «scienza dell’alimentazione» e della medicina veterinaria.
Anche la medicina ha bisogno di stabilire un legame più stretto,
attraverso l’alimentazione, con le innovazioni tese a risanare la salute dell’agricoltura e le abitudini alimentari del consumatore. È assurdo che l’industria medico-farmaceutica continui a trarre profitto
dalla vendita di una miriade di prodotti e trattamenti chimici di cui
non vi sarebbe necessità se solo fossero mantenuti gli equilibri dei
suoli e il nostro cibo fosse più sicuro e nutriente.
La débacle dell’agricidio
I recenti sviluppi dell’agroindustria e dell’allevamento intensivo,
insieme con la manipolazione genetica delle colture e degli animali
di allevamento, con le temibili conseguenze viste negli Stati Uniti e
in altre nazioni, mettono in luce il conflitto tra l’agricoltura industriale americana, la coscienza etica e la realtà biologica.
Di seguito vengono evidenziati alcuni punti a supporto di questa
tesi:
– il Ministero dell’Agricoltura statunitense è in grave difficoltà
nella scelta tra la fedeltà all’allevamento industriale e l’interesse
pubblico: consiglia di seguire una dieta meno ricca di grassi e più
generosa di frutta, verdura e cereali, dunque ricca di fibre, ma non
dice di ridurre il consumo di prodotti di origine animale, fatto che,
come affermano oggi molti studi, ridurrebbe l’incidenza di cancro,
aterosclerosi, obesità e numerose altre malattie collegate alla dieta;
– i prodotti lattiero-caseari contribuiscono all’insorgenza di
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danni ai reni, di artrite e, soprattutto, di osteoporosi in età avanzata
associata all’aumento dell’escrezione del calcio;
– le proteine del latte vaccino sollecitano risposte anticorpali e
sono associate all’insorgenza precoce del diabete di tipo 1 nei bambini, a un anticipo del menarca nelle donne e all’infarto del miocardio negli adulti;
– la leucemia bovina è ampiamente diffusa e può avere un ruolo
nello sviluppo della leucemia umana;
– il consumo di prodotti caseari è stato associato a una maggiore
incidenza delle allergie e si presume possa essere coinvolto in alcuni
problemi neuropsicologici come la sindrome da deficit dell’attenzione, l’autismo e la schizofrenia, poiché l’ormone beta-casomorfina-7 è presente in concentrazioni elevate nel sangue e nelle urine dei
pazienti che presentano tali disturbi;
– l’acido sialico (o N-glicolilneuraminico) rilevato nei tumori
umani non è presente in nessun’altra parte dell’organismo umano,
ma si trova nella carne rossa e nei prodotti caseari. Tale composto
stimola una reazione immunitaria, e in generale gli N-nitrocomposti
possono danneggiare il DNA umano, specialmente nelle cellule del
colon, stimolando lo sviluppo di tumori;
– il morbo di Alzheimer può essere collegato a un’insufficienza di
grassi polinsaturi nella dieta, in particolare gli omega 3, e a un’assunzione elevata di grassi saturi, transinsaturi (idrogenati) e omega 6
che possono danneggiare gli occhi e il cervello ed essere alla base di
ritardo cognitivo nei bambini.
Parte del problema in realtà riguarda il tipo di alimentazione animale impiegato negli allevamenti. I residui di pesticidi negli alimenti – che, come è stato dimostrato, promuovono la proliferazione di
batteri responsabili di intossicazioni alimentari – sono stati collegati
a varie forme di cancro e a numerosi altri problemi di salute, in particolare al morbo di Parkinson e all’aumento dell’aggressività nei
bambini.
Molti pesticidi, come i PCB e le diossine, si concentrano nel tessuto adiposo degli animali (oltre che nella carne, nei prodotti caseari e nei salmoni allevati), sono imitatori e destabilizzatori del sistema
endocrino e producono un’azione degenerativa sulla tiroide, sul
sistema immunitario, sul sistema riproduttivo, sullo sviluppo cerebrale, sul comportamento e sulla memoria.
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L’aspartame, il dolcificante artificiale prodotto da Monsanto, è
un composto neurotossico con effetti eccitanti sospettato di cancerogenicità. Esso è contenuto in molte bevande e alimenti trattati,
ampiamente usati da persone afflitte da vari problemi di salute legati all’alimentazione occidentale, dal diabete all’obesità, e può provocare un aumento dell’appetito in coloro che hanno invece necessità
di perdere peso. Molte bevande e alimenti trattati contengono anche
un additivo «esaltatore del sapore naturale», il glutammato monosodico, che può avere un ruolo nell’insorgenza dell’autismo infantile,
nella sindrome da iperattività e nei deficit dell’attenzione: tutte condizioni associate anche all’esposizione ai composti del mercurio nei
vaccini.
Siamo di fronte a una situazione insostenibile creata dall’industria chimica e dal suo primo alleato, ossia il sistema agroalimentare:
il paradosso del Governo statunitense è che da una parte approva
l’uso di questi pericolosi prodotti chimici e, dall’altra, cerca di regolarne l’uso per proteggere i cittadini.
L’utilizzo diffuso di antibiotici e steroidi anabolizzanti per aumentare la biomassa del bestiame è un altro esempio dell’alleanza
del Governo USA con l’industria farmaceutica, e al tempo stesso è un
sintomo della sua incapacità di tutelare la salute pubblica, oggi in
serio pericolo anche per la presenza di molti ceppi batterici resistenti agli antibiotici, a quanto pare non totalmente riferibile all’eccesso di prescrizioni dei medici. L’esempio più assurdo di questa
collusione, e dell’insuccesso governativo nel perseguire l’interesse
pubblico, è il trattamento deliberato dell’acqua potabile con il fluoruro – sottoprodotto dei fertilizzanti –, ufficialmente per prevenire
la carie dentale; in realtà si tratta di una nota sostanza cancerogena
e di un altro distruttore endocrino, dannoso soprattutto per la tiroide, che può contribuire all’osteoporosi e alle malattie renali.
L’approvazione da parte del Governo statunitense della commercializzazione di prodotti caseari derivati da bovini trattati con ormone della crescita geneticamente modificato (rBgh) è di nuovo il risultato di un’alleanza tra il Governo e l’industria (Monsanto). L’ormone
in questione, vietato in Europa e Canada, aumenta i livelli di un
ormone insulino-simile nel latte, elevate quantità del quale sono
state associate al cancro della mammella, della prostata, del polmone, del pancreas e della cute (melanoma). La molecola inoltre può
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far aumentare l’incidenza di gravidanze gemellari nelle donne. Nelle
vacche trattate provoca debilitazione, mastiti, problemi metabolici e
riproduttivi. Andrebbe anche rilevato che nel latte di mucca si concentrano non solo pesticidi, diossine e altre sostanze contaminanti
derivate dal foraggio e da altri alimenti degli animali, ma anche
micotossine, come l’aflatossina, prodotta da un fungo che parassita
comunemente il mais, regolarmente irrorato con fungicidi per tenere sotto controllo il problema. La contaminazione da aflatossina, che
è ricorrente nell’industria americana del mais, è spesso la causa di
malattie epatiche mortali ed è cancerogena.
Dieta occidentale e salute
Si dibatte sul fatto che senza i combustibili fossili, i pesticidi e i
fertilizzanti dell’industria petrolchimica e i prodotti derivati dalle
colture geneticamente modificate non sarebbe possibile ottenere
grandi quantità di raccolti (cotone, mais, soia) sufficienti ad alimentare (e a vestire) la popolazione del mondo, che chiede sempre più
carne bovina e formaggio, anziché grano integrale e segale biologica, e sempre più maiale e pollo anziché tofu e seitan (glutine di
grano). L’economia occidentale, e in particolare la classe media che
è cresciuta seguendo questa dieta anziché quella più salutare a base
di cereali, frutta e ortaggi, è schiacciata dalla crescente spesa per farmaci e sanità, conseguenza soprattutto di una dieta a base di prodotti animali. Mentre gli occidentali informati adottano alcune delle
diete più salutari impiegate dalle popolazioni indigene, i loro governi e le agenzie «filantropiche» donatrici, come la Banca mondiale,
stanno lavorando per impiantare nei paesi in via di sviluppo la loro
agricoltura industriale e l’opulenta dieta occidentale, con l’obiettivo
di soddisfare l’aumento della domanda da parte dei ricchi e dell’industria del turismo, che chiedono carne bovina, pollame, formaggio,
gelato e, in paesi non musulmani, carne suina al posto di tofu e fagioli.
Per ironia della sorte, però, ora la dieta occidentale è associata
non solo a problemi epidemici come obesità, ictus, infarto miocardico, diabete e malattie croniche degenerative come l’artrite, diverse forme di cancro e difetti congeniti, ma anche a disturbi del com179
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portamento. I più evidenti sono l’incidenza epidemica dell’ansia e
dei disordini ossessivo-compulsivi, l’uso di droghe, i disturbi a carattere depressivo e varie psicosi, violenza e nevrosi. Questi disturbi
sono associati a problemi neuropsicologici e a una chimica alterata
del complesso neuroendocrino, con implicazioni a livello dei sistemi
della serotonina e della noradrenalina. Per quanto lo stress sociale
ed emotivo fornisca certamente il suo contributo a questi problematici e diffusi disturbi di salute mentale, è stato dimostrato che molti
disordini neurocomportamentali, psicologici e psicosomatici possono ottenere sollievo da un cambiamento radicale dell’alimentazione,
abbandonando la dieta occidentale per abbracciare la saggezza dell’alimentazione del passato e delle tradizioni indigene (3). C’è bisogno di altre prove? O della prova assoluta (dimostrazione peraltro
scientificamente impossibile, vista la natura multifattoriale della
maggior parte delle malattie e dei disordini neurocomportamentali)?
Come ho potuto verificare nella mia lunga esperienza di ricercatore
in biomedicina e di educatore, un numero sempre maggiore di persone trova che il miglioramento o la guarigione da numerosi problemi di salute siano facilitati da un cambiamento nella dieta basato sull’esclusione degli alimenti trattati e preparati, il che vale sia per gli
esseri umani sia per gli animali domestici come il cane e il gatto. La
farina di grano molto raffinata, denaturata e sbiancata è stata venduta per decenni negli Stati Uniti come «Wonderbread», mentre gli
ingredienti più nutrienti erano o inseriti nei mangimi o usati da altri
settori dell’industria alimentare, per essere spesso venduti a prezzi
elevati come supplementi dietetici essenziali: per esempio la crusca,
il glutine e le vitamine. Wonderbread equivale al riso bianco raffinato dell’Asia e del Medio Oriente, ed è alla base dell’alimentazione di
miliardi di persone, ma è essenzialmente denaturato e povero in termini nutrizionali.
Questa breve panoramica dei rischi e dei costi della salute pubblica causati dalla sola agricoltura industriale e dalla dieta occidentale a base di prodotti di origine animale, che l’industria alimentare
promuove e da cui trae profitto, chiede ai consumatori informati di
«votare», ossia di fare delle scelte con il loro denaro, le loro forchette, le loro bacchette, i loro cucchiai e le loro dita. E alle agenzie che
intendono offrire aiuto ai poveri e agli affamati dei paesi in via di sviluppo, come la Banca mondiale, chiede che siano meno colluse con
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gli interessi dell’industria petrolchimica, farmaceutica e agrobiotecnologica, che sono parte del problema e non la sua soluzione.
Rischi sanitari e ambientali dell’allevamento industriale
Le grandi concentrazioni di animali in allevamenti sovraffollati e
sottoposti a stress creano le condizioni ideali per la proliferazione di
malattie, molte delle quali sono zoonotiche (trasmissibili agli esseri
umani), con effetti sociali ed economici devastanti, come nel caso
dell’influenza aviaria e suina e della contaminazione degli alimenti
con Escherichia coli, Salmonella, Listeria e Campylobacter.
Oltre 11.000 tonnellate di hamburger bovini sono state ritirate
dal mercato nell’agosto del 1997. Si è trattato della più grande iniziativa del Governo americano per il ritiro di un alimento nel paese,
a causa della contaminazione con il microrganismo E. coli 0157:H7.
Secondo il General Accounting Office, negli USA muoiono ogni
anno circa 9.000 persone a causa di malattie trasmesse dagli alimenti. Per quanto riguarda il pollame, il Campylobacter viene segnalato
come una fonte di intossicazione alimentare più grave della Salmonella (che è riscontrata in un uccello ogni 3-5 macellati) a cui il
Governo statunitense ha risposto approvando l’esposizione a radiazioni della carne e di altri prodotti di origine animale. I funzionari
sanitari federali hanno approvato nell’agosto del 2006 una miscela di
6 virus batteriofagi, in grado di uccidere i batteri, come additivo alimentare. Un prodotto contenente questi organismi sarebbe applicato alle carni e ai prodotti derivati dal pollame per uccidere batteri
potenzialmente pericolosi. Resta da vedere l’effetto di questi cocktail di batteriofagi sulla flora dell’apparato digerente dell’uomo e
sull’ambiente.
I sistemi produttivi intensivi e i feedlot sono una fonte significativa di gas serra; inoltre l’inquinamento dell’aria e il cattivo odore
fanno diminuire il valore delle proprietà della comunità circostante.
I liquami di smaltimento dei residui organici degli allevamenti sono
associati a vari rischi sanitari per l’uomo.
Nell’agosto del 1997, l’Environmental Protection Agency (EPA),
l’ente per la protezione dell’ambiente, ha imposto alla Smithfield
Foods, in Virginia, una multa di 12,6 milioni di dollari per aver con181
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taminato suoli e corpi idrici. Secondo il Toxic Release Inventory dell’EPA, le strutture per l’alimentazione animale concentrata continuano a violare il Clean Air Act e il Clean Water Act (le leggi per la tutela dell’aria e dell’acqua), generando seri rischi di salute pubblica,
spesso a grande distanza dal luogo in cui si trovano queste strutture.
La città di Waco, in Texas, dovrà spendere oltre 80 milioni di dollari per rimuovere le alghe che inquinano l’acqua potabile a causa del
fosforo proveniente dalle fattorie industriali del settore lattierocaseario. Nel giugno del 2005, lo stato dell’Oklahoma ha fatto causa
ai produttori di pollame per avere inquinato il bacino idrografico
dell’Illinois con composti di azoto, fosforo, arsenico, zinco e rame.
Dal 1995 a oggi, in 10 Stati si sono registrati oltre 1.000 casi di pratiche inquinanti nei feedlot per l’allevamento dei bovini, oltre a 200
incidenti collegati allo smaltimento dei liquami che hanno provocato la morte di 13 milioni di pesci. Nel 2003, gli stabilimenti Buckeye
Egg di Croton, in Ohio, dove vivono stipati 15 milioni di galline
ovaiole in gabbie talmente piccole da non consentire loro nemmeno
di muovere le ali, hanno rilasciato più di 720 tonnellate di ammoniaca, corrispondenti a circa 44 volte la soglia di guardia fissata dall’EPA. La Premium Standard Farms di Mercer, in Missouri, che continua ad allevare scrofe confinate in recinzioni minuscole in cui non
possono né muoversi né girarsi, per produrre 2,5 milioni di maiali
l’anno, nel 2004 ha rilasciato 1.360 tonnellate di ammoniaca, cinque
volte quella emessa da tutte le altre industrie dello Stato nello stesso
anno; nel 2005, le 53.000 mucche da latte della Threemile Canyon
Farms di Boardman, in Oregon, hanno prodotto circa 2.600 tonnellate di ammoniaca, più del triplo rispetto a tutte le altre industrie
dello Stato nello stesso anno. Nessuno di questi animali vede mai un
prato verde o un pascolo all’aria aperta.
Negli Stati Uniti, il settore zootecnico produce il 73% di tutte le
emissioni di ammoniaca, e tale sostanza tossica, unita alle particelle
sottili prodotte dagli allevamenti intensivi, è uno dei principali fattori coinvolti nell’insorgenza dell’asma, della bronchite, della riduzione della funzione polmonare, e nelle morti premature.
A causa di questi e di altri motivi di natura sia sanitaria sia economica, l’American Public Health Association e la Conferenza dei
vescovi cattolici degli Stati Uniti, insieme ad altre organizzazioni
come la Michigan State Medical Society, ora chiedono una morato182
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ria affinché non vengano più costruite strutture di questo tipo. Nello
Stato in cui vivo, il Minnesota, i laghi, le zone umide e i pozzi privati sono gravemente inquinati dai pesticidi provenienti dai milioni di
acri coltivati a mais e soia per alimentare il bestiame allevato, le cui
evacuazioni cariche di azoto, fosforo, arsenico, rame e altri metalli
pesanti, batteri dannosi e antibiotici, inquinano le risorse idriche. I
fiumi contaminati scorrono verso sud, dove si aggiunge altro inquinamento agricolo e urbano: il risultato è che un’area ampia e in continua espansione, che un tempo era una zona di pesca produttiva nel
Golfo del Texas, si sta trasformando in un territorio privo di vita.
Mercato globale e monopolio
Attraverso l’Agricultural Export Enhancement Act, la legge per
l’intensificazione delle esportazioni agricole, il Governo statunitense
spende milioni di dollari provenienti dai contribuenti per dare supporto alle multinazionali dell’agroindustria nel raggiungere posizioni competitive sui mercati mondiali. Sfruttando l’autorità del GATT e
il potere impositivo della WTO, gli Stati Uniti denunciano l’illegittimità delle barriere commerciali volute dai paesi che non accettano
di importare carne e latte provenienti da animali trattati con l’ormone della crescita, soia geneticamente modificata (GM) e altri prodotti transgenici.
Esplodono guerre commerciali in un periodo in cui la cooperazione globale è un’esigenza etica irrinunciabile. I paesi che rifiutano
di accettare carne bovina proveniente da animali trattati con ormoni e semi GM dalle multinazionali statunitensi subiscono la minaccia
di sanzioni sulla base degli accordi commerciali della WTO, oltre alle
restrizioni commerciali e ai dazi doganali sulle loro esportazioni.
Il dumping, ossia la vendita sottocosto delle eccedenze di prodotti, come il latte in polvere e le zampe di pollo in paesi poveri
come la Giamaica, e altri prodotti agricoli in Messico e altri paesi
dell’America centrale, colpisce gli agricoltori locali e li spinge alla
bancarotta, contribuendo alla miseria locale che è tra le cause principali dell’immigrazione illegale da questi paesi agli Stati Uniti.
Secondo il rapporto The World food situation: recent developments, emerging issues and long-term prospects, pubblicato nel 1997
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dal Consultative Group on International Agricultural Research
(Washington), si prevede un aumento delle importazioni di carne e
cereali in paesi un tempo autosufficienti (specialmente Cina e India)
a beneficio di paesi esportatori come USA, Argentina e Australia, che
però faranno aumentare i costi per sfamare le famiglie povere dei
paesi in via di sviluppo.
Come il suo predecessore, che promuoveva l’ormone rBgh in
Europa prima ancora che ne fosse approvato l’uso nei bovini da latte
degli Stati Uniti, il Ministro dell’Agricoltura Dan Glickman ha usato
il suo ufficio per propagandare le colture geneticamente modificate
come «la nostra più grande speranza per sfamare in modo sostenibile la popolazione mondiale in crescita».
Il diritto dei consumatori statunitensi a fare scelte informate è
negato dal rifiuto del Governo di etichettare gli alimenti transgenici
e gli ingredienti derivati. Il Governo ha tentato di prevalere sul
National Organic Standards Board effettuando pressioni per ottenere la creazione di impianti per lo smaltimento dei liquami, sistemi
di allevamento intensivi, irraggiamento degli alimenti, sementi GM e
altri prodotti tra quelli da sottoporre a valutazione in base agli standard federali dell’agricoltura biologica, ma è stato costretto a fare
marcia indietro dopo aver ricevuto oltre 280.000 lettere di protesta
provenienti da tutto il mondo.
Nonostante l’alleanza Governo-agroindustria, i consumatori statunitensi, le aziende agricole a gestione familiare, le organizzazioni
per l’agricoltura sostenibile e per la difesa degli interessi pubblici
stanno lavorando insieme per diventare un gruppo di pressione
nazionale e internazionale. L’agricoltura socialmente equa ed ecocompatibile sta diventando una realtà grazie all’impegno delle
comunità locali e alla nascita di cooperative di mercato. Ma alcuni
giganti dell’allevamento industriale come la Murphy Farms, della
Carolina del Nord, stanno attraversando il confine col Messico, dove la manodopera costa poco e le norme ambientali sono inesistenti, per insediare decine di allevamenti intensivi di suini.
L’agricoltura statunitense è a un bivio. Una strada conduce all’esportazione dei sistemi di allevamento intensivo e delle problematiche collegate (come gli antibiotici e i mangimi ricchi di proteine e di
energia), il che comporta la continuità del paradigma industriale non
sostenibile; l’altra strada, invece, porta al consumo domestico e im184
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plica metodi di produzione locali più umani, sostenibili e biologici.
L’agroindustria potrebbe contribuire significativamente ad alleviare problemi come la fame, la povertà e la malnutrizione, e potrebbe assolvere un ruolo importante nella protezione della biodiversità
e delle altre risorse. Ma per questo dovrebbe dedicarsi agli investimenti per la ricerca e per lo sviluppo di soluzioni sostenibili per l’agricoltura e la zootecnia.
In principio non sarà facile seguire la strada giusta: ci saranno difficoltà sociali ed economiche. Ma quando osserviamo la strada intrapresa dall’agricoltura convenzionale e pensiamo a dove ci porterà,
realizziamo immediatamente che è arrivato il momento di cambiare
direzione.
I costi nascosti dell’agricidio
Ogni economista e tutte le scuole tradizionali di scienze agrarie
perseguono lo stesso obiettivo: aumentare la produzione e l’efficienza. Fino allo scorso decennio, infatti, questo era il mantra dell’agroindustria statunitense e dell’establishment accademico dell’agricoltura americana. Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, era stato
provato «scientificamente» che la produttività agricola poteva essere aumentata enormemente con un maggiore intervento del settore
chimico, unito a quello delle macchine agricole. La semplice formula usata per misurare l’efficienza (quante persone può sfamare un
produttore moderno?) ha comportato un enorme risparmio di lavoro agricolo. Le grandi fattorie sono diventate sempre più grandi e le
piccole sono state inghiottite dalle prime. Gli agricoltori cosiddetti
«inefficienti» hanno chiuso i battenti, alcuni sono rimasti in attesa,
ma molti, sedotti dalla possibilità di prestiti bancari e più inclini ad
attingere ai sussidi governativi, sono diventati sempre più grandi.
Non erano più agricoltori, ma produttori di merci, sfruttatori del
suolo, grandi sostenitori della «monocultura mentale» e dell’agricoltura industriale, con due obiettivi fissi: la produttività e l’efficienza.
La sovrapproduzione statunitense diventò un problema costoso.
Quando serviva manodopera, si ricorreva all’impiego part-time di
lavoratori immigrati e delle loro famiglie, spesso originari del Messico e di altri paesi dell’America Latina. Mentre da una parte gli Stati
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federali chiudevano gli occhi sulla piaga di questi lavoratori, poverissimi e trattati come schiavi dal sistema agroindustriale, dall’altra il
flusso verso gli USA di immigrati (molto spesso clandestini) in cerca
di qualunque lavoro creava un serio problema sociale, economico e
di sicurezza nazionale.
Negli anni ’80 si è verificato un vero e proprio esodo di massa
dalle campagne, mentre in gran parte degli Stati Uniti si andava sgretolando lo stretto legame tra le fattorie a gestione familiare e le comunità rurali. L’Amministrazione Reagan ha liquidato questo genocidio culturale come il prezzo del progresso, attribuendo la responsabilità «alle inefficienze e alla cattiva gestione». Secondo il punto di
vista più accreditato, ispirato a una sorta di neodarwinismo pseudoscientifico, questi drammatici cambiamenti riflettevano un processo
evolutivo orientato a un’efficienza agricola sempre maggiore, in
accordo con la competitività richiesta dalle leggi del libero mercato
e, di conseguenza, con la sopravvivenza del più forte. Di conseguenza, i piccoli produttori di carne bovina, pollame e uova, insieme con i piccoli allevatori di suini, si sono visti costretti a cessare la
loro attività o a «integrarsi verticalmente» diventando produttori in
appalto, ossia gestori di strutture per l’alimentazione forzata di animali (CAFO, Concentrated Animal Feeding Operations) al servizio di
un pugno di grandi società dell’agroindustria: un nuovo feudalesimo
rurale.
Tuttavia alcuni economisti del settore agricolo, sociologi e altri
studiosi non sono stati così compiacenti. La perdita della diversità
culturale e della saggezza dell’agricoltura regionale, tramandate di
generazione in generazione, insieme al declino economico e spirituale delle comunità rurali, non erano state inserite nella contabilità
industriale. Allo stesso modo, fino a poco tempo fa non venivano
inseriti in questa contabilità nemmeno l’erosione dei terreni migliori, la perdita di qualità delle riserve acquifere, la contaminazione chimica della catena alimentare e i rischi per i consumatori, la distruzione della biodiversità selvatica, e una lunga serie di altre «perdite»,
come il benessere, la salute e la qualità della vita dei miliardi di animali incarcerati nelle fattorie industriali e nei feedlot. Per i grandi
produttori era meno costoso lasciare che una certa percentuale di
animali morisse a causa dello stress e delle malattie legate alla «produzione» (che l’assunzione di antibiotici non poteva prevenire),
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piuttosto che investire in tecniche di allevamento più umane, oltre
che in trasporti e macelli più sicuri (la macellazione è il momento in
cui gli animali diffondono i batteri più pericolosi, mettendo a rischio
la salute dei consumatori). Oggi i costi per la salute pubblica e le
conseguenze ambientali delle fattorie industriali sono più ampiamente conosciuti, così come le implicazioni sanitarie del grande consumo di grassi e proteine animali.
Quando ero vicepresidente del Farm Animal Welfare and Bioethics della Humane Society degli Stati Uniti (Washington), faceva
parte del mio staff Don Deichman, proveniente da una famiglia di
agricoltori dell’Iowa. Il suo obiettivo principale nella vita era il raggiungimento della «parità» fra tutti gli agricoltori. Parità significa
garantire che tutti i produttori di colture agricole possano beneficiare di prezzi di mercato equi, ossia in grado di coprire sia i costi di
produzione sia il giusto compenso orario per il lavoro effettuato:
aspetti che gli oligopoli delle multinazionali hanno eroso sempre
più, ottenendo dal Governo sussidi e sostegni ai prezzi. Ironicamente, la Humane Society, per assicurarsi i finanziamenti di una
potente società dell’agroindustria che produceva alimenti per animali domestici, «invitò» il sottoscritto ad assecondare le lamentele
della suddetta società che non aveva gradito la mia adesione ai contenuti di un libro che descriveva il lato oscuro di quel settore commerciale (4).
Devo precisare che la mia iniziativa era stata perfettamente in
linea con quelle che erano la missione e la politica della Humane
Society riguardo al benessere degli animali, ma era in contrasto con
l’obiettivo dell’allora presidente: raccogliere fondi senza preoccuparsi della fonte. I miei compensi vennero congelati per il resto della
mia permanenza presso l’organizzazione, fino al ritiro obbligatorio.
L’aspetto paradossale è che l’organizzazione, in verità piuttosto ricca, aveva in corso un programma (che ho coordinato in prima persona) mirato a educare l’opinione pubblica a consumare alimenti
sostenibili, e a non acquistare prodotti derivati da animali allevati in
modo disumano, la gran parte dei quali entrava nella catena dei
mangimi per cani e gatti. La mia deontologia professionale, come
appresi, venne considerata una «priorità secondaria» rispetto al
denaro, ma mi consolò la buona compagnia in cui improvvisamente
mi trovai. Venni infatti a sapere di numerosi ricercatori dell’EPA e
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della Food and Drug Administration (FDA) che avevano avuto esperienze analoghe alla mia, dopo aver espresso valutazioni scientifiche
e preoccupazioni etiche relative all’uso dei pesticidi in agricoltura,
all’impiego di farmaci negli allevamenti e al riscontro delle diossine
negli alimenti: anche in questi casi, le opinioni espresse non si accordavano con le politiche delle istituzioni di appartenenza.
I sostenitori dell’allevamento intensivo asseriscono che un sistema zootecnico più umano farebbe aumentare i costi, con grave danno soprattutto per i poveri. I critici, nel frattempo, vengono additati perché colpevoli di mostrare più attenzione verso gli animali che
verso gli esseri umani e, naturalmente, per «essere contro il progresso»: tutte convinzioni da sfatare. I costi dell’allevamento industriale
sono ben documentati da una ricchissima letteratura scientifica.
Questi costi effettivi, tra l’altro, hanno certamente aggravato la povertà e la malnutrizione anziché alleviarla, e nonostante ciò normalmente non vengono inseriti nella contabilità dell’agroindustria, la
cui produttività non è né efficiente, né socialmente e moralmente
accettabile.
I pericoli della sovrapproduzione
In paesi come il Brasile, l’allevamento del bestiame è diventato
uno dei rimedi contro l’inflazione, ma i cicli di sovrapproduzione
deprimono i prezzi sul mercato mondiale e contribuiscono alla deforestazione e ad altre forme di degrado ambientale. Il sostegno dei
prezzi e i sussidi per i produttori, specialmente nei paesi sviluppati,
incoraggiano la sovrapproduzione e causano ulteriori distorsioni e
iniquità relativamente ai prezzi del mercato globale. Una conseguenza grave è il dumping nei paesi stranieri (carne, prodotti lattierocaseari e altri prodotti dell’agricoltura): le merci vengono vendute
agli intermediari e ai grossisti a prezzi di gran lunga inferiori a quelli
che potrebbero praticare gli agricoltori locali per prodotti simili. Nei
paesi più industrializzati, i dazi doganali, istituiti per proteggere gli
agricoltori locali dall’ingresso di prodotti sottocosto e da situazioni
che li escluderebbero dal mercato, non fanno che complicare il problema della sovrapproduzione agricola e dei sussidi per l’esportazione.
Visto che l’aumento dei dazi doganali e le altre forme di «prote188
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zionismo» costituiscono una «barriera tecnica» illegale in base alla
convenzione del GATT, gli agricoltori locali che producono alimenti
e foraggi per il mercato interno dovrebbero godere di un mercato
protetto e della garanzia di prezzi equi a condizione che i loro metodi di agricoltura siano umani, sostenibili dal punto di vista socioeconomico ed ecocompatibili. La produttività su scala industriale e
i sistemi di allevamento intensivi per polli e bovini sono spesso propagandati come il segno distintivo e il miracolo del progresso. I paesi
in via di sviluppo sono incoraggiati ad adottare questi metodi per far
aumentare la produzione agricola e l’«efficienza», eppure l’industrializzazione zootecnica è ormai visibilmente controproducente, in
parte a causa del suo stesso successo. I paesi industrializzati stanno
trasferendo al Terzo mondo le eccedenze della sovrapproduzione,
mentre, al contempo, gli attori dell’agroindustria e le banche per lo
sviluppo stanno cercando di vendere a questi paesi gli strumenti per
la realizzazione dell’allevamento intensivo. Nel lungo periodo, tutto
questo non ha senso, se non per chi produce e vende questi «strumenti».
Il dumping è l’ immissione sul mercato di prodotti il cui prezzo di
vendita è al di sotto del costo di produzione. Ma questa definizione
di scambio iniquo e illegale necessita di essere ampliata per includere tutte le attività di marketing che mettono in pericolo l’autosufficienza regionale, la sovranità nazionale e la produttività sostenibile
locale di un prodotto o di un servizio simile. Il prezzo equo di mercato dei beni e dei servizi agricoli dovrebbe rifletterne tutti i costi,
compresi quelli sociali e ambientali. Partendo da questo principio, si
potrebbero pianificare strategie commerciali più giuste e si potrebbe anche dare vita a mercati protetti, secondo le necessità. Con una
solida base etica, che prenda in considerazione i fattori sociali,
ambientali ed economici, si potrebbero prevedere incentivi per promuovere metodi agricoli più ecologici e colture migliori per l’uso
domestico e per l’esportazione. Si allontanerebbe così la prospettiva
di un paese o di una regione che danneggia i propri cittadini o il proprio territorio investendo nella produzione su vasta scala di cereali,
bestiame, cotone o altri prodotti, per poi venderli sotto costo sui
mercati internazionali.
La tragedia dei paesi in via di sviluppo che diventano dipendenti dai prodotti alimentari importati e perdono l’indipendenza agri189
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cola è rappresentata dallo spettro della malnutrizione e della fame,
specie nei periodi di rapida inflazione e in quelli in cui la domanda
e i prezzi di articoli come il pollame e il latte in polvere subiscono
rialzi improvvisi. Quando l’agricoltura di un paese crolla, è inevitabile l’insorgere di conflitti sociali, il determinarsi di instabilità politica ed economica, e l’aumento di crimini e violenze che possono
sfociare in guerre civili. La possibilità di un recupero dell’agricoltura diventerà ancora più remota se i poveri e gli affamati cercheranno di produrre il proprio cibo, perché la mancanza di strumenti,
conoscenze e risorse adatte alle pratiche di agricoltura conservativa
potrebbe provocare danni ancora maggiori.
Queste preoccupazioni non possono essere ignorate né dal GATT
né dalla WTO. I sistemi di allevamento intensivo dei paesi industrializzati, finalizzati alla grande produzione per l’esportazione, devono
essere oggetto di una valutazione sia etica sia economica. Lo stesso
si deve dire per i prodotti geneticamente modificati, come i sostituti del cacao e gli estratti di vaniglia e altre piante, la cui produzione
danneggerà i paesi che dipendono dalla loro coltivazione naturale
per l’esportazione (nb: le entrate che provengono da queste esportazioni servono in parte a coprire gli interessi maturati dai prestiti
per lo sviluppo).
Sarebbe interesse del GATT e della WTO incoraggiare l’autosufficienza dell’agricoltura locale nei paesi poveri, perché è chiaro che il
mercato mondiale diventerà sempre più disfunzionale e giungerà al
collasso se la povertà, le iniquità e i conflitti socio-economici continueranno a diffondersi sotto la crescente pressione della popolazione e del degrado ambientale.
I principi bioetici faranno molto per il mondo del commercio,
soprattutto nel settore dell’agricoltura, aiutando ogni nazione del
globo a massimizzare la produttività e a ridurre le conseguenze negative, e incoraggiando i sistemi di coltivazione mista più appropriati
in relazione alla regione biogeografica.
I rischi dei mangimi animali
I sostenitori dell’industria della carne criticano la convinzione
che l’importazione dal Terzo mondo di mangimi per l’allevamento di
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La Rivoluzione zootecnica e l’alimentazione
polli e bovini contribuisca alla fame e alla miseria, e affermano che
la maggior parte di questi alimenti è un sottoprodotto derivato da
coltivazioni destinate all’esportazione, come la canna da zucchero, la
melassa, l’olio di semi di cotone, il riso, la crusca di grano e altro. Nei
fatti questo mercato, oltre ad alimentare pratiche agricole dannose
nei paesi poveri, indebolisce i metodi dell’agricoltura sostenibile
tradizionale e sfrutta i suoli fertili che dovrebbero essere usati per
sfamare innanzitutto le persone. Questo aspetto dell’agricoltura,
permettendo agli allevatori di alimentare un numero di animali maggiore di quanto si potrebbe fare con le sole risorse locali, offre uno
dei principali sostegni all’allevamento intensivo di bovini e polli. Ma
questo è inaccettabile dal punto di vista etico, economico ed ecologico, anche perché le scorie organiche dell’allevamento dovrebbero
essere restituite al territorio come fertilizzanti, mentre invece sono
diventate un danno molto costoso a causa del loro impatto sull’ambiente. Tra l’altro, questo genere di inquinamento contribuisce in
maniera significativa al riscaldamento globale e quindi al cambiamento del clima.
Un problema collegato è la gestione dell’enorme mole di un altro
tipo di rifiuti animali, quelli che l’industria della carne definisce
«scarti». I circa 23 milioni annui di tonnellate di materiali essiccati e
trattati provenienti dagli impianti di trasformazione degli Stati Uniti
contengono i resti di animali morti di vecchiaia o debilitati da malattie, oltre che parti anatomiche inutilizzabili e persino carcasse di cani
e gatti provenienti da incidenti stradali o dai rifugi per animali.
Nemmeno la trasformazione lenta a basso calore serve a rimuovere
da questi scarti animali la componente di organismi potenzialmente
dannosi, metalli pesanti e altri residui pericolosi. Gli animali di allevamento, gli animali da compagnia e tutti i consumatori sono in
pericolo, perché questi materiali vengono aggiunti ai mangimi sia
per gli animali domestici sia per gli animali di allevamento (compreso il pollame), oppure vengono venduti come fertilizzanti per l’agricoltura, i giardini e gli orti domestici. Alcuni studi hanno evidenziato un nesso tra le tossinfezioni alimentari umane e le pratiche di questo settore produttivo, che immettono nella filiera della mangimistica zootecnica scarti animali e spesso sterco proveniente da allevamenti aviari. Il drammatico caso della «mucca pazza», che oltre alla
Gran Bretagna ha coinvolto paesi come il Giappone, il Canada e gli
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USA,
è fondamentalmente l’effetto di un’industria alimentare sempre
più disfunzionale, che inserisce gli scarti animali nell’alimentazione
degli stessi animali di allevamento: una pratica lucrativa presentata
sotto le mentite spoglie del «riciclaggio efficiente».
Ovviamente, se i consumatori rispondessero saggiamente con la
riduzione del loro consumo di carne e altri prodotti di origine animale, l’ampiezza di questi problemi si ridurrebbe in maniera significativa e con notevole risparmio. Ci si chiede quanti stabilimenti
zootecnici dovrebbero essere assegnati a ciascun paese in via di sviluppo, e quanta terra coltivabile dovrebbe essere seminata a soia e
mais per evitare la spirale della concorrenza da sovrapproduzione
che invade il mercato. Ma ci si chiede anche se i paesi in via di sviluppo debbano sacrificare la propria diversità biologica e culturale
sull’altare del «progresso», per avere la possibilità di effettuare
scambi con l’estero e arricchire i pochi soggetti coinvolti nel commercio mondiale di mangimi animali, antibiotici, ormoni, vaccini,
prodotti caseari, uova, carne, pellame, lana, sangue, ossa, siero e germoplasma.
Il successo della cosiddetta «Rivoluzione zootecnica», quindi,
dipende dalla quantità di persone che domani decideranno di consumare prodotti di origine animale e dai metodi che verranno usati
per produrli (e a spese di chi). Il processo di industrializzazione dei
paesi in via di sviluppo sta facendo crescere la domanda di prodotti
di origine animale e diffonde quella che gli esperti chiamano «dieta
occidentale». L’aumento degli scambi a livello mondiale di prodotti
agricoli destinati all’allevamento, di bestiame e di derivati animali
provocherà l’aumento della diffusione delle zoonosi e delle malattie
che colpiscono gli animali indigeni (selvatici e domestici), oltre che
di infestanti non locali che storicamente arrivano con le grandi
importazioni di sementi dall’estero. Sarà molto difficile tenere sotto
controllo questi problemi, a meno che il traffico non venga regolato
in modo più rigoroso da agenzie appositamente istituite.
L’irradiamento degli alimenti e l’applicazione più mirata di erbicidi non sono la soluzione. Né una politica basata sull’allevamento
intensivo può essere la risposta alla fame nel mondo, come confermato da una contabilità dei costi che sia realistica e complessiva.
Anche laddove questi sistemi di allevamento operino secondo principi di integrazione ecologica e criteri gestionali di efficienza, come
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nel caso delle cooperative, la «monocoltura animale e vegetale» non
sarà mai in grado di sfamare i poveri.
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La Rivoluzione verde ha promosso l’ampia diffusione di prodotti chimici e varietà vegetali ibride ad alto rendimento nei paesi in via
di sviluppo, e ha contribuito, per vari motivi, alla sofferenza degli
animali allevati, specialmente nelle imprese agricole e nelle comunità
rurali più povere. Non intendo affermare che al trasferimento tecnologico della Rivoluzione verde vada addossata tutta la responsabilità.
Spesso, infatti, esistono fattori culturali e socio-economici endemici
che contribuiscono comunque alla malattia e alla sofferenza degli
animali di allevamento. Tuttavia, nonostante l’impatto dei fattori
endemici, la Rivoluzione verde ha contribuito alla sofferenza e al
declino della salute degli animali di allevamento nei modi seguenti:
– i pascoli e le terre coltivate a foraggio sono stati adibiti alle coltivazioni intensive; da questo sono derivati il loro deterioramento e
l’allevamento illegale nelle riserve naturali, che hanno messo a
rischio la flora selvatica a causa della competizione per il cibo e delle
malattie trasmesse dal bestiame infetto;
– i fautori della Rivoluzione verde, mentre vantano l’aumento di
resa delle varietà ibride di frumento, riso e altre colture, dimenticano di parlare dei residui del raccolto di queste colture, che, per il
bestiame, hanno un valore nutritivo di gran lunga inferiore rispetto
a quello delle varietà indigene (che conservano più elementi nutritivi nelle foglie e nel fusto). Secondo un rapporto del 2001 della Banca
mondiale (5), nell’ultimo decennio la qualità e la quantità della
paglia di frumento e di riso si sono deteriorate a causa del passaggio
alle varietà introdotte dalla Rivoluzione verde, che producono una
paglia meno abbondante e qualitativamente inferiore. L’utilizzo diffuso di Roundup e altri erbicidi sulle colture convenzionali e su tè,
caffè e altre piantagioni si traduce in meno foraggio per gli animali;
– gli alti concentrati energetici, come quelli a base di soia e arachidi, anch’essi prodotti della Rivoluzione verde, sono troppo costosi per i contadini poveri: a farne le spese è il loro stesso sostentamento, insieme alla salute e alla produttività del loro bestiame. L’In193
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dia, per esempio, esporta ogni anno bestiame per un valore di quasi
300-400 milioni di dollari verso i paesi industrializzati, mentre, in
molti Stati interni, le spese per la produzione di alimenti e foraggio
per il bestiame sono vicine a zero;
– in molte regioni, la deviazione di acqua per irrigare le coltivazioni ha creato carenze idriche in intere comunità e il problema peggiora ulteriormente quando i pesticidi, da tali coltivazioni, passano
nei corpi idrici superficiali e negli acquiferi sotterranei;
– la produzione intensiva di bestiame nei paesi in via di sviluppo,
sotto l’impeto della Rivoluzione verde, ha provocato molte sofferenze e malattie negli animali, specialmente nei polli da carne, nelle galline ovaiole e nei suini stipati negli allevamenti intensivi. Il problema
risiede nella natura intrinseca di questi sistemi di allevamento, a cui
si sono aggiunti altri fattori come la gestione inadeguata, la mancanza di infrastrutture e la poca adattabilità delle razze allevate in condizioni intensive;
– le risorse utilizzate per l’allevamento intensivo e l’acquacoltura
hanno contribuito alla carenza di mangimi animali adeguati a prezzi
equi (soprattutto per le piccole fattorie), soppiantando i sistemi locali di produzione zootecnica;
– il bestiame dei piccoli allevamenti tradizionali ha sofferto anche
per lo scarso contributo fornito dai servizi veterinari pubblici; tali
allevamenti hanno potuto disporre (ove possibile) solo di poche prestazioni adeguate, vaccinazioni efficaci o programmi di controllo
delle malattie. Una situazione che fa aumentare l’incidenza di malattie infettive, per la fauna sia domestica sia selvatica, aggravando la
povertà rurale e pregiudicando gli sforzi per la tutela della biodiversità;
– i fertilizzanti chimici della Rivoluzione verde, che hanno fatto
aumentare le rese delle colture, sono responsabili del grave declino
qualitativo dei suoli e dei valori nutritivi dei raccolti. Il risultato finale è un’alimentazione carente per uomini e animali;
– le partite di sementi ad alta resa che vengono importate sono
talvolta contaminate con semi di altre piante che, in molte aree, si
sono rivelate altamente infestanti, e in alcuni frangenti velenose o dal
sapore sgradevole. In certi casi queste piante hanno avuto il sopravvento sulla flora selvatica e sui pascoli, soppiantando le piante da
foraggio tradizionali;
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– allo stesso modo, le razze di allevamento non indigene, importate per migliorare l’economia del settore, hanno spesso esercitato
un impatto negativo. In molte regioni esse hanno soppiantato, inquinato geneticamente (attraverso gli incroci) e perfino fatto estinguere
razze indigene più robuste che erano allevate per scopi molteplici.
Occasionalmente si è rilevato che le razze importate hanno introdotto nuove malattie e, a causa della loro inadeguatezza all’ambiente locale, a loro volta non hanno retto alle malattie locali contro le
quali il bestiame indigeno aveva invece sviluppato resistenze naturali. Il passaggio attraverso le razze importate può comportare un
aumento della virulenza e la mutabilità delle malattie contagiose,
mettendo a rischio le razze locali e la fauna selvatica;
– come le colture della Rivoluzione verde necessitano di quantità
sempre maggiori di fertilizzanti, pesticidi ed erbicidi, così le razze di
allevamento, rispetto alle varietà indigene importate, necessitano
spesso di quantità superiori di acqua, alimenti energetici costosi,
vaccinazioni, antibiotici, insetticidi e trattamenti antiparassitari.
Questi costi collaterali (o costi degli input di produzione indiretti)
fanno indebitare in misura crescente gli agricoltori indigeni, determinano la rincorsa ai sussidi e ai prestiti governativi, mentre lo status quo rimane e il declino della qualità ambientale, della biodiversità, della salute animale e del benessere umano procede senza
sosta.
I principali beneficiari della Rivoluzione verde, e oggi della Rivoluzione biotecnologica con le sue varietà transgeniche brevettate,
sono le imprese private, le istituzioni accademiche e finanziarie e le
agenzie governative che promuovono un’agricoltura intensiva fortemente dipendente dagli input. Ma è arrivato il momento di affrontare la questione, di chiedere un’assunzione di responsabilità e di
lavorare insieme per risolvere i problemi a livello mondiale adottando soluzioni alternative di tipo biologico ed eco-sostenibile: in una
parola, alternative più «umane». In caso contrario, la speranza della
sicurezza alimentare e le promesse di qualità e sicurezza degli alimenti non arriveranno mai a una realizzazione per la stragrande
maggioranza dell’umanità.
Questa serie di problemi documentati e interrelati non intende
individuare colpe e responsabilità, ma solo dimostrare come le conseguenze dannose della Rivoluzione verde siano state inevitabili,
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perché, anche se con le migliori intenzioni, essa si basa su un paradigma viziato che fa affidamento su una scienza riduzionista (semplificata) e su un’economia della produzione orientata all’industrializzazione agraria, ignorando i fattori collaterali, i costi nascosti indiretti e le conseguenze deleterie che riguardano l’ecologia, la salute
degli animali, il benessere, la società, la cultura e l’economia. Questi
costi e queste conseguenze riflettono la stessa disattenzione e la stessa assenza di principi etici che oggi vengono espresse dai difensori
della Rivoluzione biotecnologica. La loro propaganda, che parla di
progresso economico e umanitario attraverso la biotecnologia e le
altre tecnologie agricole, deve essere contestata sulla base della
scienza, dell’economia e della bioetica.
La Rivoluzione biotecnologica e l’allevamento
I sostenitori degli OGM, come Gordon Conway (Presidente del
Rockefeller Institute di New York), rilevano giustamente che per
«l’industria delle scienze della vita» sarebbe antieconomico occuparsi di colture commerciali con l’unico scopo di accrescerne ulteriormente la biomassa, perché questo non contribuirebbe ad alleviare la fame nel mondo. Occorre invece una ricerca umanitaria – anziché orientata al profitto di breve termine – per lo sviluppo di colture più nutrienti, più resistenti, modificate geneticamente, in grado di
sfamare il numero sempre più alto di poveri e affamati, specialmente nei paesi in via di sviluppo (nb: questi poveri vivono in alcuni dei
luoghi del pianeta in cui la biodiversità è ancora altissima).
Ha tutto il mio plauso il sostegno di Conway all’etichettatura
degli alimenti geneticamente modificati, la sua opposizione alla tecnologia «terminator» nei paesi in via di sviluppo e, ovviamente,
anche la sua richiesta di eliminare i markers genetici di resistenza agli
antibiotici come mezzo di selezione delle piante transgeniche.
Tuttavia dubito della sua sensibilità ecologica e del suo intuito, perché una valutazione storica dei costi reali della Rivoluzione verde
avrebbe impedito di fare di lui un sostenitore del transgenico qual è
oggi. È infatti insensato, dal punto di vista ecologico, difendere la
coltivazione di piante transgeniche nelle oasi mondiali della biodiversità. È pura amnesia storica non aiutare le popolazioni indigene a
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recuperare la ricca varietà di semi e colture che venivano usati per la
sussistenza molto prima della colonizzazione occidentale e della Rivoluzione verde, che ha avuto tante conseguenze negative.
Purtroppo, nella sua difesa della Rivoluzione biotech, Conway
abbraccia alcuni aspetti discutibili della biotecnologia applicata alle
piante, che ritiene aiuterà a garantire nutrimento, salute e sicurezza
per gli oltre 800 milioni di malnutriti del mondo. Pare che Conway
e altri reputino insignificanti i rischi di instabilità genetica e di inquinamento genetico dovuti a queste colture, i cui pollini potrebbero
contaminare le piante selvatiche e le colture convenzionali di alcune
isole felici della biodiversità del mondo.
Ritengo che l’idea della Rivoluzione biotecnologica di Conway
non sia altro che un’ennesima ondata di colonialismo che, come
testimonia la storia, porterà più danni che benefici. Si ha l’impressione che egli abbia subito il fascino di questa nuova tecnologia e che
si tratti dell’ennesimo scienziato che, per convenienza personale, ha
deciso di ignorare i gravi danni causati dalla Rivoluzione verde (che
tuttavia ha avuto il «merito» di arricchire oltre misura numerose corporation).
L’ingegneria genetica è stata applicata non solo a diverse varietà
di colture brevettate al fine di renderle più «produttive», resistenti
alle malattie e alla siccità, ma è stata usata perfino per creare prodotti farmaceutici e addirittura per allevare animali, sulla scia dell’interesse economico. Gli organismi geneticamente modificati, come i maiali e le pecore transgeniche, o taluni salmoni di allevamento, sono stati creati inserendo l’ormone umano della crescita nella
speranza che possano svilupparsi più rapidamente e di più. Ma questi assalti alla loro integrità genetica hanno prodotto numerosi problemi di salute e anomalie dello sviluppo. I tentativi di clonare animali di allevamento hanno evidenziato un aumento della frequenza
di aborto, difetti congeniti, microsomia fetale e danni al sistema
immunitario. Le mucche transgeniche sono state concepite per essere più resistenti a malattie come la mastite, un’infezione comune
della mammella che nel latte delle mucche allevate industrialmente
comporta una notevole presenza di pus (oltre che un incremento
nell’uso di antibiotici per trattare queste stesse infezioni croniche) e
di batteri resistenti agli antibiotici. Inoltre questi animali hanno
subito manipolazioni genetiche e sono stati clonati per produrre
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latte contenente farmaci, ed è per tale ragione che vengono chiamati «bioreattori». Per gli investitori e le compagnie farmaceutiche essi
rappresentano il futuro dello sfruttamento a scopo economico degli
animali di allevamento. I maiali sono stati modificati geneticamente
perché diventassero donatori di organi, e le galline perché producessero uova contenenti farmaci. I cosiddetti «enviropig» sono stati
creati per produrre escrementi con una minor quantità di azoto, allo
scopo di ridurre leggermente l’impatto ambientale dei grandi allevamenti di suini. Questi sviluppi, che riecheggiano un determinismo
genetico fondato su una biotecnocrazia sempre più potente, ecologicamente analfabeta e moralmente cieca, rappresentano l’ultima
tappa di un’industria alimentare e farmaceutica multinazionale,
disfunzionale e guidata dal profitto, che il Governo statunitense protegge e promuove (6).
La nuova frontiera dell’ingegneria genetica, il «nuovo mondo coraggioso» che Monsanto chiama «l’industria delle scienza della
vita», in realtà ci identifica sempre più come parassiti della natura,
anziché come nuove divinità del determinismo genetico. Questo
«nuovo mondo coraggioso» mortifica la sacralità della vita e l’integrità della Terra nel nome del progresso e della necessità, con la
benedizione della «scienza» e del commercio. Si tratta di una forza
inesorabile che la sola ragione non è in grado di fermare, anche se
forse potrebbe farlo un nuovo interesse illuminato.
Ma quali alternative esistono per alimentare meglio l’umanità,
aiutare i poveri e non sacrificare ulteriormente la biodiversità e la
natura, come fanno invece l’agricoltura industriale e la dieta occidentale? Come disse Henry David Thoreau, «la preservazione del
pianeta è nella natura».
Dovremmo riflettere su questa affermazione mentre la grande
foresta amazzonica, riserva vitale di carbonio e indispensabile per il
controllo del riscaldamento globale, viene depredata, prima per il
legname e poi per produrre bestiame in aree seminate e svuotate,
oggi usate per produrre soia. Circa 4.600 miglia quadrate di foresta
pluviale sono state ripulite tra il 2003 e il 2004 per coltivare soia. La
Cargill Inc., con sede negli Stati Uniti, è una delle principali multinazionali che esportano questo prodotto come mangime per il
bestiame allo scopo di soddisfare la fame di suini, polli e bovini degli
allevamenti europei. Tra le altre multinazionali coinvolte in questo
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ecocidio criminale ci sono la Archer Daniels Midland e la Bunge
Corporation.
Danni e costi della Rivoluzione verde
In un documento dell’International Movement for Ecological
Agriculture tenutosi a Penang, in Malesia, per definire la Rivoluzione verde vengono usate le seguenti parole: «La moderna agricoltura
intensiva si è rivelata palesemente incapace di aumentare la produzione di alimenti e di soddisfare le esigenze alimentari e nutritive del
pianeta. L’affermazione secondo cui la Rivoluzione verde avrebbe
prodotto una maggiore resa delle colture è fortemente esagerata e
non è frutto di una comparazione complessa e obiettiva con sistemi
ecologicamente più validi».
Queste rivendicazioni si basano di solito sulla misurazione delle
rese per unità di superfice coltivata (acri o ettari). Tuttavia, prendendo in considerazione i costi nascosti dei sussidi per gli input e le
fonti non rinnovabili, il costo del danno ecologico (che dopo un
certo periodo porta a rese inferiori) e la misura della resa confrontata con gli alti costi di fertilizzanti e acqua, le tecniche della Rivoluzione verde risultano altamente inefficaci. Al contrario, la validità
economica è una caratteristica lampante delle varietà tradizionali ed
ecologicamente migliori.
Aspetto ancor più importante, la valutazione dei risultati della
Rivoluzione verde è imperfetta perché considera una sola coltura
(per esempio il riso) e, anche in quel caso, solo un singolo componente di quella coltura (per esempio il chicco), trascurando l’uso di
paglia come foraggio e fertilizzante. Così facendo, non tiene conto
del fatto che, nella stessa area, esistevano numerose altre risorse biologiche tradizionali che sono state ridotte o eliminate con la Rivoluzione verde. Se le rese fossero misurate in termini di biomassa totale, allora emergerebbe un quadro più realistico delle prestazioni
legate alla Rivoluzione verde. Sebbene le rese totali delle colture alimentari siano aumentate, è diminuita la quantità di cibo disponibile
per le popolazioni locali. Questo dipende da diversi fattori, come
indicato di seguito:
– si è verificato un aumento di pochi cereali (una gran parte dei
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quali viene usata per alimentare il bestiame) a spese dei legumi e di
altre colture;
– l’aumento della dipendenza degli agricoltori e dei paesi del
Terzo mondo dagli strumenti dell’agricoltura intensiva ha portato
all’indebitamento e alla perdita dell’autosufficienza;
– gran parte dell’aumentata produzione di alimenti è destinata
all’esportazione, sottraendo così cibo alla popolazione locale;
– molte aree coltivate con varietà ad alta resa (nb: ad alta resa a
condizione di usare alti input, compresi fertilizzanti chimici e pesticidi) registrano ora una diminuzione del ritorno;
– il deterioramento ecologico sta conducendo a una riduzione
delle rese e all’abbandono di molte aree agricole;
– in molte zone sono aumentate notevolmente le perdite durante
lo stoccaggio;
– i bassi prezzi pagati per i prodotti agricoli e gli alti prezzi degli
alimenti nei negozi, insieme all’aumento dei livelli di indebitamento,
fanno in modo che molti agricoltori non siano in grado di acquistare cibo sufficiente per le loro famiglie.
Il fallimento della Rivoluzione verde è stato sottolineato da un
rapporto del Global Environmental Change Programme britannico,
sovvenzionato dall’Economic and Research Council del Regno Unito e pubblicato nell’aprile del 2000. Le colture della Rivoluzione
verde, introdotte tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, fecero
aumentare la resa e i proventi derivati dall’agricoltura e, inoltre, fornirono ai poveri le calorie di cui avevano bisogno. Ma queste colture non assorbivano dal terreno minerali come ferro e zinco. Nel rapporto si legge: «Le colture ad alta resa della Rivoluzione verde furono introdotte nei paesi poveri per sconfiggere il problema della
fame. Ma ora sono accusate di causare deficit intellettivi, come conseguenza del fatto che non assorbono micronutrienti essenziali».
L’anemia da carenza di ferro contribuisce all’aumento della mortalità infantile, ad alterazioni dello sviluppo cerebrale e della capacità
di apprendimento; l’autore del rapporto, Christopher Williams,
stima che la malattia colpisca circa un miliardo e mezzo di persone,
un quarto della popolazione mondiale.
Bisognerebbe anche aggiungere che le carenze di micronutrienti,
un problema nutrizionale presente anche in Occidente a causa dei
terreni impoveriti e delle colture carenti di tali elementi, possono
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danneggiare il sistema immunitario, e che le carenze nutrizionali connesse e gli squilibri presenti in vari prodotti di origine animale (specialmente il basso contenuto in acidi grassi polinsaturi omega 3 e
omega 6), possono interferire con lo sviluppo del sistema nervoso e
delle funzioni cognitive.
Studi recenti condotti in Canada, Stati Uniti e Gran Bretagna
hanno dimostrato che frutta e ortaggi sono meno nutrienti rispetto
a 30-50 anni fa e mostrano carenze, spesso marcate, di ferro, rame,
zinco, calcio, sodio, fosforo, proteine, vitamina C e riboflavina (vitamina B2), attribuibili in parte alle varietà a crescita rapida e ad alta
resa che si coltivano oggi per l’alimentazione umana, ma anche all’uso di fertilizzanti chimici (i fertilizzanti a base di potassio, per esempio, interferiscono con l’assorbimento di magnesio e di fosfato da
parte delle piante). I fertilizzanti a base di azoto, ampiamente usati,
possono determinare livelli elevati di nitrati (dannosi) nelle colture
convenzionali e possono ridurre il contenuto in vitamina C dei vegetali; pur facendo aumentare il contenuto totale di proteine, la loro
qualità risulta inferiore a quella delle piante coltivate biologicamente, perché prive di amminoacidi essenziali come la lisina: la qualità
degli alimenti e dei mangimi risulta, pertanto, inferiore.
Studi comparativi sul contenuto di elementi nutritivi nelle colture biologiche e in quelle convenzionali evidenziano livelli significativamente inferiori di alluminio, mercurio e piombo (potenzialmente
tossici) nelle colture biologiche, che presentano anche livelli più alti
di numerosi minerali in tracce e altri nutrienti, in particolare boro,
calcio, cromo, rame, iodio, ferro, litio, magnesio, manganese, molibdeno, fosforo, potassio, selenio, silicio, sodio, zolfo, vanadio e zinco.
Dunque: più vitamina C e meno nitrati.
Studi sugli animali hanno dimostrato che gli alimenti prodotti in
maniera convenzionale possono avere un’influenza negativa, rispetto a quelli biologici, su determinate funzioni dell’organismo, come
quella riproduttiva e la resistenza alle infezioni.
Diete più umane e salutari
Coloro che ritengono che gli animali di allevamento non svolgano un ruolo chiave, dal punto di vista ecologico ed economico, nella
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produzione e nella gestione di colture sostenibili hanno torto, esattamente come coloro che reputano bioeticamente accettabile la produzione intensiva di bestiame e pollame, in virtù del fatto che non
causerebbe danni. È arrivato tuttavia il momento di essere obiettivi,
di riunire tutte le parti e i settori coinvolti nella produzione, nella
commercializzazione e nel consumo degli alimenti, per sostenere lo
sviluppo, l’adozione e l’applicabilità sul mercato di pratiche agricole giuste, sane e umane, che permettano ad agricoltori e allevatori di
operare creando il minor numero possibile di danni.
Gli esseri umani appartengono a una specie di primati estremamente adattabile; una delle caratteristiche del nostro successo adattivo è la capacità fisiologica di essere onnivori. Questa flessibilità
nella capacità di utilizzare un’ampia gamma di risorse alimentari,
dalla frutta alle noci, dalla carne al mais, è universale e presenta sfumature culturali che possono avere una base genetica. Per la maggior parte degli esseri umani, un’alimentazione essenzialmente vegetale, con prodotti di origine animale come supplemento o condimento, si è dimostrata alla base della salute umana, dell’economia e
dell’ambiente. A parte rare eccezioni, la maggior parte delle popolazioni può mangiare e digerire pressoché qualunque cosa (ad eccezione della cellulosa) venga assimilata dagli altri mammiferi, e ha sviluppato dispositivi eccezionali per preservare e accrescere il valore
nutrizionale e il gusto di numerosi alimenti naturali.
Le differenze etnico-culturali nella preparazione dei cibi riflettono differenze di tipo biologico, geografico e stagionale per quanto
riguarda il tipo di alimenti e la loro disponibilità. Questa diversità
etnica fornisce un’ampia ricchezza di delizie culinarie ed è fonte di
nuove potenzialità colturali e prodotti alimentari per un mercato che
diventa sempre più cosmopolita. Da questa ricchezza possiamo selezionare alcune delle diete più valide che siano state «umanamente
testate» per innumerevoli generazioni ed ecologicamente efficaci e
sostenibili. Un esempio classico è rappresentato da quella che viene
in genere indicata come la «dieta mediterranea», che integra vari alimenti di questa regione biogeografica garantendo un’alimentazione
sana, relativamente poco costosa e a basso impatto ecologico.
Un’agricoltura basata sugli animali e una dieta basata su prodotti di origine animale non sono «buone» né per il pianeta, né per la
salute umana. Queste osservazioni, che ora sono maggiormente ac202
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cettate e promosse dagli esperti sanitari statunitensi, confermano i
legami tra un’alimentazione corretta e un’agricoltura umana e sostenibile. Si stanno perciò rivalutando i numerosi benefici di un’agricoltura meno dannosa e di un’alimentazione più attenta. Questo
riconoscimento incoraggerà le pratiche dell’agricoltura tradizionale
biologica come altamente innovative, con l’uso di alimenti etnici, e
aiuterà a impedire la perdita della diversità bioculturale tanto nell’agricoltura mondiale come in cucina: una diversità messa in pericolo
dalla dieta a base di carne e di prodotti di origine animale.
Il costo relativamente contenuto del cibo negli Stati Uniti (rispetto ad altri paesi), unito a stili di vita sempre più sedentari, è responsabile, secondo il National Center for Health Statistics, di una scoperta allarmante. Un adulto americano su tre è in grave sovrappeso
e il peso medio corporeo è ancora in aumento. Questo significa che
58 milioni di persone sono maggiormente esposte al rischio di malattie cardiache, diabete, cancro e altre patologie croniche. Inoltre, la
sovralimentazione ha dato vita a un’industria del dimagramento che
raccoglie milioni di dollari l’anno solo negli Stati Uniti, più di quanto molti paesi spendano per l’alimentazione. Non vanno poi dimenticati i 50 miliardi di dollari l’anno che l’industria alimentare statunitense spende in pubblicità.
Il trend che porta i consumatori della società industriale verso l’analfabetismo nutrizionale, l’amnesia agricola e la catatonia culinaria
– alimentate dall’industria dei surgelati e dalla «cultura del microonde», con i loro alimenti precotti e ingredienti insignificanti,
accompagnati da etichette che indicano le razioni giornaliere raccomandate – è sintomatico della disintegrazione che colpisce agricoltura e cultura. Le malattie di una società che consuma eccessivamente e male, e che per giunta è infelice, sono la giustificazione perfetta per le poco accessibili «fughe della salute» (terme, beauty farm,
ecc.), i costosi bypass coronarici, e gli invasivi trattamenti di liposuzione per rimuovere le calorie introdotte in eccesso; mentre allo stesso tempo il resto della popolazione umana, che aspirerebbe a uscire
dalla morsa della fame, soffre a causa della mancanza di cibo e della
penuria di acqua, dovute agli appetiti insaziabili del mondo industrializzato.
Il primo e il più importante passo da compiere è scegliere un’alimentazione umana e nutrirsi con coscienza. Questo imperativo bio203
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etico dovrebbe essere in cima all’agenda di ogni nazione, poiché la
possibilità di scegliere una dieta umana è un fattore di vitale importanza non solo nella prevenzione della sofferenza animale, ma anche
e soprattutto nella riduzione dei costi della sanità pubblica, nel ripristino delle comunità rurali e nella conservazione e nel recupero delle
risorse naturali. Ma incoraggiare le persone a compiere una scelta
altruista e illuminata è una questione politicamente controversa e
viene ancora interpretata come una minaccia economica da parte di
coloro che hanno interesse a fermare il vero progresso dell’agricoltura.
Un’agricoltura umana sostenibile
Per coltivare e allevare «con compassione», dovremmo tutti consumare e vivere in modo tale da causare il minor danno possibile a
noi stessi e al resto del mondo naturale. Questo comporta una riduzione nella produzione e nel consumo di prodotti di origine animale nei paesi in cui essi costituiscono un elemento essenziale dell’alimentazione. Ma significa anche un miglioramento del modo in cui
gli animali sono allevati, trasportati e macellati, oltre alla sostituzione delle proteine e dei grassi di origine animale con grassi, oli e proteine di origine vegetale, che sono anche meno costosi. La popolazione umana, 6,5 miliardi di persone che presto diventeranno il doppio (di cui 2 miliardi sono oggi malnutriti), può far aumentare il
numero di animali di allevamento (oggi sono circa 4,5 miliardi) per
mantenere lo status quo e la domanda di carne, solo a condizione che
sia pronta ad accettare la perdita della biodiversità e delle risorse
non rinnovabili e sia disposta a sostenere i rischi e i costi economici
e ambientali che l’attendono. Oggi abbiamo maggiori possibilità per
prevederli e impedirli, a patto che vengano applicati principi bioetici nei processi decisionali che riguardano le politiche pubbliche e
nella visione collettiva del mondo futuro. Il primo precetto bioetico
da utilizzare in agricoltura è il medesimo principio che qualsiasi
buon medico, conformemente al giuramento di Ippocrate, dovrebbe
applicare nell’esercizio della sua professione: non fare male.
Molti gruppi dell’agroindustria che oggi si oppongono al movimento per l’agricoltura umana e sostenibile, ne diverranno i sosteni204
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tori domani, quando saranno più chiari i vantaggi di un’agricoltura
e un allevamento etici e non violenti. La comprensione di ciò porterà a una visione condivisa di un futuro più luminoso, al di là degli
obiettivi a breve termine e degli imperativi del mercato mondiale.
Molti sono, tra gli altri, gli accademici e i politici che ancora credono che le fattorie industriali e i feedlot aiutino gli Stati Uniti a conservare il primato mondiale della produzione di carne al costo più
contenuto, e che la loro abolizione danneggerebbe i poveri che non
potrebbero pagare il prezzo di carni provenienti da bovini e pollame
con certificazione biologica, allevati in maniera più umana ed ecologica. Una prospettiva bioetica più ampia permetterebbe loro di comprendere come fattorie industriali e feedlot non siano metodi né efficaci né sostenibili per la produzione di alimenti, e come contribuiscano invece alla fame nel mondo.
Il ricorso alla bioetica per valutare gli sviluppi e le pratiche adottate oggi in agricoltura faciliterà l’adozione di metodi umani. Tutti i
nuovi prodotti, processi e politiche per l’agricoltura dovrebbero
essere soggetti a una rigorosa valutazione etica prima di essere approvati e adottati, allo scopo di promuovere l’adagio farm-withoutharm («coltivare senza fare danni») e soprattutto l’obiettivo della
sostenibilità.
Per evitare i costi e le conseguenze di un’agricoltura basata sull’allevamento del bestiame, bisognerebbe avere grande attenzione
per gli equilibri del suolo e adottare procedure agro-zootecniche nei
limiti della disponibilità di risorse naturali locali e rinnovabili. In
pratica occorrerebbe dare un contributo all’aumento della biodiversità naturale o, quantomeno, un contributo che non ne provochi una
riduzione. Il mantenimento della biodiversità e della qualità ambientale è un criterio fondamentale per promuovere a livello sociale l’accettazione di qualsiasi sistema agricolo che punti a essere redditizio
e sostenibile. Ciò nondimeno, fino al momento in cui non verranno
sanciti accordi di carattere bioetico sia a livello nazionale sia a livello internazionale, e non si raggiungerà un’armonizzazione mondiale
degli standard e delle pratiche per un’agricoltura biologica e umana,
occorreranno grandi sforzi per proteggere le comunità e i sistemi
rurali sostenibili dalla concorrenza sleale dell’agricoltura industriale.
Il principio centrale della bioetica è l’ahimsa, vale a dire l’azione
non dannosa, non nociva, non violenta. L’agricoltura sostenibile non
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può lasciarsi guidare semplicemente dal desiderio, bensì dalla morale compassionevole dell’ahimsa: deve astenersi cioè dal nuocere agli
altri esseri viventi, umani e non umani, come normalmente avviene
invece quando si provocano danni evitabili all’ambiente.
Se si parte da questo principio, si deve tenere in considerazione
anche la sofferenza degli animali sfruttati. Se in una particolare
regione biogeografica l’uso di animali nel processo agricolo provoca
minori danni ecologici rispetto a una situazione che li esclude, e ciò
rende il sistema più vantaggioso e sostenibile, allora un impiego
umano degli animali diventa eticamente accettabile. Ma non esistono ragioni di alcun tipo, se non l’avidità economica, che giustifichino il ricorso a tecniche di agricoltura disumane. Troppo spesso si
opera secondo falsi principi di «efficienza» e «risparmio». Un’agricoltura che accetta il crudele trattamento riservato agli animali allevati industrialmente è al tempo stesso immorale e disfunzionale.
Il livello di umanità e la qualità della vita degli agricoltori, dei
contadini e degli animali allevati dovrebbero essere gli indicatori
principali della redditività sostenibile e dell’accettabilità sociale dei
sistemi agricoli che inseriscono gli animali nel processo perché vedono in essi una componente ecologica essenziale. Coltivare con il
minor impatto possibile e scegliere una dieta umana sono due facce
della stessa medaglia, in grado di suscitare un’alleanza forte tra cittadini sensibili e produttori responsabili.
Forse occorrerebbe riflettere su ciò che nel 1933 scrisse il profeta libanese Gibran Kahlil Gibran: «Pietà per la nazione che è ricca
di credenze ma è priva di religione. Pietà per la nazione che indossa
abiti che non ha filato, mangia pane che non ha mietuto e beve vino
che non ha spremuto… Pietà per la nazione divisa in frammenti
dove ogni frammento si crede una nazione».
Agricoltura, conservazione ed eco-etica
La scienza e la pratica dell’agricoltura ecologicamente sostenibile ed economicamente credibile vengono adottate in tutto il mondo
per prevenire ulteriori perdite di risorse naturali. L’agricoltura conservativa è l’antitesi dell’agricoltura industriale che promuove la biotecnologia come risposta alla fame e alla malnutrizione umana.
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Nelle poche regioni in cui l’ambiente ha mantenuto una buona
componente di biodiversità naturale, la scienza e la pratica dell’agricoltura conservativa e sostenibile si pongono l’obiettivo dell’assoluta indipendenza dai prodotti chimici tossici, dai farmaci animali per
aumentare la produttività, dai vaccini e dalle altre molecole che possono sortire conseguenze ecologiche avverse. L’agricoltura conservativa inoltre contempla la messa al bando delle colture geneticamente modificate.
Tutti i programmi per lo sviluppo dell’agricoltura dovrebbero
avere come obiettivo anche la conservazione della fauna e della flora
selvatica, e il recupero degli habitat, oltre a quello fondamentale di
aiutare i piccoli agricoltori e le popolazioni indigene. Questo è ormai
un imperativo etico a causa dei numerosi danni causati a questi settori in regioni uniche sotto il profilo sia biologico sia culturale; danni
che affondano le loro radici nel colonialismo, ma che oggi si intensificano sotto la pressione di un mercato mondiale altamente competitivo e dei condizionamenti esercitati dalle multinazionali e dalle
agenzie governative loro alleate, tutte in rotta di collisione con la
sovrappopolazione del pianeta, la povertà, l’aumento delle instabilità sociali dovute per lo più a disparità economiche, e il cambiamento del clima a livello globale.
Da molto tempo i progetti di aiuto e sviluppo nei settori dell’agricoltura, della silvicoltura e dell’acquacoltura denotano la necessità di una maggiore attenzione alla conservazione dei cosiddetti
«hot spot» della biodiversità, per impedirne l’ulteriore erosione ecologica e genetica. La direzione intrapresa è quella della salvaguardia
di territori e bacini idrici di importanza vitale, di risorse che fanno
parte delle economie sostenibili locali, e di specie e varietà animali e
vegetali indigene. Per istituzioni come la Banca mondiale, sarebbe
un’eccellente iniziativa quella di includere il capitolo «conservazione» nell’ambito di programmi mirati ad aiutare le popolazioni indigene che vivono nelle oltre 400 riserve mondiali della biosfera designate dall’UNESCO (Global Biosphere Reserves) nel contesto del programma «Man and the Biosphere». È ormai una necessità inderogabile inserire in questo quadro un numero maggiore di aiuti e prestiti per lo sviluppo finalizzati a progetti di agricoltura, acquacoltura e
selvicoltura sostenibili. Molte di queste riserve, infatti, sono minacciate da pratiche agricole (in senso lato) non sostenibili che soddi207
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sfano interessi commerciali estranei alle comunità residenti, oltre
che da un’incontrollata esplosione demografica sia della popolazione umana sia del bestiame domestico.
Esistono numerose alternative, che vanno dalle soluzioni tradizionali alle innovazioni recenti dell’agricoltura e dell’allevamento
biologici e biodinamici, fino alla gestione del territorio secondo
principi di conservazione sistemica (holistic range management). È
ironico constatare che, mentre molti paesi avanzati stanno abbracciando queste pratiche alternative, i loro sistemi di monocoltura e
allevamento industriali vengono esportati nei paesi in via di sviluppo. Questo dovrebbe preoccupare, per la semplice ragione che le
conseguenze avverse dell’agricoltura industriale globale si ripercuoteranno su ogni nazione, ricca o povera che sia.
BIBLIOGRAFIA
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Best, Lyons Press, New York 2004.
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